Daniela Notarbartolo
27 Gennaio 2019This is the page
27 Gennaio 2019da “Don Candeloro e C.” (1894)
Novelle di Giovanni Verga
– Sublime!… impareggiabile!… divina!… – acclamarono in coro gli ammiratori della seratante ammessi all’onore d’esprimerle a viva voce i loro entusiasmi.
– Celeste! – le soffiò sulla nuca Barbetti, il cronista teatrale.
La divina, imbacuccata nella pelliccia preziosa che la cameriera le aveva buttato premurosamente sulle spalle appena fra le quinte, ansante, col viso acceso, passò modestamente orgogliosa in mezzo alla folla degli amici che le facevano ala sino all’uscio del camerino, ringraziando col sorriso distratto i suoi ammiratori.
C’erano tutti quelli della piazza. Il principe d’Antona, in giacchetta, come uno che da per tutto si reputa in casa propria, Barbetti e il banchiere Macerata in cravatta bianca come dei principi; i soliti amici di tutte le prime donne che passano pel palcoscenico dell’Apollo. C’erano anche delle facce nuove, che se ne stavano timidamente in seconda fila: un giovanotto pallido e dagli occhi sfavillanti che tartagliava, una signora in voce di poetessa, la quale eclissavasi con affettazione dietro agli altri; e un po’ in disparte il Re di cuori, come lo chiamavano, il patito della signora Celeste, un bel giovane taciturno che assumeva un’aria misteriosa. Barbetti scriveva già le impressioni della serata sul ginocchio, posando lo scarpino inverniciato sulla sponda del canapè, elegantissimo e insolente, quand’era in cravatta bianca, mugolando fra le labbra:
– Ah, Celeste mia! Celeste voluttà!… –
Lontano, al di là della scena buia e di un caos d’attrezzi, continuava ancora l’applauso, col crepitìo di un fuoco d’artifizio. Delle ballerine discinte si affacciavano alle ringhiere dei camerini soprastanti. Il buttafuori, in maniche di camicia, accorreva scalmanato. Le stesse voci plaudenti ripigliarono:
– Sentite! sentite!… Vi vogliono ancora!… Li avete proprio elettrizzati!…-
La diva, nell’orgoglio del trionfo, fece un atto sublime di disdegno, lasciandosi cadere quasi sfinita sul canapè, accanto al ginocchio del cronista, e colla coda dell’occhio seguiva il lapis d’oro di lui, mentre rispondeva col solito sorriso stracco ai complimenti che le piovevano da ogni parte. L’impresario venne in persona a supplicarla di «accondiscendere al desiderio del pubblico», arruffato, gongolante, col sorriso cupido che voleva sembrar benevolo.
– Cara signora Celeste… abbiate pazienza!… un momentino solo!… Buttano sossopra il teatro, se no!… –
La trionfatrice, a cui gli occhi sfavillavano di desiderio, ebbe però il coraggio di ripetere il magnanimo rifiuto, stringendosi nelle spalle, questa volta in barba all’uomo che teneva la cassetta. Ma il giornalista paternamente le tolse la pelliccia di dosso, senza dir nulla, e la spinse verso la ribalta in un certo modo che significava:
– Via, via, figliuola, non facciamo sciocchezze -.
L’applauso, quasi soffocato sino allora, rinforzò a un tratto collo scrosciare impetuoso di una grandinata. Delle acclamazioni ad alta voce irruppero qua e là. E a misura che l’entusiasmo s’eccitava, propagandosi dall’uno all’altro, dei visi accesi, delle mani inguantate, dei petti di camicia candidissimi sembravano staccarsi confusamente dalla folla, e avanzarsi verso l’attrice. Più vicino, dinanzi a lei, dei professori d’orchestra si erano levati in piedi, plaudenti, e sino in fondo alla vasta sala, lungo la fila dei palchi gremiti di spettatori, nel brulichìo immenso della folla variopinta, si sentiva correre, quasi un fremito d’entusiasmo, l’eccitamento delle note d’Aida ancora vibranti nell’aria e dei seni ignudi che si gonfiavano mollemente, tutta la vaga sensualità diffusa per la sala, che rivolgevasi verso l’attrice e l’avviluppava come una carezza del pubblico intero – colle mani che si stendevano verso di lei per applaudirla – colle grida che inneggiavano al suo nome – col luccichìo dei cannocchiali che cercavano il suo sorriso ancora inebbriato, il sogno d’amore ch’era ancora nei suoi occhi, l’insenatura delicata del suo petto e la curva elegante della maglia che balenava tratto tratto fra le pieghe della tunica d’Aida, trasparente e semiaperta, quasi cedendo già all’invito delle braccia tese verso di lei, mentre essa inchinavasi dolcemente, col sorriso tuttora avido, volgendo sguardi lunghi e molli che cercavano l’amore della folla.
– Proprio così! – stava dicendo il giornalista che aveva fretta di andarsene a cena. – Stasera non ce n’è più per noialtri. Siamo in troppi, amici miei! Vi pare?… Dopo aver dato il cuore a duemila persone… e in musica per giunta!… –
E Barbetti stonacchiò sotto il naso del Re di cuori:
– Morir d’amor per te!… per teee!… –
Il principe sorrise lievemente, stendendosi sul divano. Macerata, mentre la diva rientrava nel camerino, ribatté con molto spirito:
– Va bene. Vuol dire che noi rappresentiamo l’entusiasmo pubblico… la deputazione dei dimostranti venuta a prendere l’accolade!… E la vogliamo, per bacco! –
Così dicendo fece mostra di aprirle le braccia confidenzialmente. Ella vi mise soltanto la pelliccia, sedendo accanto al principe, il quale le baciò la mano.
– Un successone!… un vero trionfo! – ripeteva intanto il coro.
Ma essa non dava retta. Sembrava assorta, un po’ stordita dall’applauso, e interrogava solo Barbetti con uno sguardo insistente.
Questi chinò il capo affermando, senza dire una parola.
– Ci penserete voi al telegrafo? – diss’ella un momento dopo.
Barbetti esitò.
– Va bene, ci penserò io… c’è tempo… –
Una dozzina di persone pigiavansi nel camerino. E delle altre teste si ammonticchiavano all’uscio, degli altri visitatori sopraggiungevano: il direttore d’orchestra che veniva a congratularsi «del legittimo successo», un compositore famoso per cercare dei complimenti da per tutto, col pretesto di farne agli altri:
– Ah, signora Celeste, non ci siete che voi!… il vostro metodo!… la vostra voce!… l’arte vostra!… –
Per cinque minuti si parlò anche d’arte e di musica. Il giovanetto tartaglione, strozzato dall’emozione, balbettò qualche frase sconnessa, facendosi rosso, di una fiamma sincera d’entusiasmo che avvivava le sue guance e i suoi occhi giovanili, e faceva sorridere la commediante. La poetessa si fece avanti alla fine, bisbigliando a mezza voce:
– Mia cara… Non ho saputo resistere… Quali sensazioni deliziose!… –
Il principe si era alzato per cederle il posto; ma essa preferiva drappeggiarsi nel suo mantello, per recitare con voce dimessa un madrigale pomposo. Barbetti che si era messo a sedere sul bracciolo del canapè e la guardava insolentemente, si chinò poi all’orecchio della signora Celeste, dicendole:
– Ah, figliuola mia, se m’innamorate anche le donne, adesso!… –
L’attrice riceveva tutti quegli omaggi negligentemente seduta sul canapè, come in trono, sorridendo a mala pena di tanto in tanto, in aria distratta, quasi tendesse ancora l’orecchio al rumore degli applausi, quasi cercando ancora il suo pubblico delirante coll’occhio assorto che fissavasi incerto su chi parlava. E tornava a sorridere incontrando gli occhi sfavillanti del giovinetto ingenuo che la divoravano. Fragranze rare e delicate emanavano dai fiori ammucchiati da per tutto, sulla poltrona, sulle seggiole, sul tavol’inetto che reggeva lo specchio, fra le quinte: dei mazzi enormi, dei monogrammi inquadrati su dei cavalletti, delle giardiniere che impedivano il passo e che nessuno guardava; un profumo delizioso di vari odori che andava alla testa e inebbriava al pari della musica, al pari dell’amore d’Aida, al pari delle parole sonanti accompagnate dal ritmo armonioso, al pari degli applausi della platea, dei tanti visi accesi per lei, dei tanti cuori che essa aveva fatto palpitare, di tante fantasie e tanti vaghi desideri che essa aveva destato e che erano venuti a deporsi ai suoi piedi, coll’adulazione ingenua e ardente del collegiale che aveva osato mandarle la sua dichiarazione d’amore per la posta, col francobollo da cinque centesimi: – «Stanotte vi ho sognata… Mi pareva di essere sotto un bell’albero, in un ameno giardino… e un usignuolo cantava colla vostra voce…» – oppure colla lusinga che era nell’articolo del giornale e nei versi dedicati a lei: «Celeste scende degli umani al core…» – «Per descrivere le impressioni veramente celestiali destate dal canto della grande artista signora Celeste…» – Le parole e le frasi che l’avevano inneggiata in tanti modi si ripetevano in quel momento vagamente dentro di lei, quasi un’altra armonia interiore, tutte quante, le più insulse come le più artificiose; le facevano gonfiare il cuore egualmente del ricordo di tutti i suoi ammiratori – dall’adolescente imberbe che rizzavasi in piedi affascinato, dietro le spalle della mamma, nel palchetto di proscenio, al giornalista che smetteva il sorriso canzonatorio quando le parlava – al diplomatico che disertava il Circolo per lei, e le offriva le ultime fiamme avanzate dalle emozioni del giuoco e della gran vita – all’operaio che le gridava brutalmente il suo entusiasmo dalla piccionaia. – Tutti, tutti. – Fin l’impresario che si mostrava amabile – fino il telegramma che andava a cercarla in capo al mondo – fino il cronista di provincia che assediava il portiere del suo albergo – dovunque, in ogni piazza, fin nelle stagioni di riposo, ai bagni, ai quattro punti cardinali, sempre, lo stesso culto l’era stato tributato in tutte le lingue, lo stesso sentimento essa aveva letto in viso ad ammiratori di tutte le razze, il sentimento che le indicava il valore della sua persona e ispiravale l’amore di tutto ciò che riferivasi a lei, il teatro, l’arte, Aida, Valentina, Margherita, tutte le creazioni che incarnavansi in lei. E sentiva a momenti in quel trionfo di sé, in quell’orgoglio sconfinato del suo io, una tenerezza, una gratitudine, una simpatia, un’indulgenza per tutti gli omaggi che erano venuti a lei, comunque fossero, da qualunque parte venissero, e che si personificavano in tanti ricordi, in tante date, dei momenti deliziosi, delle parole che le avevano fatto palpitare il cuore un momento, di qua e di là… Chi poteva rammentarsi? Delle fisonomie e dei lembi di paesaggio le tornavano dinanzi agli occhi, di tanto in tanto: dei visi che dovevano turbarsi anch’essi, quando leggevano il suo nome nelle gazzette sparse ai quattro venti della terra, o il suo ritratto, sparso anch’esso ai quattro venti della terra, tornava a cadere loro sott’occhio. L’avevano tutti, il suo ritratto, nel giornale illustrato, nella vetrina dell’editore, sulle cantonate della via; i fotografi lo tiravano a centinaia di dozzine, ed essa se lo lasciava dietro, in ogni città, a dozzine intere, per tutti quanti, come dava a tutti quanti bellezza. Perché accordare delle preferenze quando aveva bisogno dell’ammirazione di tutti? Perché imporsi certi riserbi, vincolare il suo cuore o il suo capriccio, se doveva mutare amici e paese a ogni mutar di stagione, se nessuno le sarebbe stato grato della costanza, se la sua dignità stessa di donna doveva essere diversa da quella delle altre? E una malinconica dolcezza le veniva da tanti ricordi confusi, nello stordimento e nella vaga lassezza di quell’ora. E sorrideva più volentieri al giovinetto bleso di cui l’adorazione ingenua ridava una specie di verginità a quelle memorie. E il bel Re di cuori, collo sguardo supplichevole, implorava invano da lei quella sera l’occhiata complice che avrebbe dovuto assentire e promettere… Egli aspettava sempre, paziente e rassegnato, aiutando a porre in ordine lo stanzino, scegliendo i fiori da mettere da parte, cedendo il posto ai nuovi visitatori, dando sottovoce degli ordini alla cameriera, la quale affrettavasi a riporre i regali che brillavano sulla tavoletta, segnati da biglietti da visita. Macerata, che covava cogli occhi da un pezzo il suo, non seppe tenersi dal protestare:
– Come?… Senza farceli neppure ammirare?… Senza «farci vedere il cuore degli amici?…» –
Gli astucci allora passarono di mano in mano, ammirati, lodati, sotto gli occhi sospettosi della cameriera, la quale si teneva ritta presso la cortina che nascondeva il fondo del camerino. Si ripeté un altro coro di esclamazioni:
– Bello! – Elegantissimo! – Stupendo! – Il banchiere insisteva sull’intenzione che esprimeva il suo dono, uno spillo a ferro di cavallo di brillanti. – Per dare un bel calcio alla jettatura! – Nella confusione poi alcuni dei biglietti che accompagnavano al dono il nome del donatore andarono smarriti, prima che la diva si fosse degnata di accorgersene. Un magnifico vezzo di perle non si sapeva più da chi fosse stato offerto.
– Eh, giacché siete tanto indiscreti… Sono stato io, là! – disse infine Barbetti.
Tutti quanti scoppiarono a ridere, compresa la signora Celeste, quasi Barbetti avesse spacciato la panzana più matta. Il principe assentì anche col capo. In quella fece capolino all’uscio un inserviente del palcoscenico, sorridendo alla seratante come uno che aspetti la mancia anche lui, porgendole a mano un biglietto da visita.
– C’è questo signore… Dice che la conosce tanto… –
L’attrice studiava il biglietto, cercando di rammentarsi quel nome, quando entrò il signore che essa conosceva tanto, un bel giovane forestiero, riccioluto e azzimato all’ultima moda, il quale però rimase un po’ male, trovandosi a un tratto in sì bella compagnia, al cospetto della diva in soglio che lo guardava d’alto in basso, per raccapezzarsi, e di tutta la sua corte.
– Scusatemi, Celeste… – balbettò lui. – Ho letto sui giornali… Presi subito il treno… Non potevo immaginare una cosa simile… –
E com’ella seguitava a guardarlo in quel modo imbarazzante, senza rispondere, in mezzo al silenzio ostile di tutto l’uditorio, il povero giovane perse del tutto la tramontana, cercando d’aiutarsi alla meglio.
– Ettore… Ettore Baroncini di Sinigaglia… Vi rammentate… per la fiera?
– Ah!… – fece lei. – Oh! –
Ettore Baroncini, incoraggiato dai due monosillabi insidiosi, si lasciò sfuggire:
– N’è passato del tempo, eh! –
Non aggiunse altro, mortificato del sorriso glaciale di lei, che riprese immediatamente a discorrere col principe, volgendo le spalle all’amico Baroncini e alla fiera di Sinigaglia, con un certo sorriso fine per giunta, che aveva tutta l’aria d’essere dedicato a lui, e che gli tolse il coraggio finanche d’andarsene insalutato ospite, e lo inchiodò al posto in cui era.
– Allora – riprese Barbetti, quasi continuando un discorso incominciato. – Allora direi che il donatore incognito è già bell’e trovato… E vuol dire che non sarò stato io, pazienza! –
D’Antona, mentre gli altri si accingevano a ridere di nuovo, disse galantemente alla bella signora:
– Chiunque sia stato l’ammiratore incognito… Ne avrete tanti!… Volete permettermi di rappresentarlo? –
Ella che aveva già indovinato sorridendo gli stese la mano, che il principe si mise a baciare ghiottamente, fra il serio e il faceto, sulla palma, sul polso, salendo su pel braccio che sembrava inzuccherato dalla polvere di cipria, mentre la Celeste rideva quasi le facesse il solletico, fingendo di voler svincolarsi, esclamando:
– No! no! basta! Così ve la pigliate per venti ammiratori! –
Macerata reclamava intanto la sua parte, e degli altri pure, cortesemente. Solo la poetessa accomiatavasi a labbra strette, e il giornalista agitava il gibus quasi per scacciare delle mosche, ripetendo:
– Via, via, signori miei… dinanzi alla gente… dei forestieri anche!… –
Il signore forestiero, ancora rosso dall’emozione, aveva fatto la bocca al riso anche lui, per non restar da grullo, tormentandosi i baffi, girando intorno, suo malgrado, uno sguardo inquieto, sulla comitiva di cui la sola faccia simpatica gli sembrò allora quella del bel giovane taciturno, il quale lisciavasi i baffi anche lui, sorridendo a fiori di labbro anche lui. Di fuori intanto il macchinista strepitava per far sgombrare il palcoscenico:
– La vita!… Signori!… Abbiano pazienza! – Gli ammiratori della cantante, che erano rimasti sull’uscio, ondeggiavano di qua e di là. Degli altri mazzi di fiori furono cacciati nel camerino alla rinfusa. Il cavalletto e la giardiniera furono spazzati via. Si udì un correr frettoloso, uno sbatter di usci, delle voci di comando, e uno schiamazzar di voci femminili.
– Il ballo! In scena pel ballo! –
Lo stesso impresario, che era tutto miele un quarto d’ora prima, mandava ora al diavolo gli importuni.
– Signori miei… un po’ di pazienza… Il pubblico s’impazienta!
– Se si andasse a cena? – propose Macerata.
La signora Celeste fece una smorfia che diceva di no. Ma il banchiere torno ad insistere e a farle dolce violenza, chino verso di lei, prendendole la mano, parlandole sul collo in un certo modo che faceva arricciare il naso al Re di cuori e all’amico di Sinigaglia. Barbetti però approvava il rifiuto.
– Andiamoci pure a cena, ma senza di lei. Lei ha bisogno di riposare, poverina. Lasciateli dire, mia cara. Questa gente non sa cosa significhi una serata simile… – Il bel Re di cuori infine perse la pazienza, borbottando che non era quella la maniera… Ettore Baroncini in cuor suo fece lega con lui.
– Ma no! ma no! – diss’ella. – Andate via, piuttosto! Non posso mica spogliarmi dinanzi a tutti quanti.
– Oh! – Perché mai?… – Magari!… – C’est juste mais sév’ère! – conchiuse il banchiere.
– Bello! bellissimo… le mot de la fin!… – esclamò Barbetti, e intanto spingeva fuori la gente, come uno di casa. Il Re di cuori era rimasto cercando il cappello, aspettando dalla diva la parola o l’occhiata che essa gli aveva promesso per quella sera.
– Caro Sereni, – gli disse Barbetti. – non facciamo dei gelosi…
– Barbetti, ehi! il telegrafo l’avete dimenticato? – esclamò la signora Celeste passando la testa nell’apertura della tenda.
– Eh, no… pur troppo…
– A Milano! E rammentatemi anche a Napoli, dove farò la quaresima… Non lo dimenticate… Vi accompagnerà Sereni perché non lo dimentichiate, al vostro solito… Aspettate, Sereni, vi do un rigo per memoria -.
E lì, scrivendo sul ginocchio anche lei come Barbetti, colla tunica di Aida semiaperta che scopriva il fine contorno della gamba coperta dalla maglia carnicina, buttò due parole su di un pezzetto di carta strappato da un mazzo di fiori, e sporse dalla tenda il braccio nudo per dare il bigliettino a Sereni, il quale lo prese avidamente, mentre dietro la cortina, con un fruscìo frettoloso di vestiti, si udiva ancora la bella voce allegra di lei ripetere:
– Andatevene! Andate via tutti quanti! –
I suoi fedeli però l’aspettavano ostinatamente dietro l’uscio del camerino, Macerata che voleva aver l’onore di darle il braccio sino alla carrozza, il principe d’Antona discorrendo con una figurante che non gli nascondeva nulla, Ettore Baroncini il quale non sapeva risolversi ad andarsene dopo aver preso apposta il treno, temendo di passare per uno zotico, Sereni che fiutava un rivale e Barbetti che odorava la cena. Finalmente la bella ricomparve col berrettino di lontra sugli occhi, imbacuccata sino al naso, seguìta dalla cameriera contegnosa che portava la borsetta delle gioie, sgridando Barbetti e tutti gli altri, che si precipitavano ad accompagnarla, Macerata impadronendosi del braccio di lei che gli era costato uno spillo di brillanti, il principe staccandosi garbatamente dalla figurante, la quale schermivasi allora coprendo il petto colle mani, Barbetti canticchiando:
– Andiam! partiam! a cena andiam!… Non dico a voi, cara Celeste. Voi anderete a dormire tranquillamente… Sentirete che brindisi, dal vostro letto!…
– Ah! meraviglia delle meraviglie! Angeli e ministri di grazia, soccorretemi voi! –
Quest’ultimo complimento era diretto all’altra diva del ballo «La stella» che attraversava in quel punto il dietro scena, seminuda, colle spalle e il seno appena coperti da una ricca mantellina, tutta vaporosa nella cipria e nei veli diafani, col viso mordente delle labbra e degli occhi tinti che salutava gli amici e gli ammiratori della cantante, suoi ammiratori anch’essi e suoi amici, quasi librandosi sulla punta delle scarpette di raso all’incitamento della musica che la chiamava, per correre all’applauso che aspettava impaziente lei pure. Il tenore, con cui la diva del canto aveva delirato d’amore in musica, e per cui era morta sul palcoscenico mezz’ora prima, le passò vicino adesso senza salutarla, rialzando il bavero della pelliccia, col fazzoletto sulla bocca. Ed essa non lo guardò neppure, scambiando invece un’occhiata ostile coll’altra diva della danza.
– No, no, non vi lascio andar sola… Ho paura che vi rubino, i vostri ammiratori… – diceva il principe che ostinavasi a voler montare in carrozza con lei, dopo aver messo da banda tranquillamente Macerata. Ed essa rispondeva con la risatina squillante: – Sciocco!… via! andate via!… Barbetti?…
– Sì, sì, il telegrafo, non l’ho dimenticato. Signori belli, cosa si fa adesso? Si va a cena, a finir la serata della diva? Ehi, dico, Sereni, è quanto possiamo far di meglio. Non ti cavare gli occhi sotto quel lampione, che lo scritto so io cosa dice -.
Ma il principe si scusò dicendo di avere un appuntamento al Circolo, e Macerata non si sentiva di pagare anche i brindisi che gli altri avrebbero fatti alla diva. Rimasero Baroncini, il quale non voleva passare per straccione o per avaro, ricusando di pagar da cena, e Sereni che aveva letto: «Impossibile per questa sera, mio caro… Abbiate pazienza… Sono affranta… Sognerò di voi…». Per altro, tutti e due avevano bisogno di pensare alla diva, vicino a degli altri che avrebbero pure pensato a lei o parlato di lei.
Nei fumi del vino, più tardi, poiché Baroncini aveva fatto le cose per bene, Barbetti, commosso anche lui, sentenziava:
– Cari amici miei… Il telegrafo non sapete cosa significhi… L’impresario… l’agente teatrale… Dei colpi di gran cassa per far quattrini… Siamo giusti… il mondo gira su di un pezzo da cinque lire… Ciascuno secondo il suo mestiere… L’arte, il giornalismo… tutte belle cose… Segui bene il mio ragionamento, Sereni… Io sono un artista… Bene… io appartengo al pubblico… il pubblico è il mio amante… Tu sei innamorato di me, artista… bene… Se Venere, in camicia, venisse a dirmi in certi momenti… Barbetti, dammi una notte d’amore… No, no, e poi no! –