Stregoneria tra medioevo ed età moderna
4 Agosto 2022Storia della moneta
4 Agosto 2022Dal quartiere Olmi di Milano alle montagna della Val d’Aosta, un viaggio alla riscoperta della montagna, qualcosa che immersi nella città frenetica rischiamo di perdere per sempre.
Quartiere Olmi
Pietro è un bambino timido, nato e vissuto nella periferia milanese. La madre lavora come assistente sanitaria in un consultorio nel quartiere degli Olmi, un quartiere attaccato alla città di Cesano Boscone, dove vivo io, ed ho molti amici degli Olmi, e ho fatto tante gite in montagna quando ero giovane con gli amici degli Olmi, come Maurizio Lupi. Nel quartiere degli Olmi tutte le vie hanno il nome di una pianta, ma che ospita palazzoni a 9 piani nella periferia della metropoli. Lei si ostina a coltivare fiori «su un balconcino annerito dal fumo e ammuffito da piogge secolari»; il padre è un chimico industriale, scontroso e pieno di rabbia, che ogni giorno va in fabbrica «come se dovesse calarsi in trincea».
Matrimonio ad alta quota
I suoi genitori però a Milano si sentono in gabbia, perché sono originari delle Dolomiti, e si sono perfino sposati ad alta quota.
Tre cime
Continuano sempre a ricordare con grande nostalgia le loro ascese alle Tre cime di Lavaredo e alle altre montagne delle Dolomiti.
Grana
Sognano tutto l’anno l’estate, che passano ad esplorare le montagne della Val D’Aosta, finché un giorno scoprono Grana, un paese antico in una valle dimenticata, e se ne innamorano. Grana è il centro di questa storia, perché qui Pietro impara a conoscere e amare la montagna. Qui scopre un padre molto diverso da quello di città, che lo porta sulle cime e cammina veloce senza mai voltarsi indietro.
Valgrana
Pensate che all’estero Valgrana viene chiamata Cognetti’s valley
In un dialogo con il padre la grande scoperta che dovrebbe farci riflettere tutti, soprattutto quando
Valgrana
In un dialogo con il padre la grande scoperta che dovrebbe farci riflettere tutti, soprattutto quando pensiamo solamente a sfruttare la natura, senza cogliere in essa le conseguenze di quello che facciamo in pianura. Forse solo recentemente ci siamo chiesti stupiti come mai ghiacciai secolari, some quello dell’Adamello, si stiano sciogliendo.
Il passato è a valle, il futuro a monte
Cominciai a capire un fatto, e cioè che tutte le cose, per un pesce di fiume, vengono da monte: insetti, rami, foglie, qualsiasi cosa. […]
Se il punto in cui ti immergi in un fiume è il presente, pensai, allora il passato è l’acqua che ti ha superato, quella che va verso il basso e dove non c’è più niente per te, mentre il futuro è l’acqua che scende dall’alto, portando pericoli e sorprese. Il passato è a valle, il futuro a monte. Qualunque cosa sia il destino, abita nelle montagne che abbiamo sopra la testa
La montagna ti insegna l’ importanza delle regole
Sul sentiero mio padre mi lasciava camminare in testa. Mi stava dietro a un passo, così che potessi sentire una sua parola quando serviva e il suo respiro alle mie spalle. Avevo poche e chiare regole da seguire: uno, prendere un ritmo e tenerlo senza fermarsi; due, non parlare; tre, davanti a un bivio, scegliere sempre la strada che sale. […]. Il bosco non aveva fascino ai suoi occhi. […]: lo risalivamo a testa bassa, concentrati sul ritmo delle gambe, dei polmoni, del cuore, in un rapporto privato e muto con la fatica. (capitolo DUE pagina 32)
Un’amicizia nata da un’empatia profonda
Ma soprattutto, qui conosce Bruno, un ragazzino dall’aspetto selvatico, che porta le mucche al pascolo. Dal loro incontro nasce un’amicizia lunga trent’anni, lo spazio di tutto il romanzo.
Nei rispettivi modi di vivere la montagna si possono riassumere tutte le differenze tra Pietro e Bruno. Per Pietro, Grana è il centro del mondo, il luogo da cui parte e a cui ritorna ogni peregrinazione, l’unico in cui si sente davvero a casa. Per Bruno, la montagna non è solo una casa, è il mondo intero: è il limite entro cui si definisce la sua identità, che lui non può e non vuole superare, non ci sono scuole o lavori da muratore che possono staccarlo dalla sua montagna. Come in ogni grande amicizia, i due riescono a capire chi sono solo dal confronto con l’altro. Pietro è destinato a vagare per il mondo, Bruno a rimanere lì. Le otto montagne, quindi «è soprattutto una storia sul rapporto che abbiamo con i luoghi, sul modo in cui mettiamo radici» (dall’intervista di Paolo Cognetti a Che tempo che fa, 19 febbraio 2017).
Cognetti ha un talento magico per la misura. In tutto il libro non c’è una parola di troppo o al posto sbagliato. Il suo è un linguaggio semplice e perfetto, che fa venire voglia di rileggere ogni frase cento volte, senza retorica e superlativi.
Un paio di giorni dopo, in quella stessa cucina, trovai il ragazzino delle mucche che faceva colazione sulla mia sedia. Lo annusai, per la verità, prima di vederlo, perché aveva addosso lo stesso odore di stalla, fieno, latte cagliato, terra umida e fumo di legna, che per me da allora è sempre stato l’odore della montagna, e che ho ritrovato in qualunque montagna del mondo. Si chiamava Bruno Guglielmina. Il cognome era quello di tutti a Grana, tenne a spiegarci, ma il nome Bruno ce l’aveva soltanto lui.
Crescendo, Pietro sceglie di scappare da tutte e tre le cose: la montagna, suo padre e Bruno. Ma a tutte e tre finisce per tornare. Le otto montagne è quindi la storia di un’amicizia profonda, che resiste a ogni lontananza. È il racconto di un padre amato e odiato, a lungo perso e infine ritrovato sulle cime delle Alpi. Ma soprattutto, è un lungo canto d’amore per la montagna, il canto di un amante appassionato ma non illuso, anzi ben consapevole che la sua amata pretende molto, e sa essere dura e crudele. Soprattutto d’inverno. Non vi aspettate di trovare paesaggi incantevoli in questo romanzo, perché alle descrizioni idilliche Cognetti è allergico: «C’è una retorica insopportabile, almeno per me, legata alla montagna, che trovo artefatta. Il senso di bellezza, soavità, di sentirsi in paradiso: fa parte di una retorica che non mi interessa. Per cui ad un certo punto ho deciso di bandire da questa storia tutti gli aggettivi come incantevole, meraviglioso, splendido, stupendo. Non ci sono» (dall’intervista su www.illibraio.it, 26 novembre 2016).
La montagna è in questo libro la metafora per dire tutto. Dal modo in cui ciascun personaggio la affronta riusciamo a cogliere la sua anima:
DIAPO 16 A ciascuno la sua quota
Forse è vero, come sosteneva mia madre, che ciascuno di noi ha una quota prediletta in montagna, un paesaggio che gli somiglia e dove si sente bene. La sua era senz’altro il bosco dei 1500 metri, quello di abeti e larici, alla cui ombra crescono il mirtillo, il ginepro e il rododendro, e si nascondono i caprioli.
Io ero più attratto dalla montagna che viene dopo: prateria alpina, torrenti, torbiere, erbe d’alta quota, bestie al pascolo.
Ancora più in alto, la vegetazione scompare, la neve copre ogni cosa fino all’inizio dell’estate e il colore prevalente è il grigio della roccia, venato dal quarzo e intarsiato dal giallo dei licheni. Lì cominciava il mondo di mio padre.
La baita
Pietro e Bruno ristrutturano una casa-baita lasciata a Pietro in eredità dal padre.
Quando mia mamma finì il suo racconto mi vennero in mente i ghiacciai. Il modo in cui mio padre me ne parlava. Lui non era uno che tornava sui propri passi, né amava ripensare ai giorni tristi, però certe volte, in montagna, anche su quelle montagne vergini dove non era morto nessun amico, guardava il ghiacciaio e qualcosa nella sua memoria veniva a galla. Diceva così: che l’estate cancella i ricordi proprio come scioglie la neve, ma il ghiacciaio è la neve degli inverni lontani, è un ricordo d’inverno che non vuole essere dimenticato. Soltanto adesso capivo di cosa parlava. E sapevo una volta per tutte di aver avuto due padri: il primo era l’estraneo con cui avevo abitato per vent’anni, in città, e tagliato i ponti per altri dieci; il secondo era il padre di montagna, quello che avevo solo intravisto eppure conosciuto meglio, l’uomo che mi camminava alle spalle sui sentieri, l’amante dei ghiacciai. Quest’altro padre mi aveva lasciato un rudere da ricostruire. Allora decisi di dimenticare il primo, e fare il lavoro per ricordare lui. (capitolo SETTE pagina 120)
Castore
Fra le varie cime scalate da Pietro e Bruno c’è la cima del Castore, che è anche la mia conquista più alta, nel senso che quando ero un ragazzino giovincello diciottenne l’ho scalata. A pag. 59 del romanzo si racconta proprio della notte in rifugio, e poi della cordata la mattina seguente, esattamente come è capitato a me, guidato da mio fratello, don Savino Gaudio, e dal mitico Don Mario Peretti, che era proprio il sacerdote del Quartiere degli Olmi, di Antonio Intiglietta come detto prima. Anche un giovanissimo Giacomo Poretti partecipava a queste gite con la sua comunità di giovani del Vigentino, guidata da don Gianni Casiraghi, detto don Baby.
Come ultima foto un piccolo shock, io più di 40 anni fa, la faccio vedere solo a voi, non ditelo a nessuno.
La guida nepalese
All’inizio del capitolo IX capiamo perché il libro si chiama così. Una guida di Kathmandu del Nepal ha con sé un pollaio portatile e conduce Pietro alla scoperta delle otto montagne più alte del mondo, che hanno spesso singolari somiglianze con le Alpi.
Le otto montagne
Noi diciamo che al centro del mondo c’è un monte altissimo, il Sumeru. Intorno al Sumeru ci sono otto montagne e otto mari. Questo è il mondo per noi.
Nel dirlo tracciò, fuori dalla ruota, una piccola punta per ogni raggio, e poi una piccola onda tra una punta e l’altra. Otto montagne e otto mari. Infine fece una corona intorno al centro della ruota, che poteva essere, pensai, la cima innevata del Sumeru. Valutò il suo lavoro per un momento e scosse la testa, come se fosse un disegno che aveva già fatto mille volte ma ultimamente ci avesse perso un po’ la mano. Comunque puntò il bastoncino al centro, e concluse: – E diciamo: avrà imparato di più chi ha fatto il giro delle otto montagne, o chi è arrivato in cima al monte Sumeru? (capitolo NOVE pagina 138)
A Torino liberai l’appartamento in cui avevo abitato negli ultimi dieci anni. Era diventato superfluo per il poco che lo usavo, eppure nel lasciarlo provai una certa malinconia. Mi ricordavo bene di quel che aveva significato andarci a vivere, quando la città mi sembrava gravida di promesse per il futuro. Non sapevo se fossi stato io a illudermi o lei a non averle mantenute, ma svuotare in un giorno una casa riempita in tanti anni, portar fuori alla rinfusa gli oggetti che avevo portato dentro uno per uno, era come riprendersi indietro un anello di fidanzamento, rassegnarsi alla ritirata.
Dieci, Pagina 157
Il rifugio Barma
Il rifugio Barma si trova a quota 2060 metri nella riserva naturale del Mont Mars, situato tra il Biellese e la Valle del Lys in territorio valdostano.
Il Barma è uno degli scenari più suggestivi che accoglie le gite di Pietro, Bruno e Lara, una ragazza che è stata per due mesi con Pietro, e poi ha sposato Bruno.
Anita e dediche
Con la nascita di Anita qualcosa cambierà nel menage familiare fra Bruno e Lara, ma stavolta non vi racconto il finale per lasciarvi il gusto di leggere da soli gli ultimi capitoli.
Vi leggo però quello che l’autore scrive in fondo al libro, come sua scoperta del rapporto con il padre ritrovato, e dedica ad un amico
Da mio padre avevo imparato, molto tempo dopo avere smesso di seguirlo sui sentieri, che in certe vite esistono montagne a cui non è possibile tornare. Che nelle vite come la mia e la sua non si può tornare alla montagna che sta al centro di tutte le altre, e all’inizio della propria storia. E che non resta che vagare per le otto montagne (per chi, come noi, sulla prima e più alta ha perso un amico.)
(capitolo Dodici, Pagina 199)
Questa storia è per l’amico che l’ha ispirata,
guidandomi dove non c’è il sentiero.
E per la Fede e la Fortuna che fin dall’inizio l’hanno custodita,
con tutto il mio amore.
Dedica
Un giudizio e un consiglio
Dal momento che mi rivolgo in genere soprattutto a studenti e docenti, termino questo video con il suggerimento di leggere questo libro e anche il Ragazzo selvatico