Daniela Notarbartolo
27 Gennaio 2019This is the page
27 Gennaio 2019da “Don Candeloro e C.” (1894)
Novelle di Giovanni Verga
Era venuta dopo, alla povera Agnese, la vocazione di prendere il velo, quando la sua famiglia, caduta in rovina, fu costretta a farla monaca per darle un tozzo di pane.
Prima era destinata al mondo. A casa sua filavano e tessevano la biancheria pel corredo di lei, mentr’essa terminava l’educandato a Santa Maria degli Angeli. Suo padre, don Basilio Arlotta, l’aveva già fidanzata col figliuolo del dottor Zurlo, un partitone che faceva gola a tutte le mamme del paese, malgrado la bassa nascita. Bel giovane, bianco rosso e trionfante, egli faceva l’innamorato con tutte quante le ragazze. Com’era figlio unico, e donna Agnesina Arlotta avrebbe portato la nobiltà nei Zurlo, s’era lasciato fidanzare a lei, e aveva preso gusto anche a scaldarle la testa, recitando la sua parte di primo amoroso del paese. Babbo Zurlo che mirava al sodo, e a quella commedia ci credeva poco, diceva in cuor suo: – Il suggeritore lo faccio io. Se don Basilio Arlotta non snocciola la dote in contanti, spengo i lumi e calo la tela -.
Don Basilio arrabattavasi appunto a mettere insieme la dote confacente alla nascita della sua Agnese, giacché di nobiltà in casa ce n’era assai, ma pochi beni di fortuna, e imbrogliati fra le liti per giunta. Il pover’uomo che voleva far contenti tutti, e non ci vedeva dagli occhi per la figliuola ingolfavasi nelle spese: venti salme di maggese alle Terremorte seminate tutte in una volta; la lite di Palermo spinta innanzi a rotta di collo. – Come chi dicesse un pazzo che giuoca ogni cosa su di una carta, a fin di bene, sia pure, per amor della famiglia; ma fu quella la sua rovina.
Lavorava come un cane, sempre in faccende, di qua e di là, con gente d’ogni colore che gridava e strepitava. Partiva all’alba pei campi, e tornava a tarda sera, sfinito, coll’aria stravolta, sognando anche la notte i seminati in cui aveva messo il poco che gli rimaneva, e tutte le sue speranze. – San Giovan Battista! – Anime del Purgatorio, aiutatemi voi! – Così pregava la Madonna dell’Idria, accendendole di nascosto ogni sabato la lampada, dinanzi all’immagine benedetta del Papa, perché facesse piovere. Teneva nascoste ai suoi le lettere dell’avvocato che gli parlavano della causa. In casa sforzavasi di mostrarsi allegro, il poveraccio. Rispondeva alle occhiate timidamente ansiose della moglie: – Va bene – Non c’è male – Domeneddio non ci abbandonerà in questo punto… – Si confessò e si comunicò a Pasqua; si mise in grazia di Dio, pregando coll’ostia in bocca per la buon’annata, per la vittoria della lite, per la buona riuscita del matrimonio che doveva far felice la sua creatura…
Essa pure, l’Agnesina, il bene che le volevano se lo meritava. Buona, amorevole, ubbidiente, quando le avevano fatto vedere lo sposo attraverso la grata – una lontana parente – e la mamma le aveva detto all’orecchio: – E’ quello lì. Ti piace? – Essa aveva chinato il viso, rosso qual brace:- Sì -. Poi, successa la catastrofe, come le fecero intendere che bisognava rinunziare a don Giacomino e darsi a Dio, chinò il capo di nuovo e disse: – Sì -.
Era stato il giorno di Pasqua che glielo avevano fatto conoscere, quel cristiano. L’aspettava, lo sapeva quasi. Le avevano messo in capo quel brulichìo le confidenze delle amiche, le visite insolite delle parenti di lui, certe mezze parole della mamma… Ah, che festa quella mattina che la mamma le aveva fatto dire di scendere in parlatorio, dopo le funzioni! Che dolcezza nel suono dell’organo, quante visioni nelle nuvolette azzurre che recavano sino al coro il profumo dell’incenso! Che batticuore in quell’attesa! Ogni cosa che rideva, ogni cosa che risplendeva d’oro e di sole, ogni cosa che sembrava trasalire allo scalpiccìo della gente che entrava in chiesa, quasi aspettasse, quasi sapesse già… Non lo dimenticò più quel giorno di Pasqua, la poveretta. Ancora, dopo tanti anni, quando udiva lo scampanìo allegro che correva su tutto il paese, le sembrava di rivedere il giardinetto tutto in fiore, le compagne appollaiate alle finestre, un cinguettìo di passeri, un chiacchierìo giulivo di voci note e care, un ronzìo nelle orecchie, uno sbalordimento, e lui, quel giovine, col sorriso già bell’e preparato, e la destra nel panciotto, e l’occhiata tenera che sembrava sfuggirgli suo malgrado, in mezzo ai suoi parenti, al di là della soglia del portone spalancato…
Le avevano pure fatto una gran festa all’uscire dal monastero, tutti i parenti, anche quelli di lui. Il babbo era tanto contento quella sera! I dispiaceri e i bocconi amari se li teneva per sé, il poveretto. Per gli altri invece aveva fatto preparare dolci e sorbetti che Dio sa quel che gli erano costati. Dio e lui solo! E nessun altro. – Né la ragazza per cui si faceva la festa, né il giovane che le avevano fatto sedere allato. – Se don Giacomino avesse sospettato in quel momento quanti pasticci c’erano in quella casa, e come la dote che gli avevano promessa tenesse proprio al filo della buona o cattiva annata, avrebbe preso il cappello e sarebbe andato via, senza curarsi di far più l’innamorato.
E sarebbe stato meglio; ché allora la giovinetta non aveva ancora messa tutta l’anima sua in quel giovine, al vederlo tutti i giorni, quasi fosse già uno della famiglia, che veniva a farle visita, quasi anche lui non potesse stare un giorno senza vederla, e si metteva a sedere accanto a lei, e le diceva tante cose sottovoce. E la mamma era contenta lei pure, e aspettava anche lei l’ora in cui egli soleva venire, e adornava colle sue mani la sua creatura. Le avevano fatta una veste nuova color tortorella; l’avevano pettinata alla moda, colla divisa in mezzo. Allora aveva dei bei capelli castagni, che gli piacevano tanto a lui. Le diceva che sarebbe stato peccato doverli tagliare per farsi monaca. Discorreva anche di tante altre cose, con la mamma o col babbo, di ciò che gli avrebbe assegnato suo padre, del come intendeva far fruttare la dote che gli avevano promesso, del modo in cui voleva che andasse la casa e tutto. La mamma faceva segno ad Agnese di stare attenta e di badare a ciò che diceva lui, che doveva essere il padrone. Un giorno egli le aveva regalato un bel paio d’orecchini, e aveva voluto metterglieli colle sue stesse mani, in presenza della mamma. Come passavano quei giorni! Le ore in cui egli era lì, vicino a lei, le ore in cui essa l’aspettava, le ore in cui pensava a lui – le sue parole, il suono della sua voce, i menomi gesti, tutto – col cuore gonfio, colla testa piena di lui, china sul lavoro, agucchiando allato alla mamma. La mamma sembrava che le penetrasse nell’anima, con quegli occhi amorosi che la covavano, se taceva, in tutto quel che diceva, fin nei consigli che le dava intorno al taglio di un corpetto o pel ricamo di un guanciale su cui dovevasi posare il capo della sua figliuola, accanto a quello dello sposo. Ci pensava spesso la giovinetta, col viso chino, facendosi rossa fino al collo. E la mamma sembrava che le leggesse il pensiero dolce negli occhi fissi ed assorti, che ne giubilasse anche lei, povera vecchia, senza alzare gli occhi dal lavoro, fingendo di non vedere, quando il giovane cercava di nascosto la mano tremante della ragazza, quella volta che approfittando della confusione di tutto il parentado venuto a farle visita le sfiorò il viso fra un uscio e l’altro, come a caso. Venivano spesso i parenti e le amiche, tutti che pigliavano parte alla gioia comune. C’era un’aria di festa nella casa, nei mobili ripuliti, nei mucchi di biancheria sparsi qua e là, nel va e vieni di sarte e di operaie, nelle donne che cantavano affaccendate. Il babbo però aveva un certo modo di esser contento che toccava il cuore. Gli spuntavano le lagrime, a volte, nell’abbracciare la figliuola. Le diceva: – Che Dio ti benedica! Che Dio ti benedica, figliuola mia! – E le mani gli tremavano, accarezzando la sua Agnese, e rinfrancava la voce così dicendo, per dare ad intendere ai gonzi che dormiva su due guanciali, riguardo ai suoi interessi. A San Giovanni che il paese intero bestemmiava Dio e i santi, lagnandosi della malannata, aveva il coraggio di dire soltanto lui: – Non c’è tanto male, poi. Potrebbero andar peggio le cose. Lì, a Terremorte, ci ho venti salme di maggese. Calcoliamo pure sulla media… Ho avuto buone notizie della lite, laggiù… –
Ma parlava così perché nel crocchio che stava a sentir la musica in piazza era pure la sua figliuola, seduta accanto allo sposo, colla veste di mérinos e il cappellino comprato a credenza. Sembrava così intenta, la cara fanciulla, senza un pensiero e senza un sospetto al mondo! Il dottor Zurlo invece aveva certi occhi inquisitori, e insisteva con certe domande indiscrete che facevano sudar freddo il povero don Basilio: – E quanto credete che vi daranno le Terremorte? E che n’è della causa? Vi siete messo in una grossa impresa, voi. Io nei vostri panni non dormirei più la notte… Con una malannata simile! Le meglio famiglie non sanno come va a finire, vi dico! A metter su casa ci penserà bene ogni galantuomo, quest’anno! – Per poco non si sfogò col figliuolo che non badava ad altro, lui, in quel momento, pigliando fuoco ai begli occhi di donna Agnesina, eccitato dalla musica che suonava e dalla bella serata tepida.
Però don Giacomino non era sciocco neppur lui. Oltreché, nei piccoli paesi tosto o tardi si vengono a scoprire gli imbrogli di ciascuno. Il povero don Basilio Arlotta friggeva proprio come il pesce nella padella, assediato dai creditori, stretto da tanti bisogni, le spese della causa, il fitto delle terre, le paghe dei contadini. Correva da questo a quell’altro, s’arrapinava in ogni guisa, cercava di far fronte alla tempesta, dava la faccia al vento contrario almeno, pagava di persona. Quando, al tempo della messe, fu colto da una perniciosa che fu a un pelo di portarselo via – e sarebbe stato meglio per lui – non diceva altro, nel delirio: – Lasciatemi alzare. Non posso stare a godermela in letto. Bisogna che vada. Bisogna che cerchi… So io!… So io!… –
E lo sapevano anche gli altri, primo di tutti don Giacomino, il quale batteva freddo colla sposa e si faceva tirar le orecchie per tornare in casa di lei, ogni volta; tanto che donna Agnesina piangeva notte e giorno, e sua madre non sapeva che pensare. Le povere donne avevano ancora gli occhi chiusi sul precipizio che inghiottiva la casa, perché don Basilio cercava ancora di nascondere il sole collo staccio, soltanto per risparmiare loro più che poteva quel dolore che se lo mangiava vivo. Ogni giorno che tardavano a conoscere il vero stato delle cose era sempre un giorno di meno di quelli che passava lui!…
Tacque dell’usciere che venne a sequestrare quel po’ di raccolta alle Terremorte. Tacque della scena terribile coi contadini che l’avevano minacciato colle forche, vedendo in pericolo le loro giornate. Alla moglie che scopava già il granaio pel frumento che doveva venire dalle Terremorte, disse d’averlo venduto sull’aia. Come essa aspettava i denari della vendita disse che glieli avevano promessi a Natale. – Domani – Doman l’altro – Alla fine del mese -. Il pover’uomo pigliava tempo con tutti, balbettando delle bugie alle quali quasi quasi credeva anche lui, tanto aveva perduta la testa. – Alla vendemmia – Alla raccolta delle olive – E l’usciere era stato pure nelle vigne e nell’oliveto. Finalmente, nella novena di Natale, che le donne avevano fatto voto di digiunare tutti i nove giorni perché Gesù Bambino facesse succedere il matrimonio senza intoppi, scoppiò la bomba.
In casa Arlotta avevano fatto il pane quella mattina. L’Agnese, tutta contenta, stava anche preparando per don Giacomino certe paste che le avevano insegnate al Monastero. E lui stava a vedere, sopra pensieri, piluccando di tanto in tanto un pizzico di pasta frolla e dicendole sbadatamente, soltanto per dire qualche cosa, che essa aveva le mani più bianche del fior di farina… – lì, in cucina, dinanzi al forno, col cappello in testa, proprio come uno della famiglia – quando comparve Menica, la serva, col fascio di sermenti ch’era scesa a prendere in corte, e l’aria sconvolta: – Signora! signora!… – Nell’anticamera udivasi la voce di don Basilio che pregava e scongiurava. La signora corse subito a vedere e non tornò più, senza curarsi che lasciava soli don Giacomino colla figliuola. La povera ragazza, si strinse allora allo sposo, quasi sapesse già che non le rimaneva altro aiuto ed altro conforto: – Cos’è stato, don Giacomino, per l’amor di Dio!… –
Ah, quando vide il babbo con quella faccia! La faccia che doveva avere in punto di morte. Barcollava come un ubbriaco; andava di qua e di là senza sapere quel che facesse, chiudendo le imposte e le finestre, perché la gente che passava non vedesse l’usciere in casa sua. Imbattendosi a un tratto nel fidanzato di sua figlia, don Basilio lo guardò stral’unato, col sudore dell’agonia in viso. Giunse le mani e aprì la bocca senza dir nulla. Allora don Giacomino si mise a cercare il bastone e il pastrano senza dir nulla, facendo ancora finta di non saper niente di niente, per cortesia, ed anche per evitare una scena che gli seccava, borbottando:
– Scusate… Sono d’incomodo… Mi dispiace… –
Ma come don Basilio voleva continuare a fare la commedia dell’uomo tranquillo, coi goccioloni dell’agonia in fronte e pallido più di un morto: – Ma, don Giacomino!… Figuratevi!… Un momento e li sbrigo subito… Passate un momento in camera mia colle donne… – don Giacomino si fermò a guardarlo, verde dalla bile, sul punto di spiattellargli in faccia: – A che giuoco giuochiamo? Finiamola adesso questa commedia! Se lo sanno tutti che siete rovinato! Mi meraviglio di voi che volete imbrogliare un galantuomo… –
Ma tacque ancora per prudenza. Soltanto non ci furono Cristi per trattenerlo. Né la vista dell’Agnesina che gli faceva la scena dello svenimento. Né le lagrime della madre che lo supplicava tremante: – Don Giacomino… Figliuolo mio!… – Egli disse che tornava subito, per cavarsi d’impiccio: – Mi dispiace. Non posso, proprio!… Un momento. Vado e torno -.
Tornò invece il notaio Zurlo, a restituire i regali che venivano dalla sposa: il berretto di velluto e pantofole ricamate, facendo il viso compunto per procura del figliuolo, un viso fra il padre nobile e il burbero benefico, tornando a dire anche lui: – Mi dispiace davvero!… Era il mio più gran desiderio. Ma voi non ci avete colpa, donna Agnesina!… Ne troverete degli altri coi vostri meriti… –
E volle lasciarle anche una carezza paterna sulla guancia, con due dita, sorridendo bonariamente.
Ma come vide barcollare la ragazza, bianca al par di un cencio, si asciugò persino gli occhi col fazzoletto e conchiuse:
– Che disgrazia, figliuola mia!… Scusate se vi chiamo così. Vi tenevo già per figlia mia!… Che crepacuore mi avete dato… –
Ecco com’era venuta la vocazione alla povera donna Agnese. Il cappellano del monastero la citava in esempio alle altre novizie che mostravansi sbigottite nel punto di pronunciare i voti solenni: – Guardate suor Agnese Arlotta! Specchiatevi su di lei che ha provato quel che c’è nel mondo. C’è l’inganno e la finzione. – Imbrogliami che t’imbroglio. – Una cosa sulle labbra e un’altra nel cuore. – E poi che resta alla fine di tante angustie, di tanti pasticci? Un pugno di polvere! Vanitas vanitatum!… –
Così, a poco a poco, la poveretta s’era distaccata completamente dalle cose terrene, e s’era affezionata invece all’altare che aveva in cura, al confessore che la guidava sul cammino della salvazione, al cantuccio del dormitorio dov’era il suo letto da tanti anni, al posto che occupava al coro e nel refettorio, al suono della campana che regolava tutte le sue faccenduole, sempre eguali, alle pietanze che tornavano invariabilmente secondo il giorno della settimana, alla stessa ora, nello stesso piatto. Il suo mondo finiva lì, al cornicione della casa dirimpetto che affacciavasi sopra il muro del giardino, al pezzetto di collina che si vedeva dalla finestra, al gomito della stradicciuola che metteva capo al parlatorio. Le ore e le stagioni si succedevano nel monastero allo stesso modo, col sole che scendeva più o meno basso sul cornicione, colla collina che era verde o brulla, coi polli che razzolavano nella stradicciuola, o si radunavano all’uscio del pollaio. Anche le voci dei vicini erano tutte note. Allorché andò via la tessitrice che stava di faccia alla chiesuola fu un avvenimento, quando non si udì più il battere del pettine ogni mattina. Suor Agnese non ebbe pace finché non riescì a sapere dal sagrestano dov’era andata e perché era andata via, quella cristiana.
Non che cercasse il pettegolezzo, ma per semplice curiosità, massime da che era divenuta sorda. Siamo fatti di carne infine, e il mondo ostinavasi a insinuarsi sin là, pian piano, coi sermoni del confessore, colle chiacchiere del sagrestano, coi discorsi dei parenti che venivano in parlatorio, colle liti fra le monache, e gl’intrighi che nascevano quando trattavasi di eleggere le cariche pel triennio. Oh allora!
Suor Gabriella, ch’era la superbia in persona, si faceva umile come un agnello pasquale; e suor Maria Faustina, otto giorni prima, aveva sulla faccia arcigna un sorriso amabile. Fra le suore poi erano conciliaboli a tutte le ore, durante la ricreazione, o quando si riunivano nel tinello a preparare i dolci e le paste per la solennità, a Pasqua o a Natale. Tanto più che suor Agnese non aveva nulla da fare, perché non aveva né fior di farina, né zucchero, né denari per comprarne, né parenti a cui mandare in regalo i dolci. Sua madre, buon’anima, era morta da un pezzo; e anche don Basilio, quantunque fosse campato vecchio nei guai, perché Dio aveva voluto dargli il purgatorio in terra – e anche la zia caritatevole, che aveva sborsato le cento e venti onze della dote perché donna Agnese potesse farsi monaca. – Pace alle anime loro, di tutti quanti, compreso don Giacomino, che era morto carico di figliuoli, e gli avevano fatto i funerali a Santa Maria degli Angeli. Sia fatta la volontà di Dio! a suor Agnese, povera vecchia, il Signore le accordava la grazia. Colle sei onze all’anno della dote, e il piatto che le passava il convento, meno di trenta centesimi al giorno, essa riusciva a mantenersi lei, la lavandaia, e la conversa di cui non poteva fare a meno pei suoi acciacchi. Risparmiava sulle due paia di scarpe e sulla tonaca nuova che le spettavano ogni anno. Vendeva le noci e le mandorle della tavola che non poteva rosicchiare. Di due ova ne mangiava una lei, e l’altro, metà per una fra la serva e la lavandaia. Aveva anche combinato che a tavola teneva un fornello allato al piatto, e la sua porzione di minestra tornava a farla bollire perché crescesse e potesse bastare alle due donne che avevano sempre una fame da lupi. Essa campava d’aria, povera vecchia. Talché a furia di privazioni tirava innanzi anche lei, e arrivava a cavare di quel poco anche il caffè e il biscotto pel confessore, ogni mattina.
Veramente avrebbe avuto anche lei l’ambizioncella di tenere il pastorale, almeno una volta in tanti anni. Ma alle cariche erano nominate sempre quelle monache che sapevano intrigare meglio, e trovavano appoggio nel parentado di fuori. Basta, taceva e ringraziava la Divina Provvidenza. – Che le mancava, grazie a Dio? Mentre fuori, nel mondo, c’erano tanti guai! – Col buon esempio, e simili belle parole, confortava pure quelle novizie che in convento ci venivano tirate proprio pei capelli, senza vocazione. Una di queste però, maleducata e villana, le rispose un bel giorno chiaro e tondo:
– Sapete com’è? La mia vocazione è di sposare don Peppino Bèrtola, per amore o per forza -.