8 marzo
27 Gennaio 2019Sofia Giacomelli
27 Gennaio 2019di Giovanni Ghiselli
Nelle Storie di Erodoto la teoria antitirannica è attribuita al nobile persiano Otane il quale, durante il dibattito costituzionale, contrappone alla monarchia il popolo che comanda (plh`qo~ de; a[rcon) che prima di tutto ha il nome più bello: ” ijsonomivhn”, poi non fa nulla di quanto perpetra l’autocrate: infatti esercita i poteri in seguito a sorteggio (pavlw/), e ha un potere soggetto a controllo:” uJpeuvqunon de; ajrch;n e[cei” (III, 80, 6).
Il monarca può fare quello che vuole senza subire controlli (III, 80, 6).
Erodoto attraverso Otane formula già la teoria, poi riproposta da Polibio, secondo la quale il regno degenera inevitabilmente in tirannide.
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ajnakuvklwsi~ di Polibio. Il ciclo delle costituzioni
Monarchia/Regno-Tirannide-Aristocrazia-Oligarchia-Democrazia-Oclocrazia.
Tra i sette nobili Persiani, quando ebbero parlato anche Megabizo, che propugnava l’oligarchia, quindi Dario, il quale sosteneva la monarchia e l’inevitabilità della degenerazione sia della democrazia sia dell’aristocrazia (III, 82) verso le rispettive forme deteriori, prevalse quest’ultimo con l’argomento che a loro la libertà era venuta da un monarca. Cfr.la logica aperta al contrasto di questo trisso;~ lovgo~.
Allora Otane non entrò in lizza per diventare re, dicendo parole belle assai, una specie di manifesto dell’antisadismo:”ou[te ga;r a[rcein ou[te a[rcesqai ejqevlw” (III, 83, 2), infatti non voglio comandare né essere comandato.
NellIppolito di Euripide, il protagonista nega che il turannei`n sia cosa piacevole: toi`~ swvfrosin-h{kistav g j, eij dh; ta;~ frevna~ dievfqoren-qnhtw`n o{soisin aJndavnei monarciva” (vv. 1014-1015), per i saggi non lo è, se è vero che il potere dellautocrate ha sconvolto le menti dei mortali cui piace.
Credo di avere riconosciuto uneco di questa splendida affermazione nel film di Chaplin The great dictator (1940): il barbiere, sosia di Hynkel-Hitler, scambiato per il grande dittatore deve fare un discorso che legittimi ed esalti la prepotenza del tiranno, presentato alla folla come il futuro imperatore del mondo dal ministro della propaganda Garlitsch-Goebbels. Ebbene il barbiere non rispetta la parte che gli hanno assegnato e dice: Im sorry, but I dont want to be an emperor. Thats not my business. I dont want tu rule or conquer anyone“, mi dispiace, ma io non voglio essere imperatore, non è il mio mestiere, io non voglio governare o conquistare nessuno.
E continua: I should like to help everyonegreed has poisoned menss souls“, mi piacerebbe aiutare tuttil’avidità ha avvelenato le anime umane.
Tiranno per il greco Erodoto dunque è anche il mouvnarco” raffigurato da Otane, nel dibattito sulla migliore costituzione (III 79-84), come colui che invidia i migliori, si compiace dei peggiori, ed è pronto ad accogliere le calunnie. Infatti dai beni che possiede gli deriva l’u{bri” , mentre fin dall’origine gli è innato lo fqovno” . Siccome ha questi due vizi, e[cei pa’san kakovthta, detiene ogni malvagità (III, 80, 4). Dunque egli: “novmaiav te kinevei pavtria kai; bia’tai gunai’ka” kteivnei te ajkrivtou”” (III, 80, 5) sovverte le patrie usanze, violenta le donne e manda a morte senza giudizio. “Così il persiano Otane riassume ciò che è in sostanza il motivo comune fra i Greci per l’opposizione alla tirannide”[1].
Fa parte della malvagità del tiranno, e dellidiozia di ogni uomo il fatto di non ascoltare.
Il tiranno dunque non ascolta.
Nella Medea di Seneca, la protagonista obiettare a Creonte il quale vuole cacciarla che l’iniquità è una base instabile per un regno:”iniqua numquam regna perpetuo manent“ (v. 196), i regni iniqui non durano mai a lungo.
Fa parte dell’iniquità non ascoltare la parte avversa:”qui statuit aliquid parte inaudita altera,/aequum licet statuerit, haud aequus fuit” (vv. 199-200), chi ha emesso una sentenza senza avere ascoltato l’altra parte, anche se ha decretato il giusto, non è stato giusto.
Il tiranno incarna il sadismo: per tenere in pugno il prossimo bisogna infliggergli sofferenza.
Una situazione di anti-utopia simile, per certi versi, a questa di Esiodo, si trova immaginata nel romanzo 1984 di Orwell. O Brien, un membro del partito interno, insegna al ribelle Winston, con la tortura e con le parole, quali siano i metodi del potere: ‘The real power, the power we have to fight for night and day, is not power over things, but over men . He paused, and for a moment assumed again his air of schoolmaster questioning a promising pupil: ‘How does one man assert his power over another, Winston?
Winston thought. ‘By making him suffer, he said.
‘Exactly. By making him suffer. Obedience is not enough. Unless he is suffering, how can you be sure that he is obeying your will and not his own? Power is inflicting pain and humilation. Power is tearing human minds to pieces and putting them together again in new shapes of your own choosing.
Do you begin to see, then, what kind of world we are creating? It is the exact opposite of the stupid hedonistic Utopias that the old reformers imagined. A world of fear and treachery and torment, a world of trampling and being trampled upon, a world which will grow not less but more merciless as it refines itself. Progress, in our world will be progress towards more pain. The old civilisation claimed that they wew founded on love or justice.Our is founded upon hatred. In our world there will be no emotions except fear, rage, triumph and selfabasament. Everything else we shall destroy-everythingWe have cut the links between child and parent, and between man and man, and between man and women. No one dares trust a wife or a child or a friend any longer. But in future there will be no wives and no friends. Children will be taken from their mothers at birth, as one takes eggs from a hen. The sex insinct will be eradicated.There will be no loyalty, except the loyalty towards the Party. There will be no love, except the love of Big Brother. There will be no laughter, except the laugh of triumph over a defeatef enemy. There will be no art, no literature, no scienceIf you want a picture of the future, imagine a boot stamping on a human face-for ever“[2], il potere reale, il potere per il quale dobbiamo combattere notte e giorno, non è potere sulle cose, ma sugli uomini. Egli si fermò e per un momento prese di nuovo quella sua aria di maestro di scuola che fa domande a un allievo promettente: Come fa un uomo ad affermare il suo potere sopra un altro, Winston?”
Winston ci pensò un po su. Facendolo soffrire” disse infine.
Esattamente. Facendolo soffrire. Lobbedienza non basta.Se non soffre, come puoi essere sicuro che egli obbedisca alla tua volontà e non alla sua? Il potere consiste appunto nellinfliggere la sofferenza e la mortificazione. Il potere consiste nel fare a pezzi i cervelli degli uomini e nel ricomporli in nuove forme di tua scelta. Cominci a vedere, dunque , che razza di mondo stiamo creando? E l’esatto opposto delle stupide Utopie edonistiche immaginate dai vecchi riformtori. Un mondo di paure e tradimento e tortura, un mondo di chi calpesta e chi viene calpestato, un mondo che diventerà non meno ma più spietato a mano a mano che si perfeziona. Il progresso nel nostro mondo sarà soltanto avanzamento verso una maggiore sofferenza. Le antiche civiltà asserivano di essere fondate sull’amore e sulla giustizia. La nostra è fondata sull’odio. Nel nostro mondo non ci saranno sentimenti tranne l’odio, il furore, il trionfo e lautomortificazione. Tutto il resto verrà distrutto-tutto.Noi abbiamo reciso I legami tra figli e genitori, e tra uomo e uomo, e tra uomo e donna. Nessuno osa fidarsi della moglie o del figlio o dell’amico. Ma in futuro non ci saranno mogli né amici. I bambini verranno presi dalle loro madri appena nati, come si prendono le uova alle galline. Listinto sessuale verrà sradicato Non ci sarà più lealtà, eccetto la lealtà verso il Partito. Non ci sarà amore, eccetto l’amore per il Grande Fratello. Non ci sarà il riso, eccetto la risata di trionfo sopra il nemico sconfitto. Non ci sarà arte, né letteratura, né scienzaSe tu vuoi un quadro del futuro, figurati uno stivale che calpesta un volto umano-per sempre.
Ma Winston solleva unobiezione, sacrosanta, ed è che una civiltà fondata sulla paura, l’odio e la crudeltà non può durare: It would have no vitality“, non avrebbe vitalità e si suiciderebbe. Quindi alla fine i tiranni e gli aguzzini verranno sconfitti: Somehow you will fail. Something will defeat you. Life will defeat you“[3], in qualche modo voi cadrete. Qualcosa vi sconfiggerà. La vita vi sconfiggerà. La vita e lo spirito dell’uomo (The spirit of Man) scofiggeranno i tiranni.
Nelle tragedie, il tiranno è il paradigma mitico di questo principio.
La mancanza di controllo ne fa l’antitesi del capo democratico.
Tale è Edipo finché non comprende, a Colono, tale il Creonte di Sofocle e di Euripide, tale Serse nei Persiani di Eschilo, il grande re il quale, pur se sconfitto, non è “uJpeuvquno” povlei” (v. 213), tenuto a rendere conto alla città, come invece lo è uno stratego eletto dal popolo.
Eschilo contrappone al potere assoluto il sistema democratico di Atene quando, nei Persiani, la regina Atossa domanda ai vecchi dignitari della corte di Susa chi sia il pastore e il padrone dell’esercito. Allora il corifeo risponde:”ou[tino” dou’loi kevklhntai fwto;” oujd j uJphvkooi” (v. 242), di nessun uomo sono chiamati servi né sudditi.
Nelle Supplici di Eschilo è addirittura un re[4] che nega di gestire un potere assoluto: Pelasgo, sovrano di Argo, si rifiuta di fare qualsiasi promessa prima di essersi consultato con tutti i cittadini (vv. 368-369).
Un padrone assoluto è Zeus nel Prometeo incatenato :”tracu;” movnarco” oujd j uJpeuvquno” kratei'” (v. 324), un sovrano rigido, né impera obbligato a rendere conto. Ma Zeus è un dio. Per giunta è costretto alla durezza dal fatto che il suo regno è nuovo:”a{pa” de; tracu;” o{sti” a}n nevon krath’/” (v. 35), chiunque comandi da poco tempo è duro.
E’ uno dei tanti arcana imperii. Lo rivela anche Didone la quale anzi se ne scusa con i Troiani:”Res dura et regni novitas me talia cogunt/ moliri” (Eneide, I, 563-564), la dura condizione e la novità del regno mi costringono a tali precauzioni. Una condizione svelata “alle genti”[5] pure da Machiavelli:”Et infra tutti e’ principi, al principe nuovo è impossibile fuggire el nome di crudele, per essere li stati nuovi pieni di pericoli” (Il Principe, XVII).
Nelle Supplici[6] di Euripide Teseo è il Pericle in vesti eroiche il quale elogia la costituzione democratica dialogando con l’araldo mandato da Creonte re, anzi tiranno di Tebe. Atene dunque non è comandata da un uomo solo, ma è una città libera (ejleuqevra povli” , v. 405)[7].
Risposta della visione autocratica.
L’araldo di Creonte ribatte che il governo di un solo uomo non è male: infatti il re esclude il demagogo che, gonfiando la folla con le parole, la volge di qua e di là a proprio profitto (pro;~ kevrdo~ i[dion).
Chi non è capace di tenere ordinate e dritte le parole (mh; diorqeuvwn lovgou~) , come potrebbe tenere dritta, reggere la città (eujquvnein povlin)? Supplici, 417-418.
Il povero che lavora la terra (gapovno~ d ajnh;r pevnh~, 420) non ha tempo né per imparare né per dedicarsi alle faccende pubbliche:” oJ ga;r crovno” mavqhsin ajnti; tou’ tavcou” -kreivssw divdwsi (vv. 419-420), è infatti il tempo[8] che dà un sapere più forte invece della fretta.
Il tiranno ha spesso di mira il kevrdo~ e attribuisce al prossimo tale fissazione”. Kevrdo” è una delle parole che ricorrono nei discorsi dei tiranni delle tragedie: il profitto è una vera ossessione del despota.
NellAntigone, per esempio Creonte replica al coro usando termini economici, quelli che la nobiltà, non solo greca, considera i più vicini agli interessi e alla mentalità tanto della plebe quanto dei tiranni che la capeggiano:”e infatti la paga (misqov”) è questa. Ma per speranze/il lucro (kevrdo”) spesso manda gli uomini in rovina”. (v. 221-222).
Più avanti l’autocrate cercherà di rinfacciare l’avidità a Tiresia ( Antigone, v. 1055) il quale subito dopo ritorcerà contro di lui l’accusa di amare i turpi guadagni (v. 1056).
Leopardi in Il pensiero dominante condanna l’ossessione dell’utile da parte della sua età “superba,/ che di vote speranze si nutrica,/vaga di ciance, e di virtù nemica;/stolta, che l’util chiede,/e inutile la vita/quindi più sempre divenir non vede“(vv. 59-64).
Ancora più duramente si esprime nei confronti del lucro il poeta di Recanati nella Palinodia al Marchese Gino Capponi :” anzi coverte/fien di stragi l’Europa e l’altra riva/dell’atlantico mar…sempre che spinga/contrarie in campo le fraterne schiere/di pepe o di cannella o d’altro aroma/fatale cagione, o di melate canne,/o cagion qual si sia ch’ad auro torni”(vv. 61-67).
Efficace è la sintesi pindarica : “ajkevrdeia levlogcen qamina; kakagovrou~ ” (Olimpica I , v. 53), una perdita tocca spesso ai maldicenti. Sono quelli che dicono male degli dèi e, quindi, della vita, reificandola, riducendola a cosa.
“Le leggi del profitto, infatti, regolano dall’esterno la maggior parte delle “cose umane” senza umanità, equità, giustizia, affermando la competizione al posto della cooperazione”[9].
Questa era la situazione all’inizio del breve regno di Galba[10] secondo Tacito:”Venalia cuncta, praepotentes liberti, servorum manus subitis avidae ” (Historiae, I, 7), tutto era in vendita, assai potenti i liberti, caterve di schiavi avide per i repentini cambiamenti. Non poteva durare a lungo l’imperatore, non solo perché vecchio ma anche perché aveva dichiarato:”legi a se militem, non emi ” (I, 5) che lui i soldati li arruolava non li comprava.
Insaziabilità dei tiranni.
Policrate di Samo, Periandro di Corinto, Dario e Ciro di Persia.
Esemplare in questo senso è la vicenda di Policrate di Samo il quale finì ucciso dal satrapo di Sardi, Orete, che lo aveva attirato, promettendogli doni aurei, in un tranello dove questo tiranno cadde poiché era davvero avido di denari (“iJmeivreto ga;r crhmavtwn megavlw””, Erodoto III, 123). Gli amici e gli indovini avevano cercato invano di dissuaderlo dal partire, e pure la figlia che aveva avuto una visione notturna nella quale le sembrava che il padre fosse lavato da Zeus e unto da Elio. Ebbene Policrate non diede retta e morì male ( “oJ Polukravth” diefqavrh kakw'””, III, 125) compiendo la visione della figlia: infatti Orete lo fece impalare a Magnesia e il cadavere era lavato da Zeus quando pioveva, quindi veniva unto dal sole che traeva umori dal suo corpo (III, 125).
L’avidità dunque contraddistingue il tiranno.
Erodoto racconta pure che Periandro divenuto tiranno privò molti Corinzi dei beni e molti della vita ( 5, 92, e 2).
Il tiranno è insaziabile sia della roba sia del sangue.
Nel primo libro delle Storie è il re persiano Dario che viene disonorato come avido di denaro quando apre la tomba della regina babilonese Nivtwkri~[11] credendo di trovarci dell’oro; invece dentro c’era il cadavere e la scritta: se tu non fossi insaziabile ( a[plhsto”) e amante dei turpi guadagni ( aijscrokerdhv”) non avresti aperto le tombe dei morti (I, 187, 5).
Esemplare dell’avidità senza fondo è anche la morte di Ciro il Vecchio, il re persiano insaziabile di sangue (a[plhsto” ai{mato” , cfr. 1, 213), che la regina Tomiri minacciò di saziare, quindi effettuò la minaccia oltraggiandone il cadavere del quale introducesse la testa in un otre pieno di sangue umano e gridando:”se; d j ejgwv, katav per hjpeivlhsa, ai[mato” korevsw” (1, 214), io, come ti minacciai, ti sazierò di sangue.
Il biasimo dell’avidità dei despoti non manca nella storiografia laica: Tucidide afferma che “da nessuno dei tiranni fu compiuta un’ opera degna di essere narrata ( e[rgon ajxiovlogon,) poiché badavano esclusivamente al proprio interesse (to; ejf j eJautw’n movnon proorwvmenoi) I, 17.
Torniamo alle Supplici di Euripide, dove Teseo non controbatte la critica ai demagoghi, che condivide, ma risponde che il tiranno è l’entità più ostile alla polis:” oujde;n turavnnou dusmenevsteron povlei” (v. 429).
Egli infatti uccide i migliori, quelli dei quali considera la capacità di pensare, in quanto teme per il suo potere:”kai; tou;” ajrivstou” ou{” a]n hJgh’tai fronei’n-kteivnei, dedoikw;” th'” turannivdo” pevri” (vv. 444-445).
Il tiranno è circondato dalla paura.
Sicché la città si indebolisce: come potrebbe essere forte quando uno falcia i giovani, come da un campo di primavera (wJ~ leimw`no~ hjrinou`) con tagli si porta via la spiga? (vv. 447-449).
Cfr. Trasibulo di Mileto e Tarquinio il Superbo. Li vedremo più avanti
Inoltre il despota si impossessa dei beni altrui rendendo vane le fatiche di chi voleva acquistare ricchezze per i propri figli. Per non parlare delle figlie che l’autocrate vuole rendere strumenti del suo piacere.
l’Elettra di Euripide recitando il biasimo funebre di Egisto allude, con pudica e verginale aposiopesi, alle porcherie che l’usurpatore faceva con le donne:”ta; d j eij” gunai’ka”, parqevnw/ ga;r ouj kalo;n-levgein, siwpw’ ” (Elettra, vv. 945-946).
Si vede che sono gli stessi motivi della storiografia. Del resto non sono molto diversi i tiranni bolliti sonoramente, con “alte strida”, nel Flegetonte dell’Inferno di Dante:”Io vidi gente sotto infino al ciglio;/e ‘l gran Centauro disse:” E’ son tiranni/che dier nel sangue e nell’aver di piglio” (XII, 103-105).
Un altro personaggio tragico che afferma l’insindacabilità del potere assoluto è Lady Macbeth nella scena del sonnambulismo:”What need we fear who knows it, when none can call our power to account it?” (Macbeth V, 1), perché dovremmo temere chi lo sappia, quando nessuno può chiamare la nostra potenza a renderne conto?
Adesso questo potere sta dentro tutte le case :”La televisione è diventato un potere incontrollato e qualsiasi potere non controllato è in contraddizione con i princìpi della democrazia”[12].
La televisione, come il tiranno, esige il livellamento delle teste. L’uomo che sa pensare si pone il problema di come resistere a questa volontà di omologazione tentando di salvare la propria unicità.
Il tiranno e il potere. Erodoto, Sofocle, Livio, Tacito, Shakespeare, Pasolini.
La prima caratteristica del despota, lo abbiamo visto, è l’insofferenza dell’opposizione.
La mania della distruzione delle intelligenze fa parte dalla mente autocratica: sappiamo da Erodoto che la scuola dei tiranni insegna a uccidere gli oppositori in generale, e prima di tutti chiunque dia segni di intelligenza e indipendenza.
Periandro di Corinto, nipote della zoppa Labda, quando era ancora tiranno apprendista e la sua malvagità non si era scatenata, accolse il suggerimento di Trasibulo di Mileto il quale:”oiJ uJpetivqeto..tou;” uJperovcou” tw’n ajstw’n foneuvein”, gli consigliava di mettere a morte i cittadini che si distinguevano ( Storie , V, 92 h) . Il despota esperto aveva dato il consiglio criminale in maniera simbolica: mostrandosi a un araldo, mandato da Corinto a domandargli come si potesse governare la città nella maniera più sicura e bella, mentre recideva le spighe più alte di un campo di grano.
Periandro comprese e allora rivelò tutta la sua malvagità (” ejnqau’ta dh; pa’san kakovthta ejxevfaine”).
Abbiamo visto che già Otane nel dibattito costituzionale del terzo libro aveva usato l’espressione pa’san kakovthta che, secondo il nobile persiano , è conseguenza dell’ u{bri”, la prepotenza, a sua volta originata dall’invidia e dai beni a disposizione del monarca ( “uJpo; tw’n parevontwn ajgaqw’n”, III, 80, 3).
Dante individua la presenza del vizio dell’invidia soprattutto nei luoghi del potere:””La meretrice che mai dall’ospizio/di Cesare non torse li occhi putti,/ morte comune, delle corti vizio”[13].
Nella commedia pastorale As you like it (1599) di Shakespeare, Il duca esiliato dal fratello e rifugiatosi nella foresta di Arden con i nobili suoi fedeli dice: Now my co-mates and brothers in exile,-hath not old custom made this life more sweet-than the painted pomp? Are not these woods-more free from peril than the envious court?” (II, 1), ora miei compagni e fratelli d’esilio, non ha l’antico costume reso questa vita più dolce che lo sfarzo dipinto? Non sono questi boschi più liberi dal pericolo dellinvidiosa corte?
La ricchezza e il potere dunque sono occasioni per la malvagità.
E pure per la stupidità: il Coro dell’Eracle di Euripide dopo la punizione del tiranno Lico afferma che l’oro, e il successo, spingono i mortali fuori dalla ragione tirandosi dietro un potere ingiusto:” oJ cruso;” a[ t j eujtuciva-frenw’n brotou;” ejxavgetai-duvnasin a[dikon ejfevlkwn” (vv. 774-776).
Su questa linea si trova anche Platone il quale chiama in causa Omero che ha rappresentato Tantalo[14], Sisifo e Tizio “ejn jAidou to;n ajei; crovnon timwroumevnou””( Repubblica, 525e), puniti nell’Ade per sempre: questi erano appunto re e dinasti; mentre Tersite, e chiunque altro sia stato malvagio da privato cittadino (“ijdiwvth””) non ha avuto occasione di fare tanto male, e per questo si può considerare più fortunato dei potenti dai quali provengono “oiJ sfovdra ponhroiv” ( Repubblica, 526a) quelli malvagi assai.
Il contrappasso
I re non devono sporcarsi le mani di sangue poiché per loro il castigo è particolarmente duro, ammonisce Teseo nell’ Hercules furens raccontando ad Anfitrione quelli che ha visto negli inferi. :”Sanguine umano abst?ne,/quicumque regnas: scelera taxantur modo/maiore vestra” (vv. 745-747), astieniti dal sangue umano chiunque tu sia che regni: i vostri crimini vengono valutati con maggior rigore.
L’idea si trova anche nell’ultimo libro della Repubblica di Platone: Er racconta la storia di Ardieo il quale era divenuto tiranno di una città della Panfilia, già mille anni prima di quel tempo, dopo avere ucciso il vecchio padre e il fratello maggiore, e avere perpetrato molte altre scelleratezze, a quanto si diceva (615c-d). Ebbene costui, con altri inguaribilmente malvagi, per lo più tiranni, non risalivano dalla voragine dalla quale invece sortivano coloro che avevano espiato i peccati: infatti quando questi grandi criminali pensavano di potere oramai venirne fuori, la bocca d’uscita muggiva, e lì, degli uomini selvaggi e infuocati a vedersi (“a[grioi diavpuroi ijdei’n”, 615e), stando vicino e udendo quel mugghio, legavano Ardieo, e gli altri, mani piedi e testa, li gettavano a terra, li scorticavano, li trascinavano lungo la strada, poi li laceravano su arbusti spinosi e li portavano via per precipitarli nel Tartaro.
Questa immagine trova una corrispondenza nello stesso racconto di Teseo menzionato sopra:” quod quisque fecit, patitur: auctorem scelus/repetit, suoque premitur exemplo nocens./Vidi cruentos carcere includi duces,/et impotentis terga plebeia manu/scindi tyranni. Quisquis est placide potens,/dominusque vitae servat innocuas manus,/ et incruentum mitis imperium regit,/animaeque parcit: longa permensus diu/felicis aevi spatia, vel coelum petit,/vel laeta felix nemoris Elysii loca,/iudex futurus” (Hercules furens, vv. 735-745), ciò che ciascuno ha fatto lo patisce: il delitto ricade sull’autore, e il colpevole è gravato dal suo cattivo esempio. Vidi re sanguinari essere rinchiusi in un carcere e il dorso di un tiranno sfrenato lacerato da mani plebee.
Ma chi regna in pace e padrone della vita conserva innocenti le mani, e con mitezza regge un governo senza vittime e risparmia la vita, dopo avere contato a lungo anni di tempo felice, o sale al cielo o da beato arriva nei luoghi sereni del bosco Elisio, per esservi giudice.
Questi versi contengono la legge del contrappasso espressa anche da Esiodo e da Eschilo.
Nelle Opere leggiamo :” a se stesso apparecchia il male l’uomo che lo prepara per un altro oi| g j aujtw’/ kaka; teuvcei ajnh;r a[llw/ kaka; teuvcwn” (v.265), e il pensiero cattivo è pessimo per chi l’ha pensato.
Nel doloroso canto (Commòs ) che precede l’epilogo dell’Agamennone di Eschilo ,il Coro dice queste parole:”paga chi uccide (ejktivnei d j oJ kaivnwn)./Rimane saldo, finché Zeus rimane nel trono/che chi ha fatto subisca: infatti è legge divina”( mivmnei de; mivmnonto~ jen qrovnw/ Diov~-paqei`n to;n e[rxanta: qevsmion gavr”, vv. 1562-1565).
Tommaso d’Aquino spiega il contrappasso con queste parole: ut secundum quod aliquid fecit patiatur” (S. Theol. II, II, 61, 4)
NellInferno di Dante (cerchio VIII, nona bolgia) Bertram del Bornio (XII secolo) è punito con Maometto tra i seminatori di discordia. Ha spinto il figlio (Enrico III d’Inghilterra) a odiare il padre (Enrico II) e regge con una mano la testa staccata dal busto: Così osserva in me lo contrappasso” (Inferno, XXVIII, 142).
Dai capitoli erodotei (III, 80-82) ricordati sopra derivano i modelli costituzionali della filosofia ( Platone, Aristotele ) e della storiografia (Polibio) successive.
Tito Livio riutilizza il rcconto erodoteo di Periandro e Trasibulo.
Il re Tarquinio il quale indicò al figlio Sesto cosa fare degli abitanti di Gabi con un’analoga risposta senza parole:” rex velut deliberabundus in hortum aedium transit sequente nuntio filii; ibi inambulans tacitus summa papaverum capita dicitur baculo decussisse “(I, 54), il re quasi meditabondo passò nel giardino della reggia seguito dall’inviato del figlio; lì passeggiando in silenzio, si dice che troncasse con un bastone le teste dei papaveri.
Il tiranno è la stessa Invidia che Ovidio personifica: essa “quacumque ingreditur, florentia proterit arva,/ex?rit herbas et summa papavera carpit” (Metamorfosi, II, 792), dovunque procede, schiaccia campi fiorenti, dissecca le erbe e stacca le cime dei papaveri.
Il falso sciocco
Tito Livio racconta che Bruto, per salvarsi da Tarquinio, aveva stabilito di non lasciare al re nulla da temere dall’animo suo, nulla da desiderare nella sua fortuna, e di trovare sicurezza nell’essere disprezzato:”Ergo ex industria factus ad imitationem stultitiae, cum se suaque praedae esse regi sineret, Bruti quoque haud abnuit cognomen ” (I, 56, 8) pertanto fingendosi stolto apposta, lasciando se stesso e i suoi beni al re, non rifiutò neppure il soprannome di Bruto. Perché non vi è nulla di più pericoloso di un uomo che rifiuta di sottomettersi alla tirannia”[15].
Ma quella che sembrava pazzia agli stupidi era invece genio. Quando l’oracolo delfico preconizzò che avrebbe avuto il sommo potere a Roma quello che per primo avesse baciato la madre, Bruto, avendo capito, “velut si prolapsus cecidisset, terram osculo contigit, scilicet quod ea communis mater omnium mortalium esset ” I, 56, 12, come se fosse caduto per una scivolata, diede un bacio alla terra, evidentemente poiché quella era la madre comune di tutti i mortali.
Molto interessante è il commento di Bettini alla finta scivolata del falso sciocco. Questo particolare non irrilevante si trova anche in altri autori. “Il racconto di Dionigi appare, in questo episodio, leggermente variato[16]. Egli infatti ambienta la scena non direttamente nel tempio di Delfi, come Livio, ma la ritarda sino al momento dello sbarco in Italia: in questo modo, la terra mater assume simultaneamente anche il connotato della terra patria. Ancora, in Dionigi manca il tema della caduta simulata: Bruto, semplicemente, si china a baciare la terra, compiendo un gesto rituale antico e frequente, in coloro che tornano a casa dopo un lungo viaggio[17]Ovidio, al contrario, resta fedele al tema della simulazione:”ille iacens pronus matri dedit oscula terrae,/creditus offenso procubuisse pede“[18] ( giacendo disteso al suolo dette un bacio alla terra madre, dando l’impressione che fosse caduto per aver inciampato). Qui Bruto inciampa, non scivola come altrove: però si tratta ugualmente di una caduta, e di una falsa caduta”[19].
Ovidio definisce Brutus stulti sapiens imitator, un saggio che si fingeva sciocco, ut esset-tutus ab insidiis, dire Superbe, tuis” (Fasti, II, 717-718).
Bettini procede facendo notare che la stupidità, vera o simulata, tira al basso. “In generale la poca stabilità sulle gambe, l’attrazione verso la terra – la tendenza, insomma, a mutare la posizione eretta umana e normale con quella a terra – sembra costituire un tratto tipico dello sciocco e del buono a nulla: ovvero di colui che finge di esserlo. Dell’imperatore Claudio si sottolinea frequentemente l’andatura vacillante, il “dexterum pedem trahere” (trascinare il piede destro), e così via[20]. Il carattere tardus dell’intelletto sembra avere il suo corrispettivo nella tardità fisica”[21].
Questa caratteristica di Claudio può entrare del resto anche nella rubrica “la zoppia del tiranno” che aprirò tra poco avvalendomi della guida di J. P. Vernant.
Per ora torniamo a Bettini e ad altri finti sciocchi che traballano. ” David, comunque, fingendosi pazzo alla corte di Achis “si lasciava cadere fra le loro mani e inciampava nei battenti della porta”[22]. Dunque anche David scivolava giù e inciampava, come Bruto a Delfi. Ma anche Amelethus, quando lo incontriamo la prima volta nella reggia di Fengo, giace “abiectus humi” (buttato a terra), sporco[23]… Lo stupido, tendendo al basso, alla terra, con la sua andatura incerta e le sue cadute, il suo inciampare, la sua amletica posizione di humi abiectus, di disprezzato Ceneraccio, riconferma invece la propria natura animalesca, il suo essere brutus: come gli animali che, com’è noto, “natura () prona finxit“[24] (la natura ha creato proni verso terra). Del restoil valore originale dell’aggettivo brutus è proprio quello di “pesante”: chi è brutus ha un ingegno che tira al basso. Cadendo a terra Brutus – per fare un gioco etimologico caro ai poeti antichi – diventa “realmente” brutus. I cugini Tito e Arrunte, nel tempio del dio di Delfi, non si saranno certo meravigliati del suo gesto, lo avranno trovato normale. E’ stupido, è brutus, e quindi cade. Magari avranno riso di lui”[25].
Livio racconta pure che Bruto aveva portato in dono ad Apollo una verga d’oro inclusa in un bastone di corniolo con un incavo fatto a questo scopo, recando immagine enigmatica del suo carattere:”aureum baculum inclusum corn?o cavato ad id baculo tulisse donum Apollini dicitur, per ambagem effigiem ingenii sui “[26].
Una delle tante cose simboliche nella letteratura, oggetti diventati cose, causae.
“L’offerta funziona dunque come un indovinello, che simbolicamente rappresenta la falsa stoltezza dell’eroe. Il falso sciocco si configura come un involucro di materia vile che nasconde un’anima aureaDunque Bruto offre al dio un’immagine di se stesso, e della sua intelligenza fasciata di stoltezza. Come il Sileno platonico-l’astuccio ligneo, e di aspetto rozzo, che cela al suo interno la statua della divinità[27]-anche il bastone di Bruto manifesta simultaneamente i contrari. In questo senso si potrebbe anche dire che l’oggetto che Bruto offre al dio funziona alla maniera di un ossimoro, quella figura retorica che fa coincidere in uno stesso sintagma due pefetti contrari: come l’oraziana “concordia discors“[28], o il miltoniano “darkness visible“[29]. La materia più nobile e desiderata -l’oro- e quella più vile e mal augurante – un legno scadente e infelix– sono poste forzatamente una dentro l’altra. L’oggetto è ossimorico proprio come ossimorico è il falso sciocco, con la sua sapiens insipientia. Diciamo meglio. Il falso sciocco è l’ossimoro per eccellenza, visto che il significato proprio di questa espressione greca, ojxuvmwron, è proprio quella di “sciocco acuto”Forse non avevamo pensato che Bruto, come Amelethus, e tutti gli altri falsi sciocchi, erano in realtà delle figure retoriche, degli ossimori: anche in senso assolutamente letterale”[30] .
Così è anche Vergine madre” di Dante
Amelethus è un personaggio dei Gesta Danorum di Saxo Grammaticus (1140 ca-1210 ca).
Vediamo un aspetto della pazzia di Amelethus con altre considerazioni di Bettini:”L’eroe ha appena fatto all’amore con la futura Ofelia shakespeariana, e gli viene chiesto: su quale cuscino? E lui:” Su uno zoccolo di giumenta, una cresta di gallo e le travi del tetto”[31]. Ma il falso stolto deve anche farne, di sciocchezze, oltre che dirne.
Odisseo a Itaca, davanti a Menelao e Agamennone, aggioga all’aratro un bue e un cavallo e se ne va in giro con in capo il berretto (pileus) dello stolto[32]. Peccato che non possiamo più vedere un celebre dipinto di Eufranore che stava a Efeso, forse nel santuario di Artemide. Plinio lo descriveva così:”Ulisse, fintosi pazzo, aggioga un bue insieme con un cavallo: vi sono anche uomini pensosi vestiti col pall’io, e un comandante che rinfodera la spada”[33]. Ecco che le plateali insensatezze del (falso) sciocco suscitano il dubbio e lo sconcerto dei cogitantes, i personaggi “pensosi” che lo osservano. Solone, per parte sua, se ne uscì invece in pubblico “deformis habitu more vecordium” (tutto malvestito alla maniera dei pazzi), ovvero con in testa il famoso berretto[34]“[35].
Solone ejskhvyato me;n e[kstasin tw`n logismw`n[36], simulò un’uscita di senno. Poi saltò fuori nellagorà con un pilivdion , un berrettino in capo. Voleva che gli Ateniesi riprendessero la guerra contro i Megaresi per Salamina. In piazza intonò un elegia, un canto, ornamento di parole, Salamina di cento versi composti con molta grazia. Quindi gli Ateniesi abrogarono la legge contraria alla rivendicazione di Salamina e affidarono a Solone il comando della guerra.
David, alla corte di Achis, contraffaceva il volto, si lasciava cadere, inciampava nei battenti della porta, e la saliva gli correva lungo la barba[37]. Ancora Amelethus, alla corte di Fengo, giace per terra sporco di cenere, intento a indurire nel fuoco dei bastoncini ricurvi[38]; poi lo vediamo salire su un cavallo a rovescio, reggendo naturalmente la coda al posto delle redini”[39].
Tacere e dissimulare è un modo per resistere alla stupidità della tirannide. Così avviene in 1984 di Orwell dove gli slogan del Partito sono:” La guerra è pace, la libertà è schiavitù, l’ignoranza è forza, (p. 8)…Non si possedeva di proprio se non pochi centimetri cubi dentro il cranio…Non era col farsi udire ma col resistere alla stupidità che si sarebbe potuto portare innanzi la propria eredità di uomo” (p. 31).
Falso sciocco è anche Demo nei Cavalieri di Aristofane. Il coro lo accusa di dabbenaggine: sei uno facile da ingannare (eujparavgwgo” , v. 1115), gli dice, ti piace troppo essere adulato. E il vecchietto irritabile, sordastro (duvskolon gerovntion-uJpovkwfon, vv. 42-43) risponde: non avete senno sotto le vostre zazzere, se credete che io non capisca ejgw; d j eJkw;n[40] -tau’t j hjliqiavzw”, vv. 1123-1124), io mi comporto da sciocco apposta, e così me la godo a farmi portare da bere. Il Popolo insomma ha permesso ai demagoghi, Paflagone in testa, di essere ladri, per poi costringerli a vomitare fuori (pavlin ejxemei’n, v. 1148)) quello che gli hanno rubato usando l’urna elettorale per provocare il vomito.
Anche Amleto di Shakespeare non si finge pazzo? E anche nella sua follia c’è metodo (II, 2) tanto che il re sentenzia che la pazzia nei grandi deve essere vigilata (III, 1).
Ma chi è Amleto?
Pirandello sostiene che l’Oreste dell’Elettra di Sofocle diventerebbe Amleto quando si producesse “uno strappo nel cielo di carta del teatrino (…) quello strappo, donde ora ogni sorta di mali influssi penetrerebbero nella scena, e si sentirebbe cader le braccia”[41]; Amleto dunque sarebbe un personaggio paralizzato dalla consapevolezza che tutto è finto, recitato, convenzionale; Amleto anzi secondo O. Wilde fu l’inventore del pessimismo che incupisce la terra:”il mondo è diventato triste perché una volta una marionetta fu malinconica”[42].
Oscar Wilde in La decadenza della menzogna (del 1889) sostiene che non è l’arte a imitare la vita, ma il contario:”La vita imita l’arte assai più di quanto l’arte imiti la vita”.
Ebbene un Oreste amletico, come personaggio “terribilmente sconcertato” e consapevole, è già presente nella tragedia greca ed è il protagonista dell‘ Oreste di Euripide. Infatti a Elettra che gli domanda:”tiv crh’ma pascei”; tiv” s j ajpovllusin novso” ;”(v. 395) che cosa soffri? quale malattia ti distrugge?, egli risponde:” hJ suvnesi” , o{ti suvnoida dein j eijrgasmevno”” (v. 396) l’intelligenza, poiché sono consapevole di avere commesso cose terribili. E se Amleto dice a Guildestern “Denmark’s a prison ” (II, 2) la Danimarca è una prigione, Oreste fa a Pilade:”oujc oJra” ; fulassovmeqa frourivoisi pantach'”(v. 760), non vedi? siamo sorvegliati da sentinelle da tutte le parti.
Restando ancora su Amleto, Freud sostiene che Amleto piuttosto è paralizzato dalla coscienza che lo zio ha attuato quanto avrebbe voluto fare lui stesso:” Secondo la concezione tuttora prevalente, che risale a Goethe, Amleto rappresenta il tipo d’uomo la cui vigorosa forza d’agire è paralizzata dalla forza opprimente dell’attività mentale (“la tinta nativa della risoluzione è resa malsana dalla pallida cera del pensiero”, III, 1). Secondo altri, il poeta ha tentato di descrivere un carattere morboso, indeciso, che rientra nell’ambito della nevrastenia. Senonché, la finzione drammatica dimostra che Amleto non deve affatto apparirci come una persona incapace di agire in generale. Lo vediamo agire due volte, la prima in un improvviso trasporto emotivo, quando uccide colui che sta origliando dietro il tendaggio, una seconda volta in modo premeditato, quasi perfido, quando con tutta la spregiudicatezza del principe rinascimentale manda i due cortigiani alla morte a lui stesso destinata. Che cosa dunque lo inibisce nell’adempimento del compito che lo spettro del padre gli ha assegnato? Appare qui di nuovo chiara la spiegazione: la particolare natura di questo compito. Amleto può tutto, tranne compiere la vendetta sull’uomo che ha eliminato suo padre prendendone il posto presso sua madre, l’uomo che gli mostra attuati i suoi desideri infantili rimossi”[43].
L’invidia.
Quanto allo fqovno”, Tacito attribuisce più di una volta l’invidia ai suoi Cesari: Tiberio temeva dai migliori un pericolo per sé, dai peggiori disonore per lo stato (ex optimis periculum sibi, a pessimis ded?cus publicum metuebat, Annales , I, 80), e Domiziano invidiava e odiava Agricola per i suoi successi in Britannia:”Id sibi maxime formidolosum, privati hominis nomen supra principem attolli ” ( Agricola[44] , 39), gli faceva paura soprattutto il fatto che il nome di un suddito fosse messo al di sopra di quello del principe.
Quale deve essere la posizione dell’intellettuale e dell’uomo libero in genere nei confronti del tiranno?
Tacito dubita se il favore o l’ostilità dei principi dipenda dal fato, o se abbiano qualche peso le nostre decisioni e sia possibile percorrere un cammino intermedio, privo di servilismo e pericoli, tra una rovinosa opposizione e una degradante sottomissione[45] :” an sit aliquid in nostris consiliis liceatque inter abruptam contumaciam et deforme obsequium pergere iter ambitione ac periculis vacuum ” (Annales IV, 20, 3).
Una via di mezzo insomma tra il ruere in servitium (Annales , I, 7) o la libido adsentandi (Historiae , I, 1) e l’ambitiosa mors (Agricola , 42), la morte spettacolare con cui gli oppositori estremi divennero famosi (plerique ambitiosa morte inclaruerunt).
Comunque chi scrive storia deve esprimersi sine ira et studio (Annales , I, 1), senza animosità e partigianeria, ovvero raccontare di ciascuno neque amore et sine odio (Historiae , I, 1).
Intellettuali e potere.
Tra intellettuali liberi e potere non sono possibili rapporti di collaborazione secondo il Pasolini degli Scritti corsari che infatti gli sono costati la vita:” il potere e il mondo che, pur non essendo del potere, tiene rapporti pratici col potere, ha escluso gli intellettuali liberi”. (p. 113).
Altrettanto vennero messi a tacere dal regime imperiale di Roma gli storiografi che facevano opposizione e divennero martiri: Tito Labieno (soprannominato Rabienus per la sua rabbia contro i vincitori ) si uccise per non sopravvivere alla sua opera, che Augusto fece bruciare, siccome esaltava la libertas .
Cremuzio Cordo chiamava Cassio, il cesaricida “ultimo dei Romani”[46].
“Anche del senatore Cremuzio Cordo furono bruciati i libri, per ordine di Seiano, il celebre prefetto del pretorio di Tiberio; ed egli , accusato, s’era lasciato morire di fame. (La sua autodifesa fu un’esaltazione della libertà di pensiero storico)…Sotto Nerone, il padovano Trasea Peto “la virtù in persona[47]“, come lo definì Tacito , si uccise[48] accusato di lesa maestà: aveva scritto una monografia su Catone Uticense. Questi storici capaci di eroismo sapevano benissimo che le loro opere, seppur con varie gradazioni, non solo difendevano l’antico regime, ma in realtà ponevano in questione lo stesso principato”[49]. Quando la persona del tiranno cambia, del resto ci possono essere rivalutazioni o nuove condanne secondo l’interesse o la simpatia del despota, e secondo la concezione orwelliana della storia come palinsesto:””La Storia era un palinsesto grattato fino a non recare nessuna traccia della scrittura antica e quindi riscritto di nuovo tante volte quante si sarebbe reso necessario”[50]. Quando cambia un regime, o il despota, gli scrittori eliminati possono essere riabilitati.
“Caligola fece tornare alla luce gli scritti di Labieno e di Cremuzio:”è nel mio interesse” diceva “che la storia sia conosciuta” (ut facta quaeque posteris tradantur : Suet. Cal. 16, 1): un punto di vista che entra nella tendenza antitiberiana, e nella ricerca della popularitas , con cui Caligola, ai suoi inizi, si presentò come un monarca, a suo modo, costituzionale”[51].
La zoppia del tiranno.
Il despota teme chi gli sta sopra[52] anche solo fisicamente: ” Edipo uccide il padre che, dall’alto del suo carro, precipita allo stesso suo livello (…) Come Edipo che colpendo Laio con il suo bastone lo fa cadere dall’alto del suo carro a terra, ai suoi piedi, Periandro falcia e abbatte tutti coloro la cui testa supera di poco quella degli altri. E in secondo luogo le donne. La tradizione greca fa di Periandro, modello del tiranno, un nuovo Edipo. Egli avrebbe, in segreto, consumato l’unione sessuale con la madre Krateia[53] (…) Ma la tirannide, sovranità claudicante, non può procedere a lungo nel suo successo. L’oracolo, che aveva dato via libera a Cipselo per aprirgli la porta del potere, aveva fissato, fin dall’inizio, il termine al di là del quale la discendenza di Labda, non diversamente da quella di Laio, non avrebbe avuto il diritto di perpetuarsi. “Cipselo, figlio di Eezione, re dell’illustre Corinto” aveva proclamato il dio; ma per aggiungere subito:”lui e i suoi figli, ma non più i figli dei suoi figli”[54]. Alla terza generazione, l’effetto della “pietra rotolante” uscita dal ventre di Labda non si fa più sentire [55]. Per la stirpe dei claudicanti, istallati sul trono di Corinto, è venuto il momento in cui il destino vacilla, precipita, sprofonda nella sventura e nella morte”[56].
A proposito della zoppìa del tiranno, Periandro era figlio di Cipselo, nato da una Bacchiade zoppa (cwlhv, V, 92 b), Labda, che nessun membro di questa oligarchia dominante Corinto voleva sposare. La sposò invece uno di origine Lapita, Eezione il quale, siccome non nascevano figli, andò a interrogare l’oracolo di Delfi. La Pizia rispose che Labda era già incinta e avrebbe partorito un masso rotondo (tevxei d j ojlooivtrocon) che si sarebbe abbattuto sui governanti punendo Corinto.
Zoppicante è anche the bloody king (IV, 3), il re sanguinario di Shakespeare, Riccardo III il quale si presenta dicendo di essere:”so lamely and unfashionable/That dogs bark at me, as I halt by them “(I, 1), così claudicante e goffo che i cani mi latrano contro quando gli passo vicino arrancando.
E’ questa una zoppia che rende malata tutta la sua terra secondo il tovpo” che risale a Omero ed Esiodo: un cittadino dice che il Duca di Gloucester è pericolosissimo come i figli e i fratelli della regina e se costoro non governassero ma fossero governati “this sickly land might solace as before ” (II, 3), questa terra malata potrebbe avere ristoro come prima.
Diversi tiranni in conclusione hanno qualche cosa di zoppo: Cipselo e Periandro in quanto discendenti da Labda, Edipo poiché ha avuto i piedi perforati[57]. Anzi, se consideriamo con attenzione la prima antistrofe del secondo stasimo dell’Edipo re vediamo che tutte le tirannidi sono zoppe: “la prepotenza fa crescere il tiranno, la prepotenza/ se si è riempita invano di molti orpelli (eij-pollw`n[58] uJperplhsqh`/ mavtan)/ che non sono opportuni e non convengono/salita su fastigi altissimi/precipita nella necessità scoscesa/dove non si avvale di valido piede” e[nq j ouj podi; crhsivmw/-crh’tai “(vv. 873-879).
La vanità degli orpelli del potere è denunciata anche da Shakespeare: Brakenbury, il Luogotenente della torre dove è rinchiuso Il Duca di Clarence per essere assassinato dietro ordine di suo fratello Riccardo, Duca di Gloucester , entra in scena dicendo: Princes have but their titles for their glories,-An outward honour for an inward toil;-And for unfelt imaginations-They often feel a world of restless care” (Riccardo III, I, 4), i principi hanno solo i loro titolo per le loro glorie, un onore esteriore per un travaglio interno, e per le fantasie immaginate che non sentono, spesso sentono un mondo di affanni senza posa.
Del resto il nome dottor Hinkfuss, il regista che vuole assoggettare gli attori in Questa sera si recita a soggetto [59] significa “piè zoppo”. Il dramma potrà procedere solo quando la compagnia avrà conquistato la sua libertà interpretativa.
Macbeth di Shakespeare inciamperà nel meccanismo del potere che è una scala i cui gradini sono vite umane da calpestare:”That is a step/On which I must fall down, or else o’erleap / For in my way it lies ” (I, 4), questo è un gradino sul quale devo cadere oppure scavalcarlo poiché si trova sulla mia strada.
La letteratura greca è percorsa dal motivo antitirannico: da Alceo che esulta per la morte di Mirsilo (fr. 332 LP), o copre di insulti Pittaco “to;n kakopatrivdan”( fr. 348 L P) dal padre ignobile, a Platone che certamente non risparmia biasimi al turanniko;” ajnh;r. Costui, nella Repubblica (573c) è uomo, per natura, o per le abitudini, “mequstikov”.. ejrwtikov”.. melagcolikov””, incline al bere, al sesso, alla depressione; inoltre è di animo sostanzialmente servile”oJ tw’/ o[nti tuvranno” tw/’ o[nti dou’lo”“(579e). Questa considerazione che sembra paradossale, magari dettata a Platone da un risentimento personale nei confronti dei despoti incontrati, è confermata da uno psicoanalista moderno: E. Fromm in Fuga dalla libertà sostiene che” l’impotenza dà luogo all’impulso sadico a dominare; nella misura in cui l’individuo è capace, cioè in grado di realizzare le sue possibilità sulla base della libertà e dell’integrità del suo io, non ha bisogno di dominare e non prova alcuna brama di potere” (p. 144).
La caduta dall’alto del potere.
Nelle Storie di Erodoto, Artabano, zio paterno di Serse, sconsiglia al nipote il tentativo di invadere la Grecia: il fulmine infatti si abbatte sugli edifici e gli alberi più alti, e il dio suole troncare tutto ciò che si innalza “filevei ga;r oJ qeo;” ta; uJperevconta pavnta kolouvein”, VII, 10 e). Così anche un esercito grande viene distrutto da uno piccolo quando il dio, preso da invidia, gli scateni contro il terrore o un tuono. Poiché il dio non permette ad altri che a se stesso di avere pensieri di grandezza.
Nell’Ippolito di Euripide, dopo l’attacco di Teseo al figlio ritenuto colpevole, il coro sentenzia:” oujk oid j o{pw” ei[poim a]n eujtucei’n tina-qnhtw’n: ta; ga;r dh; prw’t j ajnevstraptai pavlin”(vv. 981-982), non so come potrei dire che alcuno dei mortali è fortunato: infatti le posizioni più alte vengono rovesciate.
La paura del tiranno
Il tiranno fa paura, come affermano la nutrice di Medea (119 sgg.), e Antigone a proposito della sottomissione dei Tebani a Creonte (vv. 502-507) , ma la paura del tiranno è genitivo soggettivo e oggettivo, ossia il despota vive circondato dal fovbo” : fa paura e ne ha. Un doppio ruolo sintetizzato bene da Creonte nell’Oedipus di Seneca:” Qui sceptra duro saevus imperio regit,/timet timentes; metus in auctorem redit ” (vv. 703-704), chi tiene crudelmente lo scettro con dura tirannide, teme quelli che lo temono; la paura ricade su chi la incute. In forma meno sintetica Cicerone fa la stessa denuncia nel De officiis: Qui se metui volent, a quibus metuentur, eosdem metuant ipsi necesse est” ( II, 24), quelli che vorranno essere temuti, è inevitabile che essi stessi temano quelli dai quali saranno temuti. Cicerone fa gli esempi di Dionigi il vecchio e di Alessandro tiranno di Fere il quale sospettava perfino della moglie, non a torto del resto poiché questa era una furente che infine lo uccise propter pelicatus suspicionem (II, 25), per sospetto di adulterio. La conclusione di Cicerone è. Nec vero ulla vis imperii tanta est, quae premente metu possit esse diuturna“, non c’è nessuna forza di potere tanto grande che possa essere durare a lungo sotto la pressione della paura.
Nell’Edipo re di Sofocle il tiranno di Tebe teme complotti e chiama Creonte “lh/sthv” t j ejnargh;” th'” ejmh'” turannivdo”” (vvv. 535), ladro evidente della mia tirannide. Il cognato più avanti ribatte che preferisce riposare tranquillo piuttosto che comandare con paura (“a[rcein…xu;n fovboisi”, v. 585).
Il fratello di Giocasta mette in rilievo la paura che circonda il potere assoluto che pertanto non dovrebbe essere desiderabile da parte di una persona ragionevole.
Eteocle delle Fenicie , il teorico del valore assoluto del potere, rivolge una preghiera a eujlavbeia, cautela, invocata come crhsimwtavth qew’n, (v. 782), la più utile delle dee. “La paura e la diffidenza appaiono dunque connaturate al tiranno”[60]. Eppure per Eteocle la divinità più grande è la tirannide (v. 506) e per essa può essere bellissimo anche commettere ingiustizia:” ei[per ga;r ajdikei’n crhv, turannivdo” pevri-kavlliston ajdikei’n, ta[lla d jeujsebei’n crewvn”, vv. 524-525, se davvero è necessario commettere ingiustizia, è bellissimo farlo per il potere assoluto, altrimenti bisogna essere pio. Cicerone considera questo Eteocle o addirittura Euripide meritevole di pena di morte (Capitalis Eteocles vel potius Euripides ) che fece eccezione proprio per quell’unico caso che era il più scellerato di tutti. Questi versi delle Fenicie li aveva sempre in bocca l’ambizioso Cesare:”Nam si violandum est ius, regnandi gratia/violandum est; aliis rebus pietatem colas “, (De Officiis , III, 82).
Nelle Fenicie “Eteocle incentra tutto il suo elogio della tirannide sul “di più”[61], e Giocasta obietta:”tiv d j e[sti to; plevon; o[nom j e[cei monon:/ejpei; tav g j ajrkounq j iJkana; toi'” ge swvfrosin”, vv. 553-554, che cosa è il più? ha soltanto un nome; poiché il necessario basta ai saggi.
I mortali non possiedono le ricchezze come cose proprie, esse sono degli dèi e noi le amministriamo ( ou[toi ta; crhvmat j i[dia kevkthntai brotoiv-ta; tw`n qew`n d j e[conte~ ejpimelouvmeqa”, v. 555-556).
Seneca echeggia questo topos in Ad Marciam de consolatione[62]
:”mutua accepimus. Usus fructusque noster est” (10, 2), abbiamo ricevuto le cose in prestito. Nostro è l’usufrutto.
Dunque, continua Giocasta, gli dèi, quando vogliono, ce le portano via di nuovo. Il benessere non è stabile ma dura un giorno (v. 557-558).
Le ricchezze non sono proprietà privata dei mortali, noi amministriamo quelle ricevute dagli dèi: quando vogliono, a turno, ce le portano via di nuovo.
Il coro dell’Agamennone di Eschilo, nel secondo stasimo, afferma che “Giustizia brilla nelle/case dal povero fumo, (Divka de; lavmpei me;n ejn-duskavpnoi~ dwvmasin)/e tiene in pregio una vita/equa. Invece abbandonate le sedi cosparse d’oro/ con sozzura di mani torcendo/gli occhi si rivolge a pie dimore, senza rispettare/potenza di ricchezze marchiata falsamente dalla lode;/guida al suo termine ogni cosa”(vv. 773-781).
Giocasta è fautrice dell’uguaglianza. Chiede al figlio perché tenda all’ambizione (Filotimiva) che è la pessima tra le divinità, è anzi una dea ingiusta (a[diko” hj qeov” , v.531). E’ per lei che Eteocle è impazzito. Molto meglio è onorare l’uguaglianza:”kei’no kavll’ion, tevknon,-ijsovthta tima’n” (vv. 535-536). L’uguaglianza infatti crea legami (sundei’, v. 538). L’uguaglianza è stabile (to; ga;r i[son movnimon, v. 538), mentre il meno è sempre in guerra con il più e fomenta le inimicizie.
L’ ijsovth” è la legge che ha stabilito le misure per gli uomini, le partizioni di pesi e ha dato ordine distinguendo i numeri; essa per giunta è legge di natura, anzi è legge cosmica cui si sottopone perfino la luce del sole :”nukto;” t j ajfegge;” blevfaron hJlivou te fw'”-i[son badivzei to;n ejniauvson kuvklon” ( vv. 543-544), l’oscura palpebra della notte e la luce del sole, uguale percorrono il ciclo annuo. Ora se il sole e la notte si assoggettano a queste misure, domanda la madre, tu non tollererai di avere una parte uguale del palazzo (su; d j oujk ajnevxh/ dwmavtwn e[cwn i[son, v. 547) e di attribuire l’altra a tuo fratello? E dov’è la giustizia? Perché tu la tirannide, un’ingiustizia fortunata (tiv th;n turannivd j, ajdikivan eujdaivmona, v. 549), la onori eccessivamente e pensi che sia un gran che?
Pensi che essere guardati (periblevpesqai tivmion ; keno;n me;n oun, Fenicie, v. 551) ) sia segno di valore? -continua Giocasta ammonendo Eteocle-E’ cosa vuota di fatto. O vuoi avere molte pene con molte cose nella casa?
Il consiglio di seguire la natura, in particolare osservando l’alternarsi del dì e della notte, per prendere decisioni equilibrate lo dà anche Seneca a Lucilio “cum rerum natura delibera: illa dicet tibi et diem fecisse et noctem” (Ep. 3, 6), prendi decisioni osservando la natura: quella ti dirà che ha fatto il giorno e la notte.
Il secondo coro del Tieste di Seneca conclude anteponendo alla vita dell’uomo famoso e di potere quella del privato e augurandosi di morire ignoto agli altri ma noto a se stesso:”me dulcis saturet quies:/obscuro positus loco,/leni perfruar otio;/nullis nota Quiritibus/aetas per tacitum fluat./Sic cum transierint mei/nullo cum strepitu dies,/plebeius moriar senex./Illi mors gravis inc?bat,/qui, notus nimis omnibus,/ignotus moritur sibi” (Thyestes, vv. 393-403), mi sazi una dolce tranquillità: rifugiato in un luogo sconosciuto, possa godere di un dolce tempo tutto per me; la mia vita trascorra in silenzio sconosciuta a tutti i cittadini. Così quando saranno passati i miei giorni senza chiasso alcuno, morirò vecchio uno dei tanti. La morte pesa grave su chi troppo noto a tutti, muore ignoto a se stesso.
Il potere e la rinomanza non sono dei beni: il bene è arrivare a conoscere se stesso.
Tieste in un primo tempo condivide questa scelta della rinuncia e cerca di convincere il figlio Plistene che il potere è un male poiché comporta fare paura e averne:”Dum excelsus steti,/numquam pav?re destiti atque ipsum mei/ferrum tim?re lat?ris. O quantum bonum est/obstare nulli, capere securas dapes/humi iacentem! Scelera non intrant casas,/tutusque mensa capitur angusta cibus;/venenum in auro[63] bibitur[64]. Expertus loquorsed non timemur; tuta sine telo est domus,/rebusque parvis alta praestatur quies./Immane regnum est posse sine regno pati ” (vv. 446-453 e 468-470), finché sono stato in alto, non ho mai smesso di avere paura e di temere perfino la spada del mio fianco. Che grande bene è non essere di ostacolo a nessuno, prendere vivande senza preoccupazione stando sdraiati per terra! I delitti non entrano nelle capanne, e su una mensa modesta si prende un cibo sicuro; nell’oro si beve il veleno. Parlo per averlo provato.ma non facciamo paura; casa mia è sicura senza armi, alla condizione modesta si prospetta una profonda tranquillità. E’ un regno senza confini potere vivere senza regnare.
La caduta dall’alto in Seneca
Nelle Troiane di Seneca, Agamennone al culmine della sua carriera di a[nax mostra di avere coscienza di questa legge della rovinosa caduta dall’alto:”Violenta nemo imperia continuit diu,/moderata durant; quoque Fortuna altius/evexit ac levavit humanas opes,/hoc se magis supprimere felicem decet/variosque casus trem?re metuentem deos/nimium faventes. Magna momento obr?i/ vincendo didici. Troia nos tumidos facit/nimium ac feroces? Stamus hoc Danai loco,/unde illa cecidit ” (vv. 258-266), nessuno ha conservato a lungo il potere con la violenza, quello moderato dura; e quanto più la Fortuna ha levato in alto la potenza umana, tanto più il fortunato fa bene a trattenersi e paventare le varie cadute temendo gli dèi che lo favoriscono troppo. Vincendo ho imparato che i grandi regni vengono sepolti in un attimo. Troia ci rende troppo superbi e spietati? Noi Danai stiamo in piedi nel luogo dal quale quella è caduta.
Troviamo un locus analogo nel primo coro dell’Agamennone di Seneca quando le donne di Micene notano che la Fortuna/ fallax (vv. 57-58) inganna con grandi beni collocandoli troppo alti in praecipiti dubioque (v. 58), in luogo scosceso e insicuro. Infatti le cime sono maggiormente esposte alle intemperie, ai colpi della Fortuna, e predisposte alle cadute rispetto alle posizioni medie:”quidquid in altum Fortuna tulit,/ruitura levat./Modicis rebus longius aevum est;/felix mediae quisquis turbae/sorte quietus” (Agamennone, vv. 101-104), tutto ciò che la Fortuna ha portato in alto, per atterrarlo lo solleva. E’ più lunga la vita per le creature modeste: fortunato chiunque sia della folla mediana contento della sua sorte.
La caduta dall’alto è prevista dal Viceré del Portogallo La tragedia spagnola [65] dice:”Sciagurata condizione dei re, assisi fra tanti timori senza rimedio! Prima, noi siam posti sulla più eccelsa altezza, e spesso scalzati dall’eccesso dell’odio, ma sempre soggetti alla ruota della fortuna; e quando più in alto, non mai tanto godiamo quanto insieme sospettiamo e temiamo la nostra rovina” (III, 1).
Non solo nella tragedia il potere è malvisto da Seneca: nel De brevitate vitae troviamo l’immagine di Augusto che, come altri potenti, desidererebbe discendere dalla sua sommità: cupiunt interim ex illo fastigio suo, si tuto liceat, descendere; nam, ut nihil extra lacessat aut quatiat, in se ipsa fortuna ruit ” (4, 1, 2), desiderano talora discendere da quel culmine, se fosse possibile farlo senza pericolo; infatti posto che nulla dall’esterno la minacci o scuota, la fortuna implode da sola.
La paura del tiranno è stata messa in evidenza anche dal cesariano Sallustio:”Nam regibus boni quam mali suspectiores sunt, semperque iis aliena virtus formidulosa est “[66], infatti ai re sono più sospetti i valenti che gli inetti, e la virtù degli altri per loro è sempre motivo di paura. Si ricordi ancora il formidolosum dell’Agricola (39) di Tacito.
Linsonnia del tiranno
L’insonnia tormenta il tiranno e il criminale: nell’Agamennone di Eschilo il coro dei vecchi argivi canta:”goccia invece del sonno davanti al cuore/la pena memore delle pene (stavzei d ‘ ajnq j u{pnou pro; kardiva~-mnhsiphvmwn povno~): e anche a chi/ non vuole giunge l’essere saggio./ E’, credo, la grazia violenta degli dèi/che stanno sul seggio venerando” (vv. 179-181).
Macbeth ha ucciso il sonno con i suoi delitti:”I heard a voice cry:’ sleep no more! Macbeth does murder sleep’, the innocent sleepbalm of hurt minds ” (II, 2), ho sentito una voce gridare:’non dormire più! Macbeth assassina il sonno’, il sonno innocentebalsamo delle anime afflitte“.
E dunque:”avrai per guanciali sol vepri[67] o Macbetto!”[68] (I, 11).
L’ira del tiranno
Anche l’ira (cfr. ojrgav”, v. 121) è un tratto essenziale del carattere tirannico. Lo mette in rilievo la nutrice alla fine del prologo della Medea di Euripide.
La donna mette in rilievo la sfrenatezza derivata dalla prepotenza cui ella contrappone l’uguaglianza:”Deina; turavnnwn lhvmata kai; pw”-ojlig j ajrcovmenoi, polla; kratou’nte”,-calepw'” ojrga;” metabavllousin.-To; ga;r eijqivsqai zh’n ejp j i[soisin-krei’sson” (vv. 119-123), terribile è l’animo dei tiranni, e poiché di rado come che sia sono subordinati, e il più delle volte comandano, difficilmente elaborano le ire. Infatti essere abituati a vivere in condizioni di uguaglianza,
è meglio.
E continua:
A me dunque sia concesso invecchiare,
fuori dalla grandezza, in stato di sicurezza appunto.
In primo luogo infatti già dire il nome della misura
è un successo, farne uso poi è di gran lunga
la cosa migliore per i mortali; invece quello che eccede
non significa nessuna occasione buona ai mortali,
anzi ripaga con più gravi sciagure
quando insorge l’ira di un dio contro una stirpe. (vv. 123-130)
Edipo è in preda all’ira quando minaccia Tiresia: non tralascerò nulla, irato come sono ( “wJ” ojrgh'” e[cw”, Edipo re , 345) e pure quando uccide Laio (” paivw di j ojrgh'” “, colpisco con ira, v. 807).
“L’ira appare tratto distintivo di ogni figura di tiranno venga rappresentata sulla scena; essa trova una particolare evidenza nell’ Antigone e nell’Edipo re sofoclei. Sia Creonte fin dall’inizio, sia Edipo, da quando incomincia a sospettare un complotto contro il suo potere (è dunque in questo caso il principio della degenerazione che trasforma il buon re paterno del prologo in una figura tirannica), appaiono soggetti all’ira, incapaci perciò di un dialogo rispettoso dell’interlocutore e di una decisione meditata.
“Taci, prima di riempirmi d’ira con le tue parole” (Antigone , v. 280), esclama Creonte, quasi ad interrompere il resoconto col quale la guardia lo sta informando del clandestino seppellimento di Polinice. E, a conclusione quasi della scena, nuovamente lo redarguisce:”Non ti rendi conto di parlare di nuovo in modo irritante? (Antigone , v. 316)”[69].
L’ira di Edipo continuerà a colpire i nemici anche dopo la morte: nell’ Edipo a Colono Ismene dice al padre che un giorno il suo cadavere sarà un grave peso (bavro” , v. 409) per i Cadmei, quindi la ragazza precisa: “th'” sh'” uJp j ojrgh'”, soi'” o{tan stw’sin tavfoi” ” (v. 411), a causa della tua ira, quando staranno presso la tua tomba. Lo ha fatto sapere Apollo delfico (v. 413). Non manca qui del resto la propaganda antitebana nell’ultima tragedia del vecchio, grande poeta di Colono.
l’ira come pazzia.
L’ira per i Latini è una forma di pazzia. Orazio sentenzia:”ira furor brevis est ” (Epist. I, 2, 62), l’ira è una breve follia.
Queste parole vengono citate da Timone d’Atene che biasima il misantropo Apemanto, senza sapere che, disgustato dall’ingratitudine, diventerà come lui: They say, my lords, Ira furor brevis est;/but yond man is ever angry” ( Timone d’Atene, I, 2), signori miei, dicono ira furor brevis est, ma quell’uomo è sempre arrabbiato.
Fromm sulle cause psicologiche dell’ira:we see a man who shouts and has a red face. We describe his behavior as ‘being angry. If we ask why he is angry, the answer may be ‘because he is frightened ‘Why is he frightened? ‘Because he suffers from a deep sense of impotence. ‘Why is this so? ‘Because he has never dissolved the ties to mother and is emotionally still a little child “[70], noi vediamo un uomo che grida e ha la faccia rossa. Descriviamo il suo comportamento dicendo che è arrabbiato. Se noi domandiamo perché è arrabbiato, la risposta può essere, perché è spaventato. Perché è spaventato? Perché soffre di un profondo senso di impotenza. Perché è così? Perché non ha mai reciso i legami con la madre ed è ancora emotivamente un bambino
Seneca considera l’ira un’ insania e un sintomo di impotenza:” iram dixerunt brevem insaniam; aeque enim impotens sui est “, dissero che l’ira è una breve pazzia; infatti è incapace di dominarsi, proprio come quella (De ira , I, 1). Inoltre non è naturale l’ira poiché essa desidera infliggere pene (poenae appetens est , I, 6) mentre la natura dell’uomo non vuole questo:”ergo non est naturalis ira “, I, 6).
Aristotele afferma cheira può essere propulsiva, ma Seneca lo confuta: Ira-inquit Aristoteles-necessaria est, nec quicquam sine illa expugnari potest nisi illa implet animum et spiritum accendit; utendum autem ill? est non ut duce sed ut milite. Quod est falsum; nam si exaudit (ascolta) rationem sequiturque qu? ducitur , iam non est ira” ( De ira, 1, 9, 2).
L’ira non ha alcuna utilità:”nihil habet in se utile” (9).
Nell’ira per giunta non c’è niente di grande né di nobile, neppure quando appare impetuosa e sprezzante degli dèi e degli uomini:”Nihil ergo in ira, ne cum videtur quidem vehemens et deos hominesque despiciens, magnum, nihil nobile est ” (21).
L’ira dell’uomo di potere è incontrollata.
“Perché proprio questo caratterizza il monarca, poter fare ciò che vuole senza essere soggetto ad alcun controllo”[71].
Il tiranno è sfrenato: Boundless intemperance-in nature is a tyranny“, lintemperanza sfrenata è per natura una tirannide, dice Macduff al principe Malcom che si accusa, falsamente, di essere peggiore di Macbeth (IV, 3).
Nell’Agamennone di Seneca, Egisto fa notare a Clitennestra che il sovrano si considera al di sopra delle leggi:”id esse regni maximum pignus putant,/si quidquid aliis non licet solis licet” (vv. 271-272), questo considerano la massima prova del regno, se a loro solo è concessa qualsiasi azione ad altri non sia concessa.
Nel Thyestes, Atreo afferma che il tiranno può fare quanto gli piace senza curarsi del bene:”Sanctitas, pietas, fides,/privata bona sunt; qua iuvat, reges eant” (vv. 217-218), la purezza, la religiosità, la lealtà, sono beni privati; i re vadano dove ne hanno voglia.
La passione dominante di questo tiranno efferato è compiere crimini inauditi:”nullum relinquam facinus, et nullum est satis” (v. 256), non tralascerò nessun delitto e nessuno mi basta.
Un altro male delle corti: la fides si annulla e si vende al denaro.
Nel Prometeo incatenato il titano afferma che al potere assoluto è connaturata in qualche modo la malattia di non fidarsi degli amici:”e[nesti gavr pw” tou’to th’/ turannivdi- novshma toi'” fivloisi mh; pepoiqevnai” (vv. 224- 225).
Nell’Agamennone di Seneca Egisto parlando con Clitennestra fa questo rilievo:”non intrat umquam regium limen fides” (v. 285), la lealtà non entra mai nella soglia di una reggia. La regina ribatte che se la comprerà con i doni, ma il drudo conclude:”pretio parata vincitur pretio fides” (v. 287), la lealtà procurata a pagamento può essere superata da un altro pagamento.
La fides, valore forte, è annullata o venale, come tutti gli altri valori, venduti al denaro.
Sentiamo, a questo proposito Machiavelli e Shakespeare.
Et hassi ad intendere questo, che uno principe, e massime uno principe nuovo, non può osservare tutte quelle cose per le quali li uomini sono tenuti buoni, sendo spesso necessitato, per mantenere lo stato, operare contro alla fede, contro alla carità, contro umanità, contro alla relligioneDebbe, adunque, avere uno principe gran cura che non li esca mai di bocca una cosa che non sia piena delle soprascritte cinque qualità, e paia, a vederlo et udirlo, tutto pietà , tutto fede, tutto integrità, tutto relligione”[72].
E ora Riccardo III, il principe che ha letto Il Principe. La politica è per lui pura pratica, un’arte il cui fine è governare. Un’arte amorale come quella di costruire i ponti o come una lezione di scherma. Le passioni umane sono argilla, e anche gli uomini sono unargilla di cui si può fare quel che si vuole.”[73]. Riccardo viene aizzato dai suoi alleati a vendicarsi dei suoi nemici: But then I sigh, and, with a piece of Scripture,-Tell them that God bids us do good for evil:- And thus I clothe my naked villainy-With odd old ends stoln forth of Holy Writ-And seem a saint, when most I play the devil” (I, 3), ma allora io sospiro, e, con un brano della Scrittura, dico loro che Dio ci ordina di rendere bene per male: e così rivesto la mia nuda scelleratezza con occasionali vecchi scampoli della Sacra Scrittura, e sembro un santo quando più faccio il diavolo.
Il male del potere in Seneca e altri
Per Seneca, ” per questo uomo di potereil potere è un nucleo irriducibile di male-insieme fatto e subìto, avviluppato nelle rispondenze tra violenza oggettiva e angoscia soggettiva”[74].
Seneca per esperienza diretta, conosceva bene la massima eschilea, che l’eccessiva fortuna e l’eccessiva potenza suscitano la u{bri~ “[75].
Il potere è razionale e morale solo se esercitato al servizio dei sudditi: nelle Epistole a Lucilio il maestro di Nerone già ripudiato dal discepolo imperiale ricorda che nell’età dell’oro governare era compiere un dovere non esercitare un potere assoluto:” Officium erat imperare, non regnum” (90, 5).
Luogo simile in I Promessi sposi :”Ma egli[76], persuaso in cuore di ciò che nessuno il quale professi cristianesimo può negar con la bocca, non ci esser giusta superiorità d’uomo sopra gli uomini, se non in loro servizio, temeva le dignità, e cercava di scansarle” (cap. XXII).
Concetto analogo si trova in Psicanalisi della società contemporanea di E. Fromm:”Il capo non è soltanto la persona tecnicamente più qualificata, come deve essere un dirigente, ma è anche l’uomo che è un esempio, che educa gli altri, che li ama, che è altruista, che li serve. Obbedire a un cosidetto capo senza queste qualità sarebbe una viltà” (p. 299).–
La protagonista dell’Antigone di Brecht si propone come tale tipo paradigmatico in antitesi a Creonte il quale le domanda:”Di’ dunque perché sei così ostinata”. E la ragazza risponde:”Solo per dare un esempio”.
Il potere del resto secondo la figlia di Edipo è una specie di droga che asseta di sé:”Perché chi beve il potere/Beve acqua salsa, non può smettere, e seguita/Per forza a bere”.
Il regnum è un fallax bonum del quale non c’è da gioire: copre grande quantità di mali sotto un aspetto seducente:” Quisquamne regno gaudet? O fallax bonum/quantum malorum fronte quam blanda tegis“(Oedipus,vv.7-8), qualcuno gode del regno? O bene ingannevole, quanti mali copri sotto una facciata così lusinghiera!. Sono parole di Edipo che dà inizio al dramma descrivendo l’infuriare della pestilenza.
Il regnare è intriso di male: nel Thyestes il satelles di Atreo mette in guardia il suo re dall’insegnare ai figli come ingannare lo zio :”in patre facient, quidquid in patruo doces./Saepe in magistrum scelera redierunt sua” (vv. 310-311), faranno al padre tutto quello che gli insegni contro lo zio. Spesso i delitti sono ricaduti su chi li ha insegnati. Ma il tiranno risponde:”Ut nemo doceat fraudis et sceleris vias, regnum docebit” (vv. 312-313), posto che nessuno insegni loro le vie della frode e del crimine, le insegnerà il regno. Il regno dunque è la scuola del male.
Comunque non è un possesso sicuro. Sempre nel Thyestes il terzo coro di vecchi micenei approva la conciliazione offerta da Atreo, non conoscendo le vere intenzioni del tiranno, e ammonisce i regnanti sulla mutevolezza della sorte:”Nulla sors longa est: dolor ac voluptas/inv?cem cedunt; brevior voluptas./ Ima perm?tat levis hora summis” (vv. 596-598), nessuna sorte dura a lungo: il dolore e il piacere si alternano; più breve è il piacere. Un’ora veloce cambia gli abissi con le cime.
Nelle Phoenissae, Giocasta chiede a Polinice di rinunciare alla guerra poiché il premio che spetta al vincitore non è desiderabile: anzi Eteocle pagherà il fio del successo a caro prezzo, con il solo fatto di essere re:”poenas, et quidem solvet graves: regnabit “(v.645).
Per Eteocle[77] viceversa il potere è il massimo oggetto del desiderio:”Pro regno velim(662) per il regno vorrei, inizia; poi alla madre che lo interrompe con la domanda :”patriam, penates, coniugem flammis dare? (v. 663.), dare alle fiamme la patria, i penati, la moglie? risponde:”Imperia pretio quolibet constant bene” (v.664), il potere a qualsiasi prezzo è pagato bene. Insomma: Parigi val bene una messa e anche molto di più.
Manzoni riprende il tovpo” dell’infelicità dell’uomo di potere nell’ Adelchi quando il protagonista ferito consola il padre sconfitto: Godi che re non sei; godi che chiusa/all’oprar t’è ogni via: loco a gentile,/ad innocente opra non v’è: non resta/che far torto, o patirlo. Una feroce/ forza il mondo possiede, e fa nomarsi/Dritto..” (V, 8). E’ il diritto del più forte.
Il secondo coro del Thyestes formato da vecchi micenei contrappone al tiranno crudele e avido un’immagine della regalità interiore: rex est qui posuit metus/et diri mala pectoris,/quem non ambitio impotens/et numquam stabilis favor/vulgi praecipitis movet,/non quidquid fodit Occidens,/aut unda Tagus aurea/claro devehit alveo” (vv. 348-355), è re chi ha deposto le paure e le cattive passioni dell’animo crudele, quello che l’ambizione sfrenata non tocca e l’instabile favore del volgo precipitoso, né tutto quello che l’Occidente scava, o il Tago trasporta nel letto lucente con l’onda ricca d’oro.
La regalità interiore non ha paura e non è avida.
Non c’è bisogno di possedere un regno e nemmeno delle ricchezze, né eserciti per essere un re; basta una mens bona e non avere timore di nulla, brama di nulla :” mens regnum bona possidet./Nil ullis opus est equis;/nil armis et inertibus/telis, quae procul ingerit/Parthus, cum simulat fugas:/admotis nihil est opus/urbes sternere machinis,/longe saxa rotantibus:/rex est qui metuet nihil,/rex est qui cupiet nihil /Hoc regnum sibi quisque dat ” (Thyestes, vv. 380-390), una mente equilibrata possiede un regno. Non ha bisogno di cavalli, di armi e di quelle frecce inutili che da lontano scaglia il Parto, quando finge la fuga: non c’è bisogno di radere al suolo città con macchine mobili che scagliano sassi da lontano. Re è chi non avrà paura di nulla, re è che non avrà brama di nulla. Tale regno ciascuno può darlo a se stesso, ed è preferibile, continua il coro, a quello posto sul culmine sdrucciolevole di una reggia (aulae culmine lubr?co, v. 392).
Il quotidano la Repubblica” del 17 gennaio del 2006 recava il titolo in prima pagina Solo 11 le donne al potere“; ebbene una mente non fuorviata dai luoghi comuni attualmente di moda, può pensare che questa rara presenza potrebbe anche fare onore ai miliardi di donne, e di uomini, che non sono al potere.
Ricordo un’affermazione di Callistene che testimonia dell’ammirazione suscitata da chi alla tirannide si oppone: una volta Filota domandò allo storico di Alessandro chi pensasse che venisse maggiormente ammirato dalla città degli Ateniesi; egli rispose Armodio e Aristogitone poiché avevano ammazzato uno dei due tiranni kai; turannivda o{ti katevlusan”[78] e per il fatto che avevano abbattuto la tirannide.
Infine Kafka che scrive al padre: Acquistasti ai miei occhi un alone misterioso, come tutti i tiranni, il cui diritto si fonda sulla loro persona, non sul pensiero” (Lettera al padre, del novembre 1919, p. 70).
Il tiranno finisce male. Marco Aurelio, un uomo di grande potere, e pure un filosofo, scrive: oJ ajdikw`n, eJauto;n ajdikei`, eJauto;n kako;n poiw`n (A se stesso, IX, 4), chi commette ingiustizia, la commette contro se stesso, facendo del male a se stesso.
Lingiustizia può derivare anche da omissione: ajdikei` pollavki~ oJ mh; poiw`n ti, ouj movnon oJ poiw`n ti” (IX, ).
La vita dei tiranni esclude l’amicizia.
Cicerone nel De amicitia[79] scrive:”Haec enim est tyrannorum vita nim?rum, in qua nulla fides, nulla caritas, nulla stabilis benevolentiae potest esse fiducia, omnia semper suspecta atque sollicita, nullus locus amicitiae. Quis enim aut eum diligat quem metuat, aut eum a quo se metui putet?” (15, 52), questa infatti senza dubbio è la vita dei tiranni, nella quale non può essere alcuna lealtà, alcun affetto, alcuna fiducia di stabile benevolenza, tutto è sempre pieno di sospetto e di ansia, e non c’è posto per l’amicizia. Chi infatti potrebbe amare quello che deve temere o quello dal quale pensa di essere temuto?
“Il tema fondamentale di tutto il teatro senecanoè che potere e regno, condizioni di illusoria felicità soggette a rovinosi cambiamenti di sorte, coincidono con la frode, con l’Erinni familiare, con il furor mentre l’unica salvezza è la obscura quies [80], la serenità del proprio cantuccio, l’esser parte indistinguibile della folla. L’avversione al regno ha come aspetto complementare l’esaltazione della tranquillità di ogni piccolo uomo, uno qualsiasi della massa silenziosa: felix mediae quisquis turbae, come canta un coro dell’ Agamennone (v. 103). Liceat in media mihi/latere turba (Thy. 533 sg,) afferma Tieste prima di cadere nelle lusinghe del potere e nella trappola tesagli da Atreo”[81].
Questo tema è frequente anche in Euripide.
Ione sostiene la superiorità della vita ritirata su quella impegnata o tesa al potere che viene smontato del tutto :”del potere lodato a torto/l’aspetto è dolce, ma dentro il palazzo/c’è il dolore (tajn dovmoisi de;- luphrav): chi infatti è felice, chi fortunato/se, temendo e guardando di traverso (dedoikw;” kai; parablevpwn), trascina/il corso della vita? Preferirei vivere/da popolano felice piuttosto che essendo tiranno (“dhmovth” a]n eujtuch;”-zh’n a]n qevloimi ma’llon h] tuvranno” w[n”),/il quale si compiace di avere amici malvagi,/mentre odia i generosi per paura di attentati ” (Ione, vv. 621-628).
Linvidia del potente per l’umile.
E’ questa un’affermazione ricorrente nell’opera euripidea: torna nell’ Ifigenia in Aulide dove lo stesso Agamennone, richiesto di sacrificare la vita della primogenita , dice a un vecchio servo:” ti invidio, vecchio,/invidio tra gli uomini quello che passa una vita/senza pericoli, ignorato, oscuro (ajgnw;” ajklehv” );/ quelli che stanno tra gli onori li invidio di meno”(17-20).
Del resto l’invidia del potente per l’umile si ritrova parecchi secoli più tardi in Guerra e Pace (p. 577):”-Discutiamo pure-, disse il principe Andrej.-Tu parli di scuole-, continuò, e piegava un dito.-Parli di istruzione, eccetera. Cioè vuoi togliere lui,-disse, indicando un contadino che passava davanti a loro levandosi il berretto-, dalla sua condizione d’animale e renderlo consapevole di esigenze morali, mentre a me sembra che l’unica felicità possibile sia la felicità animale…Io lo invidio e tu vuoi farlo diventare come me…”.
La teoria della classe media.
All’elogio della medietà sociale si può collegare la teoria della classe media propugnata da Teseo nelle Supplici [82]di Euripide.
Tre sono le classi dei cittadini: i ricchi sono inutili e desiderano avere sempre di più, quelli che non hanno mezzi di sussistenza sono temibili (“deinoiv”, v. 241) poiché si lasciano prendere dall’invidia e ingannati dalle lingue dei capi malvagi lanciano strali contro i possidenti. In conclusione:”Triw’n de; moirw’n hJ jn mevsw/ sw/zei povlei”-kovsmon fulavssous j o{ntin a[n tavxh/ povli””, (vv. 244-245), delle tre parti quella che sta in mezzo salva le città, custodendo l’ordine che essa dispone.
La teoria si ripropone anche negli ultimi anni di Euripide. Nell’Oreste (del 408) “infatti, egli vede negli aujtourgoiv, nei lavoratori in proprio, coloro che soli sono in grado di salvare la polis . Il v. 920 dell’Oreste – “un lavoratore in proprio, di quelli che appunto sono i soli a salvare la patria”[83]-ricorda da vicino Suppl. 244:”delle tre parti quella che sta in mezzo salva le città”. La classe media era quindi per Euripide costituita essenzialmente dai contadini che lavorano il fondo di loro proprietà”[84].
Il piccolo proprietario terriero è uno che lavora la terra da sé ed è non attraente di aspetto ma è coraggioso e intelligente (” morfh’/ me;n oujk eujwpov”, ajndrei’o” d j ajnhvr”, v.918; xunetov” , v. 921).
Nella stessa tragedia viceversa viene ridicolizzato quale miles gloriosus Menelao, lo spartano e marito di Elena, odioso per avere provocato infiniti dolori ai figli di Agamennone:”venga avanti, pavoneggiandosi per i riccioli biondi sugli omeri” ( “ajll j i[tw xanqoi'” ejp j w[mwn bostruvcoi” gaurouvmeno”” Oreste, v. 1532).
Gli è simile Gioacchino Murat in Guerra e pace :” un uomo d’alta statura dal cappello adorno di piume, i capelli inanellati che gli piovevano sulle spalle. Indossava un mantello scarl’atto, e le lunghe gambe erano protese in avanti (…) in effetti costui era Murat, che ora aveva assunto la qualifica di re di Napoli (…) cosicché aveva un’aria più trionfante e imponente di quanto l’avesse prima (…) Alla vista del generale russo, con gesto regale e solenne, respinse indietro il capo con quei capelli a riccioli fluenti sulle spalle (…) La faccia di Murat raggiava di stolida soddisfazione” (pp. 925-926).
Pure Isocrate maledice ricchezza e potere:” ajlla; suntevtaktai kai; sunakolouqei’ toi'” me;n plou’toi” kai; dunasteivai” a[noia kai; meta; tauvth” ajkolasiva” (Areopagitico, 4 ) ma alla ricchezza e al potere è coordinata e segue la pazzia e con questa la licenza.
Anche nelle Leggi di Platone troviamo che la condizione moralmente migliore è quella lontana dalla ricchezza e dalla povertà:”La rappresentazione che Platone dà dei primordi è quella di una condizione essenzialmente pacifica, dove non erano ancora ricchi e poveri, e dove la benigna semplicità degli umani aveva per conseguenza un livello morale più alto[85]“[86]
Vediamo cosa dice l’Ateniese nelle Leggi:”Poveri per questo motivo non erano[87], né, costretti dalla povertà, divenivano discordi tra loro; e nemmeno ricchi divennero mai in quanto privi di oro e di argentonella società in cui non sia presente né ricchezza né povertà, direi che i costumi potrebbero essere nobilissimi: infatti violenza, né ingiustizia, né gelosie né invidie possono nascervi. Erano buoni in grazia di questa vita e di quella che si dice semplicità” (679b-c).
Libido, numen e classi sociali
Nella Fedra di Seneca la nutrice esclude che amore sia una divinità e asserisce che questa teoria nasce dalla finzione di una libidine turpe e favorevole al vizio: Deum esse amorem turpis et vitio favens/finxit libido” (vv. 195-196), che amore sia un Dio lo inventò una libidine vergognosa e favorevole al vizio. Questa, per essere più libera, titulum furori numinis falsi addidit (v.197 ha messo sulla follia erotica l’etichetta di un dio falso
E quanto afferma, nelle Troiane di Euripide, Ecuba che rinfaccia a Elena la sensualità e l’avidità per le quali vanamente la donna fatale ha cercato di incolpare una o più dèe: Mio figlio era di bellezza sovrumana, e l’animo tuo, vedendolo, si fece Cipride: infatti tutte le stoltezze sono Afrodite per gli uomini; e il nome della dea comincia giustamente come quello di follia (ta; mw’ra ga;r pavnt’ ejsti;n jAfrodivth brotoi'”-kai; tou[nom’ ojrqw'” ajfrosuvnh” a[rcei brotoi'”, vv. 989-990 . E tu, dopo averlo visto fulgente nell’oro delle vesti barbare, divenisti frenetica nell’anima. Infatti ti aggiravi in Argo con poca roba e, abbandonata Sparta, sperasti di affondare nelle spese la città dei Frigi dove loro scorreva a fiumi: non ti era sufficiente la casa di Menelao per abbandonarti alle tue dissolutezze” (vv.987-997).
Quindi la nutrice di Fedra commenta la dira libido della regina associandola alla sorte socialmente elevata (magnae comes fortunae, Fedra, v. 206), Viceversa una sancta Venus, parvis habitat in tectis (v. 211) ed è il medium vulgus ad avere sanos affectus (v. 212). I ricchi e i potenti regnanti sono insaziabili: plura quam fas est petunt (v. 214). La sentenza finale è: Quod non potest vult posse qui nimium potest” (v. 215), chi è troppo potente vuole potere l’impossibile.
Ma, ribatte Fedra, il potere supremo sulla mia persona è quello di Amore.
il quarto coro commenta la morte di Ippolito con queste parole:” Quanti casus humana rotant! Minor in parvis Fortuna furit,/leviusque ferit leviora Deus;/servat placidos obscura quies,/praebetque senes casa securos” (vv. 1123-1127), quante cadute fanno girare le umane vicende! sugli umili la Fortuna infuria di meno, e dio più debolmente colpisce i più deboli; un’oscura tranquillità conserva gli uomini in pace e una casetta presenta vecchi tranquilli. Il fatto è che la fortuna volubile non mantiene le sue promesse a nessuno: nec ulli praestat velox/Fortuna fidem! “(vv. 1142.1143).
Appendice
La fine dello stato edenico nella Fedra di Seneca
Ippolito nella Fedra conclude la descrizione della decadenza successiva all’età dell’oro, nella quale sono elencati i mali che hanno resa infelice la vita umana, con il male massimo che è la femina e con la menzione della pessima tra le femmine: la stessa Medea. Vediamo alcuni di questi peccati che capovolsero l’età dell’oro: l’auricupido (vv. 528-529), la brama dell’oro che nell’età felice non esisteva. Quindi le navi come sappiamo (II e III Coro della Medea):”Nondum secabant credulae pontum rates:/sua quisque norat maria” ( Fedra, vv. 531-532), le navi non solcavano ancora il mare dandogli fiducia: ciascuno conosceva le sue acque marine.
Anche Seneca Padre nelle Controversiae mette in luce la vicinanza della navigazione alla morte:”Scitis nihil esse periculosius quam etiam instructa navigia: parva materia seiungit fata” (VII, 1, 10), sapete che niente è più pericoloso di una nave anche ben equipaggiata: troppo poco legno separa dalla morte.
Non c’erano fortificazioni, né armi, e la terra, non ancora ordinata a servire un padrone, non doveva sopportare il servizio dei buoi aggiogati:”iussa nec dominum pati/iuncto ferebat terra servitium bove” ( Fedra, vv. 536-537).
Allora i campi nutrivano gli uomini che non chiedevano nulla (nihil poscentes, Fedra, v. 538). Ma poi questo equilibrio si ruppe:”Rup?re foedus impius lucri furor/et ira praeceps, quaeque succensas agit/libido mentes; venit imperii sitis/cruenta; factus praeda maiori minor; pro iure vires esse” (vv. 541-545), ruppero il patto dell’alleanza l’empio furore di lucro e l’ira dirupata, e ogni passione che trascina le menti infiammate; arrivò la sanguinaria sete di impero; il più piccolo divenne preda del più grosso: al posto del diritto c’era la forza.
Cfr. Tucidide V, 105, 2, quando gli Ateniesi dicono ai Meli : riteniamo infatti che la divinità, per quanto si può suppore, e l’umanità in modo evidente, in ogni occasione, per necessità di natura, dove sia più forte, comandi” (ou| a]n krath`/ a[rcein).
Iniziarono le guerre e furono inventate le armi:”tela faciebat dolor./Invenit artes bellicus Mavors novas/et mille formas mortis. Hinc terras cruor/infecit omnes fusus, et rubuit mare ” ( Fedra, vv. 550-553), le armi le faceva il dolore. Poi inventò nuovi ordigni Marte, dio della guerra, e mille forme di morte. Quindi il sangue sparso infettò le terre tutte, e il mare divenne rosso.
La terra macchiata dal sangue umano subisce un mivasma e diviene sterile. Nell’Agamennone di Eschilo si legge:”una volta caduto a terra, nero/sangue mortale di quello che prima era un uomo chi/potrebbe farlo tornare indietro cantando?”(vv. 1019-1021), un’affermazione umanistica di sacralità della vita umana che trova un’eco in questa del Manzoni:” il sangue d’un uomo solo, sparso per mano del suo fratello, è troppo per tutti i secoli e per tutta la terra” (Osservazioni sulla morale cattolica , VII). Una sorta di simpatia organica lega la terra alle sue creature: nel II canto dell’Iliade, quando l’esercito dei Greci muove velocemente all’assalto di Troia la terra, (in previsione della strage ndr), sotto i loro piedi gemeva assai:” tw’n uJpo; possi; mevga stenacivzeto gai’a” (v. 784).
La constatazione del sangue umano che scorre nella corte del Macbeth la fa Donalbain, un figlio del re vecchio assassinato dal re nuovo :”qui dove siamo ci sono pugnali nei sorrisi degli uomini (theres daggers in mens smile): il vicino per sangue è il più vicino all’essere sanguinario (2, 3).
La compiuta peccaminosità.
Torniamo alla Fedra di Seneca e a Ippolito che descrive la decadenza :”Tum scelera dempto fine per cunctas domos/iere; nullum caruit exemplo nefas;/a fratre frater, dextera nati parens/ cecidit, maritus coniugis ferro iacet,/ perimuntque foetus impiae matres suos” (vv. 554-558), allora i crimini, tolto di mezzo ogni argine, entrarono in tutte le case; nessuna nefandezza fu senza un modello; il fratello cadde ammazzato dal fratello, il padre dalla destra del figlio, il marito è steso dalla spada della consorte, e le madri sacrileghe sopprimono i loro figlioli.
E’ la compiuta peccaminosità delle guerre intestine, della lotta spietata di tutti contro tutti, come quella descritta da Lucrezio: quando gli uomini, credendo di sfuggire al terrore della morte, gonfiano gli averi col sangue civile, ammassano avidi le ricchezze, accumulando strage su strage, godono crudeli dei tristi lutti fraterni “et consanguineum mensas odere timentque ” (De rerum natura , III, 73) e odiano e temono le mense dei consanguinei.
E’ il caso del banchetto di Macbeth che si è macchiato le mani di vari delitti uccidendo per primo il re suo cugino e non riesce a partecipare dignitosamente alla cena preparata nel suo stesso castello. La moglie cerca di ricondurlo alla ragione ricordandogli le regole dei conviti:”My royal lord, You do not give the cheer. The feast is sold, That is not often vouched, while ‘t is a-making, ‘T is given with welcome: to feed were best at home; From thence, the sauce to meat is ceremony, Meeting were bare without it “( Macbeth, III, 4), mio signore reale, voi non date una buona disposizione di spirito. Il banchetto è a pagamento se non dà spesso testimonianza, mentre è fatto, di essere dato con cordialità: per mangiare sarebbe meglio a casa; fuori da essa la salsa delle vivande è la cortesia[88], e riunirsi senza di lei sarebbe squallido.
Siducia nella madre: Polinice nelle Phoenissae di Seneca e nelle Fenicie di Euripide.
Nelle Phoenissae, Seneca mostra un altro aspetto di questa ostilità di tutti contro tutti: Polinice non solo odia il fratello ma non si fida neppure della madre che gli domanda:”an times matris fidem? ” (v. 477), temi la parola di tua madre? Ed egli risponde:”Timeo: nihil iam iura naturae valent./Post ista fratrum exempla ne matri quidem/fides habenda est” (vv. 478-480), temo: non hanno più alcun valore le leggi di natura. Dopo questi esempi fraterni non bisogna avere fiducia nemmeno nella madre.
In questi versi Seneca segue da vicino Euripide nelle cui Fenicie il figlio esule di Giocasta, entrato in scena, dice:”pevpoiqa mevntoi mhtriv, kouj pevpoiq j a{ma” (v. 272), di mia madre mi fido e non mi fido.
Le donne costituscono il male supremo secondo Ippolito.
Le donne costituiscono il male supremo secondo questo fanatico:”Taceo novercas. Mitius nihil est feris./Sed dux malorum femina; haec scelerum artifex/obsedit animos, cuius incestae stupris/fumant tot urbes, bella tot gentes gerunt,/et versa ab imo regna tot populos premunt./Sileantur aliae: sola coniux Aegei/Medea reddit feminas dirum genus” ( Fedra, vv. 559-565), non dico le matrigne, razza per niente più mite delle belve feroci. Ma la regina dei mali è la femmina: questa artista del male ha ossessionato gli animi, tante città contaminate dagli adulteri di lei sono ridotte in fumo, tanti popoli fanno le guerre, e regni sprofondati schiacciano tanti popoli sotto le loro rovine. Non c’è bisogno di nominare le altre: la sola moglie di Egeo[89], Medea rende le femmine una razza maledetta.
Tuttavia più avanti, dopo avere ricevuto la dichiarazione d’amore dalla matrigna, Ippolito afferma che la pessima delle pessime è Fedra:”Genitor, invideo, tibi:/Colchide noverca maius hoc, maius malum est” (vv. 696-697), padre ti invidio: questa cosa qua è una sciagura più grande, più grande della matrigna di Colchide. Medea, sposata da Egeo è quindi divenuta matrigna di Teseo che era figlio di Etra. Medea è definita noverca anche nelle Heroides: Ovidio, per bocca di Ipsipile, definisce saeva noverca Medea[90]; ma in realtà Medea è ancor più crudele, perché non è matrigna, ma addirittura madre; la vera matrigna è Fedra[91]“[92]
Altrettanto feroce verso la cosiddetta “razza delle donne” è il “puro folle” Ippolito di Euripide del quale riferisco qualche verso.
Il ragazzo sdegnato con la matrigna e con tutto il “popolo nemico”[93] delle donne, individua un segno del fatto che la donna è un grande malanno (kakovn mevga, v. 627) nella consuetudine per cui il padre, il quale l’ha generata e allevata, la sistema in un’altra casa al fine di liberarsi da un male (“wJ” ajpallacqh’/ kakou'”, v. 629) aggiungendo beni dotali (fernav”). Per giunta quel virgulto pernicioso, quell’idolo maligno si farà adornare di gioielli dal marito folle. Quindi il giovane misogino aggiunge:”La situazione più facile è per quello cui tocca una nullità, ma la donna/ inutile per la sua stupidità viene collocata in casa./La saccente la odio (sofh;n de; misw’ , v. 640): non stia nella mia casa /quella che pensa più di quanto debba pensare una donna./Infatti Cipride genera maggior malizia/nelle saccenti (ejn tai'” sofai’sin, 643); mentre la donna semplice/ è privata della pazzia amorosa dalla sua corta mente./Inoltre bisognerebbe che nessuna serva si recasse da una donna/ma che si mettessero ad abitare con loro muti morsi/di fiere, affinché non potessero rivolgere la parola ad alcuno/né ricevere parole di rimando da chicchessia./Ma ora le scellerate dentro le case macchinano/scellerati disegni, e le serve li portano fuori[94]“ (Ippolito , 638-650).
La difesa di Medea.
Alla fine della Medea la protagonista rivendica ancora una volta la propria identità terribile.
La donna abbandonata insomma ha compiuto la sua identità.
Il suum esse del De brevitate vitae[95] è rivendicato da Medea in tutta la tragedia:” In questa rapina rerum omnium (Marc . 10, 4), che ingigantisce su scala cosmica l’instabilità della condizione politica, resta come unico punto fermo, come unico bene inalienabile il possesso della propria anima” afferma Traina[96]. Anche se è un’anima sconvolta.
Più avanti il professore emerito dell’ateneo bolognese aggiunge:”L’animo si arrocca in se stesso: fuori è il regno della fortuna, il vortice delle cose, turbo rerum (ep. 37, 5), hJ e[xwqen perirrevousa divnh, come dirà Marco Aurelio (12, 3, 3). E’ ellenistico questo senso chiuso, individualistico, direi esistenziale dell’interiorità”[97]. Io direi che si trova già in Euripide. I delitti degli uomini fanno dubitare della presenza di dèi giusti tanto il “sacrilego” tragediografo il quale aprì la strada ai “beffardi Luciani dell’antichità”[98], quanto i personaggi delle tragedie di Seneca:” Fugere[99] Superi ” (Thyestes, 1022), sono fuggiti gli dèi, afferma Tieste quando riconosce il fratello Atreo dal crimine efferato che ha commesso. Data la concezione pedagogica del teatro di Seneca, tutti i suoi personaggi sono paradigmi e, al pari del loro autore, lasciano l’immagine della loro vita[100].
La Medea di Euripide alla fine afferma del tutto quella sua diversità della quale in un primo tempo aveva solo preso coscienza: h polla; polloi'” eijmi diavforo” brotw’n” (v. 579), davvero in molte cose io sono diversa da molti.
Questa rivendicazione della propria identità a qualsiasi costo fa pensare; la tragedia antica ci obbliga a guardare fuori dall’orizzonte in cui siamo costretti:” Il teatro greco era infatti un rito religioso in cui le esperienze fondamentali di ogni individuo venivano rappresentate in forma drammatica, e in cui proprio la forma drammatica aveva la forza di spezzare la routine. Chi era partecipe del dramma non era un consumatore né uno spettatore, ma partecipava a un rito che toccava nell’intimo le corde fondamentali della vita; è per questo che il dramma, come dicevano i Greci, produceva un effetto catartico. Il dramma purificava, toccava direttamente. Chi prendeva parte a una rappresentazione drammatica ritrovava il contatto con la parte più profonda dell’uomo e dell’umanità, e ritrovava così ogni volta la capacità di squarciare il velo della routine“[101].
La diversità orrenda affermata da Medea fa pensare alla problematica diversità di ciascuno di noi:” Il vero problema nasce con le diversità che si pongono in irriducibile conflitto con il modello di umanità, un conflitto nel quale la soddisfazione dell’esigenza degli uni costituisce necessariamente violenza per gli altri e viceversa. Nel famoso film di Fritz Lang, M, l’assassino di bambine non mente, quando illustra tragicamente la sua reale esigenza che lo induce a quegli atti omicidi, e l’altissimo costo che significherebbe per lui la repressione di quegli impulsi, ma d’altra parte anche il diritto di quelle bambine di non essere uccise-ossia il loro diritto di esigere la sua repressione-non è meno reale. Pure il delitto di Raskol’ nikov nasce da una passione sofferta e reale; se egli ne venisse impedito, ciò significherebbe il sacrificio di una sua oscura ma autentica esigenza, e d’altronde senza quel sacrificio sono le sue vittime a venire calpestate. Si tratta di casi estremi, che indicano tuttavia la difficoltà di tracciare un confine fra l’esigenza dell’universale e la rivendicazione della diversità, e che indicano soprattutto la difficoltà di risolvere il problema sul mero terreno della prosa del mondo, sul piano puramente sociologico: per Dostoevskij soltanto la prospettiva di Sonia, della carità, può risolvere il dilemma di Raskol’nikov”[102].
Mentre chiudo questo compito, o almeno una fase della sua lavorazione, leggo che ancora una volta una madre ha ucciso una figlia. Un articolo di Umberto Galimberti sul quotidiano “la Repubblica” sostiene che bisogna accudire le madri:”quando un figlio nasce e cresce, bisogna accudire le madri. Troppa è la metamorfosi del loro corpo, la rapina del loro tempo, l’occupazione del loro spazio fisico ed esteriore, interiore e profondo. E quando l’anima è vuota e nessuna carezza rassicura il sentimento, lo consolida e lo fortifica, il terribile[103] è alle porte, non come atto inconsulto, ma come svuotamento di quelle risorse che fanno argine all’amore separandolo dall’odio, allo sguardo sereno che tiene lontano il gesto truce. Non basta che i padri assistano al parto, come è costume dei tempi, molto più utile assistere madre e figlio nel logorio della quotidianità, accarezzare l’una e l’altro per cercare quell’atmosfera di protezione che scalda il cuore e, col calore che genera, tiene separato l’amore dall’odioLa natura contamina questi estremi. E la madre, che genera e cresce nell’isolamento e nella solitudine conosce quanto è fragile il limite. Non sa più cosa accade dentro di lei, e le sue azioni si compiono senza di lei[104]Un invito ai padri: tutelate la maternità nella sua inconscia e sempre rimossa e misconosciuta crudeltà[105]. Questa tutela ha un solo nome:”Accudimento”, per sottrarre le madri a quella luce nera e così poco rassicurante che fa la sua comparsa nell’abisso della solitudine”[106].
Giovanni Ghiselli
[1]C. M. Bowra, Mito E Modernità Della Letteratura Greca , p. 170.
[2] G. Orwell, 1984, pp. 279-280.
[3] Op. cit., p. 282.
[4] Come del resto Teseo nelle Supplici di Euripide.
[5] Cfr. Foscolo, Sepolcri , 157.
[6] Data probabile: 422 a. C.
[7] Anche Plutarco attribuisce a Teseo il dono, ai potenti, di un governo senza re e della democrazia che si sarebbe servita di lui solo come capo militare in tempo di guerra e come custode delle leggi e avrebbe offerto a tutti uguaglianza di diritti ( a{pasin ijsomoirivan, Vita di Teseo, 24, 3). Plutarco aggiunge che ne dà una testimonianza anche Omero il quale nel catalogo delle navi chiama dh’mo” solo gli Ateniesi (Iliade, 2, 547).
[8] Per il beneficio del tempo cfr. Seneca: “omnia, Lucili, aliena sunt, tempus tantum nostrum est” (Ep. 1, 3).
[9] A. Segrè, Economia a colori, p. 26.
[10] Dal giugno del 68 al gennaio del 69.
[11] Riferisco un’interessante osservazione di S. Mazzarino :”Non c’è dubbio che il periodo oggi da noi denominato neobabilonese, insomma l’epoca intorno al 600, in cui Erodoto colloca la sua favolosa regina Nitocri, si caratterizza, nella storia mesopotamica, proprio per la nuova attività costruttiva…Erodoto, con quelle pagine apparentemente pedanti e laboriose, ha voluto avvicinarci allo stile della vita mesopotamica” (Il pensiero storico classico , I, p. 160)..
[12]K. R. Popper, J. Condry, Cattiva maestra televisione , p. 10.
[13] Inferno , XIII, vv. 64-66.
[14] Pindaro afferma che Tantalo era l’uomo più amato dagli dèi che lo onoravano frequentando la sua mensa; egli però non seppe smaltire la grande felicità:” se mai i protettori dell’Olimpo onorarono un uomo/mortale, era Tantalo questo; però/ di fatto non seppe/digerire la grande felicità, e con la sazietà attirò/un accecamento pieno di prepotenza, e su di lui/il padre sospese un macigno pesante,/che egli desidera sempre stornare dal capo/ed erra lontano dalla gioia. (Olimpica I, vv. 54-61).
[15] S. Màrai, La recita di Bolzano, p. 20.
[16] Dionigi di Alicarnasso, Antichità romane, 4, 69, 3.
[17] E. Fraenkel, Aeschylus. Agamemnon, Clarendon Press, Oxford, 1962, II, pp. 256 sgg. (nel commento al v. 503); Olgivie, A Commentary on Livy cit., p. 228: sul bacio alla terra vedi in particolare F. Lot, Le basier à la terre. Continuation d’un rite antique, in Pankrateia, Mélanges H. Grégoire, Bruxelles 1949, pp. 435 sgg.
[18] Ovidio, Fastorum libri, 2, 720. Così Valerio Massimo, 7, 3, 2:”perinde atque casu prolapsus, de industria se abiecit“. Per il tema del “baciare la terra”, cfr. J 1652; A 401.
[19] M. Bettini, Le orecchie di Hermes, pp. 95-96.
[20] Seneca, Apocolocyntosis, 5, 1; Svetonio, Divus Claudius, 2; 21; Seneca, Apocolocyntosis, 1 e 5.
[21] M. Bettini, op. cit., p. 96.
[22] Il libro dei Re, 21, 11 (=Il libro di Samuele, 21, 11-13).
[23] Saxo, 3, 6, 6.
[24] Sallustio, De Catilinae coniuratione, 1.
[25] M. Bettini, op. cit., p. 98.
[26] Livio, I, 56.
[27] Platone, Simposio, 215b, 221d sg.; Lanza, Lo stolto, Einaudi, Torino 1997, pp. 32 sgg.
[28] Epistole. I, 12, 19. quid velit et possit rerum concordia discors. Cfr. Seneca Nat. 7, 27, tota haec mundi concordia ex discordibus constat., tutta l’armonia di questo mondo è costituita di parti contrastanti. ndr
[29] Paradise lost, I, 6 ndr
[30] M. Bettini, Le orecchie di Hermes, Einaudi, Torino, 2000, p. 86.
[31] Saxo, 3, 6, 11.
[32] Igino, Fabulae, 95.
[33] Plinio, Naturalis historia, 35, 129.
[34] Giustino, 2, 7; Plutarco, Vita di Solone, 8, 1 s.
[35] M. Bettini, op. cit., p. 59.
[36] Plutarco, Vita di Solone 8, 1.
[37] Il libro dei Re, 21, 11 (=Il libro di Samuele, 21, 11-13).
[38] Saxo, 3, 6, 6.
[39] M. Bettini, op. cit., p. 59.
[40] Demo rivendica la sua falsa sciocchezza, come Prometeo che rivendica dignità al suo delitto: :”io sapevo tutto questo:/di mia volontà, di mia volontà ho compiuto la trasgressione, non lo negherò (eJkw;n eJkw;n h{marton, oujk ajrnhvsomai)/ aiutando i mortali ho trovato io stesso le pene (aujto;~ huJrovmhn povnou~ )”, Eschilo, Prometeo incatenato, vv.265-267). Aristofane ne fa una parodia.
[41]Il fu Mattia Pascal, p.173.
[42]La decadenza della menzogna in Oscar Wilde, Opere, p. 224.
[43]S. Freud, L’interpretazione dei sogni , pp. 250-251.
[44] Del 98 d. C.
[45] Si pensi a certi “intellettuali” cattolici che per servilismo verso i gestori dei businnes massimi dichiarano che il cristianesimo è la più materialista delle religioni poiché prevede la resurrezione dei corpi.
[46] “Cornelio Cosso Asinio Agrippa consulibus Cremutius Cordus postulatur novo ac tunc primum audito crimine, quod editis annalibus laudatoque M. Bruto C. Cassium Romanorum ultimum dixisset“, Tacito, Annales, IV, 34, sotto il consolato di Cornelio Cosso e Asinio Agrippa (25 d. C.) viene citato in giudizio Cremuzio Cordo per un delitto nuovo e sentito allora per la prima volta: pubblicati degli annali con la celebrazione di M. Bruto, egli aveva chiamato Cassio l’ultimo dei Romani.
[47] “Nero virtutem ipsam excindere concupivit interfecto Thrasea Paeto“, Annales , XVI, 21, Nerone volle uccidere la virtù in persona con l’ammazzare Trasea Peto.
[48] Nel 66 d. C.
[49]S. Mazzarino, Il pensiero storico classico , 3, p. 64.
[50]G. Orwell, 1984 .
[51]S. Mazzarino, Il pensiero storico classico , 3, p. 64.
[52] Cfr. “ formidolosum supra principem attolli ” di Tacito.
[53]Diogene Laerzio, I, 96.
[54]Erodoto, V, 92, e 8-9.
[55]Erodoto, V, 92, e 2. Così le streghe del Macbeth promettono il regno al signore di Glamis, ma la successione ai figli di Banquo (I, 3).
[56]Vernant e Vidal-Naquet, Mito e tragedia due , pp. 39, 48 e 49.
[57]Edipo re , 1034, e Rane , 1192.
[58] Ho tradotto di molti orpelli” pensando al vello doro, simbolo del potere voluto da Pelia. Orpello infatti viene da auri pellis, pelle doro.
[59] Terza commedia (del 1929) della Trilogia del teatro nel teatro di Pirandello. Le altre due sono i Sei personaggi in cerca d’autore (del ’21) e Ciascuno a suo modo (del ’24).
[60]D. Lanza, op. cit., p. 47.
[61]Lanza, op. cit., p. 53.
[62] Del 37d.C.
[63] Cicerone nel De amicitia afferma che non c’è cosa più stolta che procurarsi con grandi mezzi cavalli, servi, abiti di lusso e vasa pretiosa, e invece “amicos non parare, optumam et pulcherrimam vitae, ut ita dicam, suppellectilem ” (15, 55), non procurarsi gli amici, quella che è per così dire la migliore e la più bella supellettile della vita.
[64] Si pensi ai veleni per i quali morirono Claudio e di Britannico, secondo il racconto di Tacito negli Annales (XIII, 54-55).
[65] di Thomas Kyd (del 1585)
[66]De Catilinae coniuratione , 7.
[67] Sterpi (n. d. r. )
[68] Macbeth di Verdi-Francesco Maria Piave.
[69]D. Lanza, op. cit, , p. 50.
[70] The anatomy of human destructiveness, p. 67.
[71]D. Lanza, Il tiranno e il suo pubblico , p. 43.
[72] Machiavelli, Il principe, XVIII, 5.
[73] Jan Kott, Shakespeare nostro contemporaneo, p. 42.
[74] G. Paduano (a cura di), Edipo, p. 9
[75] Pohlenz, La Stoa, 2, p. 99.
[76] Il cardinal Federigo Borromeo.
[77] Come nelle Fenicie di Euripide.
[78] Arriano, Anabasi di Alessandro, 4, 10, 3.
[79] Del 44 a. C.
[80] Fedra 1127.
[81] Gianna Petrone, Il disagio della forma: la tragedia negata di Seneca, “Dioniso” 1981., p. 360.
[82] Del 422 ca.
[83]Aujtourgo;”, oiJvper kai; movnoi sw/zousi gh’n.
[84]Di Benedetto, Euripide: teatro e società., p. 208.
[85] Leggi, 678c-e.
[86] W. Jaeger, Paideia 3, p. 406.
[87] LAteniese parla degli uomini sopravvissuti al diluvio.
[88] Il dovere della cortesia formale a cena non viene meno neppure in questa cupa tragedia .
[89] Che sposerà Medea dopo Giasone ed è il nonno di Ippolito.
[90] her. VI, 125-127; ma cfr. anche her. XII 187-188.
[91] Sen. Phae. 356-357: Quid plura canam? Vincit saevas/cura novercas; qui Seneca, riecheggiando il motivo virgiliano omnia vincit amor (buc. X 69), afferma che perfino una matrigna è in grado di amare” (A. Casamento, Finitimum oratori poetae. Declamazioni retoriche e tragedie senecane, Palermo 2002, pp. 114-115)
[92]F. Bertini, XXVI Convegno Internazionale, Tragedie dell’onore nell’Europa Barocca, Roma, 12-15 settembre 2002., p. 30.
[93]Cfr. C. Pavese:”Sono un popolo nemico, le donne, come il popolo tedesco. Il mestiere di vivere , 9 settembre, 1946.
[94] Si può pensare a quella della moglie di Eufileto dell’orazione di Lisia.
[95] “Ille illius cultor est, hic illius: suus nemo est “, 2, 4, , quello è dedito al culto di quello, questo di quello, nessuno appartiene a se stesso.
[96]Lo stile “drammatico” del filosofo Seneca , p. 13.
[97]A. Traina, op. cit., p. 2O.
[98] F. Nietzsche, La nascita della tragedia, cap. 10.
[99] =fugerunt
[100] Imaginem vitae suae relinquere testatur , dichiara per testamento che lascia l’immagine della sua vita. E’ Seneca prima di morire negli Annales di Tacito ( XV, 62).
[101]E. Fromm, I cosiddetti sani . La patologia della normalità dell’uomo contemporaneo , pp. 26-27.
[102] C. Magris, L’anello di Clarisse , p. 27.
[103] Nell’ Ifigenia in Aulide la corifea comprende la pena di Clitennestra per la figliola ricordando quale prova terribile sia il parto:”deino;n to; tivktein kai; fevrei fivltron mevga-pa’sivn te koino;n w{sq’ uJperkavmnein tevknwn” (vv. 917-918), tremendo è partorire e comporta una grande magia comune a tutte, tanto da soffrire per i figli (n. d. r.)
[104] “Kai; manqavnw me;n oiJ’a dra’n mevllw kakav,-qumo;” de; kreivsswn tw’n ejmw’n bouleumavtwn,-oJvsper megivstwn ai[tio” kakw’n brotoi'”” ( vv. 1078-1080), capisco quale abominio sto per compiere, ma più forte dei miei ragionamenti è la passione che è causa dei mali più grandi per i mortali”, dice la Medea di Euripide nel quinto episodio dopo avere preso la decisione folle di uccidere i figli (n. d. r.)
[105] Cfr la Medea di Euripide: Dicono di noi che viviamo una vita senza pericoli/ in casa, mentre loro combattono con la lancia,/pensando male: poiché io tre volte accanto a uno scudo/ preferirei stare che partorire una volta sola. (vv. 248-251) n. d. r.
[106] Umberto Galimberti, “la Repubblica” 2 dicembre 2004, p. 15.
18 p m.
29 ottobre 2012