Giovanni Ghiselli: professore di greco e latino
27 Gennaio 2019Giusy
27 Gennaio 2019dal Percorso sull’amore nei classici
di Giovanni Ghiselli
Schema concettuale:
Il trucco e il lusso delle donne e degli uomini.
Senofonte e Platone. Cosmetica e ginnastica.
Eracle al bivio. La Virtù non è truccata; la moglie adultera di Eufileto sì.
Ovidio approva il cultus contrapposto alla rusticitas . Socrate non si lavava.
La via di mezzo di Seneca.
Un saggio di La Penna. Properzio è contrario agli ornamenti e al trucco ma non all’eleganza della cultura letteraria e musicale di Cinzia. I modelli femminili di Properzio non sono romano-arcaici ma si trovano nella natura o nella mitologia greca.
Tibullo è più vicino al paradigma femminile arcaico e vorrebbe che Delia fosse come la Lucrezia di Collatino.
Orazio è poco sedotto dai modelli arcaici, eppure avverte i pericoli della modernità. Pirra è simplex munditiis, semplice nell’eleganza (Ode I, 5).
La semplicità elegante per Cicerone, Tolstoj, Proust. Marziale la chiama prudens simplicitas. I tentacoli protesi di sentimentalità della borghese Ermelinda Tuzzi (Diotima) di Musil. La bellezza elegante della moglie di Mecenate non fa vacillare il suo fidum pectus (Ode II, 12).
Le mode e i costumi cambiano in fretta: la Sempronia di Sallustio e la Licimnia-Terenzia di Orazio.
Ovidio quale magister del gioco erotico per uomini e donne. L’irrisione aperta della rusticitas . Le esortazioni indecenti della lena .
Il gioco sofistico serve a coonestare l’adulterio. Il discorso ingiusto delle Nuvole di Aristofane. Fedra, Penelope ed Elena nelle Heroides di Ovidio. Elena nelle Troiane di Euripide. L’audacia e la facondia contro il rusticus pudor. Il rozzo pudore: Ovidio e Parini. Il marito: ahi quanto spiace!”. Rusticus est nimium: Charles Bovary e Pavel Pavlovi?.
Il trucco dei vecchi in Ovidio e in Pirandello.
Il ribaltamento del mito dell’età dell’oro in Ovidio.
La rubiconda sposa di Ovidio e la tanghera di Saffo.
Ovidio in polemica libertina con il regime augusteo.
Il rusticus Tibullo. Il dibattito dei tempi di Catone attualizzato nella Roma augustea. Ovidio contro l’etica di Catone, di Sallustio e del principato. La sua interpretazione dell’età dell’oro contrapposta a quella di Esiodo. L’elogio del cultus nell’Ars Amatoria e quello del luxus nei Medicamina faciei . L’orbis di Tacito. Il luxus senatorio viene stroncato dall’avvento, nel 69 d. C. , di una borghesia pecuniosa ma parca. La preoccupazione di Tiberio per la crisi economica dell’Italia: “quod vita populi Romani per incerta maris et tempestatum cotidie volvitur “. Il luxus della aristocrazia senatoria determinava un continuo “drenaggio” di metalli preziosi verso l’estero . Il tramonto del lusso annunciato dal settimanale L’Espresso nel febbraio del 2002.
Ovidio nell’Ars amatoria è più cauto e, come già Cicerone, come poi Seneca, all’uomo consiglia l’equilibrio tra la mundities e la robustezza.
Lo stile aristocratico della semplicità e della neglegentia sui . Petronio. La condanna dell’affettazione e l’elogio della noncuranza. Castiglione, Schopenhauer, Manzoni, Dostoevskij, Tolstoj (e Cicerone), Proust e Musil.
Lo stile dell’incedere. Ciascuno deve fare quanto gli si addice. Il mito di Er spiega la sofferenza: non si deve recalcitrare al destino.
Lo stile del ridere. Il riso in Ovidio in Dostoevkij. La volgarità di Trimalchione. La semplicità elegante in Orazio e in Ovidio.
“Ci sono dei vestiti femminili così belli, che si vorrebbe lacerarli”[1].
Gran virtù della donna per Iscomaco dell’ Economico di Senofonte è la capacità dell’ordine (“tavxi””, VIII, 3) che per gli uomini è la cosa più utile e bella. Non è invece apprezzato il trucco poiché per gli umani il corpo umano al naturale è la cosa più gradevole:”oiJ a[nqrwpoi ajnqrwvpou sw’ma kaqaro;n oi[ontai hJvdiston ei’jnai”(X, 7). I mezzi della cosmetica dunque sono inganni (“ajpavtai”, X, 8) che oltretutto non reggono alla prova della convivenza.
Anche l’altro socratico, Platone, considera la cosmesi non un’arte, ma una prassi irrazionale, la forma di adulazione che sta sotto (uJpovkeitai), si sostituisce, alla ginnastica, per quanto riguarda la cura del corpo, come la culinaria è subordinata alla medicina. La cosmesi (“hJ kommwtikhv”) dunque è “kakou’rgov” te kai; ajpathlh; kai; ajgennh;” kai; ajneleuvqero””(Gorgia , 465b), malvagia e fallace, ignobile e servile, poiché inganna attraverso l’apparenza i colori, la levigatezza e i vestiti, in modo da far trascurare la bellezza naturale che si ottiene con la ginnastica, mentre con i cosmetici ci appiccichiamo una speciosità esterna.
Sicché Iscomaco consiglia alla moglie di tenersi in esercizio affaccendandosi nei lavori domestici. Infatti quelle che stanno sempre sedute con solennità si espongono ai giudizi come quelle agghindate e ingannatrici (ta;” kekosmhmevna” kai; ejxapatwvsa””, Economico , X, 13).
Nei Memorabili (II, 1, 21-34) Senofonte riferisce, attraverso Socrate, la favola esemplare di Eracle al bivio attribuita a uno scritto del sofista Prodico di Ceo.
Intanto il bivio stesso ha un significato e addirittura un’anima:” un ambiente fisico reale-sorgente, primavera, albero, crocicchio- è animatoLe nostre anime sulla terra accolgono la terra nelle nostre animeLa vita ecologica è anche vita psicologica. E se l’ecologia è anche psicologia, allora il “Conosci te stesso” diviene impossibile senza il “Conosci il tuo mondo “[2].
Poi sul bivio ci sono due femmine umane con aspetti e con anime diverse. Anche l’aspetto e l’abbigliamento sono psicologie
Le due donne parlano all’eroe giovinetto incerto sulla via da prendere indicandogli ciascuna una strada. La prima vuole adescare l’adolescente con la promessa di una vita facile e piacevole. Questa femmina è morbida, prosperosa, quasi opima, truccata nel colorito sì da avere l’aria di apparire più bianca e più rossa del naturale (kekallwpismevnhn de; to; me;n crw’ma w{ste leukotevran te kai; ejruqrotevran tou’ o[nto” dokei’n faivnesqai, II, 1, 22) impettita più del conveniente, con gli occhi aperti, e con una veste dalle quali lampeggiava a tutto spiano la sua bellezza (” ejsqh’ta de; ejx h’J” mavlista hJ wJvra dialavmpoi”, II, 1, 22); inoltre si osservava spesso con compiacimento: guardava se qualcun altro la guardasse e spesso si volgeva alla sua ombra. Costei dagli amici viene chiamata Eujdaimoniva, Felicità, ma dai detrattori, Kakiva, Vizio (II, 1, 27).
Viceversa la donna virtuosa, la Virtù personificata, avvisa Eracle che gli dèi niente di buono concedono agli uomini senza fatica e impegno.
Ella era di natura nobile, ossia pura, pudica, modesta, vestita di bianco (ejsqh’ti de; leukh’/’ , II, 1, 22). Il colore bianco è presente in entrambe: il biancore naturale è un segno positivo, luminoso: infatti leukov” è imparentato etimologicamente con il latino lux, lucis ; con l’inglese light e il tedesco Licht che significano appunto “luce”.
Ecco dunque una tipica disposizione maschile, o maschilista, avversa al trucco delle donne.
Questo infatti può costituire un indizio di grilli per la testa: il buon Eufileto, il marito cornuto di Lisia ebbe l’impressione che il volto della moglie adultera fosse truccato (” e[doxe dev moi, w’j a[ndre” , to; provswpon ejyumuqiw’sqai, ossia coperto di yimuvqion, una specie di biacca), sebbene il fratello le fosse morto da nemmeno trenta giorni, ma non disse niente lo stesso ( 14).
Un’adultera di mia conoscenza si metteva le calze a rete per dare un segnale di disponibilità.
C’è del resto anche un’opinione favorevole al trucco , ed è quella di Ovidio.
il poeta “donnaiolo” nel poemetto sui cosmetici per le donne li legittima poiché “culta placent “( Medicamina faciei femineae[3], v. 7) , ciò che è coltivato piace, e nell’Ars Amatoria afferma che è proprio l’eleganza a fargli preferire l’età moderna all’antica, presunta aurea:”prisca iuvent al’ios, ego me nunc denique natum/gratulor: haec aetas moribus apta meis” (III, 121-122), i tempi antichi piacciano ad altri, io mi rallegro di essere nato ora dopo tutto: questa è l’età adatta ai miei gusti, non perché, continua il Sulmonese, terre mari e monti sono stati domati dall’uomo,“sed quia cultus adest nec nostros mansit in annos/rusticitas priscis illa superstes avis ” 127-128), ma perché c’è eleganza e non è rimasta fino ai nostri anni quella rozzezza sopravvissuta agli avi antichi.
Un cultus che include la coltura del corpo e dello spirito.
“Ordior a cultu[4] . Così Ovidio inizia, dopo il lungo proemio, la precettistica riservata alle donne nel terzo libro. Cultus , riferito come qui alla vita della donna, indica più o meno la “cura della persona” e quindi la “raffinatezza”[5].
Mazzarino, menzionando gli autori favorevoli alla tecnica, indica Ovidio, “un poeta, non uno storico”, nel quale si trova “una reazione al diffuso concetto di decadenza, ed una esaltazione del progresso tecnico[6], evidente, secondo lui, nell’attività industriale e commerciale sopravvenuta nel suo tempo (l’età di Augusto)[7]. In fondo, si può dire che per l’uomo antico l’idea del progresso tecnico vive accanto a quella di decadenza; e talora è soffocata da questa, e talora, invece, emerge e predomina, senza che questo “dualismo” implichi contraddizioni di notevole importanza”[8].
Ad alcuni anche ipotecnologici può riuscire più simpatica questa posizione del poeta lascivus [9] che quella del maestro ateniese, il superuomo dell’etica, i cui detrattori dicevano, tra l’altro, che non si lavava!
Aristofane fa dire a Strepsiade che nessuno degli uomini del pensatoio di Socrate per economia si è mai fatto tagliare i capelli o si è unto il corpo o è andato nel bagno a lavarsi:”oujd& eij” balanei’on h’jlqe lousovmeno”” (Nuvole , del 423, v. 837). il Coro degli Uccelli (del 414) più specificamente qualifica Socrate come a[louto” (v. 1553), non lavato.
Né si può dire che questa eccessiva trascuratezza sia approvata o addirittura ricercata da ogni filosofo: Seneca biasima tale moda seguita soprattutto da cinici e stoici e consiglia a Lucilio di evitarla:”asperum cultum et intonsum caput et neglegentiorem barbam et indictum argento odium et cubile humi positum et quidquid aliud ambitionem perversa via sequitur evita” (Epist. , 5, 1), evita una mancanza di cura ferina e la testa incolta e la barba troppo trascurata e l’odio dichiarato all’argenteria e il giaciglio posto a terra e tutto il restante apparato che segue l’ambizione per una via distorta.
Per Seneca è auspicabile la via di mezzo:”non splendeat toga, ne sordeat quidem” (5, 3), non brilli la toga, ma neppure sia sudicia. Gli atteggiamenti estremi possono riuscire “ridicula et odiosa” (5, 4).
Il proposito del filosofo stoico è vivere secondo natura:”Nempe propositum nostrum est secundum naturam vivere: hoc contra naturam est, torquere corpus suum et faciles odisse munditias et squalorem adpetere et cibis non tantum vilibus uti sed taetris et horridis. Quemadmodum desiderare delicatas res luxuriae est, ita usitatas et non magno parabiles fugere dementiae. Frugalitatem exigit philosophia, non poenam ; potest autem esse non incompta frugalitas” (5, 4-5), evidentemente il nostro progetto è vivere secondo natura: è contro natura questo tormentare il proprio corpo e odiare l’eleganza a portata di mano, e cercare lo squallore e fare uso di cibi non solo a buon mercato ma disgustosi e ripugnanti. Come è segno di dissolutezza desiderare le raffinatezze, così è segno di pazzia evitare i beni comuni e procurabili a prezzo non grande. La filosofia reclama la misura non la tortura; del resto la misura può essere non disadorna. In ogni modo, se è stupido chi valuta un cavallo dalla sella e dalle briglie, è stupidissimo chi giudica l’uomo dall’abbigliamento o dalla condizione sociale che ci sta attorno come un abito:”stultissimus est qui hominem aut ex veste aut ex condicione, quae vestis modo nobis circumdata est, aestimat ” (47, 16).
A. La Penna, del quale seguirò diverse indicazioni contenute in un saggio del 1978, mette in relazione la scelta di Ovidio con quelle di Properzio e Tibullo[10].
“Ora Properzio, il raffinato callimacheo, resta abbastanza fedele a un ideale femminile che sarebbe semplicistico definire arcaizzante, ma che del modello arcaico conserva un aspetto essenziale, il rifiuto del cultus. La bellezza perfetta è quella più vicina alla natura. Non è tra le sue elegie più felici, ma è tra le sue più celebri, quella (I 2) che sviluppa il concetto riassunto nel verso sentenzioso (8):”nudus Amor formae non amat artificem “[11] . Aggiungo la mia traduzione a questa e alle prossime citazioni: “Amore nudo non ama la bellezza artefatta”. Per quanto riguarda il greco e il latino ho dato e darò sempre traduzioni mie siccome “la traduzione è l’operazione più esaltante dal punto di vista della mobilitazione delle forze intellettuali”[12]. Queste mie potranno essere confrontate con le tante altre presenti nei manuali o con quelle dei professori delle classi dove il mio lavoro verrà impiegato:”il fatto che il testo sia aperto, che l’interpretazione sia un problema e che la traduzione abbia molte ‘uscite’, questo insegnatelo ai giovanotti”, raccomanda Canfora[13].
Quindi La Penna cita i primi sei versi di questa elegia (I, 2) collocata “subito dopo quella che a modo suo fa da proemio…Quid iuvat ornato procedere, vita, capillo/et tenues Coa veste movere sinus,/aut quid Orontea crines perfundere murra,/teque peregrinis vendere muneribus,/naturaeque decus mercato perdere cultu,/nec sinere in propriis membra nitere bonis? “, a che giova, vita mia, venire con i capelli adorni, e muovere flessuosità delicate in drappo di Coo, o cospargere i capelli di mirra dell’Oronte, e venderti a doni stranieri, e sciupare lo splendore della natura con il lusso comprato, e non lasciare che le membra brillino della propria bellezza?.
Properzio insomma ama Cinzia al naturale:”Crede mihi, non ulla tuae est medicina figurae ” (v. 7), credimi, non c’è bisogno di correzione per la tua bellezza.
“il cultus femminile-continua La Penna- rientra in quell’allargamento dei consumi che richiede e favorisce importazioni dannose dalle provincie e dall’estero, specialmente dall’area orientale:”peregrina munera, mercatus cultus ” . La polemica contro gli ornamenti e il trucco è un vecchio tovpo” della letteratura erotica antica, ma la vitalità che gli ridà Properzio si scorge anche dal legame con l’antica e sempre attuale polemica romana contro il lusso, che spesso fa tutt’uno con la polemica contro le influenze greche e orientali” (p. 183). Tuttavia “il fascino di Cinzia dipende molto proprio dalla sua modernità, dall’eleganza del portamento, dalla grazia nella danza, dalla cultura letteraria e musicale, tutte cose che possono anche conciliarsi con la mancanza di trucco, ma che ci portano lontano dalla natura[14] e stanno meglio con la raffinatezza del cultus…Del resto il modello femminile romano agrario-arcaico ha ben poco fascino su Properzio prima delle elegie romane[15]. Nell’elegia dove vuole dimostrare che “nudus Amor formae non amat artificem ” egli cerca esempi probanti dapprima nella bellezza spontanea della natura (I 2. 9-14), poi nella mitologia greca (15-24): non cerca esempi nella Roma arcaica o nella Sabina. Anche i modelli di fides e pudor li cerca nella letteratura e nella mitologia greca. In questo resta fedele a Catullo: quando Catullo, nella chiusa del carme 64, storna con orrore gli occhi dalla società romana contemporanea con i suoi odi feroci e la distruzione di ogni valore morale, non li rivolge, come faranno Sallustio o Livio, verso la società romana arcaica, ma verso il mito greco, verso il tempo in cui gli dèi frequentavano gli uomini ricchi di pietas .” (p. 184).
Tibullo invece è “più attaccato al modello femminile arcaico“. E’ esemplare di tale propensione “il famoso quadro di vita domestica che egli sogna mentre giace malato a Corcira e che fa da chiusa all’elegia I 3 (83 sgg.) : Delia, rimasta fedele al poeta lontano, ha accanto a sé la vecchia madre, “sancti pudoris custos ” (custode del sacro pudore); al lume della lucerna la madre fila e racconta favole; una giovane schiava fila anche lei” (p. 185).
In effetti questo del poeta nato nel Lazio rurale sembra il quadro presentato da Tito Livio per illustrare la virtù di Lucrezia : i giovani parenti del re Tarquinio la trovarono:”nocte sera deditam lanae inter lucubrantes ancillas in medio aedium sedentem ” (I, 57, 9), a notte inoltrata, intenta alla lana, tra le ancelle che lavoravano a lume di candela, seduta in mezzo alla casa. Il desiderio di Tibullo insomma sarebbe che Delia fosse come questa sposa esemplare. Però ” da altre elegie del I libro sappiamo che la cortigiana Delia si adatta poco al modello; da altre del II libro sappiamo che ancora meno vi si adatta la volubile Nemesi” (p. 185). Tibullo dunque si trova a disagio nella metropoli, eppure ” una parte notevole della sua poesia è radicata nella vita galante di Roma”. Walter Pater nel primo capitolo[16] del suo Mario l’epicureo (del 1885) mette in rilievo la sussistenza, nel poeta di Delia e Nemesi, della “primitiva e più semplice religione patriarcale, la religione di NumaTracce di tale sopravvivenza si possono cogliere, al di là degli atteggiamenti meramente artificiosi della poesia pastorale latina, in Tibullo, che ci ha conservato molti particolari poetici delle antiche consuetudini religiose di Roma:”At mihi contingat patrios celebrare Penates/reddereque antiquo menstrua thura Lari“[17] così invoca con serietà non simulata. Qualcosa di liturgico, nella ripetizione di una formula consacrata, come parte del rito sacrificale per il compleanno, si può rintracciare in una delle sue elegie. Il focolare, da una scintilla del quale, secondo una versione dell’antica leggenda, sarebbe miracolosamente nato il bimbo Romolo, era ancora propriamente un altare”[18].
Quindi La Penna passa a Orazio “che, specialmente in amore, è poco sedotto da modelli arcaici. Pirra è simplex , ma simplex munditiis “[19], semplice nell’eleganza.
Si tratta di un’eleganza semplice eppure ricercata o per lo meno voluta.
L’aggettivo simplex qualifica la bellezza essenziale anche nell’Ode I 38 dove Orazio dichiara il suo odio per lo sfarzo dei Persiani:”Persicos odi, puer, adparatus….Simplici myrto nihil adlabores/sedulus curo ” (vv. 1 e 5-6), non voglio che tu ti affatichi con zelo ad aggiungere alcunché al semplice mirto. L’eleganza semplice è prescritta da Isocrate nello scritto parenetico (di autenticità non certa, del 380 a. C. ca) A Demonico[20]:”Einai bouvlou ta; peri; th;n ejsqh’ta filovkalo”, ajlla; mh; kallwpisthv”” (27), cerca di essere nel tuo abbigliamento elegante ma non ricercato.
Sentiamo il Conte: “Simplex munditiis è un ossimoro, perché i due termini hanno associazioni di significato opposte, la semplicità e la ricercatezza (munditia )…Come ha detto bene Romano, “il concetto classico di semplicità nell’eleganza è scolpito in questo ossimoro che potrebbe essere assunto come motto del programma stilistico di Orazio”[21].
La semplicità elegante del resto è anche distintiva dello stile di Orazio. Lo si può ricavare anche da queste parole di Nietzsche :”Non ho mai provato, fino ad oggi, in nessun poeta, lo stesso rapimento artistico che mi dette, fin dal principio, un’ode di Orazio. In certe lingue quel che lì è raggiunto non lo si può neppure volere. Questo mosaico di parole in cui ogni parola come risonanza, come posizione, come concetto fa erompere la sua forza a destra, a sinistra e sulla totalità, questo minimum nell’estensione e nel numero dei segni, questo maximum , in tal modo realizzato, nell’energia dei segni-tutto ciò è romano e, se mi si vuol credere, nobile par excellence . Tutto il resto della poesia diventa in paragone qualcosa di troppo popolare-nent’altro che loquacità sentimentale”[22].
Anche Cicerone consiglia una semplicità elegante al suo gentiluomo quando pone le basi del galateo nel De Officiis [23] “: quae sunt recta et simplicia laudantur. Formae autem dignitas coloris bonitate tuenda est, color exercitationibus corporis. Adhibenda praeterea munditia est non odiosa nec exquisita nimis, tantum quae fugiat agrestem et inhumanam neglegentiam. Eadem ratio est habenda vestitus, in quo, sicut in plerisque rebus, mediocritas optima est ” (De Officiis , I, 130), viene lodata la naturalezza e la semplicità. Ora la dignità dell’aspetto deve essere conservata mediante il bel colore dell’incarnato, il colore con gli esercizi fisici. Inoltre deve essere impiegata un’eleganza non fastidiosa né troppo ricercata, basta che eviti la trascuratezza contadinesca e incivile. La semplicità insomma non è rozza, sprovveduta e inopportuna ma voluta e conquistata. Marziale la chiama prudens simplicitas (X, 47, v. 7) semplicità accorta e la considera uno dei mezzi che abbelliscono la vita (vitam quae faciant beatiorem , v. 1))
Lo stesso criterio deve essere adottato nel vestire, nel quale, come nella maggior parte delle cose la via di mezzo è la migliore. Lo stesso, abbiamo visto, affermerà Seneca.
Vediamo qualche esempio moderno: Tolstoj ci insegna che anche un abbigliamento sofisticato e un’acconciatura elaborata non devono far vedere la preparazione che sono costati, anzi devono apparire semplici: si tratta della ” rosea Kitty” a un ballo in Anna Karenina:” Benché la toilette, la pettinatura e tutti i preparativi per il ballo fossero costati a Kitty grandi fatiche e riflessioni, ora, nel suo complicato abito di tulle con il trasparente rosa, ella entrava nel ballo in modo così semplice e disinvolto da parere che tutte quelle roselline, quelle trine, tutti i particolari della toilette non fossero costati né a lei né ai suoi familiari nemmeno un istante d’attenzione, come se fosse nata in quel tulle, in quelle trine, con quell’alta pettinatura, con la rosa e le due foglioline in cima”[24].
La naturalezza è il segno dell’eleganza della signora di Guermantes nella Ricerca di Proust:”Ciascuno dei suoi abiti m’appariva come un ambiente naturale, necessario, come la proiezione di un aspetto particolare della sua anima”[25].
Insomma:” Ars casu similis” (Ars amatoria , III, 155), l’arte sia simile al caso.
Vediamo ora invece un esempio di stile evidentemente pensato, quasi voluto e preteso nella borghese Diotima di Musil che accolse Ulrich, il protagonista del romanzo, “con il sorriso indulgente della donna di valore che sa di essere anche bella e deve perdonare agli uomini superficiali di pensare sempre prima di tutto a quelloDiotima era la maggiore delle tre figlie di un professore di scuola media senza beni patrimonialiDa ragazza ella non possedeva che il proprio orgoglio , e poiché non possedeva nulla di cui essere orgogliosa, era in fondo null’altro che una correttezza raggomitolata su se stessa con tentacoli protesi di sentimentalità “[26]. Tale tensione spaventa il maschio:” egli vedeva se stesso come un vermicello nocivo attentamente contemplato da una grossa gallina” (p. 89).
Torniamo a Orazio visto da La Penna: “Il quadro più fascinoso del modello femminile “moderno” è stato dipinto proprio da Orazio: è il quadro della bellezza elegante della moglie di Mecenate” (p. 185). L’autore allude all’Ode II 12 dove la giovane e splendidissima Licimnia è ricordata mentre danza e gareggia di spirito senza dedecus e senza che il suo fidum pectus (v. 16), il cuore fedele, vacilli.
Giorgio Pasquali utilizza, con altri indizi, questa ode per sostenere che “ai tempi di Augusto matrimoni d’amore dovevano avvenire, se proprio una lex Iulia, citata dal giureconsulto Marciano (Dig. 23, 2, 19) proteggeva i figli e le figlie contro l’arbitrio del padre che non volesse senza giusta ragione consentire a un matrimonio da essi desiderato. La relazione tra Mecenate e Terenzia sono descritte da Orazio stesso non diverse dalla vita comune di due amanti. Il poeta conferma a Mecenate che la Musa volle che egli dicesse il canto di lei, i suoi occhi fulgidi, il petto fido agli amori mutui: II 12, 13 me dulcis dominae Musa Licymniae/cantus, me voluit dicere lucidum/fulgentis oculos et bene mutuis/fidum pectus amoribus “[27]. E’ la quarta delle sette strofe asclepiadee prime che formano l’ode. Le tre precedenti contengono la recusatio, il rifiuto dell’epos storico e della poesia di argomento mitologico, generi per i quali l’autore non è portato. Vediamo la traduzione di questi versi con i quali il poeta entra in medias res : a me la Musa ha imposto dolci canti per Licimnia signora, che io dica degli occhi splendidamente brillanti e del cuore santamente fedele al reciproco amore.-dulcis= dulces.- fulgentis (= fulgentes) oculos : si ricordi la scheda sugli occhi. Licimnia è Terenzia, la moglie di Mecenate. Sentiamo ancora Pasquali ” Di lei il poeta vanta non solo la prontezza di spirito nel conversare, ma la grazia che, fanciulla, aveva dimostrato nel danzare, sia pure non motus ionicos ma balli più adatti a una ragazza di buona famiglia, la quale danzando pensi solo a compiere un dovere religioso: quam nec ferre pedem dedecuit choris/nec certare ioco nec dare brachia/ludentem nitidis virginibus sacro/Dianae celebris die ” (vv. 17-20) , per lei non fu sconveniente muovere il passo alle danze né gareggiare con lo spirito né porgere le braccia mentre giocava alle vergini eleganti nel giorno sacro a Diana assai festeggiata. “Avrebbe cent’anni prima un poeta romano osato lodare abilità di tal genere in una donna?, in una fanciulla?”[28].
Su Mecenate e la sua irreprensibile moglie tutt’altra testimonianza dà Seneca, quando il potente patrono della cultura era morto da diversi decenni:”Feliciorem [29] ergo tu Maecenatem putas, cui, amoribus anxio et morosae uxoris cotidiana repudia deflenti, somnus per symphoniarum cantum ex longiquo lene resonantium quaeritur?“[30], consideri dunque più fortunato Mecenate, che, agitato da passione amorosa e addolorato per il quotidiano rifiuto di una moglie capricciosa, cerca il sonno per mezzo di canti accompagnati da strumenti musicali che suonano dolcemente da lontano?
Le mode e i costumi cambiano rapidamente, quem ad modum temporum vices , quasi come le stagioni: la danza e lo spirito praticati dalla Sempronia di Sallustio, nemmeno cinquant’anni prima, erano considerati “instrumenta luxuriae “strumenti di lussuria:”litteris Graecis, Latinis docta, psallere saltare elegantius quam necesse est probae, multa alia, quae instrumenta luxuriae sunt“(Bellum Catilinae , 25), sapeva di greco e di latino, suonare, danzare più elegantemente di quanto si convenga a una donna per bene, e molte altre arti che sono strumenti di lussuria.
Del resto gli stessi strumenti possono essere usati con fini diversi, perfino opposti: Sempronia aveva tradito la fede (fidem prodiderat) un valore, si è visto, che appartiene all’ambito erotico, giuridico e morale. Vedremo che non dissimile da questa donna “malamente” evoluta è la Poppea di Tacito.
“Orazio osa di più, esalta le arti che essa sa adoperare per aguzzare e per irritare l’amore o diciamo pure la sensualità del marito: flagrantia detorquet ad oscula cervicem, aut facili saevitia negat, quae poscente magis gaudeat eripi, interdum rapere occupet” (vv. 25-28), volge il collo ai baci ardenti, o con affabile crudeltà nega quelle carezze che gode di lasciarsi strappare più di chi le chiede e talvolta è la prima a strappare?
“Le parole ultime ricordano il pignus dereptum lacertis aut digito male pertinaci [31], salvo che il poeta parla forse qui con più franchezza della moglie dell’amico e protettore che non facesse colà della puella indeterminata. L’avrebbe fatto se il matrimonio di Mecenate non fosse stato un matrimonio d’amore? L’abisso che in civiltà primitive si apre tra l’amore e il matrimonio, era colmato, si vede bene di qui, nell’età augustea”[32].
Non che Orazio non avverta i pericoli della “modernità”. Egli nelle odi civili “alle seduzioni della matura virgo , presto moglie adultera, contrappone la severa madre sabina che fa lavorare duramente i suoi figli (Carm. III 6. 17-44); non dico che si tratta di preoccupazioni fittizie: la società, per evitare la rovina, doveva arrestare la corruzione; Orazio, però, si trovava a suo agio in un altro mondo, dove per salvarsi non c’era bisogno di tornare al rigore arcaico“[33].
Passiamo a Ovidio. In questo poeta la tragedia amorosa diventa lusus , e il dio doloroso, o piuttosto il demone del dolore, il “daivmwn ajlginovei””[34], che porta Medea alla sofferenza e alla follia infanticida, diventa un dio ludico nelle mani del tenerorum l’usor amorum[35], cantore dei teneri amori. Eros è un demone anche secondo l’opinione di Diotima nel Simposio platonico ma un Daivmwn mevga” , un Demone grande, che, come tutto ciò che è demonico è intermedio tra divino e il mortale (202e). Chi è sapiente in questo è un uomo demonico continua Diotima (203a) e Ovidio, aggiungo io, si intende di Amore come di un demone piacevole e giocoso.
“Il suo, dunque, sarà un lusus ricco di raffinatezza e di eleganza, pervaso di sottile ironia nei confronti dei predecessori”[36]. Amore come dio giocoso appare già in Anacreonte che nel fr. 5 D. rappresenta Eros chiomadoro mentre con una palla purpurea colpisce il poeta, ormai vecchio, e lo invita a giocare con una fanciulla dal sandalo variopinto; il gioco del resto non esclude la tristezza poiché la ragazza di Lesbo critica la chioma oramai bianca dello spasimante anziano e rimane a bocca aperta davanti a un’altra. Eros che vuole giocare a palla viene ripreso da Apollonio Rodio: nelle Argonautiche Afrodite promette al figlio che, se farà innamorare Medea di Giasone, gli regalerà una palla fatta di cerchi dorati che lanciata lascia nell’aria un solco splendente, come una stella (III, v. 141). Allora il fanciullo pregava la madre di dargliela subito (v. 148).
Alla fine dell’Ars Amatoria leggiamo:”Lusus habet finem…Ut quondam iuvenes, ita nunc, mea turba, puellae/inscribant spoliis Naso Magister Erat ” (III, 809 e 811-812), il gioco è finito…Come una volta i giovani, così ora le ragazze, mio seguito, scrivano sulle prede Nasone Fu Il Maestro. Di questo magistero amoroso impartito ai giovani, maschi e pure femmine, il poeta dovrà pentirsi e dolersi: nei Tristia scritti in esilio (11-12 d C.) ricorda che duo crimina lo hanno mandato in rovina: carmen et error (II, 207); l’error è uno sbaglio, mai chiarito, nei rapporti del poeta con l’imperatore che ne è rimasto offeso e il carmen turpe è Ars Amatoria per la quale Ovidio viene accusato di essersi fatto maestro di immondo adulterio:”arguor obsceni doctor adulterii ” (II, 212).
Il lusus si è capovolto in dolore tragico: viceversa nel Macbeth la tragedia dell’assassinio del re diviene parte del grande gioco tragico del potere:”There’s nothing serious in mortality, All is but toys“, (II, 3), non c’è più niente di serio nella vita mortale, tutto è un giocattolo. Nella tragedia subito precedente, Re Lear [37], Gloucester cui sono stati strappati gli occhi come vile gelatina (III, 7) attribuisce con sarcasmo tale atteggiamento ludico agli dèi monelli:”As flies to wanton boys, are we to the gods, They kill us for their sport ” , come mosche per ragazzi capricciosi siamo noi per gli dèi: ci ammazzano per loro passatempo. E’ un’amara sconsacrazione del divino il cui archetipo si può trovare nell’Oreste[38] del “sacrilego” Euripide, quando Apollo chiarisce che i numi si sono serviti della bellezza di Elena per causare morti eliminare dalla terra l’oltraggio dell’eccessiva abbondanza dei mortali (vv. 1640-1642). La stessa spiegazione si trova nel prologo dell’Elena[39] dove la protagonista spiega che a suscitare la guerra tra gli Elleni e i Frigi infelici furono i disegni di Zeus che volle alleggerire la madre terra della massa numerosa dei mortali (vv. 37-40).
L’Ars amatoria (in distici elegiaci) costituisce una precettistica erotica in tre libri: nei primi due il poeta fa il maestro d’amore agli uomini, nel terzo alle donne.
Questa raccolta a sfondo didascalico fu completata nell’1 o nel 2 d. C, come i Remedia amoris e i Medicamina faciei femineae.
“La disinvoltura con cui la materia viene trattata indica il distacco che si è consumato nei confronti della precedente esperienza elegiaca. Il protagonista degli Amores [40] è anticonformista, spregiudicato, libertino, impertinente: e poiché non prende sul serio la morale tradizionale romana, e neanche fa dell’amore un mondo di valori nuovi e alternativi rispetto a quelli dominanti nella tradizione e nella società, tutto per lui diventa un lusus elegante e raffinato. L’esito naturale di questa nuova interpretazione dell’elegia sarà la didascalica amorosa dell’Ars amatoria e dei Remedia amoris costruiti per gioco sul modello della poesia didascalica seria, questi trattati si proporranno esplicitamente di insegnare l’uno il codice erotico della società galante, gli altri gli antidoti contro la seduzione insegnata”[41].
A questa nota del Conte aggiungo cosa scrive La Penna mettendo di mio la traduzione del latino e, quando è necessario, altro commento .
“E’ in Ovidio che troviamo l’irrisione aperta della rusticitas , è Ovidio che della negazione della rusticitas fa un aspetto essenziale del suo mondo galante. In alcuni casi egli ci presenta la negazione in modo ambiguo”, attribuendola a personaggi poco attendibili. “Per esempio, una contrapposizione fra le formosae audaci di oggi e le sporche sabine delle origini di Roma è elaborata da una lena[42] nel suo discorso esortativo (Am. I 8. 39 sgg.):Forsitan inmundae Tatio regnante Sabinae/noluerint habiles pluribus esse viris;/nunc Mars externis animos exercet in armis,/at Venus Aeneae regnat in urbe sui./Ludunt formosae: casta est quam nemo rogavit;/aut si rusticitas non vetat, ipsa rogat “, forse le sporche Sabine sotto il regno di Tazio non avranno voluto essere disponibili per più uomini; ora Marte tiene occupati gli animi in guerre straniere, ma è Venere che regna nella città del suo Enea. Le belle si divertono: è casta quella cui nessuno ha fatto proposte; oppure se non lo impedisce la selvatichezza, è lei che fa le proposte.
E ovviamente non sono sempre proposte decenti.
Seneca, notando la diffusione dell’adulterio nel De Beneficiis [43] , ripropone l’idea contenuta in casta est quam nemo rogavit con altre parole sarcastiche e sdegnate:”Argumentum est deformitatis pudicitia” (III, 16, 3), la pudicizia è indizio di bruttezza. Su questo torneremo più ampiamente in seguito.
“Altrove-continua La Penna-negli Amores è la stessa impostazione di giuoco sofistico che toglie aggressività all’irrisione della rusticitas : cito, per esempio, un passo di III 4 (37 sgg.), l’elegia dove si vuole dimostrare che è meglio lasciare le puellae senza sorveglianza: Rusticus est nimium quem laedit adultera coniunx ,/et notos mores non satis Urbis habet,/in qua Martigenae non sunt sine crimine nati,/Romulus Iliades Iliadesque Remus ” (p. 186). Aggiungo la traduzione e un poco di commento.
E’ davvero rozzo quello che una moglie adultera offende e non conosce bene i costumi di Roma nella quale i figli di Marte non sono nati senza colpa, Romolo figlio di Ilia e il figlio di Ilia Remo.
Che cosa vuol dire “giuoco sofistico? “. Significa non riconoscere alcun valore oltre il successo e utilizzare la parola in ogni modo per conseguirlo: in questo caso chiamare in causa gli dèi per avallare licenza e trasgressione sessuale. E’ quello che fa il Discorso Ingiusto nelle Nuvole di Aristofane quando consiglia a Fidippide: se ti sorprendono in adulterio, rispondi al marito che non hai fatto niente di male, e poi imputa l’accusa a Zeus, di’ che anche lui è più debole di amore e delle donne ( “kajkei’no” wJ” h{ttwn e[rwtov” ejsti kai; gunaikw’n”, v.1081). Il riferimento è ai tanti adultèri di Zeus che possono coonestare quelli del giovane allievo istruito dall’ a[diko” lovgo”. “La sofistica ne approfitta, raccogliendo dal mito gli esempi sfruttabili nel senso della dissoluzione e relativizzazione naturalistica ch’essa fa di tutte le norme vigenti. Se la difesa in giudizio tendeva in passato a provare che il caso era conforme alle leggi, ora si attacca la legge e il costume stesso, cercando di dimostrarli manchevoli”[44].
Del resto anche nella poesia erotica greca e latina chi ama si appella topicamente agli amori di Zeus. Per esempio nell’VIII idillio di Teocrito il bovaro Dafni canta:” w pavter w Zeu’, ouj movno” hjravsqhn: kai; tu; gunaikofivla”” (vv. 59-60), o padre Zeus, non mi sono innamorato solo io: anche tu sei amante delle donne.
Il Discorso ingiusto delle Nuvole dunque si volge al ragazzo e “lo invita a riflettere come il risolversi per la sophrosyne [45] implichi la rinuncia a tutti i piaceri dell’esistenza. E per giunta sarà indifeso quando, per le “necessità di natura”, faccia un passo falso e non sia in grado di difendersi. “Se sei in buoni termini con me, lascia pur libero corso alla natura, salta e ridi, non ritenere nulla biasimevole. Se sei accusato d’adulterio, nega ogni colpa e appellati a Zeus, che non sapeva tener testa neanche lui ad Eros e alle donne. E tu, uomo mortale, come dovresti esser più forte d’un dio?”. E’ la stessa argomentazione che, in Euripide, quella d’Elena o della nutrice nell’Ippolito . Essa culmina in ciò che il Logos Ingiusto, con la lode della propria morale rilassata, suscita le risa del pubblico e dichiara poi che quanto è praticato dalla gran maggioranza del rispettabilissimo popolo è impossibile sia vizio”[46].
Ma torniamo a La Penna e al tema della rusticitas :” Non solo le goffe e rozze sabine, ma anche eroine greche fanno le spese della satira contro la rusticitas . Per esempio, sarebbe interessante vedere come vengono trattate nelle opere erotiche di Ovidio Penelope, Andromaca, Tecmessa. Mi limito a un solo esempio: è Penelope stessa a dirci che cosa pensa di lei il suo raffinato ed esperto marito (Her. I. 77 sg.) : Forsitan et narres quam sit tibi rustica coniunx,/quae tantum lanas non sinat esse rudes ” (p. 186), forse a lei[47] racconti quanto sia rozza tua moglie, la quale soltanto alla lana non permette di essere ruvida.
“Ma nel mito greco si possono trovare ben altre figure femminili adatte a simboleggiare e a proclamare il libero e raffinato gusto moderno. In un’eroina del genere è trasformata la tragica Fedra, che interpreta a suo modo il passaggio dal regno di Saturno al regno di Giove: quello fu il regno della pietas e della rusticitas , questo il regno della libertà e del piacere (Her. 4. 131 sgg.): Ista vetus pietas, aevo moritura futuro,/rustica Saturno regna tenente fuit;/Iuppiter esse pium statuit quodcumque iuvaret/et fas omne facit fratre marita soror ” (p. 187), questa vecchia bontà destinata a morire in futuro, c’era quando Saturno governava rozzi regni; Giove stabilì che fosse buono tutto quanto piaceva e rende del tutto naturale che la sorella sia sposata al fratello. La cretese innamorata ovviamente scrive a Ippolito per convincerlo a soddisfare i suoi desideri come del resto fece il toro con sua madre, Fedra:” Flecte, ferox animos: potuit corrumpere taurum/mater: eris tauro saevior ipse truci? ” (vv, 165-166), piega superbo i tuoi sentimenti: mia madre poté sedurre un toro: sarai tu più feroce di un toro tremendo?
E’ questo il mito, irriso da Ovidio, delle Cretesi sporcaccione, nato, probabilmente, quando i guerrieri micenei, poco dopo la metà del secondo millennio, invasero Creta e videro le raffigurazioni di donne troppo libere e discinte rispetto ai loro canoni.
“Paride, per riguardo di Elena, non tratta Sparta come la lena trattava le sabine di Tazio, ma la ritiene indegna della bellezza di Elena (Her. 16. 191 sgg.): Parca sed est Sparte, tu cultu divite digna;/ad talem formam non facit iste locus;/hanc faciem largis sine fine paratibus uti/deliciisque decet luxuriare novis./Cum videas cultus nostra de gente virorum, qualem Dardanias credis habere nurus? “[48] , ma Sparta è scarsa, tu sei degna di ricca raffinatezza; a tale bellezza non si addice questo luogo; a quest’aspetto si confà l’uso di vesti infinitamente copiose e abbondare di delizie mai viste. Vedendo l’eleganza degli uomini della nostra gente, quale credi che abbiano le ragazze troiane?
Questo fu uno degli argomenti, o dei pensieri, che spinsero Elena all’adulterio secondo Ecuba la quale, nelle Troiane di Euripide, accusa la maliarda di avidità non solo sessuale: la moglie di Menelao fu attirata dallo splendore di Paride: tanto da quello della bellezza quanto da quello delle ricchezze che il principe troiano portava con sé e che possedeva a Troia dove l’oro scorreva a fiumi.
A Sparta, infatti, le rinfaccia la vecchia regina, vivevi con poco (“mivkr j e[cousa”, v. 993) e abbandonata la famiglia sperasti di sommergere nel tuo fasto (“h[lpisa” katakluvsein-dapavnaisin”, vv. 995-996) la città dei Frigi dove l’oro scorreva . Infatti non ti bastavano le dimore di Menelao per trasmodare nei tuoi lussi (“tai'” sai'” ejgkaqubrivzein trufai'””, v. 997: il verbo accusa Elena di u{bri” , il peccato dei Greci)
Questa è la requisitoria della regina dolente che conclude con una richiesta di condanna a morte.
Torniamo ai suggerimenti di Ovidio. ‘L’ambiguità giocosa investe, naturalmente, anche l’Ars amatoria...Il pudor è bandito come rusticus , almeno da una certa fase in poi della strategia di conquista della donna”[49] . Del resto è pur vero che “la strategia amorosa si sa adoperare soltanto quando non si è innamorati”[50].
Ovidio consiglia al corteggiatore l’audacia e la facondia che sarà nutrita dalla forza del desiderio: è il rem tene verba sequentur di Catone trasferito in campo erotico:”fac tantum cupias, sponte disertus eris ” (Ars Amatoria , I, 608), pensa solo a desiderarla, e sarai facondo senza sforzo. Per la conquista parlare è decisivo: la parola audace e suadente metterà in fuga il rusticus Pudor :” Conloqui iam tempus adest; fuge rustice longe/hinc Pudor: audentem Forsque Venusque iuvat “, I, 605-606), è già tempo di parlarle; fuggi lontano di qui, rozzo Pudore, la Sorte e Venere aiutano chi osa.
Seneca nel De Beneficiis (64 d. C.) segnala alcuni aspetti della corruzione del suo tempo derivata dall’ingratitudine: tra questi la moda della dissoluzione dei vincoli matrimoniali, la sparizione pudicizia femminile e la complicità dei mariti:”Coniugibus alienis ne clam quidem sed aperte ludibrio habitis, suas aliis permisere. Rusticus, inhumanus ac mali moris et inter matronas abominanda condicio est, si quis coniugem suam in sella prostare vetuit et vulgo admissis inspectoribus vehi perspicuam undique ” (I, 9, 3), dopo che si sono presi gioco delle mogli altrui, neppure di nascosto ma palesemente, hanno concesso le proprie agli altri. E’ rozzo, incivile, di cattiva educazione, e tra le matrone la sua qualità è aborrita se una ha vietato a sua moglie di esibirsi nella portantina e di farsi portare in giro da tutte le parti bene in vista per essere osservata pubblicamente.
Analoga considerazione fa Parini (1729-1799) quando attribuisce un siffatto disprezzo del pudore, e della fedeltà matrimoniale, ai nobili satireggiati nel suo poema:” D’altra parte il Marito ahi quanto spiace,/ E lo stomaco move ai dilicati/Del vostr’Orbe leggiadro abitatori,/Qualor de’ semplicetti avoli nostri/Portar osa in ridicolo trïonfo/La rimbambita Fe’, la Pudicizia,/Severi nomi!” (Il Mattino , vv. 292-298).
L’audacia quale mezzo ottimo per indurre all’adulterio viene messa al primo posto da Rodolphe Boulanger, il seduttore carnale di Emma Bovary:” Cominceremo, e con audacia, è sempre il mezzo più sicuro”[51] .
Anche in questo romanzo il marito, Charles Bovary, è una figura contraria all’eleganza, un individuo che tanto “spiace”, oltretutto a sua moglie la quale non si sente trattenuta ai vincoli imposti dal pudore coniugale:”La conversazione di Charles era piatta come un marciapiede, vi sfilavano le idee più comuni nella loro veste più ordinaria, senza suscitare la minima commozione, d’allegria o di sogno. Lo diceva lui stesso, non aveva mai provato la curiosità, durante il suo soggiorno a Rouen, di andare a sentire a teatro gli attori di Parigi. Non sapeva nuotare, né tirar di scherma, né usar la pistola, un giorno non seppe neppure spiegare alla moglie un termine d’equitazione che lei aveva trovato in un romanzo. E un vero uomo, invece, non avrebbe dovuto conoscer tutto, eccellere in ogni attività, essere in grado, insomma, d’iniziare la propria donna alle violenze della passione, alle raffinatezze della vita, agli innumeri misteri? Non insegnava nulla Charles, non sapeva nulla Charles, non immaginava nulla Charles: credeva che lei fosse felice, ma lei gliene voleva per tutta quella tranquillità imperturbabile, per tutta quella pacifica pesantezza, per tutta quella stessa sazietà di cui era l’origine” (p. 34).
Un uomo rozzo assai: quando la moglie bella, insoddisfatta, poco affettuosa e cortese, è viva e convive con lui, egli non si accorge dei tradimenti, e dopo il suicidio di lei, leggendo le sue lettere, spiandola dopo che è morta, si offende a morte:”Rusticus est nimium quem laedit adultera coniunx” (Amores III, 4, 37), è davvero rozzo quello che una moglie adultera offende: “C’eran tutte le lettere di Léon. Questa volta nessun dubbio era più possibile! Le divorò sino all’ultima riga, frugò in ogni angolo, in ogni mobile, in ogni tiretto, dietro i muri, singhiozzando, urlando, smarrito, impazzito. Scoprì una scatola, la sfondò con un calcio. Il ritratto di Rodolphe gli balzò davanti, tra un disordinato profluvio di messaggi d’amore” (p. 279).
Fa coppia con questo L’eterno marito (1871), Pavel Pavlovic, di Dostoevskij:”Un individuo simile nasce e si sviluppa unicamente per ammogliarsi e, una volta ammogliato, per trasformarsi unicamente in un’appendice della moglie, anche quando egli abbia una personalità sua, ben determinata. La proprietà essenziale di un simile marito è quel certo ornamento. Egli non può non essere cornuto, così come il sole non può non risplendere, però non soltanto non ne sa mai nulla, ma non potrà mai saperlo per le leggi medesime della naturaE a un tratto, in modo del tutto inatteso, Pavel Pavlovic si fece con due dita le corna sulla fronte calva, e ghignò piano, a lungo. Rimase così, con le corna e ghignando, per mezzo minuto almeno, guardando Vel’ caninov[52] negli occhi in una specie di ebbrezza della più perfida insolenza”[53].
Rusticus est nimium, anche questo.
Ancora a proposito dell’Ars Amatoria , La Penna cita “forma sine arte potens ” (III, 258), la bellezza è una potenza senza artifici, ma, fa notare, “tutta l’opera si colloca al di là della natura, dell’istinto, anche della sensualità, ed esalta l’efficacia dell’usus e del cultus . Grazie all’usus le donne non più giovani perpetuano il loro fascino (Ars II 675 sgg.) e vincono la lotta contro il tempo inesorabile (677): Illae munditiis annorum damna rependunt ” (p. 187), quelle con l’eleganza compensano i danni del tempo. E, aggiunge Ovidio, con i trattamenti di bellezza fanno in modo di non sembrare vecchie:”et faciunt cura, ne videantur anus ” (678). E’ anche l’usus del resto, l’esperienza, che rende appetibili le non più giovanissime:”utque velis, Venerem iungunt per mille figuras:/invenit plures nulla tabella modos” (679-680), e, purché tu lo voglia, fanno l’amore componendo mille figure; nessun quadro ha trovato più posizioni.
Certamente si potrebbe contrapporre a queste anus restaurate e navigate la vecchia signora di Pirandello la quale “coi capelli ritinti, tutti unti non si sa di quale orribile manteca, e poi tutta goffamente imbellettata e parata d’abiti giovanili” fa ridere con l’avvertimento “che quella vecchia signora è il contrario di ciò che una vecchia rispettabile signora dovrebbe essere”[54]. Questo dell’anziano spennellato e miserevole è un vero e proprio tovpo” pirandelliano: si trova pure nella signora Popònica delle pagine iniziali dell’Esclusa e nella poesia Dal fanale a proposito di un vecchio che “nero-rossi, qual pel di faina,/si ritinge i capelli” come fanno quelli che danno la tinta “al canuto, imbecillito affetto/della vita”.
Ma Ovidio quando scrive l’Ars Amatoria non è così intristito. “La trattazione del libro dedicato alle donne”, il terzo, “incomincia, dopo il lungo proemio, con una specie di inno al cultus (Ars III 101-128). Il passo è celebre…Senza cultus non avremmo i frutti della terra, il vino e le messi. La forma , la bellezza, è dono divino; è il cultus che dà la bellezza anche a chi non l’ha. Si obietta che le donne dei tempi antichissimi non ricorsero al cultus : è perché i mariti, duri soldati, erano rozzi, senza gusto. La rudis simplicitas caratterizzò la Roma arcaica; ma nunc aurea Roma est , e alla splendida Roma di oggi, coi suoi superbi edifici, corrisponde meglio il cultus . Si colloca qui la più esplicita professione di modernità lanciata da Ovidio (121 sg.) : Prisca iuvent al’ios, ego me nunc denique natum/gratulor: haec aetas moribus apta meis ” [55], le anticaglie piacciano agli altri, io mi compiaccio di essere nato solo ora: questa è l’età adatta ai miei gusti.
E’ un ribaltamento del mito dell’età dell’oro: il presunto “paese guasto” è più piacevole e gradito del “mondo casto“[56].
Anche all’inizio dei Medicamina faciei Ovidio proclama:”culta placent ” (v. 7), piace ciò che è curato: i palazzi, la terra, la lana, le donne.
La Penna poi indica “qualche altro passo interessante del III libro dell’Ars dove la polemica contro il gusto arcaizzante ritorna in forma satirica. Ecco il quadro dell’incessus rozzo (303 sg.): illa, velut coniunx Umbri rubicunda mariti,/ambulat, ingentis[57] varica fertque gradus ” (p. 189), quella cammina come la moglie rubiconda di un marito umbro, e procede a grandi passi con le gambe divaricate. E’ questo un rusticusmotus (vv. 305-306) che fa scappare gli uomini (fugatque viros, v. 300).
La goffaggine dei movimenti ricorda la tanghera di Saffo la quale rimprovera un’allieva, forse Attis, di provare attrazione per una persona inelegante:
” Affascina la tua mente quale tanghera (ajgrwi?ti” ) che indossa una veste da tanghera/e non è capace di sollevare gli stracci sopra le caviglie?” (fr. 61 D.).
Lo stile eletto infatti è per Saffo il valore fondamentale, e senza questa base non può esserci bellezza né gioia, anzi c’è l’abisso dell’insignificanza. Aristocratica è la classe di provenienza di Saffo, aristocratica l’educazione impartita alle allieve, ma niente è nobile quanto la natura, la quale è più aristocratica di qualsiasi società feudale basata sulle caste.
Torniamo alla guida di La Penna:”Non è detto che Ovidio, rievocando questa moglie rubiconda dell’antico contadino umbro, pensasse, per contrasto, alla severa madre sabina rievocata da Orazio: certo il contrasto è gustoso. Ci sono nelle opere erotiche parecchi altri indizi più chiari di satira e parodia dell’arcaismo etico del regime augusteo…Qui non è il caso di entrare in dettagli; basta vedere come importanti motivi nazionali della poesia di regime sono distorti con elegante parodia. Per esempio, la discendenza dei Romani da Venere attraverso Enea, celebrata da Virgilio, serve per riaffermare che Roma è la città dove la dea dell’amore dispiega tutta la sua potenza (Ars I 60): mater in Aeneae constitit urbe sui [58].
Tra gli amanti infedeli è menzionato Enea, che causò la morte di Didone; e tuttavia egli “famam pietatis habet ” (Ars III 39): giocosa polemica con Virgilio che aveva giustificato il suo pio eroe. Anche gli elogi del cultus vanno letti nel contesto della polemica libertina col regime…Con Augusto…la società romana guariva dalla crisi tornando al modello etico arcaico, caratterizzato dalla pietas , dall’industria , dalla limitazione dei consumi, ecc. Questa concezione “catoniana” della crisi e della sua soluzione veniva raccordata abbastanza bene con una concezione soteriologica e messianica di più vasta risonanza: ritorno dell’età dell’oro…” (p. 190).
Si può illustrare questa affermazione con alcuni versi dell’elegia programmatica di Tibullo (1,1):” Divitias alius fulvo sibi congerat auro/et teneat culti iugera multa soli,/quem labor adsiduus vicino terreat hoste,/Martia cui somnos classica pulsa fugent:/me mea paupertas vita traducat inerti,/dum meus adsiduo luceat igne focus./ Ipse seram teneras maturo tempore vites/rusticus et facili grandia poma manu;/nec spes destituat, sed frugum semper acervos/praebeat et pleno pinguia musta lacu. ” (vv. 1-10), altri ammassi per sé ricchezza d’oro giallo e possieda molti iugeri di terra coltivata, ma lo spaventi un’ansia continua per l’avvicinarsi del nemico, e la tromba di Marte fatta suonare gli cacci il sonno: me il possesso di poco faccia passare una vita tranquilla, purché il mio focolare brilli di un fuoco sempre acceso! Io stesso pianterò tenere viti nella stagione opportuna da contadino e grandi alberi da frutto con mano esperta; e la speranza non mi deluda ma mi offra sempre mucchi di grano e mosto denso nel tino ricolmo.-somnosfugent: la mancanza di sonno può essere causata dalla guerra o dall’ambizione. Il tiranno è caratterizzato dall’insonnia. Edipo re vedendo il popolo di Tebe tormentato dice “Sicché non da un sonno, mentre dormivo, mi svegliate;/ma dovete sapere che molto io ho lacrimato di già/e molte strade ho percorso con gli errori della mente” (vv. 65-67). Il re è insonne non solo per la sollecitudine che il capo deve al popolo sofferente ma anche perché, al pari di Macbeth (II, 2), ha ucciso il sonno con i suoi delitti. Nell’Edipo a Colono (vv. 621-622) il protagonista vicino alla “consolazione metafisica” afferma che sarà il suo freddo cadavere a dormire.
Nella tragedia di Shakespeare l’assassino del re dopo l’uccisione di Duncan crede di sentire una voce che grida:”Sleep no more! Macbeth does murder sleep” non dormire più, Macbeth uccide il sonno “The death of each day’s life, sore labour’s bath, balm of hurt minds “(II, 2) , la morte di ciascun giorno della vita, bagno ristoratore dei travagli della vita, balsamo per le anime afflitte. Espressioni non dissimili in Leopardi quando sostiene che senza questo ristoro non si sopporterebbe la vita:”Tal cosa è la vita, che, a portarla, fa di bisogno ad ora ad ora, deponendola, ripigliare un poco di lena, e ristorarsi con un gusto e quasi una particella di morte”[59].-
–dumluceat: proposizione condizionale con sfumatura restrittiva.
Qui come si vede essere rusticus (v. 8) non è un difetto; non è nemmeno un ostacolo all’amore poiché più avanti “il poeta contadino si trasforma in poeta innamorato (il passaggio avviene mediante l’immagine dell’abbraccio notturno con la sua donna al riparo dall’ostile mondo esterno, vv. 45-48). E, al v. 57, compare Delia. A lei il poeta consacra la propria esistenza, lasciando ad altri, in primo luogo al patrono Messalla, la gloria della guerra”[60]. Vediamo i versi dell’abbraccio nel luogo rustico e protetto:”Quam iuvat immites ventos audire cubantem/et dominam tenero continuisse sinu.//aut, gelidas hibernus aquas cum fuderit Auster,/securum somnos igne iuvante sequi ” (I, 45-48), quanto mi piace udire dal letto i venti furibondi e stringere la signora dal morbido seno, Oppure, quando l’Austro tempestoso versa gelide piogge abbandonarsi senza preoccupazioni ai sonni favoriti dal fuoco. Ecco una rusticari gradevole.
Sul rapporto guerra-amore torneremo più avanti; ora notiamo che nella IV delle Heroides Fedra viceversa scrive a Ippolito che la grazia di Venere e la rusticitas sono inconciliabili:”si Venerem tollas rustica silva tua est ” (v. 102), se togli di mezzo Venere la tua selva è selvaggia.
La Penna procede ricordando alcuni aspetti del dibattito svoltosi nel 195 a. C. sull’abrogazione della legge Oppia . Abbiamo già visto la posizione di Catone che si opponeva al lusso e alla libertas femminile da lui intesa come licentia (Livio, XXXIV, 2, 11-14).
“Il dibattito dei tempi di Catone non era certo inattuale nella Roma augustea, e ciò avrà pesato nell’indurre Livio a dargli tanto rilievo. L’etica del principato, come tutti sanno, ostentava una certa ispirazione catoniana; essa si riconosceva bene nel comportamento che Sallustio…attribuiva agli avi (Cat. 9. 2):” in suppliciis deorum magnifici, domi parci “[61]. Ma la stessa età augustea offriva anche, in teoria, senza parlare della realtà, modelli etici diversi: proprio uno dei maggiori artefici del regime, Mecenate, si presentava e veniva presentato come l’uomo tanto energico nella vita pubblica quanto ben disposto agli agi e ai piaceri nel meritato ozio che succede e precede le fatiche dello stato…In modo sottile, brillante, dunque, Ovidio cancella il ritorno ai prischi costumi; e implicitamente cancella…l’interpretazione della storia romana dopo le guerre puniche come un processo di decadenza. Il cultus , anche se accordato con lo splendore della Roma augustea…sembra piuttosto frutto di un progresso lungo, di inizio non recente, che ha cancellato a poco a poco la rusticitas arcaica…Ovidio nella celebrazione del cultus data nel III dell’Ars [62] sembra risentire del concetto, e dell’entusiasmo, della pienezza dei tempi. Esiodo, chiuso nella concezione ciclica, vorrebbe non essere nato nell’età in cui vive, cioè nell’età del ferro, la più feroce e infelice di tutte (Opere 174 sg.)…Quando Ovidio proclama con entusiasmo “ego me nunc denique natum/gratulor “, sembra contrapporsi all’antico vate di Ascra: non escluderei un’allusione, anche se non sono sicuro: Esiodo è poeta ben presente nella poesia augustea, ovviamente noto a Ovidio” (p. 195).
Di età del ferro parla Ovidio nelle Metamorfosi in questi termini
cercal I, 127 sgg. e Seneca nel De ira II 8 Foscolo La terra è una foresta di belve febbraio 99
Che la decadenza sia iniziata con la caduta di Cartagine e con la fine della paura dei nemici e particolarmente del metus punicus lo afferma appunto Sallustio nel Bellum Catilinae :”Sed ubi Carthago aemula imperii Romani ab stirpe interiit, cuncta maria terraeque patebant, saevire fortuna ac miscere omnia coepit. Qui labores, pericula, dubias atque asperas res facile toleraverant, iis otium divitiaeque, optanda alias, oneri miseriaeque fuere. Igitur primo pecuniae, deinde imperi cupido crevit: ea quasi materies omnium malorum fuere “(10), ma quandoCartagine, rivale del popolo romano, fu distrutta dalle fondamenta, tutti i mari e le terre erano aperti, la fortuna cominciò a incrudelire e a sconvolgere tutto. Quelli che avevano sopportato con facilità fatiche, pericoli, situazioni incerte e difficili, per questi l’ozio e la ricchezza, beni desiderabili in altre circostanze, furono motivo di peso e di miseria. Pertanto prima crebbe il desiderio di denaro, poi di potere: quelle passioni furono per così dire l’esca di tutti i mali. Il concetto torna nel Bellum Iugurthinum :” Nam ante Carthaginem deletam…metus hostilis in bonis artibus civitatem retinebat. Sed ubi illa formido mentibus decessit, scilicet ea quae res secundae amant, lascivia atque superbia, incessere” (41), infatti prima della distruzione di Cartagineil timore dei nemici conservava la cittadinanza nel buon governo. Ma quando quella paura tramontò dagli animi, naturalmente quei vizi che la prosperità ama, la dissolutezza e la superbia apparvero.
E’ l’imperialismo moralistico di Sallustio: le conquiste dunque non devono soffocare l’antica virtù: quella per cui i giovani desideravano più le armi e i cavalli da guerra che puttane e banchetti:”magisque in decoris armis et militaribus equis quam in scortis atque conviviis lubidinem habebant “( Bellum Catilinae, 7). L’impero infatti si conserva facilmente con i mezzi con i quali lo si è dapprima conquistato:” nam imperium facile iis artibus retinetur, quibus initio partum est (2).
Un’altra contrapposizione di Ovidio a Esiodo, in particolare al proemio della Teogonia , viene individuata nel proemio dell’Ars Amatoria dove l’autore “non si proclama ispirato da Apollo e dalle Muse…la fonte della nuova opera è l’esperienza:”usus opus movet hoc [63]; in base all’esperienza egli canterà il vero (“vera canam “, 30) (e in questo credo che Ovidio non si contrapponga più ad Esiodo, ma gli si accosti). L’unica divinità che viene invocata è Venere“[64] .
La proclamata pratica del vero risente non direi tanto di Esiodo, cui le Muse dell’Olimpo si presentarono con queste parole : noi sappiamo dire molte menzogne simili al vero, ma sappiamo, quando vogliamo anche far sentire la verità[65], quanto piuttosto della lezione storiografica di Tucidide che “legiferò” non solo per gli storiografi. Polibio che ripete formule tucididèe potrebbe sottoscrivere queste parole di Ovidio:”usus opus movet hoc: vati parete perito;/vera canam ” (Ars I, 29-30), l’esperienza fa nascere quest’opera: obbedite al poeta esperto; canterò fatti veri.
La dea è indicata come il nume che ha designato nel poeta il maestro artista, pilota e auriga dell’amore:” me Venus artificem tenero praefecit Amori;/Tiphys et Automedon dicar Amoris ego ” (Ars Amatoria , I, vv. 7-8), Venere mi ha preposto a foggiare il delicato amore; io sarò chiamato il Tifi[66] e l’Automedonte[67] dell’Amore.
Un altro encomio del cultus si trova nei primi versi dei Medicamina faciei .
“L’elogio del cultus collocato all’inizio dei Medicamina faciei esalta più ampiamente che quello collocato nel III libro dell’Ars l’importanza del cultus nella lavorazione della terra, nel mutamento delle condizioni naturali. Segue l’elogio del cultus in quanto dà splendore e lusso alle abitazioni e all’abbigliamento (7-10): Culta placent: auro sublimia tecta linuntur;/nigra sub imposito marmore terra latet;/vellera saepe eadem Tyrio medicantur aëno;/sectile deliciis India praebet ebur ” (p. 198), le cose curate piacciono: gli alti palazzi vengono coperti d’oro[68]; la terra nerra rimane nascosta sotto il marmo sovrapposto; spesso anche la lana è tinta con una caldaia di Tiro; l’India offre al lusso avorio intarsiato.
I versi successivi contrappongono “con disprezzo, anche se temperato dalla comicità, la rusticitas dei tempi antichi” al lusso moderno:”Forsitan antiquae Tatio sub rege Sabinae/maluerint quam se rura paterna coli,/cum matrona, premens altum rubicunda sedile,/adsiduo durum pollice nebat opus,/ipsaque claudebat, quos filia paverat, agnos,/ipsa dabat virgas caesaque ligna foco ” (Medicamina faciei, vv. 11-16), forse le antiche Sabine sotto il re Tazio preferirono curare i campi paterni piuttosto che se stesse, quando la sposa, seduta arrossata sull’alto sgabello, filava con pollice instancabile il suo duro lavoro, e lei stessa chiudeva gli agnelli che la figlia aveva portato al pascolo, lei stessa metteva verghe e legna fatta a pezzi sul focolare.
Le antiche sabine erano delle contadinone prive di grazia.
Tutt’altra posizione nei confronti dei Sabini è quella di Tito Livio che elogia l’educazione severa e rigida di quel popolo “quo genere nullum quondam incorruptius fuit” (I, 18, 4), del quale mai alcuno anticamente fu più austero. Un epigramma di Marziale (XI, 15) comprende entrambe queste posizioni: il poeta afferma di avere scritto anche chartae austere leggibili dalla moglie di Catone e dalle Sabine qualificate come horribiles (vv. 1- 2).
Subito dopo Ovidio nei Medicamina faciei ” torna ai tempi moderni per giustificare pienamente il bisogno di cultus da parte delle puellae ; e non si tratta di abbigliamento a buon mercato” (p. 199) : At vestrae matres teneras peperere puellas:/vultis inaurata corpora veste tegi,/vultis odoratos positu variare capillos,/conspicuam gemmis vultis habere manum;/induitis collo lapides oriente petitos,/et quantos onus est aure tulisse duos ” [69], invece le vostre madri hanno partorito fanciulle delicate: volete che il corpo sia coperto da veste intessuta d’oro, volete mutare con l’acconciatura i capelli profumati, volete avere una mano che colpisce lo sguardo con i gioielli; mettete al collo perle cercate in oriente e all’orecchio due così grandi che è faticoso reggerle.
Le donne non si possono biasimare per questo, tant’è vero che la moda del lusso è stata accolta anche dagli uomini:”Nec tamen indignum: sit vobis cura placendi,/cum comptos habeant saecula vestra viros./Feminea vestri potiuntur lege mariti,/et vix, ad cultus, nupta, quod addat, habet ” (vv. 23-26) tuttavia non è disdicevole: abbiate pure cura di piacere, dal momento che la vostra generazione presenta uomini eleganti. I vostri mariti si impossessano della consuetudine femminile e la sposa ha appena qualcosa da aggiungere alle loro ricercatezze.
“Qui il cultus si presenta chiaramente come lusso; Ovidio non si preoccupa di porre limiti; certamente sa, anche se non si preoccupa di esporcelo, quali spese il cultus comporta e quale attività commerciale presuppone: materie prime o prodotti rifiniti vengono dalle provincie o dal lontano oriente; anche nel corso della trattazione (che, com’è noto, si riduce per noi a poche decine di versi[70]) le provenienze esotiche sono talvolta indicate[71]: si direbbe, insomma, che Ovidio accetta in pieno l’espansione dei consumi e l’economia mercantile in cui essa si colloca” [72].
Sul lusso dei primi anni dell’impero e sulla svolta impressa dall’esempio di Vespasiano vediamo l’opinione di Tacito il quale applica l’idea polibiana del ciclo (ajnakuvklwsi” /orbis ) all’economia e alle mode: con l’avvento di Vespasiano (69 d. C.) termina il tempo del luxus delle splendidissime famiglie senatorie, un ciclo iniziato “a fine Actiaci belli “(Annales , III, 55) , dalla fine della guerra di Azio, il 31 a. C.
Il primo imperatore flavio infatti era “praecipuus adstricti moris auctor…antiquo ipse cultu victuque ” (Annales , III, 55) principale promotore di vita austera…egli stesso di antica semplicità nel mangiare e vestire, addirittura simile ai comandanti antichi se non ci fosse stata l’avaritia (“prorsus, si avaritia abesset, antiquis ducibus par “, Historiae , II, 5). Tacito vuole cercare le cause di questo mutamento (“causas eius mutationis quaerere libet “, Annales , III, 55) che fu graduale e variamente motivato, ma ebbe il principale auctor in Vespasiano . Infatti la cortigianeria verso l’imperatore, e il desiderio di imitare tale modello, ebbero maggior valore che la pena minacciata dalle leggi suntuarie e la paura:”Obsequium inde in principem et aemulandi amor validior quam poena ex legibus et metus “. Sappiamo da Omero, Esiodo e dalla tragedia greca che i costumi, virtù, vizi e perfino malattie del capo si riverberano sulla sua terra per una sorta di responsabilità collettiva.
Però c’è un’altra causa, forse più vera, certo più misteriosa, ed è quella del ciclo:” :”Nisi forte rebus cunctis inest quidam velut orbis, ut quem ad modum temporum vices ita morum vertantur “(Annales , III, 55), a meno che per caso in tutte le cose ci sia una specie di ciclo, in modo che, come le stagioni, così si volgano le vicende alterne dei costumi. Delle Historiae di Tacito ci sono arrivati 5 libri, l’ultimo dei quali mutilo. Raccontano i fatti che vanno dal 1° gennaio 69 alla rivolta giudaica del 70. Il V libro contiene un lungo excursus sulla Giudea.
Gli Annales, composti negli anni successivi al 111 d. C., dovevano continuare l’opera di Livio: il titolo dei manoscritti Ab excessu divi Augusti echeggia il liviano Ab urbe condita. Dell’opera che doveva andare dalla morte di Augusto a quella di Nerone ci sono arrivati i libri I-IV, un frammento del V e parte del VI con gli avvenimenti dalla morte di Augusto (14 d. C.) a quella di Tiberio (con una lacuna per gli anni 29-31); inoltre i libri XI-XVI con il regno di Claudio, dal 47, e quello di Nerone fino al 66.
Su questo argomento è interessante la riflessione di Santo Mazzarino :”L’idea tacitiana del “ciclo” economico dal 30 a. C. al 68 d. C. è, in fondo, un nuovo dono del pensiero filosofico alla storiografia antica: all'”anaciclosi” polibiana, che si applica alle forme costituzionali, si aggiunge così un similare concetto di orbis , applicato all’economia. Questo concetto del luxus senatorio stroncato…dall’avvento, nel 69 d. C. , di una borghesia “pecuniosa” ma parca, basterebbe a fornire taluni elementi essenziali per una storia sociale del periodo dal 69 d. C.-l’anno di Galba, Otone, Vitellio-fino a tutta l’età flavia: del periodo, insomma, che Tacito aveva trattato nelle Historiae “[73].
La pericolosità di un’economia di consumi fondati sulle importazioni viene rilevata da una lettera al senato di Tiberio .
Già nel 16 d. C. c’era stata una seduta del senato durante la quale avevano parlato a lungo contro il lusso un ex console e un ex pretore “decretumque ne vasa auro solida ministrandis cibis fierent, ne vestis serica viros foedaret ” (Annales , II, 33), e fu proibito che venissero fatti vasi d’oro massiccio per servire i cibi in tavola e che vesti di seta deturpassero gli uomini. Poi però Asinio Gallo[74] parlò in senso contrario dicendo che i senatori e i cavalieri, come stanno davanti per posti a teatro, cariche, dignità, devono anche potersi procurare i mezzi che recano sollievo all’animo e benessere al corpo. “Facilem adsensum Gallo sub nominibus honestis confessio vitiorum et similitudo audientium dedit ” , diede un facile consenso a Gallo l’ammissione dei vizi sotto nomi onesti e la complicità degli ascoltatori. “Adiecerat et Tiberius non id tempus censurae nec, si quid in moribus labaret, defuturum corrigendi auctorem“, Tiberio aveva aggiunto che non era quello il momento di un giudizio critico e comunque se i costumi avessero vacillato non sarebbe mancata l’autorità di una riforma.
L’imperatore nel 22 d. C. viene avvisato dai senatori, a loro volta messi in guardia dagli edili, sul fatto che che le leggi suntuarie erano disprezzate e i prezzi delle derrate alimentari aumentavano di giorno in giorno. Il lusso infatti traboccava senza freno e lo sfarzo di mense e di orge aveva addirittura suscitato il timore che il principe, uomo di antica parsimonia, prendesse provvedimenti troppo duri (” ne princeps antiquae parsimoniae durius adverteret “, Annales , III, 52). Tiberio rispose che l’imperatore aveva compiti più importanti che quello di proibire il lusso; che cosa del resto avrebbe dovuto cominciare a proibire per tornare al costume antico? ville enormi? , moltitudini di schiavi di tante razze? vasellame d’oro e d’argento? meraviglie di statue e dipinti?, vesti portate senza distinzione da uomini e donne e quella mania femminile che, per le pietre preziose fa passare il denaro a popoli stranieri o nemici (promiscas viris et feminis vestis[75] atque illa feminarum propria, quis lapidum causa pecuniae nostrae ad externas aut hostilis gentis tranferuntur ? , III, 53).
E’ il problema del drenaggio della disponibilità monetaria e della crisi economica dell’Italia.
Il fatto davvero grave però era che l’Italia non bastava a se stessa, poiché la terra non veniva più coltivata, e il suo sostentamento dipendeva dalle importazioni: “Externis victoriis aliena, civilibus etiam nostra consumere didicimus. Quantulum istud est de quo aediles admonent! quam, si cetera respicias, in levi habendum! at hercule nemo refert quod Italia externae opis indiget, quod vita populi Romani per incerta maris et tempestatum cotidie volvitur ” (Annales , III, 54), con le vittorie esterne abbiamo imparato a consumare i beni altrui, con le civili anche i nostri. Che piccola cosa è questa di cui mi avvisano gli edili, quanto se si guarda ad altre più serie, deve essere considerata di poco conto! ma per Ercole nessuno ricorda che l’Italia ha bisogno di mezzi che vengono da fuori e che la vita del popolo romano si aggira ogni giorno tra i rischi del mare e delle tempeste.
Già Augusto temeva che le campagne rimanessero non coltivate a causa dell’ozio della plebe e decise di abolire le distribuzioni frumentarie:”quod earum fiducia cultura agrorum cessaret ” [76], poiché confidando in queste la gente trascurava la coltivazione dei campi. Tuttavia l’imperatore non perseverò nel proponimento.
“Una grande crisi scoppiò nel 33 d. C. : i latifondi coltivati da schiavi rendevano impossibile una qualunque concorrenza da parte di piccoli proprietari; questi si erano indebitati, ricorrendo a prestiti di latifondisti senatori, sebbene ai senatori fosse proibita l’usuraNe derivò la rovina di molti piccoli proprietari, i quali svendevano i campi per pagare i debiti”[77]. I grandi latifondi erano
poco seguiti e fatti coltivare non intensivamente dai proprietari assenteisti.
Sentiamo M. Rostovzev durante il I sec. d. C. sotto gli imperatori Giulii e Claudii :” Le tenute di media estensione furono a poco a poco rovinate dalla mancanza di vendita e vennero acquistate a buon mercato da grandi capitalisti. Questi ultimi naturalmente desideravano di semplificare la gestione delle loro proprietà, e, paghi di ottenerne un reddito sicuro se pur basso, preferivano dare la loro terra ad affittuari e produrre prevalentemente grano”. La “mancanza di vendita” di molti prodotti italici era dovuta alla “emancipazione economica delle provincele condizioni del mercato peggioravano di giorno in giorno a misura che si svolgeva la vita economica delle province occidentaliA questo mutamento s’accompagnò il crescente raccogliersi della proprietà rurale nelle mani di pochi ricchi proprietari”[78].
La politica finanziaria di Tiberio ebbe questa tendenza:”lotta contro il rialzo dei prezzi; e d’altra parte, proprio per questa sua moderatio nei riguardi degli ottimati, esitazione e anzi rinunzia a prendere rigidi provvedimenti contro il lusso delle dites familiae nobilium aut claritudine insignes[79] . Dalle nuove esigenze fu particolarmente incoraggiato il commercio con l’India, come chiaramente attestano i reperti numismatici di questa regione. In queste condizioni, il lamento che la moneta pregiata prendesse la via dei mercati stranieri (pecuniae nostrae ad externas aut hostiles gentes transferuntur ) restava una protesta platonica, e denunziava un “drenaggio di oro” a cui Tiberio stesso dichiarava di non poter porre rimedio”[80].
In ogni modo “Questa idea della crisi economica dell’Italia domina il pensiero di Tacito, e dà ad esso toni di tristezza profonda: infatti, la ritroviamo in un passo degli Annali, XII, 43, meritatamente celebre[81]:”at hercule olim Italia legionibus longiquas in provincias commeatus portabat, nec nunc infecunditate laboratur, sed Africam potius et Aegyptum exercemus, navibusque et casibus vita populi Romani permissa est “, eppure, per Ercole, una volta l’Italia mandava vettovaglie per le legioni in province lontane, né oggi la terra soffre di sterilità, ma noi preferiamo far coltivare l’Africa e l’Egitto, e la vita del popolo romano è affidata ai rischi della navigazione.
“Il luxus della aristocrazia senatoria determinava un continuo “drenaggio” di metalli preziosi verso l’estero, ché proprio merci orientali dovevano soddisfare quel luxus. Ciò è stato opportunamente sottolineato dallo storico Tacito”[82], come abbiamo visto sopra.
In conclusione le spese eccessive dei ricchi non erano viste di buon occhio dal regime imperiale che comunque tenne, fino a Vespasiano (69 d. C.), imperatore praecipuus adstricti moris auctor (Annales , III, 55), una posizione di tolleranza e attesa guardinga.
Possiamo aggiungere che espressioni polemiche contro il lusso, con l’alta valutazione dell’interiorità, si trovano anche nelle Epistulae di Seneca scritte negli ultimi anni della vita del filosofo, poco prima della fine del regno di Nerone (54-68 d. C.):” cibus famem sedet, potio sitim extinguat, vestis arceat frigus, domus munimentum sit adversus infesta temporis. Hanc utrum caespes erexerit an varius lapis gentis alienae, nihil interest: scitote tam bene hominem culmo quam auro tegi ” (8, 5), il cibo calmi la fame, la bevanda spenga la sete, i vestiti tengano fuori il freddo, la casa sia una difesa contro le ostilità del tempo. Non importa se questa l’abbiano costruita delle zolle erbose o marmi di vario colore importati da genti straniere: sappiate che l’uomo viene coperto altrettanto bene da un tetto di paglia che da uno d’oro.
Il tramonto del lusso viene proclamato in questi giorni (febbraio 2002) da un articolo del settimanale L’Espresso :” Forse le torri. Forse la guerra, quelle donne sotto il burka, quei bambini sotto le bombe. Forse i no globalForse, semplicemente, non se ne poteva più. Comunque, c’è passata la voglia del lusso. Meglio: quella del lusso a 18 carati, obeso, imbarazzanteIl vero lusso è sentirsi eredi di qualcosaè continuità, appartenenza, tradizionii libri che si hanno in casa da anni, non l’ultimo bestsellerle città italiane come Gubbio, non le Seychelles. Un lusso fatto di buone maniere, segreto”[83].
Torniamo a Ovidio. Nell’Ars amatoria[84] , nota ancora La Penna, “l’atteggiamento è più cauto” e la celebrazione “dell’aurea Roma e della modernità è accompagnato dal rifiuto delle grandi ricchezze, del lusso smodato: la Roma augustea corrisponde ai gusti d’Ovidio perché ha eliminato ogni traccia di rusticitas , non perché vi affluiscono l’oro e oggetti preziosi o perché i ricchi Romani hanno grandi e splendide ville sul mare (Ars III 123-126) : non quia nunc terrae lentum subducitur aurum/lectaque diverso litore concha venit,/non quia decrescunt effosso marmore montes,/nec quia caeruleae mole fugantur aquae ” (p. 200), non perché ora alla terra si sottrae il duttile oro e arrivano perle pescate in mari opposti, non perché decrescono i monti per le cave di marmo, né perché le acque azzurre vengono respinte dai moli, ma perché, come abbiamo già visto, cultus adestnec mansit rusticitas (vv. 127-128).
Ovidio dunque ” nelle sue oscillazioni poco tormentate si ferma alla proposta di un cultus misurato che eviti gli eccessi del lusso e, nello stesso tempo, di una raffinatezza dannosa. Per l’uomo egli rifiuta un trattamento dei capelli e della pelle che lo renda simile agli eunuchi servitori di Cibele (Ars I 505 sgg.): l’ideale virile è un equilibrio fra la mundities e la robustezza data dagli esercizi del Campo Marzio (ibid. 513 sg.): Munditiae placeant, fuscentur corpora Campo;/sit bene conveniens et sine labe toga . Dunque, né rusticitas né effemminatezza“[85]. L’eleganza piaccia, siano abbronzati i corpi al Campo Marzio; la toga stia bene e sia senza macchie. Inoltre i denti siano senza tartaro (careant rubigine dentes, Ars, I, 513), i piedi abbiano calzari della loro misura (mentre l’a[groiko” del IV dei Caratteri di Teofrasto ha la scarpa più larga del piede), il taglio di barba e capelli sia buono, le unghie siano ben limate et sint sine sordibus (517), senza sporcizia, non ci siano peli nella cavità delle narici, non ci siano cattivi odori nel fiato né addosso alla persona. “Cetera lascivae faciant concede puellae/et si quis male vir quaerit habere virum ” (521-522), il resto lascia che lo facciano le donne lascive e chi, uomo presunto, desidera possedere un uomo.
Questa consigliata all’uomo, al maschio, è la via di mezzo suggerita, come abbiamo già visto, pure da Cicerone e da Seneca.
Lo stile della neglegentia.
Subito sopra, sempre a proposito degli uomini, Ovidio scrive: “Forma viros neglecta decet; Minoida Theseus/abstulit, a nulla tempora comptus acu;/ Hippolitum Phaedra, nec erat bene cultus, amavit;/ cura deae silvis aptus Adonis erat ” (Ars amatoria, I, vv. 507-510), agli uomini sta bene la bellezza trasandata; Teseo rapì la figlia di Minosse senza forcine che tenessero in ordine i capelli sulle tempie; Fedra amò Ippolito e non era gran che curato; Adone avvezzo alle selve era oggetto d’amore di una dea.
Lo stile della neglegentia è in ogni caso quello dell’aristocrazia. Il fascino e l’eleganza sono luce ed emanazione della persona. Vediamo come hanno cercato di raffigurarli alcuni scrittori europei.
La studiata disinvoltura , la neglegentia sui , la noncuranza (apparente) di sé come mancanza di affettazione, e “apparenza” di naturalezza, quali virtù supreme dello stile vengono attribuite da Tacito a Petronio, uomo erudito luxu dalla voluttà raffinata, elegantiae arbiter , maestro di buon gusto alla corte di Nerone il quale infatti :”nihil amoenum et molle adfluentia putat, nisi quod ei Petronius adprobavisset“, niente considerava bello e fine in quel fasto se non quanto Petronio gli avesse approvato.
Petronio approvava l’apparenza della semplicità:” Ac dicta factaque eius quanto solutiora et quandam sui neglegentiam praeferentia, tanto gratius in speciem simplicitatis accipiebantur” (Annales , XVI, 18), le sue parole e i suoi atti quanto più erano liberi e manifestavano una certa noncuranza di sé, tanto più piacevolmente erano presi come segno di semplicità. Sembra un manifesto del dandy antico[86], e in effetti il raffinato autore del Satyricon , Petronius Arbiter , probabilmente la stessa persona, considera la propria opera caratterizzata da una straordinaria simplicitatis opus ” (132). semplicità “novae
Insomma, come nel caso di Sofronia della Gerusalemme liberata, “le negligenze sue sono artifici” (II, 18). Questo stile della semplicità ricercata è adottato anche dal seduttore di Madame Bovary :”si scusò di essere anche lui così trascurato. Nel suo modo di vestirsi era quel miscuglio di trasandataggine e di ricercatezza in cui la gente, di solito, crede di intravedere la rivelazione di un’esistenza eccentrica, le sfrenatezze del sentimento, le tirannie dell’arte, il perpetuo disprezzo delle convenienze, insomma quanto può sedurre o esasperare” (p. 113).
La condanna dell’affettazione è molto diffusa nella cultura europea. Ne do qualche esempio.
Baldassarre Castiglione ne Il cortegiano (del 1516) dice che il gentiluomo deve fuggire sopra tutto “la ostentazione e lo impudente laudar se stesso, per lo quale l’uomo sempre si còncita odio e stomaco da chi ode” (I, 17). Egli deve schivare “quanto più si pò, e come un asperissimo e pericoloso scoglio, la affettazione; e, per dir forse una nova parola, usar in ogni cosa una certa sprezzatura“, ossia una studiata disinvoltura, “che nasconda l’arte e dimostri ciò che si fa e dice venir fatto senza fatica e quasi senza pensarvi” (I, 26). Parimenti la perfetta gentildonna “Non mostri inettamente di sapere quello che non sa, ma con modestia cerchi d’onorarsi di quello che sa, fuggendo, come s’è detto, l’affettazione in ogni cosa” .
Anche A. Schopenhauer (1788-1860) negli Aforismi sulla saggezza della vita prescrive di evitare l’affettazione:”Si deve…mettere in guardia di fronte a qualsiasi affettazione. Questa provoca in ogni caso il disprezzo, in primo luogo perché è un inganno…in secondo luogo perché rappresenta un giudizio di condanna pronunciato da una persona su se stessa, volendo essa in tal caso apparire ciò che non è, e mostrarsi di conseguenza come migliore di quanto essa sia. L’affettazione di una qualità e il pavoneggiarsi con questa costituiscono una confessione spontanea della sua mancanza. Se uno si fa bello di un qualche pregio, sia poi esso coraggio, erudizione, spirito, arguzia, fortuna presso le donne, ricchezza, posizione elevata, o qualunque altra cosa, si può dedurre da ciò che a lui manca qualcosa proprio in ciò di cui si vanta: a chi infatti possiede realmente in modo completo una qualità, non verrà mai in mente di metterla in mostra e di affettarla, e se ne starà ben tranquillo a questo proposito”[87].
Il conte Alessandro Manzoni conosce bene la regola dell’affettazione/sprezzatura. Nell’Introduzione a I promessi sposi squalifica lo stile del “buon secentista” definendolo”rozzo insieme e affettato..Ecco qui: declamazioni ampollose, composte a forza di solecismi pedestri, e da per tutto quella goffaggine ambiziosa, ch’è il proprio carattere degli scritti di quel secolo, in questo paese”. Quindi la decisione di “rifarne la dicitura”. Viceversa, per quanto riguarda lo stile alto del comportamento, possiamo notare quello dei personaggi invitati dal conte zio per dare un’impressione di potenza al padre provinciale:”gli fece trovare una corona di commensali assortiti con un intendimento sopraffino. Qualche parente de’ più titolati, di quelli il cui solo casato era un gran titolo; e che, col solo contegno, con una certa sicurezza nativa, con una sprezzatura signorile, parlando di cose grandi con termini famigliari, riuscivano, anche senza farlo apposta, a imprimere e rinfrescare, ogni momento, l’idea della superiorità e della potenza”[88].
Una nobile semplicità si trova in Anna Karenina del conte Tolstoj:” Levin riconobbe le maniere piacevoli della donna del gran mondo, sempe calma e naturale Non soltanto Anna parlava con naturalezza e intelligenza, ma con un’intelligenza noncurante, senza attribuire alcun pregio ai propri pensieri e attribuendo invece gran pregio ai pensieri dell’interlocutore”[89] .
Già Cicerone quando insegna le buone maniere nel De Officiis raccomanda in generale “quae sunt recta et simplicia ” (I, 130), come abbiamo visto, e, per quanto riguarda la conversazione, consiglia proprio lo stile che Tosltoj attribuisce alla sua adultera:”maximeque curandum est, ut eos, quibuscum sermonem conferemus, et vereri et diligere videamur …Deforme etiam est de se ipsum praedicare, falsa praesertim, et cum inrisione audentium imitari militem gloriosum ” (I, 136, 137), e soprattutto bisogna stare attenti a mostrarsi rispettosi e affettuosi con quelli con i quali parleremo….indecoroso è anche dire bene di se stesso, soprattutto falsamente, e imitare il soldato millantatore in mezzo allo scherno di quanti ci odono.
Dostoevskij ne I fratelli Karamazov considera l’affettazione segno di cattiva educazione: Al’ioscia sebbene affascinato da Gruscenka ” si domandava con un’oscura sensazione sgradevole e quasi con commiserazione perché ella strascicasse le parole a quel modo e non parlasse in tono naturale. Evidentemente, lo faceva perché trovava bella quella pronuncia strascicata e quella sdolcinata e forzata attenuazione delle sillabe e dei suoni. Certo, non era che una cattiva abitudine di dubbio gusto, la quale testimoniava un’educazione volgare e una volgare comprensione, acquisita sin dall’infanzia, delle convenienze e del decoro“[90].
Del principe Myskin, L’Idiota , Aglaja viceversa dice a Nastasja Filippovna:”Vi devo anche dire che mai, in vita mia, avevo incontrato fino a quel momento un uomo simile a lui per nobiltà e semplicità d’animo, e per fiducia illimitata. Udendo le sue parole, capii che chiunque volesse potrebbe ingannarlo, ed egli, per giunta, lo perdonerebbe”[91].
La semplicità e la negligenza fanno parte dello stile nobile.
Nei Guermantes di Proust, che costituiscono quasi il codice dell’aristocrazia redatto da un borghese, si legge che “i nobili fraternizzano più volentieri coi loro contadini che coi borghesi”[92]. Il raffinato Saint-Loup appariva di un’eleganza ” libera e trascurata“[93] che si adattava perfettamente a “quel corpo, non opaco e oscuroma limpido e significativo“. Un corpo attraverso il quale ” le qualità tutte essenziali dell’aristocrazia trasparivano, come si manifesta in un’opera d’arte la industre ed efficace potenza che l’ha creata, e rendevano i movimenti di quella corsa leggeraintellegibili e pieni di grazia come quelli di un cavaliere su un fregio architettonico”[94]. Si può avvicinare a questa descrizione quella che Plinio il giovane dà di Aciliano che propone come sposo per la figlia di un amico:”Est illi facies liberalis, multo sanguine, multo rubore suffusa; est ingenua totius corporis pulchritudo” (I, 14), ha una faccia nobile, inondata di molta vita e molto colore; è schietta la bellezza di tutto il corpo.
Addirittura i tratti del volto di questi aristocratici suggeriscono una parentela antica con la natura :”il naso a becco di falco e gli occhi penetranti” sono “caratteristici…di quella razza rimasta così speciale in mezzo a un mondo in cui non si è confusa e resta isolata, nella sua gloria divinamente ornitologica: perché essa sembra nata, in un’età favolosa, dall’unione d’una dea con un uccello”(p. 82). Quindi l’autore descrive i loro atti per mostrare quanto essi fossero naturali, eppure “graziosi come il volo d’una rondine o l’inclinazione della rosa sul suo stelo” (p. 475). Il Guermantes nel dare la mano “che si dirigeva verso di voi all’estremità di un braccio teso per tutta la sua lunghezza, aveva l’aria di presentarvi un fioretto per una singolar tenzone; e quella mano era insomma a una tal distanza da quel Guermantes in quel momento che, quand’egli inchinava poi la testa, era difficile distinguere se salutasse voi o la propria mano (p. 481). Manifestazione di intelligenza era la parola salata, “giacché lo spirito dei Guermantes giudicava i discorsi prolungati e pretenziosi, sia nel genere serio sia nel burlesco, come un segno della più insopportabile stupidità”(p. 498). Più avanti ( p. 534) Proust nota ” l’abitudinedei nobili che fraternizzano più volentieri coi loro contadini che coi borghesi”. E ancora:” quel famoso lusso non era soltanto materiale[95]ma anche un lusso di parole cortesi, di atti gentili, tutta un’eleganza verbale alimentata da un’autentica ricchezza interiore”(p. 590). I gran signori, insomma, “sono quasi le sole persone dalle quali si può imparare come dai contadini: la loro conversazione si adorna di tutto ciò che riguarda la terra, le abitazioni come erano abitate una volta, le antiche usanze, tutto ciò che il mondo del denaro ignora profondamente”(p.595).
Ecco un apprezzamento della rusticitas.
In All’ombra delle fanciulle in fiore Proust scrive che la signora di Villeparisis giudicava severamente alcuni pur grandi scrittori come Balzac e Victor Hugo “proprio perché avevano mancato di quella modestia, di quel ritegno, di quell’arte sobria…di quelle qualità di moderazione nel giudizio e di semplicità, in cui le avevano insegnato che risiede il valore vero”(p. 308).
Saint-Loup aveva innanzitutto il pregio della naturalezza che si vedeva fino negli abiti “di un’eleganza disinvolta, senza nulla di ‘pretenzioso’ né di ‘compassato’, senza rigidità e senza appretto.” Quel giovane ricco era apprezzabile” per il modo negligente e libero che aveva di viver nel lusso, senza ‘puzzare di soldi’, senza darsi arie di importanza”; il fascino della naturalezza si trovava “perfino nell’incapacità che Saint-Loup aveva conservata…d’ impedire al proprio viso di riflettere un’emozione”(p. 334). Si vedeva in lui “l’agilità ereditaria dei grandi cacciatori…il loro disprezzo per la ricchezza” la quale serviva solo per festeggiare gli amici. Ma, continua l’autore:” vi sentivo soprattutto la certezza o l’illusione che avevano avuto quei grandi signori di essere ‘più degli altri’ e grazie alla quale non avevano potuto lasciare in legato a Saint-Loup quel desiderio di mostrare che si vale ‘quanto gli altri’, quella paura di sembrare troppo premurosi che rende così rigida e goffa la più sincera amabilità plebea”(p.337).
Saint Loup aveva “un modo di concepire le cose per il quale non si fa più conto di sé e moltissimo del ‘popolo’; insomma tutto l’opposto dell’orgoglio plebeo (p. 351). Suo zio Palamède “in ogni circostanza, faceva quel che gli riusciva più gradevole, più comodo, ma immediatamente gli snob lo imitavano”(p. 351).
Questo dunque è il nobile proustiano, dotato, per natura si direbbe, di stile e fascino; più avanti però l’autore riduce la portata della sua ammirazione e smonta tanta naturalezza, almeno in parte apparente o almeno esibita, affermando che” Di fronte a quella d’ un grande artista, l’amabilità di un gran signore, per quanto affascinante essa sia, ha l’aria di una mimica d’ attore, di una simulazione. Saint Loup cercava di piacere, Elstir amava dare, darsi”(p. 431).
L’elogio della “magnifica negligenza” si trova anche nel grande romanzo di Musil :” Una casta dominante rimane sempre un poco barbarica…Erano invitati insieme in residenze campestri, e Ulrich notò che vi si vedeva sovente mangiare la frutta con le mani, senza sbucciarla, mentre nelle case dell’alta borghesia il cerimoniale con coltello e forchetta era rigidamente osservato; la stessa osservazione si poteva fare a proposito della conversazione che quasi soltanto nelle case borghesi era signorile e distinta, mentre negli ambienti aristocratici prevalevano i discorsi disinvolti, senza pretese, alla maniera dei cocchieri. Le dimore borghesi erano più igieniche e razionali. Nei castelli patrizi d’inverno si gelava; le scale logore e strette non erano una rarità, e accanto a sontuose sale di ricevimento si trovavano camere da letto basse e ammuffite. Non esistevano montavivande né bagni per la servitù. Ma, a guardar bene, c’era proprio in questo un senso più eroico, il senso della tradizione e di una magnifica negligenza!”[96]. Il conte Leinsdorf, promotore della grande Azione Patriottica, l’Azione Parallela “del “popolo” pensava fermamente che fosse “buono”era fermamente convinto che il vero socialismo concordava con le sue opinioniE’ chiaro come il sole che soccorrere i poveri è un dovere cavalleresco, e che per la vera nobiltà non c’è poi una così gran differenza tra un fabbricante e un suo operaio”[97].
Il motto che riassume questo stile potrebbe essere l’affermazione di Pericle: “filokalou’mevn te ga;r met& eujteleiva” kai; filosofou’men a[neu malakiva”” (Tucidide, II, 40, 1). in effetti amiamo il bello con semplicità e amiamo la cultura senza mollezza.
Più avanti Tucidide indica la semplicità come il nutrimento di quell’anima nobile che venne negata dalle guerre civili: a causa di queste (“dia; ta;” stavsei””), fu sancito ogni genere di malizia nel mondo greco e sparì, derisa, la semplicità cui di solito la nobiltà partecipa:”kai; to; eu[hqe” , ou’J to; gennai’on plei’ston metevcei, katagelasqe;n hjfanivsqh” (III, 83, 1). Sembra l’elogio funebre della nobiltà che è anche, forse soprattutto, semplicità, ingenuità e schiettezza.
Torniamo a Ovidio/ La Penna, allo stile dell’incedere, e avviamoci a concludere questo sesto capitolo.
“L’incessus cafonesco della donna, che fa pensare alla moglie rubiconda del contadino umbro, va evitato, ma senza adottare l’incedere troppo molle di alcune donne di città dalle tuniche fluenti (Ars III 301 sgg.)”[98] .
Vediamo i versi che dipingono la femmina troppo flessuosa e teatrale:”Haec movet arte latus tunicisque fluentibus auras/accipit, extensos fertque superba pedes ” vv. 301-302), questa muove i fianchi con abilità e prende aria nella tunica ondeggiante, e porta avanti i piedi allungandoli con superbia.
Il modo di camminare fa parte dello stile:” discite femineo corpora ferre gradu:/est et in incessu pars non contempta decoris “(vv. 298-299), imparate a portare il corpo con passo femminile: anche nel modo di incedere c’è una parte non disprezzabile dello stile bello. Decor è formato su decet , quindi significa che il bello stile può variare, siccome è quanto si addice a ciascuna persona o situazione, come il greco prevpon.
A questo proposito si può citare Cicerone:” :”nihil decet invita Minerva, ut aiunt, id est adversante et repugnante natura “, De Officiis , I, 110, niente si addice contro il volere di Minerva, cioè se la natura è contraria o si oppone. Non ci si deve opporre alla natura universale, tanto meno alla propria.
Poco più avanti si legge:”id enim maxime quemque decet, quod est cuiusque maxime suum “(I, 113), a ciascuno si addice più di tutto ciò che è più personale.
Più in generale, secondo il mito platonico di Er, molti di noi dopo la morte dovranno tornare su questa terra e a un certo punto saremo invitati a sceglierci un’altra vita, un demone, ossia un carattere e un destino, e di tale scelta rimarremo responsabili. Dice infatti Lachesi, la vergine figlia di Ananche:”oujc uJma’” daivmwn lhvxetai, ajll j uJmei'” daivmona aiJrhvsesqe” (Repubblica , 617 e), non sarà il demone a sorteggiare voi, ma voi sceglierete il demone. E subito dopo :”aijtiva eJlomevnou”, la responsabilità è di chi ha fatto la scelta. Una scelta condizionata solo dalle vite passate. Aiace per esempio si scelse la vita di un leone per il ricordo del giudizio delle armi, Agamennone quella di un’aquila per avversione al genere umano. Odisseo, guarito da ogni ambizione per il ricordo dei travagli precedenti, scelse la vita di un uomo privato e tranquillo (“bivon ajndro;” ijdiwvtou ajpravgmono””, 620c). Qual è il nesso con il nostro discorso? Che noi tornati sulla terra dobbiamo fare quello che si addice a noi, essere coerenti con quella scelta, dimenticata per avere bevuto l’acqua dell’Amelete. Se recalcitriamo al nostro destino soffriamo.
Durante la vita terrena “ci resta accanto un compagno, una specie di angelo custode o spirito guida: il Daimon, il modello del nostro destino, che in qualche modo ci aiuta e indirizza al compimento di quella scelta che inizialmente proprio noi avevamo fatto, ma che abbiamo dimenticato. Poiché il mito di Er, come lei accennava prima, è alla base del suo Codice dell’animaLei ha citato uno dei miti sul perché esiste il dolore: il Daimon ci mette di fronte le richieste del destino e noi recalcitriamo”[99]. E’ un’osservazione questa che, anzi, risale addirittura all’Odissea : Zeus nel primo canto parla agli dèi raccolti nella sala e afferma che gli uomini incolpano ingiustamente i numi per i loro dolori:”:”da noi infatti dicono che derivano i mali, ma anzi essi stessi/per la loro stupida scelleratezza hanno dolori oltre il destino ( uJpe;r movron, vv. 33-34)”. Movro” è la parte (mevro” ) che ci hanno assegnato o che ci siamo scelta, o che c isiamo meritata (cfr. mereo) per questa rappresentazione della vita umana.
Questo non significa che ci si debba lasciar andare a tutti gli impulsi.
Per quanto riguarda l’aspetto, assecondare il proprio demone significa assomigliare a lui e, quindi, a se stessi; recalcitrando invece uno diviene ajeikevl’io” , ajeikhv” , non somigliante (eijkov” ), sconcio:” Quando è privo di ogni charis , l’essere umano non assomiglia più a nulla: è aeikelios . Quando ne risplende, è simile agli dei, theoisi eoikei . La somiglianza con se stessi, che costituisce l’identità di ciascuno e si manifesta nell’apparenza che ognuno ha agli occhi di tutti, non è dunque presso i mortali una costante, fissata una volta per tutte”[100].
Lo stile del ridere.
Chi lo crederebbe? Le ragazze imparano anche il modo di ridere, cercando pure con questo aspetto di accrescere la loro avvenenza:”Quis credat? Discunt etiam ridere puellae, /quaeritur atque illis hac quoque parte decor ” ( Ars III, vv. 281-282). Ovidio dà delle indicazioni che si riassumono nel v. 286:”sed leve nescioquid femineumque sonet “, comunque (il ridere) esprima un non so che di delicato e femminile. Quelle che si lasciano andare alla sghignazzata rischiano la sguaiataggine :”ut rudit a scabra turpis asella mola ” (v. 290), come la brutta asinella raglia dalla ruvida macina. Questo verso realmente ruvido rende fonicamente il riso sgraziato della ragazza asina.
Marziale commenta questa parte dell’Ars notando che il poeta di Sulmona ( precisamente Paelignus ) aveva consigliato di ridere:”ride si sapis, o puella, ride “(II, 41), ridi ragazza, se hai giudizio, ridi, ma non a tutte le ragazze:”sed non dixerat omnibus puellis ” Infatti una tal Massimina che ha tre denti deve mettersi addosso espressioni tristi, frequentare donne in lutto e distrarsi solo con le Muse tragiche. Dunque:”plora, si sapis, o puella, plora “, piangi ragazza se hai giudizio, piangi.
Sul significato del riso dà indicazioni interessanti pure Dostoevskij il quale del resto ritiene che tale espressione dell’uomo non sia pensata e quindi ne sveli il carattere ” Intendo dire soltanto che chi ride come chi dorme non sa, per lo più che viso abbia. Un gran numero di uomini non sa affatto ridere. D’altronde, non vi è niente da sapere è un dono, e non si può elaborarlo…Certi caratteri sono difficili a capirsi, ma basta che l’uomo si metta a ridere sinceramente, e tutto il suo carattere si rivela con evidenza. Soltanto persone di doti superiori e felici possono avere l’allegria comunicativa, cioè irresistibile e bonaria. Non parlo di doti intellettuali, ma del carattere individuale. Quindi, se volete conoscere un uomo, la sua anima, penetrate non il suo silenzio o le sue parole, il modo in cui piange o si agita pervaso da nobili idee, ma osservatelo a fondo quando ride. Se l’uomo ride bene, vuol dire che è un uomo buono. Tenete conto anche delle minime sfumature: occorre, per esempio, che il riso dell’uomo non sembri in nessun modo sciocco, pur essendo allegro e bonario. Appena osserverete una minima traccia di sciocchezza nel riso, è indubbio che l’uomo ha intelligenza limitata, ancorché non facesse altro che enunciare grandi idee. Se il suo riso non è sciocco, ma l’uomo vi sembra ridicolo, sappiate che egli è privo del senso della propria dignità! O almeno questo senso gli manca parzialmente. O infine, se quel riso è comunicativo, eppure vi sembra volgare, sappiate che la natura dell’uomo è volgare, e tutto quello che prima avete osservato in lui di nobile e di superiore è volutamente falso, o involontariamente imitato, e che quell’uomo dovrà in seguito assolutamente cambiare in peggio, si occuperà di cose “utili”, lasciando, senza scrupoli, da parte le idee nobili, come aberrazioni e slanci giovanili”[101]. Nel romanziere russo le espressioni e gli atti esterni dell’uomo sono sempre indicazioni dello stato dell’anima. “Mi chiamano psicologo,-dice egli stesso,- non è vero: io sono soltanto un realista nel senso più alto , cioè dipingo tutte le profondità dell’anima umana”[102].
Ma oramai è davvero tempo di concludere il nostro capitolo sul cultus tornando alle indicazioni di La Penna.
” Vesti troppo costose, specialmente purpuree, vengono sconsigliate alle donne eleganti (Ars III 169 sgg.): Quid de veste loquar? Nec nunc segmenta requiro/nec quae de Tyrio murice, lana, rubes./Cum tot prodierint pretio leviore colores,/ quis furor est census corpore ferre suos? ” (p. 201).
Aggiungo la traduzione e un poco di commento. Che devo dire della veste? Io non chiedo le frange d’oro, né te, lana, che rosseggi per la porpora di Tiro. Dal momento che sono venuti fuori tanti colori a prezzo più basso, che pazzia è portare sul corpo il proprio patrimonio?
Potremmo rispondere che l’esibizione che puzza di soldi è il furor tipico del liberto arricchito scandalosamente, come Trimalchione, il ” signore tre volte potente” il quale viene descritto al suo ingresso nella sala del banchetto con indosso un pall’io scarl’atto e un fazzoletto orlato di rosso, da senatore, intorno al collo con frange pendenti da una parte e dall’altra.
” Habebat etiam in minimo digito sinistrae manus anulum grandem subauratum ” (Satyricon , 32), inoltre portava al mignolo della mano sinistra un grosso anello indorato, da cavaliere; nell’ultima falange del dito seguente un altro anello tutto d’oro ma cosparso come da stelline di ferro “et ne has ostenderet tantum divitias, dextrum nudavit lacertum armilla aurea cultum et eboreo circulo lamina splendente conexo “, e per non mettere in mostra soltanto queste ricchezze, denudò il braccio destro ornato da un braccialetto d’oro e da un cerchio d’avorio intrecciato con una lamina brillante, “deinde pinna argentea dentes perfodit ” (33), quindi si stuzzicò i denti con una stecca d’argento.
La parola chiave armilla è sottolineata dall’aggettivo allitterante aurea , e, con l’anulum grande nel mignolo della sinistra ricorda l’infamia della Tarpea di Livio la quale chiese ai Sabini, come prezzo del suo tradimento, gli ornamenti della loro mano sinistra:” aureas armillas magni ponderis brachio laevo gemmatosque magna specie anulos ” (I, 11, 8), braccialetti d’oro di gran peso al braccio sinistro e anelli gemmati di grande bellezza. Livio condanna la slealtà e l’avidità di Tarpea raccontandoci che la vergine figlia del custode della rocca, Spurio Tarpeo, fu uccisa dai Sabini che le gettarono addosso scutapro aureis donis, invece degli aurei doni gli scudi, troppo pesanti questi.
Petronio mette alla berlina questa figura grottesca di arricchito, e pure Ovidio è lontano dall’approvare l’ostentazione del lusso.
La radice del biasimo dello sfoggio dei metalli preziosi si può trovare nella Repubblica di Platone dove Socrate sostiene che non necessitano di oro e argento terreno i guardiani che ce l’hanno divino nell’anima, e che non è lecito mescolare e contaminare l’uno con l’altro:”diovti polla; kai; ajnovsia peri; to; tw’n pollw’n novmisma gevgonen”(417a), poiché molti empi misfatti sono avvenuti per la moneta corrente nel volgo. Un riflesso di questa affermazione, da ascrivere al tovpo” che biasima la ricchezza come fonte di infelicità, si trova nella Germania di Tacito:”Argentum et aurum propitiine an irati dii negaverint dubito” (5), l’argento e l’oro non so dire se glieli abbiano negati gli dèi favorevoli oppure ostili.
“Anche senza portare altre prove, credo di poter affermare che questo è il gusto dominante dell’Ars amatoria, benché nella valorizzazione del cultus essa tocchi la punta più avanzata: un equilibrio diverso da quello dell’oraziano simplex munditiis , ma pure in qualche modo simile, lontano dalla rozzezza arcaica[103], ma anche al di qua del lusso fastoso e insolente di molti ricchi romani di oggi. Questa specie di classicismo è dettato nello stesso tempo dal gusto e dalla preoccupazione, quasi dalla paura, che suscita l’ampliamento incontrollato dei consumi”.
Questa conclusione del saggio di La Penna mi sembra appropriata pure per i nostri tempi.
Note:
[1] C. Pavese, Il mestiere di vivere, 22 maggio 1941.
[2] J. Hillman, Variazioni su Edipo , p. 96.
[3] Uscito verso l’1 d. C,
[4] Ars amatoria , III, 101.
[5] Conte-Pianezzola, Il libro della letteratura latina, Edizione Modulare, 8, Le Monnier, Firenze, 2001, p. 513.
[6] Cfr. nel mio Storiografi Greci (Loffredo, 1999) la scheda Sfiducia nella tecnologia che porta “sviluppo senza progresso” (pp. 140-143).
[7] Ov. A. A. III, 121 sgg. Ovidio nell’Ars amatoria dice che preferisce il presente(Prisca iuvent al’ios (III, 121), le età antiche piacciano ad altri, poiché esso è più raffinato: quia cultus adest (III, 127) e ha perso quella rozzezza (rusticitas illa , III, 128 ) tipica del passato.
[8] S. Mazzarino, Il Pensiero Storico Classico , Laterza, Bari, 1974, I, p. 16.
[9] Quintiliano, Institutio oratoria , X, 1, 88.
[10] Nato a Gabii o a Pedum , nel Lazio rurale fra il 55 e il 50 a. C., morto tra il 19 e il 18 a. C. Sotto il suo nome ci è giunto il Corpus tibullianum , tre libri di elegie. Sono sicuramente e autenticamente tibulliani i primi due che cantano l’amore per due donne, Delia e Nemesi. Il terzo libro che gli umanisti divisero in due parti è un’ antologia di vari autori, compreso Tibullo. Quintiliano lo definisce tersus atque elegans maximeauctor (Institutio oratoria , X, 93), l’autore più elegante e raffinato, nel campo dell’elegia dove i latini possono sfidare i Greci.
[11] A. La Penna. Fra teatro, poesia e politica romana , Einaudi, Torino, 1979, p. 183.
[12] L. Canfora, Di fronte ai classici, p. 52.
[13] Op. cit. p. 53.
[14] Questa affermazione è contraddittoria con quanto detto poco sopra (p. 183) e subito sotto. Non è male far notare ai giovani queste sviste degli autori dal nome grande e comunque, per molti versi, bravi.
[15] Quelle del IV libro (del 16 a. C.) che contiene episodi della storia romana arcaica.
[16] Intitolato La religione di Numa.
[17] I, 3, 33-34. A me tocchi di celebrare i Penati patrii e di offrire incensi mensili all’antico Lare.
[18] W. Pater, Mario l’epicureo , pp. 1-2.
[19] Odi I, 5, 5.
[20] Di autenticità non certa, del 380 a. C. ca.
[21] G. B. Conte, Scriptorium Classicum 3, Le Monnier, Firenze, 2001, p. 22.
[22] Crepuscolo degli idoli, pp. 124-125.
[23] Del 44 a. C.
[24] L. Totstoj (1828-1910), Anna Karenina (del 1877), p. 80.
[25] M. Proust, I Guermantes, p. 153.
[26]L’uomo senza qualità , p. 87 e p. 91.
[27] G. Pasquali, Orazio lirico, p. 488.
[28] G. Pasquali, Orazio lirico, p. 488.
[29] Rispetto a Regolo indicato come documentum fidei, documentum patientiae, (De providentia , III, 9) modello di lealtà e resistenza.
[30] De providentia, III, 10, composto negli ultimi anni di vita del filosofo
[31] Ode I, 9, 23-24, il pegno strappato alle bracciao al dito che resiste appena.
[32]G. Pasquali, Orazio lirico, p. 489.
[33] La Penna, op. cit., p. 185.
[34]Apollonio Rodio, Le Argonautiche , IV, 64.
[35] Tristia, IV, 10, 33.
[36]P. Fedeli, Lo spazio letterario di Roma antica, 1, 156.
[37] Del 1605
[38] Del 408 a. C.
[39] Del 412.
[40] In distici elegiaci. Composti tra il 18 e il 15 a C. in 5 libri, poi rielaborati e ridotti a tre, intorno all’1 a. C.
[41]G. B. Conte, Scriptorium 2, p. 164.
[42] Una mezzana, illa monebat/ talia (Amores, I, 8, 21-22), lei dava tali consigli.
[43] Del 64 d. C.
[44]W. Jaeger, Paideia 1, trad. it. La Nuova Italia, Firenze, 1978, p. 630.
[45] castità.
[46] W. Jaeger, op. cit., p. 631.
[47] Ossia alla straniera che ti tiene peregrino amore , v. 76, lo stesso tipo relazione, si ricorderà, che Deianira rinfaccia a Eracle in Heroides IX, 49.
[48] La Penna, op. cit., p. 187.
[49] La Penna, op. cit., p. 187.
[50] C. Pavese, Il mestiere di vivere, 24 ottobre 1940.
[51] G. Flaubert, Madame Bovary (del 1857), p. 108.
[52] Questo è l’eterno amante.
[53] F. Dostoevkij, L’eterno marito, p. 39 e p. 65.
[54] L’umorismo , Garzanti, Milano, 1995, p. 173.
[55] La Penna, op. cit., p. 188.
[56] Cfr. Dante, Inferno , XIV, 94 e 96.
[57] =ingentes.
[58] La madre si è fermata nella città del suo Enea.
[59] Cantico del gallo silvestre .
[60] G. B. Conte-E. Pianezzola, Il libro della letteratura latina, Edizione Modulare, 8, Le Monnier, Firenze, 2OO1, p. 459.
[61] Splendidi nel culto degli dèi, economi in casa. Riferisco anche una nota interessante del libro di La iPenna (n.1 della p. 193 citata nel testo):” Il rapporto che si stabilisce in questa teoria tra fasto pubblico e austerità privata, presenta qualche analogia col rapporto della teoria machiavellica, che è già teoria antica, fra immoralità politica e moralità privata; ma non so se l’analogia sia mai stata teorizzata esplicitamente.
[62] P. e. i vv. 121 e sgg. citati sopra.
[63] V. 29, è l’esperienza che fa nascere quest’opera.
[64] La Penna, op. cit., p. 198.
[65] Esiodo, Teogonia , vv. 27-28.
[66] Il pilota della nave Argo.
[67] L’auriga di Achille.
[68] Nel III dell’Ars Amatoria si legge:”Simplicitas rudis ante fuit, nunc aurea Roma est/et domiti magnas possidet orbis opes ” (vv. 113-114), la rozza semplicità è del passato, adesso Roma è d’oro e possiede le grandi ricchezze del mondo sottomesso.
[69] Medicamina faciei, vv. 17-22.
[70] Abbiamo 100 versi dei Medicamina faciei femineae .
[71] 9 Tyrio ; 10 India ; 21 oriente ; 51 Libyci ; 74 Illyrica ; 82 Attica ; 94 Ammoniaco .
[72] La Penna, op. cit., p. 199.
[73] Il Pensiero Storico Classico , II, 2, p. 82.
[74] Figlio di Asinio Pollione, console nel 40 a. C., cui Virgilio dedicò l’VIII Ecloga e Orazio l’Ode II 1, come vedremo più avanti, fu console nel’8 d. C. Cadde in disgrazia agli occhi di Tiberio del quale aveva sposato la prima moglie Vipsania, figlia di Agrippa. Fu accusato di adulterio con Agrippina, altra figlia di Agrippa e vedova di Germanico e morì in prigionia nel 33 d. C.
[75] In tessuto trasparente di Coo che abbiamo visto menzionato da Properzio (I, 2, 2). Lo è pure da Seneca (ad Luc. 122)
[76] Svetonio, Vita di Augusto, 42.
[77] S. Mazzarino, L’impero romano I, p. 148.
[78] M. Rostovzev, Storia economica e sociale dell’impero romano, pp.115 sgg.
[79] Tacito, Annales , III, 55, le famiglie ricche dei nobili o distinte nel segnalarsi.
[80] S. Mazzarino, L’impero romano I, p. 147.
[81] S. Mazzarino, Il pensiero storico classico, III, p. 458.
[82] S. Mazzarino, L’impero romano, I, p. 222.
[83] Rivoluzione di lusso di V. Parmi, L’Espresso, 21 febbraio 2002.
[84] Il III libro risale allo stesso periodo (verso l’1 d. C.) dei Medicamina faciei cui Ovidio accenna ai vv. 205 e sgg.
[85] A. La Penna, Fra teatro, poesia e politica romana , p. 201.
[86] ” Seneca nel De vita beata elogia un’altra forma, del tutto psicologica, di noncuranza, la fortunae neglegentia (I, 4, 5), quella della fortuna, quale viatico per la libertà dai piaceri e dai dolori, padroni assai capricciosi e prepotenti.
[87] A. Schopenhauer, Parerga e paralipomena , trad. it. Adelphi, Milano, 1973, Tomo I, p 617..
[88] I promessi sposi , capitolo XIX.
[89] Trad. it. Garzanti, Milano, 1965, pp 703 e 704.
[90] Trad. it. Bietti, Milano, 1968, p. 208.
[91] Trad. it. Garzanti, Milano, 1973, p. 719.
[92] Trad. it. Einaudi, Torino, 1978, p. 534.
[93] M. Proust, I Guermantes, p. 96.
[94] M. Proust, I Guermantes, p. 448.
[96] L’uomo senza qualità , p. 269. Per una più ampia trattazione del tema “Che cosa è aristocratico”, vedi il mio Mu’qo” kai; lovgo”, p. cercal.
[97] R. Musil, L’uomo senza qualità , p. 84.
[98] A. La Penna, Fra teatro, poesia e politica romana , p. 201
[99] James Hillman, Il piacere di pensare. conversazione con Silvia Ronchey, pp. 53-54.
[100] J. P. Vernant, Tra mito e politica, p. 210.
[101] F. Dostoevskij, L’adolescente (del 1875) , trad. it. Garzanti, Milano, 1981, p. 477.
[102] D. Merezkovskij, Tolstòj e Dostojevskij , tra. it. Gius. Laterza e figli, Bari, 1982, p. 146.
[103] Naturalmente anche in Orazio c’è corrispondenza, soprattutto nel rifiuto dell’arcaismo, fra la poetica e il gusto della vita. Vale anche la pena di ricordare lo stile che Ovidio (Ars III 479 sg.) raccomanda alla puella per le lettere agli amanti: parole eleganti, ma non rare né troppo raffinate:”Munda sed e medio consuetaque verba, puellae,/scribite: sermonis publica forma placet “, ragazze, scrivete parole eleganti ma del frasario comune e correnti: il linguaggio usuale piace. La nota è di La Penna, la traduzione mia.
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