Daniela Notarbartolo
27 Gennaio 2019This is the page
27 Gennaio 2019da “Vagabondaggio” (1887)
Novelle di Giovanni Verga
Alla finestra dirimpetto, si vedeva sempre il lume che vegliava, la notte – le lunghe notti piovose d’inverno, e quando la luna di marzo, ancora fredda, imbiancava la facciata della casa silenziosa. La stanza era gialla, con una meschina tenda di velo appesa alla finestra. A volte vi apparivano dietro delle ombre nere, che si dileguavano rapidamente.
Ogni sera, alla stessa ora, si vedeva passare un lume di stanza in stanza, sino alla camera gialla, dove la luce si avvivava intorno a un letto bianco circondato dalle stesse ombre premurose. Indi la casa tornava scura e sembrava deserta, nel gran silenzio della via. Solamente, allorché vi saliva lo schiamazzo notturno di un ubbriaco, o il passaggio di una carrozza faceva tremare i vetri nelle finestre, una di quelle ombre tacite e dolorose si affacciava a spiare nella via, e poi si dileguava.
Di giorno tutte quelle finestre chiuse sembravano quasi misteriose. Al balcone della camera gialla c’era un vaso di garofani che morivano di incuria, spioventi sul muro umidiccio, agitati dal vento perennemente. Verso il tramonto si fermava dinanzi alla porta un legnetto, che dei visi pallidi stavano ad attendere ansiosamente dietro i vetri; s’intravedeva un affaccendarsi per le stanze, e il lume che si accendeva anche di giorno nella camera solitaria. L’ultima visita che fece il legnetto nella stradicciuola solitaria fu più breve delle altre. Un vecchio dai capelli bianchi, col piede sul montatoio, scrollava pietosamente il capo, rispondendo a una giovinetta che le era scesa dietro supplichevole sino alla porta, colle mani giunte e il viso disfatto; anch’essa diceva di sì col capo, macchinalmente, cogli occhi sbarrati e quasi pazzi in quelli del vecchio. Poi quando egli fu partito, si celò il viso nel fazzoletto e rientrò nell’andito.
Era una sera di primavera, tepida e dolce. Dalla strada saliva la canzone nuova, e il chicchierìo delle ragazze innamorate, nel plenilunio d’aprile. Al primo piano della casa, dietro una ricca tenda di broccato, si udiva sonare il valzer di Madama Angot.
Più tardi, per la via deserta si udì una squilla, lo scalpiccìo e il borbottare dei fedeli che accompagnavano il viatico; s’affacciarono i vicini, alcuni ginocchioni, col lume in mano, e la folla s’ingolfò sotto la porta spalancata a due battenti, fra due file di lanterne che andavano balzelloni.
Tutte le finestre del quartierino desolato si illuminarono per la prima volta, dopo tanto tempo, per l’ultima solennità, mentre la folla degli estranei ingombrava la casa, con un luccichìo tremolante di ceri, nella camera gialla. E dopo che tutti quanti furono partiti, la casa rimase sempre illuminata e deserta, quasi per una lugubre festa. Vi si vedeva solo di tanto in tanto il passaggio delle solite ombre che correvano all’impazzata, in un affaccendarsi disperato.
Nel silenzio alto dell’ora tarda, dietro quei vetri lucenti sulla facciata bianca di l’una, sembravano correre delle invocazioni deliranti, dei singhiozzi soffocati, delle braccia supplichevoli stese verso il cielo sereno. Un usignolo si mise a cantare all’improvviso da un terrazzino tutto verde di pianticelle odorose, nel silenzio della l’una alta, dimenticando forse in quell’ora la sua prigione, pei cespugli del bosco nativo. Di quarto d’ora in quarto d’ora l’orologio squillava lentamente, dall’alto della torre.
La quiete greve della notte cadeva lenta anche su quella casa desolata. Il lume vegliava sempre tristamente nella camera silenziosa. Solo le ombre desolate si agitavano più frettolose e più smarrite, e nell’angolo dove ogni sera si ravvivavano i lumi, luccicavano adesso due fiammelle funebri. Verso la mezzanotte si era udito bussare alla porta, e per le stanze si era notato un via vai. Poi tutto si era raccolto in quell’attesa sconfortata. La luna ora lambiva il pavimento, mentre i lumi si spegnevano. La brina sgocciolava ghiacciata sui vetri. A un tratto, in quella semioscurità, nacque un correre affannato, un affaccendarsi di gente smarrita, colle mani nei capelli, uno sbattere d’usci. Poi la camera gialla si illuminò vivamente sulla facciata di tutta la casa nera.
L’alba imbiancava pallida e piovigginosa; allora si vide per la prima volta, dopo tanto tempo, la finestra della camera gialla spalancata, e le due candele che ardevano immobili al capezzale del letto bianco. Più tardi vennero degli estranei che andavano e venivano per la stanza, indifferenti, col cappello in capo. Uno che fumava un sigaro alla finestra, si chinò a fiutare il garofano rugginoso che penzolava; aveva una faccia pallida da malato o da prigioniero, colle gote azzurrognole di una folta barba accuratamente rasa.
Di poi quella finestra rimase chiusa e buia la notte; e le altre accanto si aprirono ogni mattina a lasciare entrare l’estate che veniva. E la sera perfino vi si affacciavano timidamente delle giovanette vestite di nero, che ascoltavano in silenzio la canzone nuova, il suono del pianoforte di sotto, e il chiacchiericcio dei vicini.
Una mattina di settembre si videro tutte le finestre spalancate, e le stanze vuote, anche quella gialla, che si era spogliata delle meschine tende bianche, e mostrava una gran macchia di un giallo più carico al posto del letto che non c’era più. Quelle povere masserizie erano sgomberate silenziosamente nella notte, coll’umile famigliuola timida. Una vecchia serva venne a pigliare il vaso di garofani, mentre il padrone di casa andava guardando per ogni dove coi muratori, gridando e bestemmiando. Egli additava le macchie della vecchia tappezzeria gialla, e i mattoni rotti del pavimento, sputando pel disgusto su quei guasti: tanto che la vecchierella se ne andò a capo chino, portandosi sotto lo scialle il vaso di garofani come una reliquia.
I muratori si misero a scrostare e martellare da per tutto. E da mattina a sera udivasi la sega del falegname che strideva. Nell’ultima camera avevano alzato un gran ponte, e attraverso quei trespoli si vedevano pendere i brandelli della carta gialla. Dopo vennero pittori tappezzieri, e le persone ch’erano sl’oggiate un mese prima non avrebbero ritrovato più le memorie delle loro ore d’angoscia in quelle stanze tappezzate di nuovo e ridenti. Il lume vegliava un’altra volta sino a notte tarda nell’antica camera gialla, dietro le tende di trina foderate di seta celeste; ma le due ombre che si vedevano sempre accanto, cercandosi, correndosi dietro, si confondevano con molli ondulazioni, si univano in una sola; e la mattina si vedeva pure qualche volta una testolina bionda e rosea, che sollevava la tendina allato a una testa bruna e sorridente. Nella sala attigua, sotto un grande specchio dorato che rifletteva la luce di una lumiera velata da un paralume color di rosa, si udivano alle volte le note allegre di un pianoforte, nello scrosciare della pioggia notturna. Quando giunse la primavera, e l’usignolo tornò a cantare fra il verde del terrazzino, e le ragazze al lume di l’una, i due innamorati presero il volo come due farfalle, e non si videro più. Al settembre la casa mutò d’aspetto, e nella camera azzurra venne a stare un gran letto matrimoniale, che tutte le mattine prendeva aria onestamente dalla finestra spalancata. La casa risonò da mattina a sera del gridìo dei bimbi, e degli strilli del neonato che la mamma allattava a piè del letto. Il marito tornava la sera stanco, colla faccia disfatta, e litigava tutto il tempo colla moglie e coi figliuoli. Poi rimaneva a scartabellare dei conti sulla tavola sparecchiata, sino ad ora tarda, colla fronte fra le mani, sotto il lume che agonizzava. La mattina usciva a buon’ora col passo frettoloso. Di tanto in tanto si udiva una scampanellata furiosa in anticamera, e la madre correva a chiudersi in camera, facendo segno al suo ragazzo di dire che non c’era, coll’indice sulle labbra. Il bimbo tornava, dopo un lungo ciangottare, a parlar colla mamma, la quale riaffacciava la testa allo sbattere violento della porta che faceva tintinnare il campanello, e l’uomo che se ne era andato così in collera, si fermava in mezzo alla strada, a spiare la finestra chiusa. Alle volte la povera donna era costretta a mostrarsi, per calmare il visitatore che non voleva sentir ragione, giungendo le mani in croce, con gran gesti che volevano esser creduti. Tutte le finestre spalancate lasciavano diffondersi pel vicinato indifferentemente pianti di bimbi e liti di genitori. Un giorno, verso mezzodì, venne un vecchietto col cappello bisunto e un fascio di cartacce in mano, seguìto da due uomini malvestiti, i quali si misero a frugare dappertutto, scrivendo dei fogliacci in fretta. La famigliuola li seguiva di stanza in stanza tristamente. La roba fu portata via, alcuni giorni dopo, e delle poche masserizie rimaste caricarono un carro, e se ne andarono dietro a quello, il padre prima, coll’ombrello sotto il braccio, e la moglie dietro coi bambini in coda e il poppante al collo, senza neppure voltarsi a guardare quelle finestre che rimasero spalancate notte e giorno, per mesi e mesi, come se il padrone avesse voluto farne svaporare il tanfo di miseria che vi era rinchiuso.
Poi vi tornarono dei mobili eleganti, e delle stoffe ricche appese alle finestre. Non vi si udirono più né strilli né schiamazzi; ma un silenzio beato dappertutto; i lumi sembrava s’accendessero da sé, fin nella camera azzurra che aveva una luce velata d’alcova. Non vi si vedeva nessuno; soltanto a notte alta, una testa che faceva capolino timidamente, e guardava nella via, socchiudendo adagio adagio le persiane; e la luce che passava fra le stecche ne indorava i capelli biondi, e si stampava sul muro della casa dirimpetto in strisce lucenti, come un faro. Dopo alcuni minuti un passo frettoloso e guardingo si udiva nella via, l’ombra della testa bionda appariva rapidamente dietro le persiane, e la finestra si chiudeva. Una sera, nell’alto silenzio, squillò all’improvviso una scampanellata minacciosa. Si videro delle ombre correre dietro le tende all’impazzata, e le stanze illuminarsi rapidamente una dopo l’altra. Indi un silenzio d’attesa profondo, nel quale risonarono ad un tratto delle strida di terrore e degli urli di collera.
I vicini corsero alle finestre, col lume in mano. Ma il quartiere era tornato silenzioso, soffocando i dolori o le collere che racchiudeva fra le sue tappezzerie sontuose. Le finestre rimasero chiuse per un gran pezzo, e allorché si riaprirono, entrarono nelle stanze i muratori che demolivano la casa, per far luogo alla strada nuova, la quale passava di là.
Giorno e notte, dal muro sventrato, si vedevano le stanze nude e abbandonate, colle pitture del soffitto che pendevano, le gole dei camini squarciate e nere. La carta gialla ricompariva sotto la tappezzeria lacera, il segno del letto e le macchie scure, i chiodi sul camino a cui era appeso il grande specchio dorato, il campanello ciondoloni sull’uscio della scala spalancato. Il vento vi faceva turbinare la polvere, la pioggia le inondava, il sole vi rideva ancora sulle pitture, gialle, verdi, azzurre; la luna e la luce dei lampioni vi entravano ogni notte, si posavano sulla macchia unta del letto, sui fiorami dorati del salottino misterioso, scendendo sempre, di mano in mano che il piccone dei muratori si mangiava le rovine.
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