Fleur Jaeggey
27 Gennaio 2019Programma svolto di Italiano
27 Gennaio 2019dall’ipertesto “La peste in Manzoni …e non solo”
classe IIE liceo Bramante di Magenta, a.s.1997/98
Indice:
Nel XXXI capitolo, nel XXXII capitolo, negli altri capitoli, cronologia
Nel XXXI capitolo (a cura di MONZANI Paola)
Dai paesi che circondano Milano, giungono le notizie delle prime morti, ma, solo dopo una visita sui luoghi della malattia, si stabilisce che si tratta di peste. Le autorità, ed in particolare il governatore Ambrogio Spinola, rimangono piuttosto indifferenti al problema; ma anche la popolazione rifiuta l’idea del contagio. Finalmente, il 29 novembre 1629 viene pubblicata una grida che vieta l’ingresso in città di coloro che provengono da paesi ove si è verificata l’epidemia: ma ormai la peste è già entrata in Milano. Vengono prese misure per evitare il contagio, ma la gente, per avidità e paura, riesce ad eluderle. L’epidemia si diffonde, ma in modo non rapido: la gente rimane scettica e si scaglia contro i medici che mettono in guardia contro la peste, giungendo ad aggredire il medico Lodovico Settala. Si moltiplicano le morti e diviene impossibile negare l’esistenza del morbo. Invece di dichiarare la presenza della peste, si parla però di febbri pestilenti: ciò induce a trascurare i pericoli del contagio. I malati trasportati al lazzeretto si fanno sempre più numerosi, tanto che il lazzaretto stesso diventa ingovernabile: solo l’intervento e il sacrificio di alcuni frati riuscirà a riportare l’ordine in quel luogo.
Si parla finalmente di peste, ma si diffonde al tempo stesso l’idea che all’origine del male non vi sia il contatto con gli ammalati, bensì quello con unguenti velenosi. A rafforzare la psicosi dell’untore concorrono due episodi di presunta unzione: l’uno verificatosi in duomo, l’altro lungo le strade cittadine. Malgrado il tribunale di Sanità non creda allo spargimento di veleni, le autorità non smentiscono pubblicamente l’esistenza delle unzioni; mentre vi è addirittura chi continua a negare la pestilenza: l’esposizione di alcuni cadaveri nel corso di una processione convincerà tutti del contrario. Il Manzoni riflette infine sulle mistificazioni di fatti e di parole che hanno condotto ad uno sviluppo così ampio del contagio.
Nel XXXII capitolo (a cura di OLDANI Clara)
L’Autorità cittadina si rivolge nuovamente al governatore Ambrogio Spinola, ma questi, impegnato nell’assedio di Casale, nega ogni aiuto. Si anticipano le notizie circa l’esito della guerra: il duca di Nevers rimane signore di Mantova, ma la città viene saccheggiata dai lanzichenecchi.
Gli amministratori cittadini chiedono al cardinale Federigo di far svolgere una processione per assicurarsi la protezione divina, ma Federigo rifiuta. Intanto crescono i sospetti sulle unzioni e si verificano episodi di linciaggio come quelli ai danni di un vecchio e di tre francesi. Dopo nuove pressioni del governo milanese, il vescovo acconsente a far svolgere la processione e a far venerare la reliquia di san Carlo. Il lungo corteo vede la partecipazione di popolani, di borghesi, di nobili e di ecclesiastici.
Il giorno successivo alla processione si moltiplicano i casi di peste, ma invece di cercare la causa nel contatto tra tanta gente, si dà la colpa agli untori. I lazzaretti si affollano al limite della loro capacità e cominciano a fare la loro comparsa i monatti (il Manzoni apre una parentesi etimologica sul termine monatto). Solo con l’opera dei cappuccini, dei sacerdoti, del vescovo e delle poche persone di buona volontà, si riesce a far fronte, fuori e dentro i lazzaretti, alla terribile situazione sanitaria. Nella confusione generale si moltiplicano le violenze commesse dai birri e dai monatti.
Cresce anche la pazzia generale e la psicosi dell’unzione. Si sospetta di tutti, e vi è persino chi, magari delirando, dice di essere untore. Vengono inventate storie diaboliche e fantasiose cui anche i medici sembrano dar credito. I dotti chiamano poi in causa congiunzioni di astri ed altre teorie pseudo-scientifiche. Anche il cardinale comincia a credere alle unzioni, e gli scettici sono ormai pochi e silenziosi.
I magistrati iniziano a cercare e a processare i presunti untori: si eseguiranno molte condanne atroci e ingiuste di cui il Manzoni parlerà più diffusamente in Storia della colonna infame.
Nel cap. XXVIII, passata la carestia, il passaggio dei lanzichenecchi mette in apprensione il tribunale della sanità di Milano, che già intuisce che in quell’ esercito poteva covare il germe della peste. Invano Tadino e Settala proposero di proibire ogni contatto e compravendita di robe dai soldati che stavano per passare.
Dopo i cap. XXXI e XXXII, il narratore riprende a interessarsi dei protagonisti del romanzo. Nei capitoli seguenti, la peste farà da sfondo alle loro vicende e sbloccherà la situazione statica che si era venuta a creare dopo la fuga di Renzo nel bergamasco e il trasferimento di Lucia a Milano. Renzo infatti potrà lasciare il cugino Bortolo, dopo aver preso in maniera leggera la malattia, ritornare al paese (cap. XXXIII) e da lì alla ricerca di Lucia a Milano (cap. XXXIV) e nel lazzaretto, dove incontrerà prima Fra Cristoforo e Don Rodrigo moribondo (cap. XXXV), poi Lucia (cap. XXXVI). Il contagio sarà spazzato via dal temporale provvidenziale (fine agosto-inizi settembre 1630) che accompagnerà il lieto cammino di Renzo verso Lecco all’inizio del XXXVII capitolo.
Cronologia (a cura di CAMERONI Federica)
CRONOLOGIA DELLA DISPOSIZIONE E DEI FATTI RELATIVI AL DIFFONDERSI DELLA PESTE
20 Ottobre1629: Scoppia la peste a Chiuso, e da lì a Bellano, Lecco e in Valsassina
14 Novembre 1629: Il tribunale della sanità prende provvedimenti (bullette)
29 Novembre1629: Un soldato porta il contagio a Milano
Primi mesi del 1630: La peste cova in Milano
30 Marzo 1630: I Cappuccini assumono l organizzazione del lazzaretto
17 Maggio 1630: Esplode la prima furia contro gli untori
18 Maggio 1630: Dilaga il delirio collettivo (compaiono strane macchie sulle case)
21 Maggio 1630: Grida contro gli ignoti che hanno generato il terrore
22 Maggio 1630: I decurioni si rivolgono al governatore, senza otttenere aiuti
11 Giugno 1630: Processione con la reliquia di S.Carlo
Dopo la processione: Il contagio si diffonde mietendo centinaia di migliaia di vittime
Fine agosto-inizi settembre 1630: fine del contagio
La peste in Manzoni… i personaggi
Come la peste cambia i personaggi, come i personaggi giudicano la peste, la folla, gli intellettuali, i monatti, i Cappuccini, Federigo Borromeo, Ludovico Settala, Ambrogio Spinola
Soprattutto nel XXXIII capitolo si attuano strani capovolgimenti. La peste modifica i rapporti tra Don Rodrigo e il Griso: il primo sembra ritrovare, nel dramma della fine, una coscienza sopita, mentre il suo “fedelissimo” servitore si rivela in realtà un traditore. Anche Bortolo e Tonio subiscono un netto cambiamento: il primo rivela un certo egoismo ed il secondo, colpito dalla peste, assomiglia addirittura al suo fratello Gervaso. Renzo poi sarà vittima di fraintendimenti e verrà scambiato per untore o per monatto.
Paradossalmente, due personaggi molto diversi tra loro, Renzo e Don Abbondio, interpretano allo stesso modo la peste come castigo di Dio, giusta punizione contro i malvagi (Don Rodrigo) che mostravano tracotanza e disprezzo delle leggi divine. In tal modo essi riducono la provvidenza ad uno strumento di “giustizia” (Renzo nel XXXV capitolo) o, che è sostanzialmente lo stesso, ad una “scopa” (Don Abbondio nel XXXVIII). Viceversa, per Fra Cristoforo, che del resto morirà di peste anche lui senza certo meritare alcun punizione, essa è “insieme castigo e misericordia” (cap.XXXV) perché aiuta certo l’uomo a comprendere il suo limite , ma nel contempo gli offre una straordinaria occasione di conversione e di riavvicinamento a Dio.
Ancora più che in altre occasioni del romanzo, la folla, che le autorità non hanno saputo adeguatamente guidare, è dominata da passioni irrazionali: 1) i pregiudizi superstiziosi che impediscono anche solo di pronunciare la parola “peste”; 2) il malinteso desiderio di giustizia, di trovare e punire i colpevoli della calamità che travolge tutti
L’ attività dei dotti (medici e non medici) non consiste nel tentare di darsi ragione dei fatti, quanto piuttosto nel ricercare nei testi antichi citazioni di fatti analoghi senza verificarne l’esattezza o la pertinenza con la situazione attuale. Il loro lavoro è dunque una pura attività erudita incapace di proporre soluzioni praticabili al presente disagio. Emblematico al proposito è l’atteggiamento di Don Ferrante.
I Monatti (a cura di RIZZO Giovanni)
MONATTO un tempo nome dato agli addetti al trasporto e alla sorveglianza degli appestati. Il termine “monatto” indicava originariamente nell’Italia settentrionale il becchino. Più tardi indicò più semplicemente coloro ai quali era affidato il compito (secondo le parole del Manzoni che nel capitolo 32° dei “Promessi Sposi” ne fa una celebre descrizione) di “levar dalle case dalle strade dal lazzaretto gli infermi e governarli; bruciare purgare la roba infetta e sospetta”. Era fatto loro obbligo di portare legato alla caviglia un campanello che avvertisse i passanti del loro avvicinarsi. L’origine del nome è incerta: secondo il Manzoni; (il quale riporta anche le opinioni del Ripamonti che lo derivava dal greco “monos” = solo, e di Gaspare Bugatti che si riferiva al latino “monere” = avvertire) l’ipotesi più probabile è che venisse dall’aggettivo tedesco “monatlich” = mensile in quanto gli ingaggi fatti prevalentemente in Svizzera e nei Grigioni avevano per lo più una scadenza mensile.
I Cappuccini (a cura di VIGLIO Alberto)
Quest’ ordine religioso, che segue la regola francescana così come era stata riformata nel 1525 e approvata dal papa Clemente VII NEL 1528, è ampiamente rappresentato nel romanzo a tutti i livelli, dai più semplici cappuccini a contatto quotidiano con la gente al padre provinciale, preoccupato di difendere gli interessi dell’ ordine durante il colloquio con il conte zio. Nel lazzaretto mostrano la loro potenzialità assumendosi il compito di sostituire l’autorità là dove essa si dimostra impotente. In questo caso Manzoni fa assumere a Padre Felice Casati, che doveva garantire l’ordine nel lazzaretto coadiuvato dal padre Michele Pozzobonelli, i connotati di un condottiero che ricordano quelli con cui era stato presentato l’Innominato.
Federigo Borromeo (a cura di ZANABONI Paola)
Federigo Borromeo, come si narra nel XXII capitolo, è nato nel 1564 da una delle più illustri famiglie milanesi. Fu nominato sacerdote dal cugino Carlo Borromeo. Improntò la sua vita alla povertà, rifiutando gli agi del suo ceto. Quando divenne arcivescovo di Milano, utilizzò parte dei suoi beni di famiglia e le rendite ecclesiastiche per aiutare i poveri. Si mostrava severo solo con i suoi subordinati rei d’ avarizia o di negligenza. Istituì inoltre la biblioteca ambrosiana cui tutti potevano accedere. Unica ombra in un uomo così ammirabile fu che aderì a opinioni del tempo strane o malfondate (per esempio riguardo le streghe e gli untori). Fu anche autore di innumerevoli scritti, tuttavia dimenticati. Dimostrò il suo spirito caritatevole sia in occasione della carestia del 1629 (capitolo XXVIII) sia durante la peste dell’ anno successivo, dimostrando ancora una volta che le istituzioni religiose, o in generale la solidarietà cosiddetta “privata”, assumono funzione di supplenza quando i poteri civili sono indeboliti. Egli incitò i preti ad operare attivamente nella difficile situazione e visitò di persona gli ammalati nelle case e al lazzaretto, tanto che si stupì anche lui, alla fine della pestilenza, di esserne uscito illeso.
(1552-1633) Professore di medicina all’ università di Pavia e di filosofia morale a Milano era uno degli uomini più autorevoli del suo tempo. Purtroppo la sua fama, annota Manzoni nel XXXI capitolo, fu accresciuta quando cooperò a torturare e bruciare come strega una povera infelice sventurata, e fu invece messa in crisi quando , ormai quasi a ottant’ anni, cercava di convincere i milanesi dell’ arrivo della peste in città; al punto che coloro che lo trasportavano in carrozza riuscirono a malapena a salvarlo, conducendolo in casa di amici per sottrarlo alla folla inferocita.
Ambrogio Spinola, governatore di Milano nel 1629-30, sostituisce Don Gonzalo per portare a termine l’assedio a Casale Monferrato, e, come il suo predecessore, si dimostra molto più preoccupato di conquistarsi fama con la guerra che di governare con accortezza.
Infatti, per esempio, emanò una grida in cui ordinava pubbliche feste per la nascita del principe Carlo, primogenito del re di Spagna Filippo IV, il 18 novembre 1629, proprio mentre il contagio incominciava a diffondersi; oppure mostrò ripetutamente indifferenza nei confronti delle richieste di intervento da parte delle autorità milanesi.
Il 22 maggio 1630 due decurioni lo raggiunsero sul campo di battaglia, da cui non si allontanò mai, per esporgli i problemi della città ormai in preda alla peste e priva di risorse economiche per fronteggiarla, ottenendo come risposta solo inconcludenti promesse.
Morì dopo pochi mesi, ammalato e amareggiato per i dispiaceri dovuti anche all’ ingratitudine degli spagnoli nei suoi confronti.
Storia della colonna infame (a cura di GRASSI Gabriele)
Già nel “Fermo e Lucia” Manzoni lascia ampio spazio alla ricostruzione dei processi contro gli untori, per formare successivamente l’attuale “Storia della colonna infame” che costituiva lappendice del romanzo nell’ edizione del 1840. In essa si narra come due donne vedono un tale, poi riconosciuto da loro nella persona di Guglielmo Piazza, imbrattare i muri di una sostanza untuosa. Egli poi, nel tentativo disperato di evitare i supplizi, fece il nome del barbiere Giangiacomo Mora. I due furono poi pubblicamente torturati e bruciati su un rogo ed infine fu eretta una colonna chiamata “infame” sullo spiazzo ricavato dalla demolizione della casa del Mora.
La nuova stesura della Storia lasciò un po’ tutti delusi per la sua secchezza e aridità. Le critiche misero anche in discussione l’esattezza delle opinioni manzoniane sugli untori, sui giudici, sulle procedure giudiziarie del Seicento (vedi al proposito le sviste manzoniane). La Colonna infame resta comunque per noi la visione di un mondo cieco e la dimostrazione di un’ ostinata sete di giustizia e ripugnanza per l’oppressione da parte di Manzoni.
Sviste manzoniane, la follia, la morte, il male e il bene, la peste di San Carlo, i capitoli in coppia, il metodo storico, le ripetizioni, la trufferia di parole, l’uomo
Sviste di Manzoni(a cura di DELL’ACQUA Michela)
1) Manzoni si affida ai testi di storiografia di Ripamonti e di Tadino, ma il secondo spesso era la fonte del primo. I fatti concordanti nei due scrittori erano ritenuti validi da Manzoni, per questo nel testo ci sono dei dati storicamente scorretti.
2) Per la peste, oggi si ritiene che si diffuse per la negligenza e per la cattiva organizzazione della pubblica sanità; ma avendo dei dati lacunosi, la tesi dell’ arretratezza giuridica e culturale seicentesca, la denuncia del disinteresse dei potenti e l’analisi della follia popolare di Manzoni risultano parzialmente errate.
3) Manzoni dubita del fenomeno delle unzioni, mentre ora lo si accetta come vero.
La follia (a cura di MILAZZO Valentina)
Manzoni ci presenta la peste come una perversa e progressiva follia che travolge tutti. Egli non vuole descrivere dei semplici fatti ma rendersi conto di come nella storia dello spirito umano una serie ordinata d’idee possa essere scompigliata da altre idee .
1) Alla gente piace attribuire i mali ad una perversità umana.
2) La follia nella peste non fu il risultato di condizioni storiche, ma derivò dall’animo dei singoli e dalla società ; infatti si tende a voler trovare ciò che l’opinione comune desidera perché solo così si potrà essere onorati . Per tutto ciò l’uomo sarebbe disposto a cambiare le proprie idee e da questo meccanismo si genera la follia. A questo si può opporre solo chi non fonda la propria vita sulle idee ma sui fatti.
La morte (a cura di BERTOGLIO Pietro)
Nel romanzo la morte si presenta con una compostezza ineffabile. Essa sveglia una penosa gravità di riflessioni, fa acquisire il senso delle responsabilità, solleva l’anima a Dio ed ai nostri impegni con Lui, ma non ha nulla di orrido, di spasmodico, di oscuro, di terrificante. I morti di pestilenza quando non sono segno di un’estrema pietà e quando sono segno di un disfacimento drammatico hanno sempre qualcosa di composto che muove il sospiro e la pietà e non dà neppure la ripugnanza fisica.
Il male e il bene (a cura di CAMERONI Federica)
Nella ricostruzione della vicenda della peste Manzoni non si limita a riferire i fatti , ma va alla ricerca delle ragioni che hanno motivato quelle drammatiche vicende. Viene portato alla luce il giudizio sulle problematiche della storia umana nel suo complesso teatro di scontro tra il male e il bene
MALE VORTICE DI DISGREGAZIONE Rende inefficienti le istituzioni. Distrugge i vincoli affettivi. Trova conferma nei dotti. Si insinua nei medici, nel cardinale, in Ferrer e nei tribunali.
BENE FONTE DI ORDINE Potenzia le capacità organizzative nei Cappuccini. Stimola la carità privata. Anima l opera del cardinale e degli ecclesiastici.
La peste di San Carlo (a cura di FASANI Sara)
Scoppiata nel 1576 è da sempre direttamente collegata al cardinale Carlo Borromeo, morto poi per il contagio dopo aver soccorso gli appestati. La carità del santo non ha semplicemente mostrato che è possibile vivere una tragedia con obiettivi diversi ma ha scritto una storia che gli storici non hanno saputo scrivere: essa non è stampata sui libri ma nella memoria e nel cuore della gente. Ciò che resta memorabile è il bene operato dalla carità: essa ha fissato nelle menti di tutti che S. Carlo si è prodigato come guida, soccorso, esempio e capacità di sacrificio di sé; la carità ha potuto far diventare quella calamità generale un titolo d’ onore per il Borromeo; dare il nome del santo alla peste come si fa per una conquista o una scoperta.
I capitoli in coppia (a cura di DELL’ACQUA Michela)
I capitoli scandiscono il romanzo generalmente in singole unità ritmiche di azione (vedi l’VIII della “Notte degli imbrogli”) o di digressione (come il XXII sul Cardinale Federigo Borromeo). Talvolta, però, intensificano i rapporti tra di loro, come nei cap. IX e X sulla monaca di Monza, o fanno scattare un sistema di rimandi a distanza, come accade, emblematicamente, per i cap. XI e XXXIII (le due entrate in Milano di Renzo).Il XXXI e il XXXII costituiscono una coppia di capitoli, collegati tra loro da fatti raccontati nel primo e ripresi nel secondo (storie di alcuni personaggi, il lazzaretto, i cappuccini, gli untori, le processioni, ecc). All’ inizio del XXXII cap. il gerundio “Divenendo” riprende esplicitamente il discorso là dove era stato interrotto
Il metodo storico (a cura di RUSSO Antonio)
I Promessi Sposi sono un romanzo storico, quindi l’autore costruisce la vicenda del suo romanzo all’ interno di un preciso contesto storico, ricostruito sulla base di una serie di riferimenti, che contribuiscono a rendere piu’ “reale” la vicenda. La parte del romanzo riguardante la peste in Milano e’ molto ricca di detti riferimenti. In questo caso il suo intento e’ duplice: da una parte egli espone l’ambiente, lo scenario in cui si trovano i personaggi, dall’altro vuole farci conoscere un fatto la cui fama e’ spesso lontana dalla verità storica. Ma come si muove nel realizzare il suo resoconto? Prima di tutto, egli esamina in modo critico i vari documenti dell’epoca riguardanti la peste (si basa,in particolare su quelle del Ripamonti, del Tadino, del Rivola, del Borromeo), affermando che persino la più veritiera di queste, quella del Ripamonti, manca d’ordine, completezza storica e capacità critica. Poi, cerca di confrontare quei resoconti, cosa che nessuno aveva fatto prima. Più che altro, però, cerca, con la sua opera, di mettere in evidenza i fatti più importanti e significativi, di disporli nell’ordine reale della loro successione, di esporre i rapporti causa/effetto. L’autore, tuttavia, ci invita a leggere i testi originali, per non perderne la “forza viva”.
Le ripetizioni (a cura di CATTANEO Linda)
La parola “peste”, nel capitolo XXXI, viene ripetuta più volte in un modo particolarmente significativo.
L’uso della ripetizione, uno dei procedimenti caratteristici dello stile epigrammatico, produce un effetto dinamico di corrispondenza ascendente o di intensificazione progressiva (climax). Un aggregato di sostantivi e di litoti, che mascherano un unico concetto fingendo di negarlo, può tracciare la traiettoria di un processo intellettuale quando quest’ultimo si riduce ad una “trufferia di parole”, un catalogo dialogato di proposte successive e discorsi, che hanno in comune uno stesso orrore da esorcizzare. Il senso del mutamento viene espresso dalla sequenza nominale delle formule, dal linguaggio che si deforma e si adatta via via per poter eludere una verità che non si vuole o non si sa capire : “In principio dunque, non peste, assolutamente no, per nessun conto: proibito anche di proferire il vocabolo. Poi, non vera peste; vale a dire peste sì, ma in un certo senso; non peste proprio, ma una cosa alla quale non si sa trovare un altro nome. Finalmente, peste senza dubbio, e senza contrasti”.
La trufferia di parole (a cura di CASSESE Pamela)
Il teatro dell’esistenza è, in questo caso, il linguaggio, la mente distorta dell’uomo.
Nel romanzo di Manzoni le parole occupano un ruolo fondamentale in due occasioni: -1) in seguito ai fatti di S.Martino
2) con l arrivo della peste.
1) Durante le giornate di S.Martino, infatti, la popolazione di Milano era in preda alla confusione totale e la città era diventata una “babilonia di discorsi”.
2) Con l arrivo della peste a Milano , invece, Manzoni esprime il suo concetto di “Trufferia di parole”. Infatti inizialmente tutta la popolazione derideva i pochi che credevano nell arrivo della peste e di questa parola era stato addirittura vietato l’uso. Anche i medici non osavano pronunciarla e, al momento della diffusione, iniziarono a definirla come “febbre pestilenziale”. Una volta giunti a conclusione che si trattasse effettivamente di peste si incominciò a pensare che fosse un malefizio e questa idea confuse il significato della parola. Lo stesso accade ad altre parole dal significato tremendo e spaventoso.
L’uomo (a cura di CAMERONI Federica)
LA RIFLESSIONE E IL GIUDIZIO SUI COMPORTAMENTI UMANI
Nei capitoli dedicati alla peste tornano i grandi contrasti fra istintualità e ragione, fra ignoranza e cultura illuminata, fra apparenza e realtà, tra potere e servizio, fra parola intesa come strumento di menzogna o come veicolo di verità e, soprattutto, fra malvagità e amore nel misterioso guazzabuglio del cuore dell uomo. Quindi , nonostante l interruzione del filo narrativo in alcune parti del romanzo, al centro è sempre l accorata ricerca della dignità umana.
La città di Milano, il lazzaretto
La città appare a Renzo completamente trasformata rispetto a quella che aveva conosciuto nel corso dei tumulti di San Martino. Prima ancora di entrarci vede alzarsi una colonna di fumo scuro per i vestiti e le suppellettili che vengono bruciate. Le strade sono deserte (vi passano quasi solo i monatti) e piene solo di cenci e, persino di cadaveri.
Il lazzaretto (a cura di PELLEGRINI Marco)
Il lazzaretto di Milano, come ricorda Manzoni nel cap.XXVIII, è una costruzione a pianta rettangolare, ai cui lati sono poste 288 stanze; è stato costruito nel 1489, come si deduce dal nome stesso, per ricoverare gli ammalati di peste, ma all’ occorrenza serviva per altri scopi. Per esempio raccolse gli accattoni e i moribondi durante la primavera del 1629 (in seguito alla carestia). Durante la peste di S.Carlo del 1576 e quella del 1630 arrivò a contenere fino a 16.000 appestati: era persino possibile trovare trenta persone in un’unica stanzetta. All’ inizio del XXXV capitolo appare sovraffollato di malati, diviso in due da una strada, al centro della quale sorge una cappella ottagonale, il resto è suddiviso in quartieri. In quella cappella, nel XXXVI capitolo, padre Felice radunerà i guariti dalla peste per condurli fuori dal lazzaretto in convalescenza, dopo una breve, ma solenne predica. Nei quartieri, invece, Renzo troverà prima Don Rodrigo e poi Lucia.