Imperialismo, colonialismo e nazionalismo tra ottocento e novecento
29 Maggio 2023Vita di Aristotele
1 Giugno 2023Appunti sulla Retorica aristotelica
La Retorica aristotelica non fu scritta per la pubblicazione, Aristotele conserva gli appunti degli studenti per farli circolare all’interno della scuola.
Di conseguenza è ellittica, spesso si fanno connessioni difficili da comprendere o rimanda ad altre opere in cui tratta gli argomenti, ad esempio i concetti di deduzione ed induzione sono trattati in opere di logica e dialettica.
La materia è suddivisa in tre libri, ma l’ordine non è rigoroso; il terzo che riguarda l’elocuzione è forse il più antico, è più simile ai contenuti della Retorica ad Alessandro o ad altri trattati precedenti, mentre il primo e il secondo esprimono idee più moderne, elaborate in seguito agli studi di logica e dialettica, nella prospettiva di una vera arte retorica.
La logica aristotelica descrive il pensiero puro, studia i concetti che di per sé costituiscono una dimostrazione o un ragionamento probante. Aristotele però non parla di logica, termine più recente inventato dalla scuola stoica, ma di analitica, infatti le sue opere logiche sono gli Analitici primi e gli Analitici secondi.
La parola analisi (anàlusis) significa risoluzione: partendo da una data conclusione, la si risolve a partire dagli elementi da cui deriva, cercando le premesse e gli elementi che hanno portato ad essa.
Partiamo quindi dalla realtà complessa di cui facciamo esperienza e ne diamo conto. Analitica è la dottrina del sillogismo, Aristotele fu scopritore di deduzione e sillogismo.
In particolare il sillogismo retorico è l’entimema, e il procedimento deduttivo parte da premesse vere e necessarie: vero è ciò che non può essere confutato diversamente dal verosimile, necessario è ciò che non può non accadere; queste premesse sono anche universali.
Negli analitici primi Aristotele studia la coerenza formale dei ragionamenti: il sillogismo ha una prima premessa vera necessaria universale, cioè è l’ambito generale in cui rientra ciò di cui voglio dare la dimostrazione; un motore della deduzione, parola che nella prima premessa è soggetto, nella seconda che è particolare è predicato, e si vede la correttezza formale anche dalle ripetizioni (vedi tutti gli uomini sono mortali ecc.); ogni sillogismo deve avere almeno tre passaggi.
Questa correttezza formale non ha alcun rapporto con la verità del contenuto, problema affrontato negli Analitici secondi. L’ambito dell’analitica è ristretto perché la partenza da premesse vere lo richiede, non sono molte quelle che possono essere chiamate verità nella nostra realtà; serve ad Aristotele per dare le caratteristiche della perfetta coerenza di forma del ragionamento.
È importante per l’entimema che l’uditorio riconosca come vera una premessa che di per sé è soltanto verosimile, e l’abilità dell’oratore è nel farla accettare. Nelle opere di dialettica come le Confutazioni sofistiche Aristotele tratta di ragionamenti formalmente corretti e dunque forti che partono da premesse probabili o verosimili, e mostra la falsità di alcuni discorsi sofistici basati su questo principio; un sillogismo dialettico dovrà anch’esso esplicitare tutti i passaggi come quello logico, mentre in quello retorico ciò non è necessario, anzi nella comunicazione quotidiana se ne devono saltare alcuni, e da questo è data l’ambiguità della retorica.
La deduzione retorica, l’entimema, parte da premesse probabili condivise dai più ed è importante che siano condivise dall’uditorio, la premessa deve apparire vera a chi ascolta, l’oratore deve cogliere la psicologia del suo pubblico e ciò non è sempre facile. La deduzione è una disambiguazione della realtà, serve ad esplicitare ciò che è implicito.
Platone sembra considerare pressoché falso tutto ciò che è verosimile; Aristotele lo considera come qualcosa che assomiglia al vero, chi mira al probabile mira anche alla verità: la verosimiglianza può lasciare spazio alla manipolazione, ma egli riconosce nell’uomo una naturale tensione verso il vero o ciò che gli somiglia, dire verosimile è anche forma di onestà nel riconoscere i propri limiti nella conoscenza della verità.
La Retorica si apre in medias res, e dice che la retorica è antìstrofos rispetto alla dialettica, termine tecnico della lirica corale usato metaforicamente che dimostra come pur cambiando i contenuti la forma sia la stessa.
Parte Aristotele da quell’alleanza tra retorica e dialettica della fine del Fedro platonico, entrambe possono essere applicate ad ogni ambito della conoscenza e dell’esperienza.
I primi due libri sono dedicati alla costruzione di prove cioè argomentazioni, senza definirle ma applicandone i principi ai tre generi oratori; il III riguarda l’elocutio. Enuncia all’inizio il fatto che retorica e dialettica entrano nella vita quotidiana di tutti gli uomini; per qualcuno ben parlare è naturale e diventa dote se viene applicata questa capacità e potenziata dall’abitudine, ma fino a quel momento quasi tutti l’avevano fatto senza un metodo.
Apologia della possibilità della retorica di essere tèchne, è un fatto che a quel tempo andava dimostrato: c’è un metodo dietro questa capacità sia di chi lo fa spontaneamente sia di chi lo fa per familiarità acquisita, scoperta aristotelica, dunque insegnare il metodo è compito della tèchne.
Nel capitolo XIV elenca le prove non tecniche al termine del discorso giudiziario, ad esempio leggi esistenti, patti, giuramenti, dati esterni che l’oratore può abilmente usare; egli considererà nel libro II dedicato allo studio degli entimemi l’aspetto dell’emotività, come suscitare emozioni nell’uditore, aspetto importante perché l’oratore deve adattarsi al carattere dell’uditorio, fare in modo che il pubblico recepisca un ethos che dia un’idea positiva del carattere dell’oratore, e considerare ogni aspetto dell’uditorio per creare empatia a livello emotivo (età, stati d’animo ecc.).
Però Aristotele prende le distanze da quei sofisti che consideravano la retorica come capacità di muovere emozioni, per lui sta soprattutto nell’entimema; per questo il ricorso alle leggi è una prova non tecnica.
L’oratore può appellarsi a cinque elementi (leggi, testimonianze, giuramenti, patti, confessioni da tortura), che però non dipendono dalla tèchne posseduta dall’oratore. Suona strano per il nostro concetto di tecnica, pensa ad un diverso valore dell’aggettivo tecnico come parte della tèchne.
Aristotele considera le giuste sfumature, Aristotele non afferma come si è detto che la componente emotiva non sia importante, ma che non coincida con la tèchne, polemizzando con i predecessori.
Aristotele afferma la necessità di un corpus di leggi forte e che contempli tutti i casi, per lasciare meno discrezione possibile al giudice che emette le sentenze sul momento, e non è detto che sia assennato; invece ciò che è scritto in una costituzione deriva da una lunga riflessione, e per questo è un giudizio che non può essere oltrepassato da una sentenza momentanea.
Il giudice può anche essere oscurato da interessi privati, amicizia o altri sentimenti.
È necessario lasciare alla discrezione del giudice i fattori che il giudice non può prevedere, cioè se un fatto particolare sia o non sia avvenuto, sia o non sia rilevante per sostenere un’accusa.
In quell’epoca erano sentite le differenze tra città e città e tra legge scritta e non scritta; quand’anche la legge scritta muti spesso e non si attenga sempre all’equità, quella non scritta non lo fa.
Per un oratore è possibile riferirsi tanto al valore della costituzione quanto a quello della legge non scritta che va oltre, e ciò rende complessa l’oratoria giudiziaria.
Secondo Aristotele l’uomo ha una tendenza naturale al vero e se non si riferisce ad una legge lo fa in nome di un bene, come Antigone.
Anche la divisione delle parti di un discorso è estranea al soggetto che lui sta trattando, quella che per lui è retorica.
Aristotele denuncia poi il fatto che chi ha scritto di arte retorica in funzione di emozioni da muovere, l’ha fatto soprattutto riguardo ai discorsi giudiziari che mettono in campo interessi privati, mentre poco ci si è occupati di discorsi deliberativi che riguardano interessi comuni.
Aristotele vede una debolezza della figura del giudice rispetto all’oratore, il primo cede ai contendenti invece di giudicare a causa dell’arte volta a muovere emozioni.
Chi è in grado di manovrare i sillogismi dialettici sarà abile ad utilizzare gli entimemi, se conosce il soggetto dell’entimema e le differenze tra questo e il sillogismo logico.
Argomentazione è dimostrazione, dimostrazione è entimema, entimema è una specie di sillogismo; per essere buoni retori bisogna conoscere logica e dialettica, la prima per il sillogismo la seconda per l’entimema nella loro forma e struttura.
Una dimostrazione non è mai astratta ma riguarda realtà precise, è necessaria una conoscenza del soggetto di cui si parla e di tutto ciò che lo riguarda, e qui introduce la nozione di topos: ogni situazione ha particolarità che l’oratore deve conoscere.
Qui c’è l’enunciazione che la verosimiglianza non è manipolazione della verità, ma tendenza al vero, pur ammettendo nella realtà particolare l’inganno Aristotele ha un ottimismo antropologico, si riferisce alla natura umana; ritiene che la capacità di fare il male abbia come scopi l’utilità e l’interesse. Per natura l’uomo tende anche al piacere, e l’infinito dà un senso di instabilità psicologica, lo dice senza dimostrarlo ma convinto che il lettore lo condivida.
Per lui la giustizia è forte, quindi se chi è nella ragione non riesce a persuadere l’uditorio è per un suo difetto di tecnica. La retorica chiede un linguaggio di normalità e non uno tecnico, non serve una preparazione accurata dal punto di vista scientifico.
È in queste righe che afferma che insegnerà anche i discorsi ingannevoli, perché ci si possa difendere da chi vuole ingannare; egli confida sempre in un uso etico della retorica, è l’etica che muove l’azione anche in tribunale e, poiché la parola è mezzo proprio dell’uomo, usarla con fini ingiusti produce danno quanto usarla con fini giusti produce bene. La funzione della retorica è individuare in ogni caso i mezzi di persuasione, è il discorso che tende alla persuasione, che ci si riesca è affidato all’abilità dell’oratore.
Dialettica e retorica puntano ad esprimere tesi opposte: tutto si può dimostrare attraverso l’argomentazione, e l’oggetto vero e giusto ha in sé una forza in più rispetto agli strumenti della retorica.
Anche in Aristotele l’uso della parola è ciò che caratterizza l’uomo come tale (la parola è però il lògos).
La retorica può produrre vantaggio o danno a seconda dell’intenzione (proaìresis).
Per la retorica non si può giudicare la disciplina dal suo risultato, che deve essere la capacità oratoria: è una disciplina astratta ed epistemologica, che enuclea i principi da applicare in ogni situazione, l’oratoria è la capacità di persuasione nei singoli casi; alla tèchne retorikè non importa il risultato pratico, del quale si occupa l’arte oratoria.
Rientra nella tecnica il saper distinguere tra ciò che è persuasivo e ciò che è apparentemente persuasivo, come la dialettica deve distinguere tra sillogismo vero e apparente. La capacità di inganno (sofistikè) non è una facoltà ma un’intenzione, dipende dalla proaìresis, la scelta che muove un’azione anche di tipo oratorio, intenzione morale e non dùnamis cioè facoltà, capacità; in retorica il retore è tale tanto perché sa costruire un discorso persuasivo quanto per la sua intenzione, sia facoltà sia intenzione di tipo pratico che è sempre presente, compito di un retore è sempre spingere in una direzione con le idee e le azioni; la dialettica è più speculativa, Aristotele distingue l’intenzione di tipo sofistico e la capacità, la facoltà dialettica, il dialettico sa costruire bene un discorso e diventa sofista quando entra in gioco il contenuto, l’intenzione.
Definendo nuovamente la retorica usa la parola dùnamis, la facoltà di scoprire il mezzo giusto di persuasione per ciascun oggetto (ripresa dei concetti precedenti). Si ribadisce il muoversi in ogni ambito dell’arte retorica che non ha un oggetto determinato, già presente nel Gorgia platonico; si apre la possibilità che tèchne si applichi ad un metodo che non dipende da un ambito specifico. Quanto a prove tecniche e non tecniche, deì toùton (l’oratore) toìs mèn chrèsasthai, tà dè ehureìn.
Capitolo 2, tre elementi dell’atto persuasivo, carattere dell’oratore, modo di porre il discorso e discorso stesso, tipico di qualsiasi atto comunicativo. Anche il suscitare emozioni nel pubblico è fatto che entra in gioco nell’atto persuasivo, che si realizza solo quando anche sentimenti partecipano, un giudizio non si emetterà allo stesso modo se si è influenzati da questo o quel sentimento.
Alla fine del capitolo Aristotele tratta induzione e deduzione: induzione in dialettica è esempio in retorica, dimostrare una tesi universale attraverso il confronto tra casi simili; deduzione o sillogismo dialettico, dall’universale al particolare. Per lui entrambe sono efficaci e persuasive, l’entimema è più applaudito, quindi egli ha una preferenza per la deduzione; sull’induzione egli basa la conoscenza scientifica, il sillogismo è un meccanismo espositivo, serve a descrivere ma non si interessa della verità delle premesse, mentre l’induzione è il meccanismo con cui dimostrare una premessa osservando un alto numero di casi simili.
Le parti riferite ai tre elementi essenziali (carattere, rapporto con l’ascoltatore, lògos) sono riprese nei primi capitoli del II libro; 17 capitoli di esso sono dedicati alle psicologie e alle emozioni, di cui l’oratore deve avere conoscenza.
Aristotele spiega le differenze tra le emozioni e i diversi gradi delle emozioni (collera / ira, amicizia / inimicizia), cercando di chiarirci razionalmente cosa sia ciascuna o ciascuno. Aristotele approfondisce cosa sia l’ethos nella Poetica, esso si deduce da azioni, pensieri e parole; l’oratore sa percepire quali sono le attese del pubblico a livello di ethos e in base ai suoi comportamenti dà l’idea che desidera del suo carattere.
Per Aristotele l’essenza della retorica è il terzo punto, il discorso stesso; egli invita ad un controllo razionale delle emozioni, quella oratoria non è operazione puramente psicagogica e in questo si stacca dai predecessori che scrivevano discorsi emotivamente forti. La retorica è ramificazione della dialettica perché consente un dominio razionale anche delle realtà come la psiche umana; per lui fare politica significa agire secondo un certo ethos, e lo sguardo etico non è individuale ma abbraccia la comunità, la pòlis; la retorica non porta ad azioni al servizio dell’individuo ma della comunità. Dunque chi fa il retore o si atteggia a tale fa politica.
La retorica come la dialettica è una facoltà di fornire ragionamenti anche sulle realtà sottili delle emozioni, che vengono tolte dalla sfera di magia in cui erano collocate prima di lui.
Aristotele nella sua Etica contempla la possibilità che l’ira sia anche positiva se contro qualcosa di sbagliato, a differenza delle successive scuole stoica ed epicurea che la considereranno sempre negativa.
Aristotele vede la possibilità dimostrativa tramite induzione (esempio), deduzione (entimema), deduzione apparente (entimema apparente, che sembra funzionare ma contiene un errore o un inganno).
Entimema è sillogismo retorico, esempio è induzione retorica; l’aspetto dialettico della retorica è sempre riconducibile all’uno o all’altro, altrimenti non è un ragionamento funzionante.
Il capitolo 20 del libro II è collegato con il primo, è dedicato agli esempi di Stesicoro ed Esopo; si parla di forme di argomentazione o tòpoi comuni a tutti i generi di discorsi.
È un caso simile a quello delle parole, alcune sono termini tecnici che cambiano significato a seconda del contesto d’uso, altre che non lo cambiano mai. Per Aristotele questi luoghi comuni sono l’essere/non essere, essere/non essere possibile, più/meno, che valgono allo stesso modo in tutti gli ambiti dell’agire umano.
Parlare per massime secondo Aristotele è parte dell’entimema, gli esempi sono argomentazioni comuni. L’esempio può essere un fatto storico con cause e conseguenze, che possono servire a dimostrare fatti presenti; altro sono massime o favole del repertorio sapienziale, come quelle di Stesicoro o Esopo.
Sia le favole sia le massime socratiche sono nell’ambito della comparazione, e richiedono abilità nel cogliere le analogie corrette tra gli avvenimenti; Aristotele sostiene che una buona educazione a questo siano gli studi filosofici.
Sia entimemi sia esempi sono efficaci, ma si devono usare esempi se non si dispone di entimemi, in caso contrario si devono usare come testimonianze a conclusione dell’argomentazione. Ponendo un esempio solo come premessa di un entimema, si crea una falsa deduzione perché la premessa deve sempre essere generale; l’alternativa è portare molti esempi.
Se invece alla fine di una deduzione si pone anche solo un esempio, esso ha il peso della testimonianza. Le premesse devono avere una categoria ampia che le condivide, un insieme vasto che contiene elementi particolari, in cui è inserita la conclusione; la premessa deve sembrare credibile all’uditorio.
In genere il pubblico di un discorso retorico non possiede requisiti tecnici e non sarebbe in grado di seguire un lungo ragionamento, quindi non è possibile esplicitare tutti i passaggi.
La retorica non interviene laddove le cose vadano per necessità, come il moto della Terra, la vita e la morte; essa entra in gioco dove ci sono due o più alternative, in questo caso è possibile una deliberazione.
Le premesse per essere credibili partono a volte da una precedente deduzione, sono qualcosa che è già stato dimostrato; è quindi necessario che si accerti che anche per l’uditorio sia già dimostrato o acquisito; è il punto in cui è più facile l’inganno, perché si può non dare o dare in modo sbagliato la dimostrazione del punto di partenza.
Il probabile è tò eikòs, qualcosa che accade nella maggior parte dei casi, e le premesse hanno perlopiù questa caratteristica, riferite ad un insieme grande, generale. Spesso la premessa deve avere dei segni, tà semeìa: alcuni di tipo generale, altri di tipo particolare a seconda dei rapporti tra essi, il segno può riguardare il singolo caso o l’insieme ampio.
Il segno necessario si chiama tekmèrion, quello non necessario non ha nome: il segno necessario si collega a qualcosa di necessità, distinguere i segni necessari da quelli probabili è difficile, i segni necessari per l’umanità sono pochi, bisogna sempre chiarire all’interno di quale insieme si ha necessità (vedi cartelli stradali, collegati sempre alle stesse cose per una convenzione del nostro sistema).
Si può attribuire valore di prova al segno quando si pensa di non poter essere confutati, negli entimemi si può dare valore di prova a qualcosa che non lo è. Invertire l’ordine di premessa generale e particolare non è un sillogismo, per quanto entrambe siano vere.
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