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27 Gennaio 2019IL CONTE DI CARMAGNOLA
27 Gennaio 2019…e non solo
Ipertesto creato dalla 2^E a.s. 97/98
con la supervisione del prof. Gaudio Luigi
LICEO SCIENTIFICO “D. BRAMANTE” – MAGENTA
Che cos’è un ipertesto?
L’ ipertesto è un testo organizzato in modo da consentire al fruitore di scegliere tra diversi percorsi di lettura. La caratteristica principale dell’ ipertesto è la non linearità della lettura. L’ipertesto permette quindi all’ utente di esercitare la sua “libertà”, consentendogli di accedere da un elemento ad una molteplicità di elementi, precedenti o successivi che siano.
A questo scopo sono nati strumenti, essenzialmente bottoni e parole calde (hotwords) individuabili per il diverso colore rispetto al corpo testuale generalmente scritto in nero, che permettono di navigare all’ interno dell’ ipertesto alla ricerca di nuove informazioni o collegamenti (links).
Esistono due tipi di ipertesto: l’ipertesto monomediale e l’ipertesto multimediale. Quest’ ultimo, detto anche ipermedia, per il quale è indispensabile il supporto della tecnologia digitale, presenta informazioni provenienti da più media: testi scritti, testi orali, immagini statiche (fotografie, disegni, grafici, dipinti, ecc…)film, suoni e musiche.
Perché questo ipertesto?
Un lavoro di questo genere riveste un’ importantissima funzione nella didattica linguistica, poiché oggi molti scrivono e leggono ipertesti (basti pensare soltanto ad Internet) e perché la nostra stessa mente si attiva con una serie di collegamenti simili a quelli di un ipertesto: è stato quindi appassionante per gli studenti e per l’insegnante scoprire insieme quanti rimandi, quanti paragoni si possono instaurare a partire da un argomento di studio. Per esempio
Nel XXXI capitolo, nel XXXII capitolo, negli altri capitoli, cronologia
Nel XXXI capitolo (a cura di MONZANI Paola)
Dai paesi che circondano Milano, giungono le notizie delle prime morti, ma, solo dopo una visita sui luoghi della malattia, si stabilisce che si tratta di peste. Le autorità, ed in particolare il governatore Ambrogio Spinola, rimangono piuttosto indifferenti al problema; ma anche la popolazione rifiuta l’idea del contagio. Finalmente, il 29 novembre 1629 viene pubblicata una grida che vieta l’ingresso in città di coloro che provengono da paesi ove si è verificata l’epidemia: ma ormai la peste è già entrata in Milano. Vengono prese misure per evitare il contagio, ma la gente, per avidità e paura, riesce ad eluderle. L’epidemia si diffonde, ma in modo non rapido: la gente rimane scettica e si scaglia contro i medici che mettono in guardia contro la peste, giungendo ad aggredire il medico Lodovico Settala. Si moltiplicano le morti e diviene impossibile negare l’esistenza del morbo. Invece di dichiarare la presenza della peste, si parla però di febbri pestilenti: ciò induce a trascurare i pericoli del contagio. I malati trasportati al lazzaretto si fanno sempre più numerosi, tanto che il lazzaretto stesso diventa ingovernabile: solo l’intervento e il sacrificio di alcuni frati riuscirà a riportare l’ordine in quel luogo.
Si parla finalmente di peste, ma si diffonde al tempo stesso l’idea che all’origine del male non vi sia il contatto con gli ammalati, bensì quello con unguenti velenosi. A rafforzare la psicosi dell’untore concorrono due episodi di presunta unzione: l’uno verificatosi in duomo, l’altro lungo le strade cittadine. Malgrado il tribunale di Sanità non creda allo spargimento di veleni, le autorità non smentiscono pubblicamente l’esistenza delle unzioni; mentre vi è addirittura chi continua a negare la pestilenza: l’esposizione di alcuni cadaveri nel corso di una processione convincerà tutti del contrario. Il Manzoni riflette infine sulle mistificazioni di fatti e di parole che hanno condotto ad uno sviluppo così ampio del contagio.
Nel XXXII capitolo (a cura di OLDANI Clara)
L’Autorità cittadina si rivolge nuovamente al governatore Ambrogio Spinola, ma questi, impegnato nell’assedio di Casale, nega ogni aiuto. Si anticipano le notizie circa l’esito della guerra: il duca di Nevers rimane signore di Mantova, ma la città viene saccheggiata dai lanzichenecchi.
Gli amministratori cittadini chiedono al cardinale Federigo di far svolgere una processione per assicurarsi la protezione divina, ma Federigo rifiuta. Intanto crescono i sospetti sulle unzioni e si verificano episodi di linciaggio come quelli ai danni di un vecchio e di tre francesi. Dopo nuove pressioni del governo milanese, il vescovo acconsente a far svolgere la processione e a far venerare la reliquia di san Carlo. Il lungo corteo vede la partecipazione di popolani, di borghesi, di nobili e di ecclesiastici.
Il giorno successivo alla processione si moltiplicano i casi di peste, ma invece di cercare la causa nel contatto tra tanta gente, si dà la colpa agli untori. I lazzaretti si affollano al limite della loro capacità e cominciano a fare la loro comparsa i monatti (il Manzoni apre una parentesi etimologica sul termine monatto). Solo con l’opera dei cappuccini, dei sacerdoti, del vescovo e delle poche persone di buona volontà, si riesce a far fronte, fuori e dentro i lazzaretti, alla terribile situazione sanitaria. Nella confusione generale si moltiplicano le violenze commesse dai birri e dai monatti.
Cresce anche la pazzia generale e la psicosi dell’unzione. Si sospetta di tutti, e vi è persino chi, magari delirando, dice di essere untore. Vengono inventate storie diaboliche e fantasiose cui anche i medici sembrano dar credito. I dotti chiamano poi in causa congiunzioni di astri ed altre teorie pseudo-scientifiche. Anche il cardinale comincia a credere alle unzioni, e gli scettici sono ormai pochi e silenziosi.
I magistrati iniziano a cercare e a processare i presunti untori: si eseguiranno molte condanne atroci e ingiuste di cui il Manzoni parlerà più diffusamente in Storia della colonna infame.
Nel cap. XXVIII, passata la carestia, il passaggio dei lanzichenecchi mette in apprensione il tribunale della sanità di Milano, che già intuisce che in quell’ esercito poteva covare il germe della peste. Invano Tadino e Settala proposero di proibire ogni contatto e compravendita di robe dai soldati che stavano per passare.
Dopo i cap. XXXI e XXXII, il narratore riprende a interessarsi dei protagonisti del romanzo. Nei capitoli seguenti, la peste farà da sfondo alle loro vicende e sbloccherà la situazione statica che si era venuta a creare dopo la fuga di Renzo nel bergamasco e il trasferimento di Lucia a Milano. Renzo infatti potrà lasciare il cugino Bortolo, dopo aver preso in maniera leggera la malattia, ritornare al paese (cap. XXXIII) e da lì alla ricerca di Lucia a Milano (cap. XXXIV) e nel lazzaretto, dove incontrerà prima Fra Cristoforo e Don Rodrigo moribondo (cap. XXXV), poi Lucia (cap. XXXVI). Il contagio sarà spazzato via dal temporale provvidenziale (fine agosto-inizi settembre 1630) che accompagnerà il lieto cammino di Renzo verso Lecco all’inizio del XXXVII capitolo.
Cronologia (a cura di CAMERONI Federica)
CRONOLOGIA DELLA DISPOSIZIONE E DEI FATTI RELATIVI AL DIFFONDERSI DELLA PESTE
20 Ottobre1629: Scoppia la peste a Chiuso, e da lì a Bellano, Lecco e in Valsassina
14 Novembre 1629: Il tribunale della sanità prende provvedimenti (bullette)
29 Novembre1629: Un soldato porta il contagio a Milano
Primi mesi del 1630: La peste cova in Milano
30 Marzo 1630: I Cappuccini assumono l organizzazione del lazzaretto
17 Maggio 1630: Esplode la prima furia contro gli untori
18 Maggio 1630: Dilaga il delirio collettivo (compaiono strane macchie sulle case)
21 Maggio 1630: Grida contro gli ignoti che hanno generato il terrore
22 Maggio 1630: I decurioni si rivolgono al governatore, senza otttenere aiuti
11 Giugno 1630: Processione con la reliquia di S.Carlo
Dopo la processione: Il contagio si diffonde mietendo centinaia di migliaia di vittime
Fine agosto-inizi settembre 1630: fine del contagio
La peste in Manzoni… i personaggi
Come la peste cambia i personaggi, come i personaggi giudicano la peste, la folla, gli intellettuali, i monatti, i Cappuccini, Federigo Borromeo, Ludovico Settala, Ambrogio Spinola
Soprattutto nel XXXIII capitolo si attuano strani capovolgimenti. La peste modifica i rapporti tra Don Rodrigo e il Griso: il primo sembra ritrovare, nel dramma della fine, una coscienza sopita, mentre il suo “fedelissimo” servitore si rivela in realtà un traditore. Anche Bortolo e Tonio subiscono un netto cambiamento: il primo rivela un certo egoismo ed il secondo, colpito dalla peste, assomiglia addirittura al suo fratello Gervaso. Renzo poi sarà vittima di fraintendomenti e verrà scambiato per untore o per monatto.
Paradossalmente, due personaggi molto diversi tra loro, Renzo e Don Abbondio, interpretano allo stesso modo la peste come castigo di Dio, giusta punizione contro i malvagi (Don Rodrigo) che mostravano tracotanza e disprezzo delle leggi divine. In tal modo essi riducono la provvidenza ad uno strumento di “giustizia” (Renzo nel XXXV capitolo) o, che è sostanzialmente lo stesso, ad una “scopa” (Don Abbondio nel XXXVIII). Viceversa, per Fra Cristoforo, che del resto morirà di peste anche lui senza certo meritare alcun punizione, essa è “insieme castigo e misericordia” (cap.XXXV) perché aiuta certo l’uomo a comprendere il suo limite , ma nel contempo gli offre una straordinaria occasione di conversione e di riavvicinamento a Dio.
Ancora più che in altre occasioni del romanzo, la folla, che le autorità non hanno saputo adeguatamente guidare, è dominata da passioni irrazionali: 1) i pregiudizi superstiziosi che impediscono anche solo di pronunciare la parola “peste”; 2) il malinteso desiderio di giustizia, di trovare e punire i colpevoli della calamità che travolge tutti
L’ attività dei dotti (medici e non medici) non consiste nel tentare di darsi ragione dei fatti, quanto piuttosto nel ricercare nei testi antichi citazioni di fatti analoghi senza verificarne l’esattezza o la pertinenza con la situazione attuale. Il loro lavoro è dunque una pura attività erudita incapace di proporre soluzioni praticabili al presente disagio. Emblematico al proposito è l’atteggiamento di Don Ferrante.
I Monatti (a cura di RIZZO Giovanni)
MONATTO un tempo nome dato agli addetti al trasporto e alla sorveglianza degli appestati. Il termine “monatto” indicava originariamente nell’Italia settentrionale il becchino. Più tardi indicò più semplicemente coloro ai quali era affidato il compito (secondo le parole del Manzoni che nel capitolo 32° dei “Promessi Sposi” ne fa una celebre descrizione) di “levar dalle case dalle strade dal lazzaretto gli infermi e governarli; bruciare purgare la roba infetta e sospetta”. Era fatto loro obbligo di portare legato alla caviglia un campanello che avvertisse i passanti del loro avvicinarsi. L’origine del nome è incerta: secondo il Manzoni; (il quale riporta anche le opinioni del Ripamonti che lo derivava dal greco “monos” = solo, e di Gaspare Bugatti che si riferiva al latino “monere” = avvertire) l’ipotesi più probabile è che venisse dall’aggettivo tedesco “monatlich” = mensile in quanto gli ingaggi fatti prevalentemente in Svizzera e nei Grigioni avevano per lo più una scadenza mensile.
I Cappuccini (a cura di VIGLIO Alberto)
Quest’ ordine religioso, che segue la regola francescana così come era stata riformata nel 1525 e approvata dal papa Clemente VII NEL 1528, è ampiamente rappresentato nel romanzo a tutti i livelli, dai più semplici cappuccini a contatto quotidiano con la gente al padre provinciale, preoccupato di difendere gli interessi dell’ ordine durante il colloquio con il conte zio. Nel lazzaretto mostrano la loro potenzialità assumendosi il compito di sostituire l’autorità là dove essa si dimostra impotente. In questo caso Manzoni fa assumere a Padre Felice Casati, che doveva garantire l’ordine nel lazzaretto coadiuvato dal padre Michele Pozzobonelli, i connotati di un condottiero che ricordano quelli con cui era stato presentato l’Innominato.
Federigo Borromeo (a cura di ZANABONI Paola)
Federigo Borromeo, come si narra nel XXII capitolo, è nato nel 1564 da una delle più illustri famiglie milanesi. Fu nominato sacerdote dal cugino Carlo Borromeo. Improntò la sua vita alla povertà, rifiutando gli agi del suo ceto. Quando divenne arcivescovo di Milano, utilizzò parte dei suoi beni di famiglia e le rendite ecclesiastiche per aiutare i poveri. Si mostrava severo solo con i suoi subordinati rei d’ avarizia o di negligenza. Istituì inoltre la biblioteca ambrosiana cui tutti potevano accedere. Unica ombra in un uomo così ammirabile fu che aderì a opinioni del tempo strane o malfondate (per esempio riguardo le streghe e gli untori). Fu anche autore di innumerevoli scritti, tuttavia dimenticati. Dimostrò il suo spirito caritatevole sia in occasione della carestia del 1629 (capitolo XXVIII) sia durante la peste dell’ anno successivo, dimostrando ancora una volta che le istituzioni religiose, o in generale la solidarietà cosiddetta “privata”, assumomo funzione di supplenza quando i poteri civili sono indeboliti. Egli incitò i preti ad operare attivamente nella difficile situazione e visitò di persona gli ammalati nelle case e al lazzaretto, tanto che si stupì anche lui, alla fine della pestilenza, di esserne uscito illeso.
(1552-1633) Professore di medicina all’ università di Pavia e di filosofia morale a Milano era uno degli uomini più autorevoli del suo tempo. Purtroppo la sua fama, annota Manzoni nel XXXI capitolo, fu accresciuta quando cooperò a torturare e bruciare come strega una povera infelice sventurata, e fu invece messa in crisi quando , ormai quasi a ottant’ anni, cercava di convincere i milanesi dell’ arrivo della peste in città; al punto che coloro che lo trasportavano in carrozza riuscirono a malapena a salvarlo, conducendolo in casa di amici per sottrarlo alla folla inferocita.
Ambrogio Spinola, governatore di Milano nel 1629-30, sostituisce Don Gonzalo per portare a termine l’assedio a Casale Monferrato, e, come il suo predecessore, si dimostra molto più preoccupato di conquistarsi fama con la guerra che di governare con accortezza.
Infatti, per esempio, emanò una grida in cui ordinava pubbliche feste per la nascita del principe Carlo, primogenito del re di Spagna Filippo IV, il 18 novembre 1629, proprio mentre il contagio incominciava a diffondersi; oppure mostrò ripetutamente indifferenza nei confronti delle richieste di intervento da parte delle autorità milanesi.
Il 22 maggio 1630 due decurioni lo raggiunsero sul campo di battaglia, da cui non si allontanò mai, per esporgli i problemi della città ormai in preda alla peste e priva di risorse economiche per fronteggiarla, ottenendo come risposta solo inconcludenti promesse.
Morì dopo pochi mesi, ammalato e amareggiato per i dispiaceri dovuti anche all’ ingratitudine degli spagnoli nei suoi confronti.
Storia della colonna infame (a cura di GRASSI Gabriele)
Già nel “Fermo e Lucia” Manzoni lascia ampio spazio alla ricostruzione dei processi contro gli untori, per formare successivamente l’attuale “Storia della colonna infame” che costituiva lappendice del romanzo nell’ edizione del 1840. In essa si narra come due donne vedono un tale, poi riconosciuto da loro nella persona di Guglielmo Piazza, imbrattare i muri di una sostanza untuosa. Egli poi, nel tentativo disperato di evitare i supplizi, fece il nome del barbiere Giangiacomo Mora. I due furono poi pubblicamente torturati e bruciati su un rogo ed infine fu eretta una colonna chiamata “infame” sullo spiazzo ricavato dalla demolizione della casa del Mora.
La nuova stesura della Storia lasciò un po’ tutti delusi per la sua secchezza e aridità. Le critiche misero anche in discussione l’esattezza delle opinioni manzoniane sugli untori, sui giudici, sulle procedure giudiziarie del Seicento (vedi al proposito le sviste manzoniane). La Colonna infame resta comunque per noi la visione di un mondo cieco e la dimostrazione di un’ ostinata sete di giustizia e ripugnanza per l’oppressione da parte di Manzoni.
Sviste manzoniane, la follia, la morte, il male e il bene, la peste di San Carlo, i capitoli in coppia, il metodo storico, le ripetizioni, la trufferia di parole, l’uomo
Sviste di Manzoni (a cura di DELL’ACQUA Michela)
1) Manzoni si affida ai testi di storiografia di Ripamonti e di Tadino, ma il secondo spesso era la fonte del primo. I fatti concordanti nei due scrittori erano ritenuti validi da Manzoni, per questo nel testo ci sono dei dati storicamente scorretti.
2) Per la peste, oggi si ritiene che si diffuse per la negligenza e per la cattiva organizzazione della pubblica sanità; ma avendo dei dati lacunosi, la tesi dell’ arretratezza giuridica e culturale seicentesca, la denuncia del disinteresse dei potenti e l’analisi della follia popolare di Manzoni risultano parzialmente errate.
3) Manzoni dubita del fenomeno delle unzioni, mentre ora lo si accetta come vero.
La follia (a cura di MILAZZO Valentina)
Manzoni ci presenta la peste come una perversa e progressiva follia che travolge tutti. Egli non vuole descrivere dei semplici fatti ma rendersi conto di come nella storia dello spirito umano una serie ordinata d’idee possa essere scompigliata da altre idee . Propone due soluzioni al suo problema :
1) Alla gente piace attribuire i mali ad una perversità umana.
2) La follia nella peste non fu il risultato di condizioni storiche ma derivate dall’animo dei singoli e dalla società ; infatti si tende a voler trovare ciò che l’opinione comune desidera perché solo così si potrà essere onorati . Per tutto ciò l’uomo sarebbe disposto a cambiare le proprie idee e da questo meccanismo si genera la follia. A questo si può opporre solo chi non fonda la propria vita sulle idee ma sui fatti.
La morte (a cura di BERTOGLIO Pietro)
Nel romanzo la morte si presenta con una compostezza ineffabile. Essa sveglia una penosa gravità di riflessioni acquisisce il senso delle responsabilità solleva l’anima a Dio ed ai nostri impegni con Lui ma non ha nulla di orrido di spasmodico di oscuro di terrificante. I morti di pestilenza quando non sono segno di un’estrema pietà e quando sono segno di un disfacimento drammatico hanno sempre qualcosa di composto che muove il sospiro e la pietà e non dà neppure la ripugnanza fisica.
Il male e il bene (a cura di CAMERONI Federica)
Nella ricostruzione della vicenda della peste Manzoni non si limita a riferire i fatti , ma va alla ricerca delle ragioni che hanno motivato quelle drammatiche vicende. Viene portato alla luce il giudizio sulle problematiche della storia umana nel suo complesso teatro di scontro tra il male e il bene
MALE VORTICE DI DISGREGAZIONE Rende inefficienti le istituzioni. Distrugge i vincoli affettivi. Trova conferma nei dotti. Si insinua nei medici, nel cardinale, in Ferrer e nei tribunali.
BENE FONTE DI ORDINE Potenzia le capacità organizzative nei Cappuccini. Stimola la carità privata. Anima l opera del cardinale e degli ecclesiastici.
La peste di San Carlo (a cura di FASANI Sara)
Scoppiata nel 1576 è da sempre direttamente collegata al cardinale Carlo Borromeo, morto poi per il contagio dopo aver soccorso gli appestati. La carità del santo non ha semplicemente mostrato che è possibile vivere una tragedia con obiettivi diversi ma ha scritto una storia che gli storici non hanno saputo scrivere: essa non è stampata sui libri ma nella memoria e nel cuore della gente. Ciò che resta memorabile è il bene operato dalla carità: essa ha fissato nelle menti di tutti che S. Carlo si è prodigato come guida, soccorso, esempio e capacità di sacrificio di sé; la carità ha potuto far diventare quella calamità generale un titolo d’ onore per il Borromeo; dare il nome del santo alla peste come si fa per una conquista o una scoperta.
I capitoli in coppia (a cura di DELL’ACQUA Michela)
I capitoli scandiscono il romanzo generalmente in singole unità ritmiche di azione (vedi l’VIII della “Notte degli imbrogli”) o di digressione (come il XXII sul Cardinale Federigo Borromeo). Talvolta, però, intensificano i rapporti tra di loro, come nei cap. IX e X sulla monaca di Monza, o fanno scattare un sistema di rimandi a distanza, come accade, emblematicamente, per i cap. XI e XXXIII (le due entrate in Milano di Renzo).Il XXXI e il XXXII costituiscono una coppia di capitoli, collegati tra loro da fatti raccontati nel primo e ripresi nel secondo (storie di alcuni personaggi, il lazzaretto, i cappuccini, gli untori, le processioni, ecc). All’ inizio del XXXII cap. il gerundio “Divenendo” riprende esplicitamente il discorso là dove era stato interrotto
Il metodo storico (a cura di RUSSO Antonio)
I Promessi Sposi sono un romanzo storico, quindi l’autore costruisce la vicenda del suo romanzo all’ interno di un preciso contesto storico, ricostruito sulla base di una serie di riferimenti, che contribuiscono a rendere piu’ “reale” la vicenda. La parte del romanzo riguardante la peste in Milano e’ molto ricca di detti riferimenti. In questo caso il suo intento e’ duplice: da una parte egli espone l’ambiente, lo scenario in cui si trovano i personaggi, dall’altro vuole farci conoscere un fatto la cui fama cui fama e’ spesso lontana dalla verità storica. Ma come si muove nel realizzare il suo resoconto? Prima di tutto, egli esamina in modo critico i vari documenti dell’epoca riguardanti la peste (si basa,in particolare su quelle del Ripamonti, del Tadino, del Rivola, del Borromeo), affermando che persino la più veritiera di queste, quella del Ripamonti, manca d’ordine, completezza storica e capacità critica. Poi, cerca di confrontare quei resoconti, cosa che nessuno aveva fatto prima. Più che altro, però, cerca, con la sua opera, di mettere in evidenza i fatti più importanti e significativi, di disporli nell’ordine reale della loro successione, di esporre i rapporti causa/effetto. L’autore, tuttavia, ci invita a leggere i testi originali, per non perderne la “forza viva”.
Le ripetizioni (a cura di CATTANEO Linda)
La parola “peste”, nel capitolo XXXI, viene ripetuta più volte in un modo particolarmente significativo.
L’uso della ripetizione, uno dei procedimenti caratteristici dello stile epigrammatico, produce un effetto dinamico di corrispondenza ascendente o di intensificazione progressiva (climax). Un aggregato di sostantivi e di litoti, che mascherano un unico concetto fingendo di negarlo, può tracciare la traiettoria di un processo intellettuale quando quest’ultimo si riduce ad una “trufferia di parole”, un catalogo dialogato di proposte successive e discorsi, che hanno in comune uno stesso orrore da esorcizzare. Il senso del mutamento viene espresso dalla sequenza nominale delle formule, dal linguaggio che si deforma e si adatta via via per poter eludere una verità che non si vuole o non si sa capire : “In principio dunque, non peste, assolutamente no, per nessun conto: proibito anche di proferire il vocabolo. Poi, non vera peste; vale a dire peste sì, ma in un certo senso; non peste proprio, ma una cosa alla quale non si sa trovare un altro nome. Finalmente, peste senza dubbio, e senza contrasti”.
La trufferia di parole (a cura di CASSESE Pamela)
Il teatro dell’esistenza è, in questo caso, il linguaggio, la mente distorta dell’uomo.
Nel romanzo di Manzoni le parole occupano un ruolo fondamentale in due occasioni: -1) in seguito ai fatti di S.Martino
2) con l arrivo della peste.
1) Durante le giornate di S.Martino, infatti, la popolazione di Milano era in preda alla confusione totale e la città era diventata una “babilonia di discorsi”.
2) Con l arrivo della peste a Milano , invece, Manzoni esprime il suo concetto di “Trufferia di parole”. Infatti inizialmente tutta la popolazione derideva i pochi che credevano nell arrivo della peste e di questa parola era stato addirittura vietato l’uso. Anche i medici non osavano pronunciarla e, al momento della diffusione, iniziarono a definirla come “febbre pestilenziale”. Una volta giunti a conclusione che si trattasse effettivamente di peste si incominciò a pensare che fosse un malefizio e questa idea confuse il significato della parola. Lo stesso accade ad altre parole dal significato tremendo e spaventoso.
L’uomo (a cura di CAMERONI Federica)
LA RIFLESSIONE E IL GIUDIZIO SUI COMPORTAMENTI UMANI
Nei capitoli dedicati alla peste tornano i grandi contrasti fra istintualità e ragione, fra ignoranza e cultura illuminata, fra apparenza e realtà, tra potere e servizio, fra parola intesa come strumento di menzogna o come veicolo di verità e, soprattutto, fra malvagità e amore nel misterioso guazzabuglio del cuore dell uomo. Quindi , nonostante l interruzione del filo narrativo in alcune parti del romanzo, al centro è sempre l accorata ricerca della dignità umana.
La città di Milano, il lazzaretto
La città appare a Renzo completamente trasformata rispetto a quella che aveva conosciuto nel corso dei tumulti di San Martino. Prima ancora di entrarci vede alzarsi una colonna di fumo scuro per i vestiti e le suppellettili che vengono bruciate. Le strade sono deserte (vi passano quasi solo i monatti) e piene solo di cenci e, persino di cadaveri.
Il lazzaretto (a cura di PELLEGRINI Marco)
Il lazzaretto di Milano, come ricorda Manzoni nel cap.XXVIII, è una costruzione a pianta rettangolare, ai cui lati sono poste 288 stanze; è stato costruito nel 1489, come si deduce dal nome stesso, per ricoverare gli ammalati di peste, ma all’ occorrenza serviva per altri scopi. Per esempio raccolse gli accattoni e i moribondi durante la primavera del 1629 (in seguito alla carestia). Durante la peste di S.Carlo del 1576 e quella del 1630 arrivò a contenere fino a 16.000 appestati: era persino possibile trovare trenta persone in un’unica stanzetta. All’ inizio del XXXV capitolo appare sovraffollato di malati, diviso in due da una strada, al centro della quale sorge una cappella ottagonale, il resto è suddiviso in quartieri. In quella cappella, nel XXXVI capitolo, padre Felice radunerà i guariti dalla peste per condurli fuori dal lazzaretto in convalescenza, dopo una breve, ma solenne predica. Nei quartieri, invece, Renzo troverà prima Don Rodrigo e poi Lucia.
Anche se la peste in Europa sembra non operare più da secoli, la parola “peste” è rimasta ben viva nella nostra lingua in espressioni come “peste ti colga” o “quel ragazzo è una peste” o “dire peste e corna di qualcuno” , o negli aggettivi derivati “pestifero” e “pestilenziale”
La peste nella Bibbia (Antico Testamento): Esodo, Deuteronomio, Paralipomeni; la peste nella Bibbia (Nuovo Testamento): Apocalisse; la peste nella religione greca antica
La peste nella Bibbia (a cura di FANNI Francesca)
La peste da sempre ha fatto irruzione nella vita degli uomini, portando loro dolore e morte. E’ difficile accettare un dolore troppo grande; più facile se gli si attribuisce un senso. Questo è il perno di ogni lettura sacra. Nella BIBBIA la peste non viene a caso, per nulla, ma per insegnare; infatti viene interpretata come risultato di una colpa, vendetta o monito superiore. La sua comparsa non può essere imprevista, né casuale: è annunciata con solennità dalla voce stessa di DIO, espressione diretta della sua volontà. Al contrario di altri testi, la BIBBIA è completamente indifferente alla narrazione vera e propria della malattia. Pone, invece, grande attenzione alle cause di cui essa è proseguimento ed effetto naturale. I testi della Bibbia in cui si parla di peste sono: l’Esodo, il Duteronomio e i Paralipomeni nell’ Antico Testamento, l’Apocalisse nel Nuovo Testamento.
ESODO: Mosé, eletto messaggero della volontà divina, porta al Faraone l’annuncio dei dieci flagelli che si abbatteranno sull’ Egitto se gli Ebrei non saranno lasciati liberi. La peste degli animali è la quinta delle piaghe minacciate e poi messe in atto da Dio: tutti gli animali degli Egiziani muoiono, ma con “mirabile distinzione” neanche uno viene sfiorato dalla malattia fra quelli dei figli di Israele.
DEUTERONOMIO: Nel Deuteronomio Mosé fa quattro discorsi in cui tra le altre cose, dice al popolo ebraico ancora in viaggio verso la terra promessa: “…se non vorrai ascoltare la voce del Signore Dio tuo, e non ti curerai di mettere in pratica tutti i Suoi comandamenti … sarai maledetto… e il Signore ti aggiunga la peste, finché essa non t’ abbia sterminato dalla terra nella quale entrerai per possederla”. Bisogna però ricordare che la peste appare qui come un male fra gli altri, forse neanche il più grave, e che, come accade sempre nella Bibbia, non è mai descritta in modo puntuale dal punto di vista medico e storico
PARALIPOMENI (LIBRI DELLE CRONACHE): Quando re David ordina di censire le tribù d’Israele per conoscere il numero dei suoi guerrieri, mostra di non fidare più nella protezione soprannaturale del Dio degli eserciti. Dio punisce allora il popolo ebraico, retto da David, con una pestilenza che, secondo quanto narrato nei “Paralipomeni”, che fanno parte della sezione “storica” della Bibbia, farà morire settantamila uomini.
APOCALISSE: Nella prima parte della visione apocalittica di S.Giovanni, che costituisce l’ultimo libro del Nuovo Testamento, vengono descritti i flagelli che si abbatteranno sulla terra e sul cielo, annunciando la fine dei tempi. Anche in questo caso, come sempre nella Bibbia, la peste non ha significato né rilievo particolare: è solo uno fra i diversi castighi divini. “E quando aprì il quarto sigillo, udii la voce del quarto animale dire: <<Vieni>>.Guardai, ed ecco un cavallo scialbo, e chi vi stava sopra si chiama Morte, e l’accompagna l’Inferno. E fu dato loro il potere sopra un quarto della terra, e di uccidere ,con la spada, la fame e la peste, le belve della terra.”
La peste nel mondo greco (a cura di FANNI Francesca)
Anche per la religione greca la peste assume il compito di punire le trasgressioni alle leggi divine. La tragedia “Edipo re” di Sofocle si apre appunto con la pestilenza che si abbatte sulla città di Tebe e di cui solo l’indovino Tiresia conosce le cause: il re Edipo ha, senza saperlo, ucciso suo padre e sposato sua madre e gli dei irati hanno mandato la peste come segno di contaminazione per queste colpe impunite.
La peste è nota da almeno 3000 anni. In Cina sono state registrate epidemie fin dal 224 a.C. Un’ epidemia di peste entrò ad Atene, sconvolgendola e decimandone la popolazione, proprio nel 430 a.C., un anno dopo l’inizio della Guerra del Peloponneso, colpendo una buona parte della popolazione e lo stesso Pericle, l’uomo politico che aveva voluto la guerra e l’egemonia ateniese nel Mar Egeo. Le notizie che abbiamo su questo fatto sono riportate in Tucidide e Lucrezio. Nel Medioevo la malattia si è presentata in enormi pandemie che hanno distrutto le popolazioni di intere città, come la cosiddetta “peste nera“. In seguito le epidemie si sono verificate in modo più sporadico e l’ultima, risalente al 1894, si è sviluppata in Cina, da dove si è diffusa in Africa, nelle isole del Pacifico, in Australia e nelle Americhe, raggiungendo San Francisco nel 1900. La peste è tuttora presente in Asia, Africa, Sudamerica e Australia (dove esistono i cosiddetti serbatoi della peste), ma compare raramente in Europa o in Nordamerica. Nel 1950 l’Organizzazione mondiale della sanità ha dato inizio in tutto il mondo a programmi sanitari per il controllo della peste. Oggi si parla frequentemente dell’ Aids come peste del duemila.
La peste nera (a cura di FIAMENI Riccardo)
E una epidemia di peste bubbonica che, originatasi nelle steppe dell’Asia centrale e da lì propagatasi in Cina e in India, dilagò in Europa dal 1347 con effetti devastanti.
Diffusione della peste nera
I cronisti asiatici dell’epoca indicarono, come causa dell’epidemia, disastri naturali: furono certamente mercanti occidentali che portarono il morbo della malattia, infettando le rotte abitualmente battute nel Medio Oriente e nel Mediterraneo. Nel 1347 colpì Costantinopoli; subito dopo a Messina si ebbe la prima manifestazione dell’epidemia in Europa, che nell’estate del 1348 dilagò in Italia e in Francia, e da lì toccò le coste meridionali dell’Inghilterra, e il resto d’Europa, dove imperversò per oltre tre anni. La violenza dell’epidemia lasciò sgomenti gli osservatori contemporanei, testimoni spesso della totale scomparsa della popolazione di un luogo. Mai, prima o dopo d’allora, una calamità fece tante vittime umane: dello stupore angosciato dei superstiti resta testimonianza in molti scritti, a cominciare dal Decamerone di Giovanni Boccaccio, secondo il quale Firenze era tutta un sepolcro. Molti, come Francesco Petrarca, fuggirono questi orrori rifugiandosi in luoghi isolati e salubri. Le stime di mortalità del 90%, comuni tra i contemporanei, sono state tuttavia ridimensionate dalla ricerca moderna, e attribuite alla carenza di indagini affidabili; si è potuto in ogni caso verificare che nelle zone più colpite perì oltre il 50% della popolazione. Dopo la tragica estate del 1348 la popolazione fiorentina si era presumibilmente ridotta da 90.000 a meno di 45.000 abitanti, mentre a Siena su 42.000 cittadini ne erano sopravvissuti non più di 15.000.
Le reazioni alla peste nera
La gente dell’epoca era impreparata a reagire alla malattia; poiché si ignoravano le ragioni scientifiche del contagio, si speculava molto sulle cause dello scoppio dell’epidemia, individuate da alcuni in un inquinamento atmosferico agente attraverso un invisibile quanto letale miasma proveniente dal sottosuolo, liberato da terremoti di cui si aveva avuto notizia. Le scarse condizioni igieniche – la presenza di scolmatori e immondezzai a cielo aperto era normale nelle città europee del Trecento – favorivano la diffusione del contagio, soprattutto nelle aree urbane, dove i governi adottarono sistemi per far fronte alla malattia, pur ignorando le cause reali. Oltre a incoraggiare l’adozione di misure d’igiene personale particolarmente accurate, posero restrizioni ai movimenti di persone e merci, prescrivendo poi l’isolamento dei malati o il loro trasferimento nei lazzaretti (locale o gruppo di locali dove veniva effettuato l’isolamento di persone sospettate di affezioni contagiose; nel lazzaretto le persone erano tenute sotto osservazione e in condizione di quarantena), l’immediato seppellimento delle vittime in fosse comuni cosparse di calce appositamente preparate fuori dalle mura e la distruzione col fuoco dei loro vestiti. Poiché si pensava che l’aria infetta fosse contagiosa, si diffusero rimedi empirici come il bruciare erbe aromatiche o indossare mazzolini di fiori profumati (similmente nel corso di epidemie successive si credette che il fumo del tabacco fosse un rimedio efficace). Tra gli effetti dell’epidemia, importanti furono quelli che investirono i modelli tradizionali di comportamento. In tutta Europa la Chiesa e i moralisti in genere erano convinti che la peste nera fosse una punizione divina per i peccati compiuti dall’umanità, e per questo predicavano la rinascita morale della società, condannando gli eccessi nel mangiare e nel bere, i comportamenti sessuali immorali, l’eccessivo lusso nell’abbigliamento; in questo contesto non meraviglia la popolarità acquisita dal movimento della Congregazione dei flagellanti. Si sviluppò tuttavia anche una corrente di pensiero opposta, propria di quanti ritenevano che se la malattia colpiva indiscriminatamente buoni e cattivi, tanto valeva vivere nel modo più intenso e sfrenato possibile. Per quanti cercavano spiegazioni facili alla propagazione della malattia, colpevoli erano gli emarginati della società: in alcune zone vagabondi e mendicanti furono accusati di contaminare la popolazione residente; in altre gli “untori” vennero individuati negli ebrei, fatti così oggetto della furia popolare. E’ probabile che appena prima dello scoppio dell’epidemia, la popolazione medievale europea avesse raggiunto il più elevato livello demografico; gli effetti della peste dovettero dunque essere immediatamente evidenti: fu improvvisamente eliminata l’eccedenza di forza lavoro agricola, alcuni villaggi si spopolarono e gradualmente sparirono, molte città persero la loro importanza, mentre crebbe il numero dei terreni rimasti incolti. Anche le razzie di soldatesche sbandate o di ventura favorirono una vasta ondata migratoria dalle campagne verso le città. Se a Firenze, passata l’epidemia, la popolazione era stimata fra i 25.000 e i 30.000 abitanti, già nel 1351 era salita a 45.000 unità per toccare le 70.000 persone trent’anni dopo. Nelle decadi che seguirono i salari aumentarono e le rendite dei proprietari terrieri scesero, segno della difficoltà di trovare mano d’opera e tenutari; in un certo senso i vivi beneficiarono dunque della moltitudine di morti sofferta. La presenza della peste in Europa rimase endemica nei tre secoli successivi, per poi scomparire gradualmente, da ultimo in Inghilterra, dopo la “grande peste” del 1664-1666, per cause che rimangono senza spiegazione
AIDS e pesti del duemila (a cura di ALEMANNI Matteo)
AIDS: malattia causata da un retrovirus umano, lHIV, che colpisce il sistema immunitario umano rendendolo sempre più debole. La morte avviene per altre malattie come la tubercolosi o la polmonite. Può stare in incubazione per 10 anni.
Si è meritata più di altre la definizione di “peste del duemila” per i seguenti motivi:
1) il panico generato dalla notevole diffusione, del resto facilmente evitabile con poche e semplici precauzioni;
2) il carattere di punizione divina o di condanna morale strettamente collegato da alcuni alla sua diffusione, come era avvenuto per la “peste nera”;
3) l’isolamento e l’emarginazione dei colpiti dalla malattia, cosa del resto assolutamente immotivata da un punto di vista scientifico e che ha portato solo alla creazione di un grave problema sociale e alla dimenticanza del fatto che gli ammalati sono persone che hanno anzi maggiormente bisogno di conforto e di affetto
Oltre all’ AIDS esistono malattie che per le loro caratteristiche possono essere considerate affini alla peste e con casi recenti:
Virus Ebola: febbre emorragica caratterizzata de febbre e diarrea con sangue. Nel giro di pochi giorni il sangue esce da tutti i pori e da tutti gli interstizi. Si formano grumi che causano necrosi nel cervello, nei reni, nel fegato e nei polmoni. Non si trasmette per via aerea tranne nel caso dellEbola Reston, forse non letale agli uomini.
Virus Marburg: affine allEbola, predilige gli occhi e i testicoli, ha un tasso di morte del 25% ed è trasmissibile per contatto con il caratteristico vomito nero. Di entrambi non si conosce il vettore.
Encefalopatie spongiformi: gruppo di malattie del cervello che causano la morte cerebrale. Tra queste si distinguono il Kuru, il morbo di Creutzfeldt-Jakob e il morbo delle mucca pazza, tutti letali per l’uomo.
Nota: attualmente i centri più all’avanguardia per la cura delle malattie più letali sono il C.D.C. di Atlanta, fondato nel 1942, e lUSAMRIID di Fort Detrick, nel Maryland, che però è un organo militare statunitense.
La peste è una malattia acuta, infettiva e contagiosa dei roditori e dell’uomo, causata da un batterio Gram-negativo, classificato come Yersinia pestis. Nell’uomo la peste si manifesta in tre forme: peste bubbonica, peste polmonare e peste setticemica.
La peste bubbonica (a cura di FIAMENI Riccardo)
La peste bubbonica è la forma più nota di peste ed è così chiamata per i caratteristici “bubboni”, ovvero i linfonodi ingrossati e infiammati all’inguine, alle ascelle o al collo. La peste bubbonica viene trasmessa dal morso di numerosi insetti che normalmente sono parassiti dei roditori e che cercano un nuovo ospite quando l’ospite originale muore. Il più importante di questi insetti è la pulce dei roditori Xenopsylla cheopis, un parassita dei ratti. Senza adeguata terapia la peste bubbonica è fatale nel 30-75% dei casi
La peste polmonare (a cura di FIAMENI Riccardo)
La peste polmonare (o polmonite pestosa), così chiamata perché si localizza nei polmoni, si trasmette soprattutto attraverso le goccioline di saliva emesse dalla bocca delle persone infette; dai polmoni l’infezione si può diffondere ad altre regioni dell’organismo, causando la peste setticemica che consiste nell’infezione del sangue. Questo tipo di peste è fatale nel 95% dei casi.
La peste setticemica (a cura di FIAMENI Riccardo)
La peste setticemica può essere provocata, oltre che dalla peste polmonare , anche dal contatto diretto di mani, cibo o oggetti contaminati con le mucose del naso e della gola. La peste setticemica è quasi sempre mortale. Comunque se la peste è individuata tempestivamente e adeguatamente la mortalità scende al 5-10%.
Sintomi della peste (a cura di FIAMENI Riccardo)
I primi sintomi della peste bubbonica sono cefalea, nausea, vomito, dolore articolare e generale sensazione di malessere. I linfonodi inguinali o, meno comunemente, ascellari e del collo, diventano all’improvviso dolenti e gonfi. La temperatura, accompagnata da brividi, sale a 38,5-40,5 °C. Il polso e la frequenza respiratoria aumentano e il soggetto colpito è esausto e apatico. I bubboni si gonfiano fino a raggiungere le dimensioni di un uovo. Nei casi non fatali la temperatura inizia a scendere in circa 5 giorni, tornando normale in circa 2 settimane. Nei casi fatali il decesso avviene entro circa 4 giorni. Nella peste polmonare l’espettorato è inizialmente mucoso e tinto di sangue, per poi diventare molto abbondante e rosso vivo. Nella maggior parte dei casi il decesso avviene 2-3 giorni dopo la prima comparsa dei sintomi. Nella peste setticemica la temperatura della persona infetta sale improvvisamente e il colorito diventa violaceo nel giro di alcune ore; spesso la morte sopravviene lo stesso gioi si manifestano i primi sintomi. Il colorito violaceo, a cui è dovuto il nome popolare di Morte Nera, è presente nelle ultime ore di vita di tutte le vittime di peste.
Terapia della peste (a cura di FIAMENI Riccardo)
Per ridurre l’incidenza della peste sono efficaci molte misure preventive, come il rispetto delle norme igieniche, la derattizzazione e la prevenzione dell’infestazione da ratti sulle navi che salpano dai porti in cui la malattia è endemica. Le carestie, che riducono la resistenza alle malattie, favoriscono la diffusione della peste. I soggetti che hanno contratto la malattia vengono isolati, messi a letto e nutriti con cibi liquidi e facilmente digeribili. Per ridurre il dolore e calmare il delirio vengono somministrati sedativi. Durante la seconda guerra mondiale gli scienziati riuscirono a curare la peste con i sulfamidici; in seguito si sono dimostrati più efficaci antibiotici come la streptomicina, le tetracicline e il cloramfenicolo.
Tucidide, Lucrezio, Giovanni Boccaccio, Daniel Defoe, Edgar Allan Poe, Antonin Artaud, Albert Camus, Jorge Amado, Italo Calvino, Frank Herbert, Stephen King
Anche nella descrizione della peste di Atene, che colpì la città nel 430-429 a.C. Tucidide si rivela acuto e attento osservatore della realtà. Egli enumera i sintomi e gli effetti sul corpo con la precisione di un referto medico, per poi allargarsi alle ripercussioni sull’ anima. La solitudine, lo scoraggiamento, la minaccia alle norme della convivenza umana, la sfrenatezza dei costumi, così come le ha descritte Tucidide, diverranno materia di ispirazione diretta non solo per Lucrezio, ma anche per Boccaccio, Manzoni e Camus.
“Io, per conto mio, dirò come si è manifestato il morbo, e con quali sintomi; così che, se un giorno dovesse di nuovo tornare a infierire, ognuno stia attento, conoscendone prima le caratteristiche, abbia modo di sapere di che si tratta”.
Queste parole sono state pronunciate nello stesso periodo e nella stessa città in cui il poeta tragico Sofocle metteva in scena la punizione di un uomo, Edipo re di Tebe, reo di aver contagiato di peste una città per l’empietà di una colpa, oltretutto voluta dagli dei; ma ci sembrano partire da una prospettiva ideologica completamente differente.
La peste in Lucrezio (a cura di OLGIATI Simone)
Il poeta latino Lucrezio inserì la peste di Atene tra gli argomenti della sua opera “De rerum natura”. Secondo Lucrezio la peste sarebbe arrivata alle porte della città infettando la popolazione rurale, la quale, dopo, aver visto i propri capi di bestiame morire a causa della malattia, si rifugiò nella città trasmettendo il contagio (… ve la portarono nuvoli di contadini languenti …). Gli scenari descritti in quest’ opera possono sembrare simili alle altre epidemie ma un fatto la differenzia profondamente: la peste di Atene non è vista come una punizione divina (… né più si dava ormai peso alla fede e alla santa divinità …), ma come una forza della natura; proprio per questo nel brano si tenta di dare una spiegazione scientifica all’ esistenza della malattia.
La peste in Boccaccio (a cura di OLMO Roberto)
Nel 1348 una gravissima peste colpì la città di Firenze. Di questo abbiamo molte informazioni grazie soprattutto alla raccolta di cento novelle del “Decameron” di Giovanni Boccaccio : il manoscritto infatti , oltre a descrivere scrupolosamente i fatti realmente accaduti, racconta di sette giovani donne “savie ciascuna e di sangue nobile e di bella forma e ornate di costumi e di leggiadra onestà”, e tre “discreti e valorosi” giovani che decidono, dopo aver valutato la situazione della città, di rifugiarsi in una delle loro numerose ville di campagna, dove passeranno il loro tempo raccontandosi storie. Le novelle vengono narrate non dalla voce dell’ autore, ma da quella dei personaggi; l’autore in persona invece coordina e collega le novelle fra loro attraverso la cornice, cioè la descrizione delle giornate trascorse in villa dai personaggi novellatori.
L’ introduzione del “Decameron” è tutta incentrata sulla diffusione del morbo in Firenze e sulla degradazione fisica e morale ad esso conseguente.
Dice Boccaccio “nel vero, se io potuto avessi onestamente per altra parte menarvi l’avria volentier fatto” rivelando così che nel suo romanzo la peste è solamente un polo negativo che serve a dar risalto e valore al polo positivo che seguirà.
La peste in Defoe (a cura di PARIANI Gabriele)
Questo scrittore inglese dedicò alla peste londinese del 1665 un’ opera intitolata appunto: “LA PESTE A LONDRA”.
La cronaca dell’anno 1665 inizia con una descrizione sui primi casi di peste. Il protagonista, un sellaio, benché assista alla partenza di molti ricchi concittadini, decide di non abbandonare la città per non lasciare i suoi affari. Egli, come tutti, s’interroga sui possibili motivi dell’epidemia e mentre lui riesce a darsi una spiegazione basandosi su eventi naturali, la popolazione attribuisce il fenomeno al passaggio di una cometa, portatrice di sventura. Il sellaio, durante le sue uscite lungo le vie di Londra, vede molte persone che vagano per la città predicendo morte e distruzione e si ferma accanto ad alcuni visionari che dicono di scorgere un angelo che impugna una spada di fuoco. Ed ecco, una sera, il sellaio, incurante dei severi divieti e del pericolo di contagio, s’intrufola nel cimitero con la complicità di un sagrestano suo amico: assiste al macabro lavoro dei monatti e alla disperazione di un uomo la cui famiglia è scaricata in quella fossa. Sulla strada del ritorno una serie di tristi pensieri accompagna il protagonista fino a casa, dove l’immagine di quell’ infelice gentiluomo gli torna alla mente causandogli un pianto accorato. Nonostante rincasi ogni volta sempre più affranto, il sellaio non resiste alla tentazione di vagare per le strade, dove le scene raccapriccianti sono sempre più frequenti. Per le vie di Londra non si sentono solo storie tristi ma anche racconti singolari come quella del suonatore di piffero che, addormentatosi per strada, viene scambiato per un cadavere e raccolto dai monatti, i quali, al suo risveglio, si rendono conto dell’errore commesso. Nel momento in cui la peste infuria maggiormente, il protagonista non condivide appieno l’opinione comune secondo cui le persone infette, spinte dall’odio, desiderano contagiare gli altri per farli soffrire come loro; egli pensa piuttosto che quest’idea venga diffusa dagli abitanti delle campagne estremamente diffidenti verso gli abitanti della città. La verità oggettiva è che gli appestati diventano pericolosi nel momento del delirio; per questo il sellaio ritiene giusto confinare nelle abitazioni le persone contagiate per evitare episodi come quello della nobildonna infettata e uccisa da un appestato.
Lo scrittore americano (1809-1849) dedicò due racconti alla nostra tematica:
“La maschera della morte rossa ” e “Re peste “. Il primo più drammatico e inquietante, il secondo più grottesco e comico.
“La maschera della morte rossa” ha per oggetto la tragicità del destino umano (l’impossibilità di ignorare la morte) ed è quindi costruito attraverso gli elementi propri della letteratura “alta” e “tragica”.
“Re peste”, invece, è un racconto fondato sulla deformazione visionaria della realtà (noi non sappiamo se ciò che accade è vero o è piuttosto l’effetto della sbornia dei due protagonisti principali. Non c’è quindi una riflessione sulla condizione o sul destino umano, ma piuttosto un divertentissimo gioco stilistico evidente nella rappresentazione grottesca dei personaggi, fondata sull’ iperbole e la caricatura. Infatti il finale del racconto, a differenza de “La maschera della morte rossa”, è lieto: i due incauti marinai riescono a sfuggire a Re Peste e a tutto il suo nobile seguito.
“La maschera della morte rossa” incomincia, più o meno come il Decamerone, con un gruppo di giovani “sani e spensierati” che si rifugiano in un’ Abbazia, lontano dalla regione in cui sta imperversando una pestilenza. Il loro tentativo di sottrarsi al destino di contagio e di morte è però destinato a fallire quando, a mezzanotte, al culmine di una festa mascherata, compare, appunto, la maschera della morte rossa che inseguirà anche il principe Prospero, capo dell ‘allegra brigata, nelle sale dell’ Abbazia, per raggiungerlo e ucciderlo nella inquietante sala nera.
A differenza del Decameron, però, si infittiscono sin dall’ inizio elementi che contraddicono qualsiasi tentazione di svolgimento realistico, attraendo prepotentemente il lettore nella dimensione del racconto fantastico. Non è quindi possibile spiegare razionalisticamente ciò che accade ed anche la impari lotta dell’ uomo con la morte assume quelle caratteristiche di assurdità e nichilismo che hanno reso così novecentesca la narrativa di Poe.
“Re peste”: Due marinai ubriaconi, Tarpaulin e Legs (il primo grasso ed il secondo magro, forse antesignani di coppie comiche più celebri), fuggendo da una bettola per non pagare il conto della troppa birra bevuta, si rifugiano nei quartieri abbandonati e fatiscenti dell’ antica Londra. Qui in una cantina, che visitano per bere, si imbattono in uno strano banchetto. A capotavola spicca la figura di “Re Peste”, un uomo più magro di Legs, dal viso giallo come lo zafferano e dalla fronte orribilmente ed eccezionalmente alta, che fa le presentazioni:
” la nobile dama che sta seduta dinanzi a voi è la Regina Peste, nostra serenissima consorte. Gli altri personaggi che voi vedete sono tutti prìncipi del sangue e portan il segno della regale origine nei rispettivi nomi di Sua Grazia l’Arciduca Pest-Iferus, Sua Grazia il Duca Pest-Ilenzial, Sua Grazia il duca Temp-Pest e sua Altezza Serenissima l’Arciduchessa Ana-pest.”
Tarpaulin offende i convitati e per questo viene scagliato in una botte di vino, dalla quale sarà liberato da Legs. I due se la daranno poi a gambe dopo aver abbattuto lo scheletro che danzava al di sopra della tavola
Attore, regista e, soprattutto, teorico del teatro, pubblicò nel 1938 “Il teatro e il suo doppio”, un testo che influenzerà moltissimo la pratica teatrale, soprattutto delle esperienze di ricerca teatrale più significative degli ultimi decenni (Living Theatre, Tadeusz Cantor, Peter Brook, Jerzy Grotowski).
In quel testo Artaud dà un’ interpretazione molto originale e “positiva” della peste, perché “la peste coglie immagini assopite, un disordine latente e spinge d’ improvviso fino a gesti estremi”. La peste, per Artaud, non è una vera e propria malattia, ma un’ entità psichica non provocata da un virus: egli rifugge quindi ogni spiegazione medica che tenda a definire scientificamente o a circoscrivere geograficamente questo fenomeno.
Infine, egli afferma che ” il teatro, come la peste, scioglie conflitti, sprigiona forze, libera possibilità, e se queste possibilità e queste forze sono nere, la colpa non è della peste o del teatro, ma della vita”:
La peste in Camus (a cura di PASTORI Maria)
Nella “Peste” Albert Camus affronta il grande problema dell’assurdo, cioè dell’impossibilità di trovare senso e giustificazione all’esistenza umana e al dolore che essa contiene. L’antichissima domanda sul significato del male (inconciliabile con la presenza di un Dio giusto e buono) viene riformulata in termini laici e si risolve nella constatazione lucida e senza speranza dell’ineluttabilità del male e della sua insensata gratuità. L’unica salvezza dalla disperazione può essere nella solidarietà fra gli uomini; l’unica rivolta possibile, il rifiuto di portare altro male nel mondo. Gran parte del romanzo è dedicata alle conversazioni tra i personaggi, che si confrontano incessantemente, senza risposta, con la presenza del dolore: ogni giorno essi vedono agonia e morte, ma nessuno, nemmeno il sacerdote Paneloux (uno dei personaggi principali), riesce a trovare una giustificazione accettabile alla ragione umana. L’unico sollievo all’angoscia è l’azione: tutti infatti entrano nelle formazioni sanitarie volute da Tarrou. il romanzo si chiude sotto il segno della testarda necessità di lottare da parte di quegli uomini che si rifiutano di ammettere i flagelli. Quando il romanzo uscì fu subito chiaro ai lettori che la peste era una metafora del nazismo: la lettura in chiave storica, autorizzata da Camus stesso, era confortata dalle numerosi allusioni alla oppressione della dittatura e alla resistenza. La peste è metafora del male: dell’assurdità del dolore inflitto agli uomini, dell’insensatezza del loro esistere.
Scrittore brasiliano nato nel 1912, annovera, tra i suoi romanzi, “Teresa Batista stanca di guerra”, pubblicato nel 1972, in cui si narrano le vicende di una bellissima mulatta, Teresa appunto, che passa attraverso innumerevoli peripezie (orfana, venduta bambina ad un crudele padrone, diventa ballerina e prostituta, si innamora e viene tradita) dalle quali esce sempre vincitrice, con la sua vitalità e voglia di vivere.
Quando a Buquìm, una cittadella isolata e povera, si diffonde la pestilenza del “vaiolo nero”, Teresa sarà tra i pochi a non fuggire e a curare i poveri e vaccinarli, correndo il rischio di contagiarsi. L’ episodio si conclude con le seguenti parole:
“lo creda chi vuole: a por fine al vaiolo nero che imperversava nelle vie di Buquìm sono state le puttane di Muricapeba capeggiate da Teresa. Coi suoi denti limati e col suo dente d’oro Teresa Batista ha masticato il vaiolo e lo ha sputato fuori…Nascosto in una grotta il vaiolo aspetta una nuova occasione. Ah, se nessuno provvede, un giorno ritornerà per farla finita, e allora poveri noi! Dove trovare un’altra Teresa-del-vaiolo-nero per dirigere le operazioni?
Una delle Lezioni americane, intitolata “Esattezza”, parla diffusamente della “peste della scrittura”, cioè di quel contemporaneo vizio assurdo di usare la lingua senza attenzione alla “forma”, scegliendo un termine al posto di un altro senza motivi logici e razionali, perdendo così tutta la ricchezza del substrato linguistico e ignorando tutta la serie di connotazioni che si celano dietro una scelta lessicale.
Autore della nota saga di Dune , diventata un film famoso, scrisse un altro interessante romanzo fantascientifico, pubblicato in Italia nel 1991: Il morbo bianco.
Il protagonista, il biologo americano John O’Neill, dopo aver perso la moglie e i due bambini in un attentato terroristico, realizza una terribile vendetta nei confronti dell’ intera umanità: sfruttando le sue conoscenze, riesce a creare un nuovo virus, attivo soltanto sulle donne, in grado di alterare la struttura genetica delle cellule del corpo umano e di portare alla morte. In seguito diffonde il morbo, chiamato “bianco” perché si manifesta con chiazze biancastre, attraverso il semplicissimo veicolo della cartamoneta. Infine, in un ritorno di lucidità, aiuta gli scienziati a trovare il modo per fermare la malattia, quando ormai sono rimaste in vita pochissime donne e la vita nel pianeta è sconvolta.
La peste in King (a cura del prof. GAUDIO Luigi)
Ne L’ ombra dello scorpione un’ epidemia di sconvolgente violenza uccide in poco più di una settimana la maggior parte degli abitanti degli Stati Uniti. Fra i pochi sopravvissuti, riunitisi nella città di Boulder, si creano due gruppi in lotta fra loro:
quelli attratti dalla visione di serenità assoluta rappresentata dall’ immagine di una vecchia contadina e quelli che seguono Darkman, che incarna il male con il suo carico di colpa ed il suo ambiguo potere di seduzione. Nella eterna lotta fra il bene ed il male quest’ ultimo è destinato a soccombere, non senza aver lasciato dietro di sé uno strascico di inquietudine.
La peste viene letta in questo romanzo, ancor più che ne Il morbo bianco di Frank Herbert, come una vera e propria Apocalisse, rimarcando l’aspetto esplicitamente sacro della storia narrata.
Brasioli, Carenzi, Acerbi “I Promessi sposi di Alessandro Manzoni” ed.Atlas
Sbrilli “I Promessi sposi di Alessandro Manzoni” ed.Bulgarini
Caretti “Manzoni. Ideologia e stile” ed.Einaudi
Secchi “I Promessi sposi di Alessandro Manzoni” ed.Massimo
Bricchi “I Promessi sposi di Alessandro Manzoni” ed.Bompiani
Raimondi “Il romanzo senza idillio” ed.Il Mulino
Perissinotto “I Promessi sposi di Alessandro Manzoni” ed. Paravia
E soprattutto: Cuccarini “Le immagini della peste dal mito alla fantascienza” ed.Il Capitello
Si ringrazia il prof.GALLI per la collaborazione prestata