Giovanni Ghiselli: professore di greco e latino
27 Gennaio 2019Giusy
27 Gennaio 2019di Giovanni Ghiselli
Nelle Storie di Erodoto la teoria antitirannica è attribuita al nobile persiano Otane il quale, durante il dibattito costituzionale, contrappone alla monarchia il popolo che comanda (plh`qo~ de; a[rcon) che prima di tutto ha il nome più bello: ” ijsonomivhn”, poi non fa nulla di quanto perpetra l’autocrate: infatti esercita i poteri in seguito a sorteggio (pavlw/), e ha un potere soggetto a controllo:” uJpeuvqunon de; ajrch;n e[cei” (III, 80, 6).
Il monarca può fare quello che vuole senza subire controlli (III, 80, 6).
Erodoto attraverso Otane formula già la teoria, poi riproposta da Polibio, secondo la quale il regno degenera inevitabilmente in tirannide.
Monarchia/Regno-Tirannide-Aristocrazia-Oligarchia-Democrazia-Oclocrazia.
Tra i sette nobili Persiani, quando ebbero parlato anche Megabizo, che propugnava l’oligarchia, quindi Dario, il quale sosteneva la monarchia e l’inevitabilità della degenerazione sia della democrazia sia dell’aristocrazia (III, 82) verso le rispettive forme deteriori, prevalse quest’ultimo con l’argomento che a loro la libertà era venuta da un monarca. Cfr.la logica aperta al contrasto di questo trisso;~ lovgo~.
Allora Otane non entrò in lizza per diventare re, dicendo parole belle assai, una specie di manifesto dell’antisadismo:”ou[te ga;r a[rcein ou[te a[rcesqai ejqevlw” (III, 83, 2), infatti non voglio comandare né essere comandato.
Tiranno per il greco Erodoto dunque è anche il mouvnarco” raffigurato da Otane, nel dibattito sulla migliore costituzione (III 79-84), come colui che invidia i migliori, si compiace dei peggiori, ed è pronto ad accogliere le calunnie. Infatti dai beni che possiede gli deriva l’u{bri” , mentre fin dall’origine gli è innato lo fqovno” . Siccome ha questi due vizi, e[cei pa’san kakovthta, detiene ogni malvagità (III, 80, 4). Dunque egli: “novmaiav te kinevei pavtria kai; bia’tai gunai’ka” kteivnei te ajkrivtou”” (III, 80, 5) sovverte le patrie usanze, violenta le donne e manda a morte senza giudizio. “Così il persiano Otane riassume ciò che è in sostanza il motivo comune fra i Greci per l’opposizione alla tirannide”[1].
Nelle tragedie, il tiranno è il paradigma mitico di questo principio.
La mancanza di controllo ne fa l’antitesi del capo democratico.
Tale è Edipo finché non comprende, a Colono, tale il Creonte di Sofocle e di Euripide, tale Serse nei Persiani di Eschilo, il grande re il quale, pur se sconfitto, non è “uJpeuvquno” povlei” (v. 213), tenuto a rendere conto alla città, come invece lo è uno stratego eletto dal popolo.
Eschilo contrappone al potere assoluto il sistema democratico di Atene quando, nei Persiani, la regina Atossa domanda ai vecchi dignitari chi sia il pastore e il padrone dell’esercito. Allora il corifeo risponde:”ou[tino” dou’loi kevklhntai fwto;” oujd j uJphvkooi” (v. 242), di nessun uomo sono chiamati servi né sudditi.
Nelle Supplici di Eschilo è addirittura un re[2] che nega di gestire un potere assoluto: Pelasgo, sovrano di Argo, si rifiuta di fare qualsiasi promessa prima di essersi consultato con tutti i cittadini (vv. 368-369).
Un padrone assoluto è Zeus nel Prometeo incatenato :”tracu;” movnarco” oujd j uJpeuvquno” kratei'” (v. 324), un sovrano rigido, né impera obbligato a rendere conto. Ma Zeus è un dio. Per giunta è costretto alla durezza dal fatto che il suo regno è nuovo:”a{pa” de; tracu;” o{sti” a}n nevon krath’/” (v. 35), chiunque comandi da poco tempo è duro.
E’ uno dei tanti arcana imperii. Lo rivela anche Didone la quale anzi se ne scusa con i Troiani:”Res dura et regni novitas me talia cogunt/ moliri” (Eneide, I, 563-564), la dura condizione e la novità del regno mi costringono a tali precauzioni. Una condizione svelata “alle genti”[3] pure da Machiavelli:”Et infra tutti e’ principi, al principe nuovo è impossibile fuggire el nome di crudele, per essere li stati nuovi pieni di pericoli” (Il Principe, XVII).
Nelle Supplici[4] di Euripide Teseo è il Pericle in vesti eroiche il quale elogia la costituzione democratica dialogando con l’araldo mandato da Creonte re, anzi tiranno di Tebe. Atene dunque non è comandata da un uomo solo, ma è una città libera (ejleuqevra povli” , v. 405).
Anche Plutarco attribuisce a Teseo il dono, ai non potenti, di un governo senza re e della democrazia che si sarebbe servita di lui solo come capo militare in tempo di guerra e come custode delle leggi e avrebbe offerto a tutti uguaglianza di diritti ( a{pasin ijsomoirivan, Vita di Teseo, 24, 3). Plutarco aggiunge che ne dà una testimonianza anche Omero il quale nel catalogo delle navi chiama dh’mo” solo gli Ateniesi (Iliade, 2, 547).
L’araldo di Creonte ribatte che il governo di un solo uomo non è male: infatti il re esclude il demagogo che, gonfiando la folla con le parole, la volge di qua e di là a proprio profitto (pro;~ kevrdo~ i[dion).
Chi non è capace di tenere ordinate e dritte le parole (mh; diorqeuvwn lovgou~) , come potrebbe tenere dritta, reggere la città (eujquvnein povlin)? 417-418
Il povero che lavora la terra (gapovno~ d ajnh;r pevnh~, 420) non ha tempo né per imparare né per dedicarsi alle faccende pubbliche:” oJ ga;r crovno” mavqhsin ajnti; tou’ tavcou” -kreivssw divdwsi (vv. 419-420), è infatti il tempo che dà un sapere più forte invece della fretta.
Cfr. Seneca: “omnia, Lucili, aliena sunt, tempus tantum nostrum est” (Ep. 1, 3).
Il tiranno ha spesso di mira il kevrdo~ e attribuisce al prossimo tale fissazione”. Kevrdo” è una delle parole che ricorrono nei discorsi dei tiranni delle tragedie: il profitto è una vera ossessione del despota.
NellAntigone, per esempio Creonte replica al coro usando termini economici, quelli che la nobiltà, non solo greca, considera i più vicini agli interessi e alla mentalità tanto della plebe quanto dei tiranni che la capeggiano:”e infatti la paga (misqov”) è questa. Ma per speranze/il lucro (kevrdo”) spesso manda gli uomini in rovina”. (v. 221-222).
Più avanti l’autocrate cercherà di rinfacciare l’avidità a Tiresia ( Antigone, v. 1055) il quale subito dopo ritorcerà contro di lui l’accusa di amare i turpi guadagni (v. 1056).
Leopardi in Il pensiero dominante condanna l’ossessione dell’utile da parte della sua età “superba,/ che di vote speranze si nutrica,/vaga di ciance, e di virtù nemica;/stolta, che l’util chiede,/e inutile la vita/quindi più sempre divenir non vede“(vv. 59-64).
Ancora più duramente si esprime nei confronti del lucro il poeta di Recanati nella Palinodia al Marchese Gino Capponi :” anzi coverte/fien di stragi l’Europa e l’altra riva/dell’atlantico mar…sempre che spinga/contrarie in campo le fraterne schiere/di pepe o di cannella o d’altro aroma/fatale cagione, o di melate canne,/o cagion qual si sia ch’ad auro torni”(vv. 61-67).
Efficace è la sintesi pindarica : “ajkevrdeia levlogcen qamina; kakagovrou~ ” (Olimpica I , v. 53), una perdita tocca spesso ai maldicenti. Sono quelli che dicono male degli dèi e, quindi, della vita, reificandola, riducendola a cosa.
“Le leggi del profitto, infatti, regolano dall’esterno la maggior parte delle “cose umane” senza umanità, equità, giustizia, affermando la competizione al posto della cooperazione”[5].
Teseo, nelle Supplici, non controbatte la critica ai demagoghi, che condivide, ma risponde che il tiranno è l’entità più ostile alla polis:” oujde;n turavnnou dusmenevsteron povlei” (v. 429).
Egli infatti uccide i migliori, quelli dei quali considera la capacità di pensare, in quanto teme per il suo potere:”kai; tou;” ajrivstou” ou{” a]n hJgh’tai fronei’n-kteivnei, dedoikw;” th'” turannivdo” pevri” (vv. 444-445).
Il tiranno è circondato dalla paura.
Sicché la città si indebolisce: come potrebbe essere forte quando uno falcia i giovani, come da un campo di primavera (wJ~ leimw`no~ hjrinou`) con tagli si porta via la spiga? (vv. 447-449).
Cfr. Trasibulo di Mileto e Tarquinio il Superbo.
Inoltre il despota si impossessa dei beni altrui rendendo vane le fatiche di chi voleva acquistare ricchezze per i propri figli. Per non parlare delle figlie che l’autocrate vuole rendere strumenti del suo piacere.
l’Elettra di Euripide recitando il biasimo funebre di Egisto allude, con pudica e verginale aposiopesi, alle porcherie che l’usurpatore faceva con le donne:”ta; d j eij” gunai’ka”, parqevnw/ ga;r ouj kalo;n-levgein, siwpw’ ” (Elettra, vv. 945-946).
Si vede che sono gli stessi motivi della storiografia. Del resto non sono molto diversi i tiranni bolliti sonoramente, con “alte strida”, nel Flegetonte dell’Inferno di Dante:”Io vidi gente sotto infino al ciglio;/e ‘l gran Centauro disse:” E’ son tiranni/che dier nel sangue e nell’aver di piglio” (XII, 103-105).
Un altro personaggio tragico che afferma l’insindacabilità del potere assoluto è Lady Macbeth nella scena del sonnambulismo:”What need we fear who knows it, when none can call our power to account it?” (Macbeth V, 1), perché dovremmo temere chi lo sappia, quando nessuno può chiamare la nostra potenza a renderne conto?
Adesso questo potere sta dentro tutte le case :”La televisione è diventato un potere incontrollato e qualsiasi potere non controllato è in contraddizione con i princìpi della democrazia”[6].
La televisione, come il tiranno, esige il livellamento delle teste. L’uomo che sa pensare si pone il problema di come resistere a questa volontà di omologazione tentando di salvare la propria unicità.
Il tiranno e il potere. Erodoto, Sofocle, Livio, Tacito, Shakespeare, Pasolini.
La prima caratteristica del despota, lo abbiamo visto, è l’insofferenza dell’opposizione.
La mania della distruzione delle intelligenze fa parte dalla mente autocratica: sappiamo da Erodoto che la scuola dei tiranni insegna a uccidere gli oppositori in generale, e prima di tutti chiunque dia segni di intelligenza e indipendenza.
Periandro di Corinto, nipote della zoppa Labda, quando era ancora tiranno apprendista e la sua malvagità non si era scatenata, accolse il suggerimento di Trasibulo di Mileto il quale:”oiJ uJpetivqeto..tou;” uJperovcou” tw’n ajstw’n foneuvein”, gli consigliava di mettere a morte i cittadini che si distinguevano ( Storie , V, 92 h) . Il despota esperto aveva dato il consiglio criminale in maniera simbolica: mostrandosi a un araldo, mandato da Corinto a domandargli come si potesse governare la città nella maniera più sicura e bella, mentre recideva le spighe più alte di un campo di grano.
Periandro comprese e allora rivelò tutta la sua malvagità (” ejnqau’ta dh; pa’san kakovthta ejxevfaine”).
Abbiamo visto che già Otane nel dibattito costituzionale del terzo libro aveva usato l’espressione pa’san kakovthta che, secondo il nobile persiano , è conseguenza dell’ u{bri”, la prepotenza, a sua volta originata dall’invidia e dai beni a disposizione del monarca ( “uJpo; tw’n parevontwn ajgaqw’n”, III, 80, 3).
Dante individua la presenza del vizio dell’invidia soprattutto nei luoghi del potere:””La meretrice che mai dall’ospizio/di Cesare non torse li occhi putti,/ morte comune, delle corti vizio”[7].
Nella commedia pastorale As you like it (1599) di Shakespeare, Il duca esiliato dal fratello e rifugiatosi nella foresta di Arden con i nobili suoi fedeli dice: Now my co-mates and brothers in exile,-hath not old custom made this life more sweet-than the painted pomp? Are not these woods-more free from peril than the envious court?” (II, 1), ora miei compagni e fratelli d’esilio, non ha l’antico costume reso questa vita più dolce che lo sfarzo dipinto? Non sono questi boschi più liberi dal pericolo dellinvidiosa corte?
La ricchezza e il potere dunque sono occasioni per la malvagità.
E pure per la stupidità: il Coro dell’Eracle di Euripide dopo la punizione del tiranno Lico afferma che l’oro, e il successo, spingono i mortali fuori dalla ragione tirandosi dietro un potere ingiusto:” oJ cruso;” a[ t j eujtuciva-frenw’n brotou;” ejxavgetai-duvnasin a[dikon ejfevlkwn” (vv. 774-776).
Su questa linea si trova anche Platone il quale chiama in causa Omero che ha rappresentato Tantalo, Sisifo e Tizio “ejn jAidou to;n ajei; crovnon timwroumevnou””( Repubblica, 525e), puniti nell’Ade per sempre: questi erano appunto re e dinasti; mentre Tersite, e chiunque altro sia stato malvagio da privato cittadino (“ijdiwvth””) non ha avuto occasione di fare tanto male, e per questo si può considerare più fortunato dei potenti dai quali provengono “oiJ sfovdra ponhroiv” ( Repubblica, 526a) quelli malvagi assai.
Dai capitoli erodotei (III, 80-82) ricordati sopra derivano i modelli costituzionali della filosofia ( Platone, Aristotele ) e della storiografia (Polibio) successive. E non solo la storiografia greca.
Tito Livio attribuisce lo stesso gesto di Trasibulo, con le stesse intenzioni, al re Tarquinio il quale indicò al figlio Sesto cosa fare degli abitanti di Gabi con un’analoga risposta senza parole:” rex velut deliberabundus in hortum aedium transit sequente nuntio filii; ibi inambulans tacitus summa papaverum capita dicitur baculo decussisse “(I, 54), il re quasi meditabondo passò nel giardino della reggia seguito dall’inviato del figlio; lì passeggiando in silenzio, si dice che troncasse con un bastone le teste dei papaveri.
Il tiranno è la stessa Invidia che Ovidio personifica: essa “quacumque ingreditur, florentia proterit arva,/ex?rit herbas et summa papavera carpit” (Metamorfosi, II, 792), dovunque procede, schiaccia campi fiornti, dissecca le erbe e stacca le cime dei papaveri.
Il falso sciocco
Tito Livio racconta che Bruto, per salvarsi da Tarquinio, aveva stabilito di non lasciare al re nulla da temere dall’animo suo, nulla da desiderare nella sua fortuna, e di trovare sicurezza nell’essere disprezzato:”Ergo ex industria factus ad imitationem stultitiae, cum se suaque praedae esse regi sineret, Bruti quoque haud abnuit cognomen ” (I, 56, 8) pertanto fingendosi stolto apposta, lasciando se stesso e i suoi beni al re, non rifiutò neppure il soprannome di Bruto. Perché non vi è nulla di più pericoloso di un uomo che rifiuta di sottomettersi alla tirannia”[8].
Ma quella che sembrava pazzia agli stupidi era invece genio. Quando l’oracolo delfico preconizzò che avrebbe avuto il sommo potere a Roma quello che per primo avesse baciato la madre, Bruto, avendo capito, “velut si prolapsus cecidisset, terram osculo contigit, scilicet quod ea communis mater omnium mortalium esset ” I, 56, 12, come se fosse caduto per una scivolata, diede un bacio alla terra, evidentemente poiché quella era la madre comune di tutti i mortali.
Molto interessante è il commento di Bettini alla finta scivolata del falso sciocco. Questo particolare non irrilevante si trova anche in altri autori. “Il racconto di Dionigi appare, in questo episodio, leggermente variato[9]. Egli infatti ambienta la scena non direttamente nel tempio di Delfi, come Livio, ma la ritarda sino al momento dello sbarco in Italia: in questo modo, la terra mater assume simultaneamente anche il connotato della terra patria. Ancora, in Dionigi manca il tema della caduta simulata: Bruto, semplicemente, si china a baciare la terra, compiendo un gesto rituale antico e frequente, in coloro che tornano a casa dopo un lungo viaggio[10]Ovidio, al contrario, resta fedele al tema della simulazione:”ille iacens pronus matri dedit oscula terrae,/creditus offenso procubuisse pede“[11] ( giacendo disteso al suolo dette un bacio alla terra madre, dando l’impressione che fosse caduto per aver inciampato). Qui Bruto inciampa, non scivola come altrove: però si tratta ugualmente di una caduta, e di una falsa caduta”[12].
Ovidio definisce Brutus stulti sapiens imitator, un saggio che si fingeva sciocco, ut esset-tutus ab insidiis, dire Superbe, tuis” (Fasti, II, 717-718).
Bettini procede facendo notare che la stupidità, vera o simulata, tira al basso. “In generale la poca stabilità sulle gambe, l’attrazione verso la terra – la tendenza, insomma, a mutare la posizione eretta umana e normale con quella a terra – sembra costituire un tratto tipico dello sciocco e del buono a nulla: ovvero di colui che finge di esserlo. Dell’imperatore Claudio si sottolinea frequentemente l’andatura vacillante, il “dexterum pedem trahere” (trascinare il piede destro), e così via[13]. Il carattere tardus dell’intelletto sembra avere il suo corrispettivo nella tardità fisica”[14].
Questa caratteristica di Claudio può entrare del resto anche nella rubrica “la zoppia del tiranno” che aprirò tra poco avvalendomi della guida di J. P. Vernant.
Per ora torniamo a Bettini e ad altri finti sciocchi che traballano. ” David, comunque, fingendosi pazzo alla corte di Achis “si lasciava cadere fra le loro mani e inciampava nei battenti della porta”[15]. Dunque anche David scivolava giù e inciampava, come Bruto a Delfi. Ma anche Amelethus, quando lo incontriamo la prima volta nella reggia di Fengo, giace “abiectus humi” (buttato a terra), sporco[16]… Lo stupido, tendendo al basso, alla terra, con la sua andatura incerta e le sue cadute, il suo inciampare, la sua amletica posizione di humi abiectus, di disprezzato Ceneraccio, riconferma invece la propria natura animalesca, il suo essere brutus: come gli animali che, com’è noto, “natura () prona finxit“[17] (la natura ha creato proni verso terra). Del restoil valore originale dell’aggettivo brutus è proprio quello di “pesante”: chi è brutus ha un ingegno che tira al basso. Cadendo a terra Brutus – per fare un gioco etimologico caro ai poeti antichi – diventa “realmente” brutus. I cugini Tito e Arrunte, nel tempio del dio di Delfi, non si saranno certo meravigliati del suo gesto, lo avranno trovato normale. E’ stupido, è brutus, e quindi cade. Magari avranno riso di lui”[18].
Livio racconta pure che Bruto aveva portato in dono ad Apollo una verga d’oro inclusa in un bastone di corniolo con un incavo fatto a questo scopo, recando immagine enigmatica del suo carattere:”aureum baculum inclusum corn?o cavato ad id baculo tulisse donum Apollini dicitur, per ambagem effigiem ingenii sui “[19].
Una delle tante cose simboliche nella letteratura, oggetti diventati cose, causae.
“L’offerta funziona dunque come un indovinello, che simbolicamente rappresenta la falsa stoltezza dell’eroe. Il falso sciocco si configura come un involucro di materia vile che nasconde un’anima aureaDunque Bruto offre al dio un’immagine di se stesso, e della sua intelligenza fasciata di stoltezza. Come il Sileno platonico-l’astuccio ligneo, e di aspetto rozzo, che cela al suo interno la statua della divinità[20]-anche il bastone di Bruto manifesta simultaneamente i contrari. In questo senso si potrebbe anche dire che l’oggetto che Bruto offre al dio funziona alla maniera di un ossimoro, quella figura retorica che fa coincidere in uno stesso sintagma due pefetti contrari: come l’oraziana “concordia discors“[21], o il miltoniano “darkness visible“[22]. La materia più nobile e desiderata -l’oro- e quella più vile e mal augurante – un legno scadente e infelix– sono poste forzatamente una dentro l’altra. L’oggetto è ossimorico proprio come ossimorico è il falso sciocco, con la sua sapiens insipientia. Diciamo meglio. Il falso sciocco è l’ossimoro per eccellenza, visto che il significato proprio di questa espressione greca, ojxuvmwron, è proprio quella di “sciocco acuto”Forse non avevamo pensato che Bruto, come Amelethus, e tutti gli altri falsi sciocchi, erano in realtà delle figure retoriche, degli ossimori: anche in senso assolutamente letterale”[23] .
Così è anche Vergine madre” di Dante
Amelethus è un personaggio dei Gesta Danorum di Saxo Grammaticus (1140 ca-1210 ca).
Vediamo un aspetto della pazzia di Ameleyhus con altre considerazioni di Bettini:”L’eroe ha appena fatto all’amore con la futura Ofelia shakespeariana, e gli viene chiesto: su quale cuscino? E lui:” Su uno zoccolo di giumenta, una cresta di gallo e le travi del tetto”[24]. Ma il falso stolto deve anche farne, di sciocchezze, oltre che dirne.
Odisseo a Itaca, davanti a Menelao e Agamennone, aggioga all’aratro un bue e un cavallo e se ne va in giro con in capo il berretto (pileus) dello stolto[25]. Peccato che non possiamo più vedere un celebre dipinto di Eufranore che stava a Efeso, forse nel santuario di Artemide. Plinio lo descriveva così:”Ulisse, fintosi pazzo, aggioga un bue insieme con un cavallo: vi sono anche uomini pensosi vestiti col pall’io, e un comandante che rinfodera la spada”[26]. Ecco che le plateali insensatezze del (falso) sciocco suscitano il dubbio e lo sconcerto dei cogitantes, i personaggi “pensosi” che lo osservano. Solone, per parte sua, se ne uscì invece in pubblico “deformis habitu more vecordium” (tutto malvestito alla maniera dei pazzi), ovvero con in testa il famoso berretto[27]“[28].
Solone ejskhvyato me;n e[kstasin tw`n logismw`n[29], simulò un’uscita di senno. Poi saltò fuori nellagorà con un pilivdion , un berrettino in capo. Voleva che gli Ateniesi riprendessero la guerra contro i Megaresi per Salamina. In piazza intonò un elegia, un canto, ornamento di parole, Salamina di cento versi composti con molta grazia. Quindi gli Ateniesi abrogarono la legge contraria alla rivendicazione di Salamina e affidarono a Solone il comando della guerra.
David, alla corte di Achis, contraffaceva il volto, si lasciava cadere, inciampava nei battenti della porta, e la saliva gli correva lungo la barba[30]. Ancora Amelethus, alla corte di Fengo, giace per terra sporco di cenere, intento a indurire nel fuoco dei bastoncini ricurvi[31]; poi lo vediamo salire su un cavallo a rovescio, reggendo naturalmente la coda al posto delle redini”[32].
Tacere e dissimulare è un modo per resistere alla stupidità della tirannide. Così avviene in 1984 di Orwell dove gli slogan del Partito sono:” La guerra è pace, la libertà è schiavitù, l’ignoranza è forza, (p. 8)…Non si possedeva di proprio se non pochi centimetri cubi dentro il cranio…Non era col farsi udire ma col resistere alla stupidità che si sarebbe potuto portare innanzi la propria eredità di uomo” (p. 31).
Falso sciocco è anche Demo nei Cavalieri di Aristofane. Il coro lo accusa di dabbenaggine: sei uno facile da ingannare (eujparavgwgo” , v. 1115), gli dice, ti piace troppo essere adulato. E il vecchietto irritabile, sordastro (duvskolon gerovntion-uJpovkwfon, vv. 42-43) risponde: non avete senno sotto le vostre zazzere, se credete che io non capisca ejgw; d j eJkw;n[33] -tau’t j hjliqiavzw”, vv. 1123-1124), io mi comporto da sciocco apposta, e così me la godo a farmi portare da bere. Il Popolo insomma ha permesso ai demagoghi, Paflagone in testa, di essere ladri, per poi costringerli a vomitare fuori (pavlin ejxemei’n, v. 1148)) quello che gli hanno rubato usando l’urna elettorale per provocare il vomito.
Anche Amleto di Shakespeare non si finge pazzo? E anche nella sua follia c’è metodo (II, 2) tanto che il re sentenzia che la pazzia nei grandi deve essere vigilata (III, 1).
Ma chi è Amleto?
Pirandello sostiene che l’Oreste dell’Elettra di Sofocle diventerebbe Amleto quando si producesse “uno strappo nel cielo di carta del teatrino (…) quello strappo, donde ora ogni sorta di mali influssi penetrerebbero nella scena, e si sentirebbe cader le braccia”[34]; Amleto dunque sarebbe un personaggio paralizzato dalla consapevolezza che tutto è finto, recitato, convenzionale; Amleto anzi secondo O. Wilde fu l’inventore del pessimismo che incupisce la terra:”il mondo è diventato triste perché una volta una marionetta fu malinconica”[35].
Oscar Wilde in La decadenza della menzogna (del 1889) sostiene che non è l’arte a imitare la vita, ma il contario:”La vita imita l’arte assai più di quanto l’arte imiti la vita”.
Ebbene un Oreste amletico, come personaggio “terribilmente sconcertato” e consapevole, è già presente nella tragedia greca ed è il protagonista dell‘ Oreste di Euripide. Infatti a Elettra che gli domanda:”tiv crh’ma pascei”; tiv” s j ajpovllusin novso” ;”(v. 395) che cosa soffri? quale malattia ti distrugge?, egli risponde:” hJ suvnesi” , o{ti suvnoida dein j eijrgasmevno”” (v. 396) l’intelligenza, poiché sono consapevole di avere commesso cose terribili. E se Amleto dice a Guildestern “Denmark’s a prison ” (II, 2) la Danimarca è una prigione, Oreste fa a Pilade:”oujc oJra” ; fulassovmeqa frourivoisi pantach'”(v. 760), non vedi? siamo sorvegliati da sentinelle da tutte le parti.
Restando ancora su Amleto, Freud sostiene che Amleto piuttosto è paralizzato dalla coscienza che lo zio ha attuato quanto avrebbe voluto fare lui stesso:” Secondo la concezione tuttora prevalente, che risale a Goethe, Amleto rappresenta il tipo d’uomo la cui vigorosa forza d’agire è paralizzata dalla forza opprimente dell’attività mentale (“la tinta nativa della risoluzione è resa malsana dalla pallida cera del pensiero”, III, 1). Secondo altri, il poeta ha tentato di descrivere un carattere morboso, indeciso, che rientra nell’ambito della nevrastenia. Senonché, la finzione drammatica dimostra che Amleto non deve affatto apparirci come una persona incapace di agire in generale. Lo vediamo agire due volte, la prima in un improvviso trasporto emotivo, quando uccide colui che sta origliando dietro il tendaggio, una seconda volta in modo premeditato, quasi perfido, quando con tutta la spregiudicatezza del principe rinascimentale manda i due cortigiani alla morte a lui stesso destinata. Che cosa dunque lo inibisce nell’adempimento del compito che lo spettro del padre gli ha assegnato? Appare qui di nuovo chiara la spiegazione: la particolare natura di questo compito. Amleto può tutto, tranne compiere la vendetta sull’uomo che ha eliminato suo padre prendendone il posto presso sua madre, l’uomo che gli mostra attuati i suoi desideri infantili rimossi”[36].
L’invidia.
Quanto allo fqovno”, Tacito attribuisce più di una volta l’invidia ai suoi Cesari: Tiberio temeva dai migliori un pericolo per sé, dai peggiori disonore per lo stato (ex optimis periculum sibi, a pessimis ded?cus publicum metuebat, Annales , I, 80), e Domiziano invidiava e odiava Agricola per i suoi successi in Britannia:”Id sibi maxime formidolosum, privati hominis nomen supra principem attolli ” ( Agricola[37] , 39), gli faceva paura soprattutto il fatto che il nome di un suddito fosse messo al di sopra di quello del principe.
Quale deve essere la posizione dell’intellettuale e dell’uomo libero in genere nei confronti del tiranno?
Tacito dubita se il favore o l’ostilità dei principi dipenda dal fato, o se abbiano qualche peso le nostre decisioni e sia possibile percorrere un cammino intermedio, privo di servilismo e pericoli, tra una rovinosa opposizione e una degradante sottomissione[38] :” an sit aliquid in nostris consiliis liceatque inter abruptam contumaciam et deforme obsequium pergere iter ambitione ac periculis vacuum ” (Annales IV, 20, 3).
Una via di mezzo insomma tra il ruere in servitium (Annales , I, 7) o la libido adsentandi (Historiae , I, 1) e l’ambitiosa mors (Agricola , 42), la morte spettacolare con cui gli oppositori estremi divennero famosi (plerique ambitiosa morte inclaruerunt).
Comunque chi scrive storia deve esprimersi sine ira et studio (Annales , I, 1), senza animosità e partigianeria, ovvero raccontare di ciascuno neque amore et sine odio (Historiae , I, 1).
Intellettuali e potere.
Tra intellettuali liberi e potere non sono possibili rapporti di collaborazione secondo il Pasolini degli Scritti corsari che infatti gli sono costati la vita:” il potere e il mondo che, pur non essendo del potere, tiene rapporti pratici col potere, ha escluso gli intellettuali liberi”. (p. 113).
Altrettanto vennero messi a tacere dal regime imperiale di Roma gli storiografi che facevano opposizione e divennero martiri: Tito Labieno (soprannominato Rabienus per la sua rabbia contro i vincitori ) si uccise per non sopravvivere alla sua opera, che Augusto fece bruciare, siccome esaltava la libertas .
Cremuzio Cordo chiamava Cassio, il cesaricida “ultimo dei Romani”[39].
“Anche del senatore Cremuzio Cordo furono bruciati i libri, per ordine di Seiano, il celebre prefetto del pretorio di Tiberio; ed egli , accusato, s’era lasciato morire di fame. (La sua autodifesa fu un’esaltazione della libertà di pensiero storico)…Sotto Nerone, il padovano Trasea Peto “la virtù in persona[40]“, come lo definì Tacito , si uccise[41] accusato di lesa maestà: aveva scritto una monografia su Catone Uticense. Questi storici capaci di eroismo sapevano benissimo che le loro opere, seppur con varie gradazioni, non solo difendevano l’antico regime, ma in realtà ponevano in questione lo stesso principato”[42]. Quando la persona del tiranno cambia, del resto ci possono essere rivalutazioni o nuove condanne secondo l’interesse o la simpatia del despota, e secondo la concezione orwelliana della storia come palinsesto:””La Storia era un palinsesto grattato fino a non recare nessuna traccia della scrittura antica e quindi riscritto di nuovo tante volte quante si sarebbe reso necessario”[43]. Quando cambia un regime, o il despota, gli scrittori eliminati possono essere riabilitati.
“Caligola fece tornare alla luce gli scritti di Labieno e di Cremuzio:”è nel mio interesse” diceva “che la storia sia conosciuta” (ut facta quaeque posteris tradantur : Suet. Cal. 16, 1): un punto di vista che entra nella tendenza antitiberiana, e nella ricerca della popularitas , con cui Caligola, ai suoi inizi, si presentò come un monarca, a suo modo, costituzionale”[44].
La zoppia del tiranno.
Il despota teme chi gli sta sopra[45] anche solo fisicamente: ” Edipo uccide il padre che, dall’alto del suo carro, precipita allo stesso suo livello (…) Come Edipo che colpendo Laio con il suo bastone lo fa cadere dall’alto del suo carro a terra, ai suoi piedi, Periandro falcia e abbatte tutti coloro la cui testa supera di poco quella degli altri. E in secondo luogo le donne. La tradizione greca fa di Periandro, modello del tiranno, un nuovo Edipo. Egli avrebbe, in segreto, consumato l’unione sessuale con la madre Krateia[46] (…) Ma la tirannide, sovranità claudicante, non può procedere a lungo nel suo successo. L’oracolo, che aveva dato via libera a Cipselo per aprirgli la porta del potere, aveva fissato, fin dall’inizio, il termine al di là del quale la discendenza di Labda, non diversamente da quella di Laio, non avrebbe avuto il diritto di perpetuarsi. “Cipselo, figlio di Eezione, re dell’illustre Corinto” aveva proclamato il dio; ma per aggiungere subito:”lui e i suoi figli, ma non più i figli dei suoi figli”[47]. Alla terza generazione, l’effetto della “pietra rotolante” uscita dal ventre di Labda non si fa più sentire [48]. Per la stirpe dei claudicanti, istallati sul trono di Corinto, è venuto il momento in cui il destino vacilla, precipita, sprofonda nella sventura e nella morte”[49].
A proposito della zoppìa del tiranno, Periandro era figlio di Cipselo, nato da una Bacchiade zoppa (cwlhv, V, 92 b), Labda, che nessun membro di questa oligarchia dominante Corinto voleva sposare. La sposò invece uno di origine Lapita, Eezione il quale, siccome non nascevano figli, andò a interrogare l’oracolo di Delfi. La Pizia rispose che Labda era già incinta e avrebbe partorito un masso rotondo (tevxei d j ojlooivtrocon) che si sarebbe abbattuto sui governanti punendo Corinto.
Zoppicante è anche the bloody king (IV, 3), il re sanguinario di Shakespeare, Riccardo III il quale si presenta dicendo di essere:”so lamely and unfashionable/That dogs bark at me, as I halt by them “(I, 1), così claudicante e goffo che i cani mi latrano contro quando gli passo vicino arrancando.
E’ questa una zoppia che rende malata tutta la sua terra secondo il tovpo” che risale a Omero ed Esiodo: un cittadino dice che il Duca di Gloucester è pericolosissimo come i figli e i fratelli della regina e se costoro non governassero ma fossero governati “this sickly land might solace as before ” (II, 3), questa terra malata potrebbe avere ristoro come prima.
Diversi tiranni in conclusione hanno qualche cosa di zoppo: Cipselo e Periandro in quanto discendenti da Labda, Edipo poiché ha avuto i piedi perforati[50]. Anzi, se consideriamo con attenzione la prima antistrofe del secondo stasimo dell’Edipo re vediamo che tutte le tirannidi sono zoppe: “la prepotenza fa crescere il tiranno, la prepotenza/ se si è riempita invano di molti orpelli/ che non sono opportuni e non convengono/salita su fastigi altissimi/precipita nella necessità scoscesa/dove non si avvale di valido piede” e[nq j ouj podi; crhsivmw/-crh’tai “(vv. 873-879).
Del resto il nome dottor Hinkfuss, il regista che vuole assoggettare gli attori in Questa sera si recita a soggetto [51] significa “piè zoppo”. Il dramma potrà procedere solo quando la compagnia avrà conquistato la sua libertà interpretativa.
Macbeth di Shakespeare inciamperà nel meccanismo del potere che è una scala i cui gradini sono vite umane da calpestare:”That is a step/On which I must fall down, or else o’erleap / For in my way it lies ” (I, 4), questo è un gradino sul quale devo cadere oppure scavalcarlo poiché si trova sulla mia strada.
La letteratura greca è percorsa dal motivo antitirannico: da Alceo che esulta per la morte di Mirsilo (fr. 332 LP), o copre di insulti Pittaco “to;n kakopatrivdan”( fr. 348 L P) dal padre ignobile, a Platone che certamente non risparmia biasimi al turanniko;” ajnh;r. Costui, nella Repubblica (573c) è uomo, per natura, o per le abitudini, “mequstikov”.. ejrwtikov”.. melagcolikov””, incline al bere, al sesso, alla depressione; inoltre è di animo sostanzialmente servile”oJ tw’/ o[nti tuvranno” tw/’ o[nti dou’lo”“(579e). Questa considerazione che sembra paradossale, magari dettata a Platone da un risentimento personale nei confronti dei despoti incontrati, è confermata da uno psicoanalista moderno: E. Fromm in Fuga dalla libertà sostiene che” l’impotenza dà luogo all’impulso sadico a dominare; nella misura in cui l’individuo è capace, cioè in grado di realizzare le sue possibilità sulla base della libertà e dell’integrità del suo io, non ha bisogno di dominare e non prova alcuna brama di potere” (p. 144).
Il tiranno fa paura, come affermano la nutrice di Medea (119 sgg.), e Antigone a proposito della sottomissione dei Tebani a Creonte (vv. 502-507) , ma la paura del tiranno è genitivo soggettivo e oggettivo, ossia il despota vive circondato dal fovbo” : fa paura e ne ha. Un doppio ruolo sintetizzato bene da Creonte nell’Oedipus di Seneca:” Qui sceptra duro saevus imperio regit,/timet timentes; metus in auctorem redit ” (vv. 703-704), chi tiene crudelmente lo scettro con dura tirannide, teme quelli che lo temono; la paura ricade su chi la incute. In forma meno sintetica Cicerone fa la stessa denuncia nel De officiis: Qui se metui volent, a quibus metuentur, eosdem metuant ipsi necesse est” ( II, 24), quelli che vorranno essere temuti, è inevitabile che essi stessi temano quelli dai quali saranno temuti. Cicerone fa gli esempi di Dionigi il vecchio e di Alessandro tiranno di Fere il quale sospettava perfino della moglie, non a torto del resto poiché questa era una furente che infine lo uccise propter pelicatus suspicionem (II, 25), per sospetto di adulterio. La conclusione di Cicerone è. Nec vero ulla vis imperii tanta est, quae premente metu possit esse diuturna“, non c’è nessuna forza di potere tanto grande che possa essere durare a lungo sotto la pressione della paura.
Nell’Edipo re di Sofocle il tiranno di Tebe teme complotti e chiama Creonte “lh/sthv” t j ejnargh;” th'” ejmh'” turannivdo”” (vvv. 535), ladro evidente della mia tirannide. Il cognato più avanti ribatte che preferisce riposare tranquillo piuttosto che comandare con paura (“a[rcein…xu;n fovboisi”, v. 585).
Perfino Eteocle delle Fenicie , il teorico del valore assoluto del potere, rivolge una preghiera a eujlavbeia, cautela, invocata come crhsimwtavth qew’n, (v. 782), la più utile delle dee. “La paura e la diffidenza appaiono dunque connaturate al tiranno”[52]. Eppure per Eteocle la divinità più grande è la tirannide (v. 506) e per essa può essere bellissimo anche commettere ingiustizia:” ei[per ga;r ajdikei’n crhv, turannivdo” pevri-kavlliston ajdikei’n, ta[lla d jeujsebei’n crewvn”, vv. 524-525, se davvero è necessario commettere ingiustizia, è bellissimo farlo per il potere assoluto, altrimenti bisogna essere pio. Cicerone considera questo Eteocle o addirittura Euripide meritevole di pena di morte (Capitalis Eteocles vel potius Euripides ) che fece eccezione proprio per quell’unico caso che era il più scellerato di tutti. Questi versi delle Fenicie li aveva sempre in bocca l’ambizioso Cesare:”Nam si violandum est ius, regnandi gratia/violandum est; aliis rebus pietatem colas “, (De Officiis , III, 82).
Nelle Fenicie “Eteocle incentra tutto il suo elogio della tirannide sul “di più”[53], e Giocasta obietta:”tiv d j e[sti to; plevon; o[nom j e[cei monon:/ejpei; tav g j ajrkounq j iJkana; toi'” ge swvfrosin”, vv. 553-554, che cosa è il più? ha soltanto un nome; poiché il necessario basta ai saggi. Le ricchezze non sono proprietà privata dei mortali, noi amministriamo quelle ricevute dagli dèi: quando vogliono, a turno, ce le portano via di nuovo.
Isomma, pensando che più non è uguale a meglio e che abbastanza non è mai troppo, l homo efficiens dimostra di aver sviluppato il gene dell’intelligenza ecologica”[54].
La paura del tiranno è stata messa in evidenza anche dal cesariano Sallustio:”Nam regibus boni quam mali suspectiores sunt, semperque iis aliena virtus formidulosa est “[55], infatti ai re sono più sospetti i valenti che gli inetti, e la virtù degli altri per loro è sempre motivo di paura. Si ricordi ancora il formidolosum dell’Agricola (39) di Tacito.
L’ira del tiranno
Anche l’ira (cfr. ojrgav”, v. 121) è un tratto essenziale del carattere tirannico. Lo mette in rilievo la nutrice alla fine del prologo della Medea di Euripide.
Terribili sono le volontà dei potenti (deina; turavnnwn lhvmata) e poiché di rado
come che sia, sottostanno, e spesso spadroneggiano,
difficilmente elaborano le ire (calepw`~ ojrga;~ metabavllousin)
Infatti essere abituati a vivere in condizione di uguaglianza,
è meglio: a me dunque sia concesso invecchiare,
fuori dalla grandezza, in stato di sicurezza appunto. 124
In primo luogo infatti già dire il nome della misura
è un successo, farne uso poi è di gran lunga
la cosa migliore per i mortali; invece quello che eccede
non significa nessuna occasione buona ai mortali,
anzi ripaga con più gravi sciagure
quando insorge l’ira di un dio contro una stirpe. (vv. 119-130)
Edipo è in preda all’ira quando minaccia Tiresia: non tralascerò nulla, irato come sono ( “wJ” ojrgh'” e[cw”, Edipo re , 345) e pure quando uccide Laio (” paivw di j ojrgh'” “, colpisco con ira, v. 807).
“L’ira appare tratto distintivo di ogni figura di tiranno venga rappresentata sulla scena; essa trova una particolare evidenza nell’ Antigone e nell’Edipo re sofoclei. Sia Creonte fin dall’inizio, sia Edipo, da quando incomincia a sospettare un complotto contro il suo potere (è dunque in questo caso il principio della degenerazione che trasforma il buon re paterno del prologo in una figura tirannica), appaiono soggetti all’ira, incapaci perciò di un dialogo rispettoso dell’interlocutore e di una decisione meditata.
“Taci, prima di riempirmi d’ira con le tue parole” (Antigone , v. 280), esclama Creonte, quasi ad interrompere il resoconto col quale la guardia lo sta informando del clandestino seppellimento di Polinice. E, a conclusione quasi della scena, nuovamente lo redarguisce:”Non ti rendi conto di parlare di nuovo in modo irritante? (Antigone , v. 316)”[56].
L’ira di Edipo continuerà a colpire i nemici anche dopo la morte: nell’ Edipo a Colono Ismene dice al padre che un giorno il suo cadavere sarà un grave peso (bavro” , v. 409) per i Cadmei, quindi la ragazza precisa: “th'” sh'” uJp j ojrgh'”, soi'” o{tan stw’sin tavfoi” ” (v. 411), a causa della tua ira, quando staranno presso la tua tomba. Lo ha fatto sapere Apollo delfico (v. 413).
L’ira per i Latini è una forma di pazzia. Orazio sentenzia:”ira furor brevis est ” (Epist. I, 2, 62), l’ira è una breve follia.
Seneca considera l’ira un’ insania e un sintomo di impotenza:” iram dixerunt brevem insaniam; aeque enim impotens sui est “, dissero che l’ira è una breve pazzia; infatti è incapace di dominarsi, proprio come quella (De ira , I, 1). Inoltre non è naturale l’ira poiché essa desidera infliggere pene (poenae appetens est , I, 6) mentre la natura dell’uomo non vuole questo:”ergo non est naturalis ira “, I, 6).
Il male del potere in Seneca
Il regnare è intriso di male: nel Thyestes il satelles di Atreo mette in guardia il suo re dall’insegnare ai figli come ingannare lo zio :”in patre facient, quidquid in patruo doces./Saepe in magistrum scelera redierunt sua” (vv. 310-311), faranno al padre tutto quello che gli insegni contro lo zio. Spesso i delitti sono ricaduti su chi li ha insegnati. Ma il tiranno risponde:”Ut nemo doceat fraudis et sceleris vias, regnum docebit” (vv. 312-313), posto che nessuno insegni loro le vie della frode e del crimine, le insegnerà il regno. Il regno dunque è la scuola del male.
Nelle Phoenissae, Giocasta chiede a Polinice di rinunciare alla guerra poiché il premio che spetta al vincitore non è desiderabile: anzi Eteocle pagherà il fio del successo a caro prezzo, con il solo fatto di essere re:”poenas, et quidem solvet graves: regnabit “(v.645).
Per Eteocle viceversa il potere è il massimo oggetto del desiderio:”Pro regno velim(662) per il regno vorrei, inizia; poi alla madre che lo interrompe con la domanda :”patriam, penates, coniugem flammis dare? (v. 663.), dare alle fiamme la patria, i penati, la moglie? risponde:”Imperia pretio quolibet constant bene” (v.664), il potere a qualsiasi prezzo è pagato bene. Insomma: Parigi val bene una messa e anche molto di più.
Manzoni riprende il tovpo” dell’infelicità dell’uomo di potere nell’ Adelchi quando il protagonista ferito consola il padre sconfitto: Godi che re non sei; godi che chiusa/all’oprar t’è ogni via: loco a gentile,/ad innocente opra non v’è: non resta/che far torto, o patirlo. Una feroce/ forza il mondo possiede, e fa nomarsi/Dritto..” (V, 8). E’ il diritto del più forte.
Il secondo coro del Thyestes formato da vecchi micenei contrappone al tiranno crudele e avido un’immagine della regalità interiore: rex est qui posuit metus/et diri mala pectoris,/quem non ambitio impotens/et numquam stabilis favor/vulgi praecipitis movet,/non quidquid fodit Occidens,/aut unda Tagus aurea/claro devehit alveo” (vv. 348-355), è re chi ha deposto le paure e le cattive passioni dell’animo crudele, quello che l’ambizione sfrenata non tocca e l’instabile favore del volgo precipitoso, né tutto quello che l’Occidente scava, o il Tago trasporta nel letto lucente con l’onda ricca d’oro. La regalità interiore non ha paura e non è avida.
Il quotidano la Repubblica” del 17 gennaio del 2006 recava il titolo in prima pagina Solo 11 le donne al potere”; ebbene una mente non fuorviata dai luoghi comuni attualmente di moda, può pensare che questa rara presenza potrebbe anche fare onore ai miliardi di donne, e di uomini, che non sono al potere.
Ricordo un’affermazione di Callistene che testimonia dell’ammirazione suscitata da chi alla tirannide si oppone: una volta Filota domandò allo storico di Alessandro chi pensasse che venisse maggiormente ammirato dalla città degli Ateniesi; egli rispose Armodio e Aristogitone poiché avevano ammazzato uno dei due tiranni kai; turannivda o{ti katevlusan”[57] e per il fatto che avevano abbattuto la tirannide.
Infine Kafka che scrive al padre: Acquistasti ai miei occhi un alone misterioso, come tutti i tiranni, il cui diritto si fonda sulla loro persona, non sul pensiero” (Lettera al padre, del novembre 1919, p. 70).
Il tiranno finisce male. Marco Aurelio, un uomo di grande potere, e pure un filosofo, scrive: oJ ajdikw`n eJauto;n ajdikei`, eJauto;n kako;n poiw`n (A se stesso, IX, 4), chi commette ingiustizia, la commette contro se stesso, facendo del male a se stesso.
Lingiustizia può derivare anche da omissione: ajdikei` pollavki~ oJ mh; poiw`n ti, ouj movnon oJ poiw`n ti” (IX, ).
Giovanni Ghiselli
4 ottobre 2012
Note:
[1]C. M. Bowra, Mito E Modernità Della Letteratura Greca , p. 170.
[2] Come del resto Teseo nelle Supplici di Euripide.
[3] Cfr. Foscolo, Sepolcri , 157.
[4] Data probabile: 422 a. C.
[5] A. Segrè, Economia a colori, p. 26.
[6]K. R. Popper, J. Condry, Cattiva maestra televisione , p. 10.
[7] Inferno , XIII, vv. 64-66.
[8] S. Màrai, La recita di Bolzano, p. 20.
[9] Dionigi di Alicarnasso, Antichità romane, 4, 69, 3.
[10] E. Fraenkel, Aeschylus. Agamemnon, Clarendon Press, Oxford, 1962, II, pp. 256 sgg. (nel commento al v. 503); Olgivie, A Commentary on Livy cit., p. 228: sul bacio alla terra vedi in particolare F. Lot, Le basier à la terre. Continuation d’un rite antique, in Pankrateia, Mélanges H. Grégoire, Bruxelles 1949, pp. 435 sgg.
[11] Ovidio, Fastorum libri, 2, 720. Così Valerio Massimo, 7, 3, 2:”perinde atque casu prolapsus, de industria se abiecit“. Per il tema del “baciare la terra”, cfr. J 1652; A 401.
[12] M. Bettini, Le orecchie di Hermes, pp. 95-96.
[13] Seneca, Apocolocyntosis, 5, 1; Svetonio, Divus Claudius, 2; 21; Seneca, Apocolocyntosis, 1 e 5.
[14] M. Bettini, op. cit., p. 96.
[15] Il libro dei Re, 21, 11 (=Il libro di Samuele, 21, 11-13).
[16] Saxo, 3, 6, 6.
[17] Sallustio, De Catilinae coniuratione, 1.
[18] M. Bettini, op. cit., p. 98.
[19] Livio, I, 56.
[20] Platone, Simposio, 215b, 221d sg.; Lanza, Lo stolto, Einaudi, Torino 1997, pp. 32 sgg.
[21] Epistole. I, 12, 19. quid velit et possit rerum concordia discors. Cfr. Seneca Nat. 7, 27, tota haec mundi concordia ex discordibus constat., tutta l’armonia di questo mondo è costituita di parti contrastanti. ndr
[22] Paradise lost, I, 6 ndr
[23] M. Bettini, Le orecchie di Hermes, Einaudi, Torino, 2000, p. 86.
[24] Saxo, 3, 6, 11.
[25] Igino, Fabulae, 95.
[26] Plinio, Naturalis historia, 35, 129.
[27] Giustino, 2, 7; Plutarco, Vita di Solone, 8, 1 s.
[28] M. Bettini, op. cit., p. 59.
[29] Plutarco, Vita di Solone 8, 1.
[30] Il libro dei Re, 21, 11 (=Il libro di Samuele, 21, 11-13).
[31] Saxo, 3, 6, 6.
[32] M. Bettini, op. cit., p. 59.
[33] Cfr. Prometeo che rivendica dignità al suo delitto: :”io sapevo tutto questo:/di mia volontà, di mia volontà ho compiuto la trasgressione, non lo negherò (eJkw;n eJkw;n h{marton, oujk ajrnhvsomai)/ aiutando i mortali ho trovato io stesso le pene (aujto;~ huJrovmhn povnou~ )”, Eschilo, Prometeo incatenato, vv.265-267). Aristofane ne fa una parodia.
[34]Il fu Mattia Pascal, p.173.
[35]La decadenza della menzogna in Oscar Wilde, Opere, p. 224.
[36]S. Freud, L’interpretazione dei sogni , pp. 250-251.
[37] Del 98 d. C.
[38] Si pensi a certi “intellettuali” cattolici che per servilismo verso i gestori dei businnes massimi dichiarano che il cristianesimo è la più materialista delle religioni poiché prevede la resurrezione dei corpi.
[39] “Cornelio Cosso Asinio Agrippa consulibus Cremutius Cordus postulatur novo ac tunc primum audito crimine, quod editis annalibus laudatoque M. Bruto C. Cassium Romanorum ultimum dixisset“, Tacito, Annales, IV, 34, sotto il consolato di Cornelio Cosso e Asinio Agrippa (25 d. C.) viene citato in giudizio Cremuzio Cordo per un delitto nuovo e sentito allora per la prima volta: pubblicati degli annali con la celebrazione di M. Bruto, egli aveva chiamato Cassio l’ultimo dei Romani.
[40] “Nero virtutem ipsam excindere concupivit interfecto Thrasea Paeto“, Annales , XVI, 21, Nerone volle uccidere la virtù in persona con l’ammazzare Trasea Peto.
[41] Nel 66 d. C.
[42]S. Mazzarino, Il pensiero storico classico , 3, p. 64.
[43]G. Orwell, 1984 .
[44]S. Mazzarino, Il pensiero storico classico , 3, p. 64.
[45] Cfr. “ formidolosum supra principem attolli ” di Tacito.
[46]Diogene Laerzio, I, 96.
[47]Erodoto, V, 92, e 8-9.
[48]Erodoto, V, 92, e 2. Così le streghe del Macbeth promettono il regno al signore di Glamis, ma la successione ai figli di Banquo (I, 3).
[49]Vernant e Vidal-Naquet, Mito e tragedia due , pp. 39, 48 e 49.
[50]Edipo re , 1034, e Rane , 1192.
[51] Terza commedia (del 1929) della Trilogia del teatro nel teatro di Pirandello. Le altre due sono i Sei personaggi in cerca d’autore (del ’21) e Ciascuno a suo modo (del ’24).
[52]D. Lanza, op. cit., p. 47.
[53]Lanza, op. cit., p. 53.
[54] A. segré, Economia a colori, p. 78.
[55]De Catilinae coniuratione , 7.
[56]D. Lanza, op. cit, , p. 50.
[57] Arriano, Anabasi di Alessandro, 4, 10, 3.