Daniela Notarbartolo
27 Gennaio 2019This is the page
27 Gennaio 2019da “Primavera e altri racconti” (1877)
Novelle di Giovanni Verga
I.
La signora Matilde era seduta sul parapetto smantellato, colle spalle appoggiate all’edera della torre, spingendo lo sguardo pensoso nell’abisso nero e impenetrabile; suo marito, col sigaro in bocca, le mani nelle tasche, lo sguardo vagabondo dietro le azzurrine spirali del fumo, ascoltava con aria annoiata; Luciano, in piedi accanto alla signora, sembrava cercasse leggere quali pensieri si riflettessero in quegli occhi impenetrabili come l’abisso che contemplavano. Gli altri della brigata erano sparsi qua e là per la spianata ingombra di sassi e di rovi, ciarlando, ridendo, motteggiando; il mare andavasi facendo di un azzurro livido, increspato lievemente, e seminato di fiocchi di spuma. Il sole tramontava dietro un mucchio di nuvole fantastiche, e l’ombra del castello si allungava melanconica e gigantesca sugli scogli.
– Era qui? – domandò ad un tratto la signora Matilde, levando bruscamente il capo.
– Proprio qui -.
Ella volse attorno uno sguardo lungo e pensieroso. Poscia domandò con uno scoppio di risa vive, motteggiatrici:
– Come lo sa?
– Ricostruisca coll’immaginazione le vòlte di queste arcate, alte, oscure, in cui luccicano gli avanzi delle dorature, quel camino immenso, affumicato, sormontato da quello stemma geloso che non si macchiava senza pagare col sangue; quell’alcova profonda come un antro, tappezzata a foschi colori, colla spada appesa al capezzale di quel signore che non l’ha tirata mai invano dal fodero, il quale dorme sul chi vive, coll’orecchio teso, come un brigante – che ha il suo onore al di sopra del suo Dio, e la sua donna al disotto del suo cavallo di battaglia: – cotesta donna, debole, timida, sola, tremante al fiero cipiglio del suo signore e padrone, ripudiata dalla sua famiglia il giorno che le fu affidato l’onore ombroso e implacabile di un altro nome; – dietro quell’alcova, separato soltanto da una sottile parete, sotto un’asse traditrice, quel trabocchetto che oggi mostra senza ipocrisia la sua gola spalancata – il carnaio di quel mastino bruno, membruto, baffuto, che russa fra la sua donna e la sua spada; – il lume della lampada notturna che guizza sulle immense pareti, e vi disegna fantasmi e paure; il vento che urla come uno spirito maligno nella gola del camino, e scuote rabbiosamente le imposte tarlate; e di tanto in tanto, dietro quella parete, dalla profondità di quel trabocchetto attorno a cui il mare muggisce un gemito soffocato dall’abisso, delirante di spasimo, un gemito che fa drizzare la donna sul guanciale, coi capelli irti di terrore, molli del sudore di un’angoscia più terribile di quella dell’uomo che agonizza nel fondo del trabocchetto, e, fuori di sé, le fa volgere uno sguardo smarrito, quasi pazzo, su quel marito che non ode e russa -.
La signora Matilde ascoltava in silenzio, cogli occhi fissi, intenti, luccicanti. Non disse – E’ vero! – ma chinò il capo. Il marito si strinse nelle spalle e si alzò per andarsene. Le ombre sorgevano da tutte le profondità delle rovine e del precipizio.
– Se tutto ciò è vero, – ella disse con voce breve; – s’è accaduto così come ella dice, essi debbono essersi appoggiati qui, a questi avanzi di davanzale, a guardare il mare, come noi adesso… – ed ella vi posò la mano febbrile – qui -.
Ei chinò lo sguardo sulla mano, poi guardò il mare, poi la mano di nuovo. Ella non si muoveva, non diceva motto, guardava lontano. – Andiamo, – disse a un tratto, – la leggenda è interessante, ma mio marito a quest’ora deve preferire la campana del desinare. Andiamo -.
Il giovane le offrì il braccio, ed ella vi si appoggiò, rialzando i lembi del vestito, saltando leggermente fra i sassi e le rovine. Passando presso uno stipite sbocconcellato, osservò che c’erano ancora attaccati gli avanzi degli stucchi.
– Se potessero raccontare anche questi! – disse ridendo.
– Direbbero che allo stesso posto dove s’è posata la sua mano, ci si è aggrappata la mano convulsa della baronessa, la quale tendeva l’orecchio, ansiosa, verso quell’andito dove non si udiva più il rumore dei passi di lui, né una voce, né un gemito, ma risuonavano invece gli sproni sanguinosi del barone -.
La signora si tirò indietro vivamente, come se avesse toccato del fuoco; poi vi posò di nuovo la mano, risoluta, nervosa, increspata; sembrava avida d’emozione; avea sulle labbra uno strano sorriso, le guance accese e gli occhi brillanti.
– Vede! – disse. – Non si ode più nulla!
– Alla buon’ora! – esclamò il signor Giordano; – dunque possiamo andare -.
La moglie gli rivolse uno sguardo distratto, e soggiunse:
– Scusami, sai! –
Il raggio di sole prima di tramontare si insinuò per un crepaccio a fior d’acqua, e illuminò improvvisamente il fondo di quella specie di pozzo ch’era stato il trabocchetto, le punte aguzze delle nere pareti, i ciottoli bianchi che spiccavano sul muschio e l’umidità del fondo, e i licheni rachitici che l’autunno imporporava. Il sorriso era sparito dal viso della signora spensierata, e volgendosi al marito, timida, carezzevole, imbarazzata:
– Vieni? – gli disse.
– Bada, – rispose il signor Giordano col suo ironico sorriso; – ci vedrai le ossa di quel bel cavaliere, e farai brutti sogni stanotte -.
Ella non rispose, non si mosse, stava chinata sulla buca; appoggiandosi ai sassi che la circondavano; infine, con voce sorda:
– In fatti… c’è qualcosa di bianco, laggiù in fondo… –
E senza attendere risposta:
– Se quest’uomo è caduto qui, ha dovuto afferrarsi per istinto a quella punta di scoglio… vedete? si direbbe che c’è ancora del sangue -.
Suo marito vi buttò il sigaro spento, e volse le spalle; ella rabbrividì, come se avesse visto profanare una tomba, si fece rossa, e si rizzò per andarsene. Era una graziosa bruna, palliduccia, delicata, nervosa, con grandi e begli occhi neri e profondi; il piede le sdrucciolò un istante sul sasso mal fermo, vacillò, e dovette afferrarsi alla mano di Luciano.
– Grazie! – gli disse con un sorriso intraducibile. – Si direbbe che l’abisso mi chiama -.
II.
Il pranzo era stato eccellente; non per nulla il signor Giordano preferiva la campana del desinare alle leggende del Castello. Verso le undici alla villa si pestava sul piano, si saltava nel salotto e si giuocava a carte nelle altre stanze. La signora Matilde era andata a prendere una boccata d’aria in giardino, e s’era dimenticata di una polca che aveva promessa al signor Luciano, il quale la cercava da mezz’ora.
– Alfine! – le disse scorgendola. – E la nostra polca?
– Ci tiene proprio?
– Molto.
– Se la lasciassimo lì?
– Povera polca!
– Francamente, sa… Ella racconta così bene certe storie, che non l’avrei creduto un ballerino cotanto arrabbiato…
– Ci crede dunque alle storie?
– Ma… secondo il quarto d’ora -.
Il silenzio era profondo; il vento cacciava le nuvole rapidamente, e di tanto in tanto faceva stormire gli alberi del giardino; il cielo era inargentato a strappi; le ombre sembravano inseguirsi sulla terra illuminata dalla luna, e il mormorio del mare e quel sussurrio delle foglie, sommesso, ad intervalli, a quell’ora aveano un non so che di misterioso. La signora Matilde volse gli occhi qua e là, in aria distratta, e li posò sulla mole nera e gigantesca del castello che disegnavasi con profili fantastici su quel fondo cangiante ad ogni momento. La luce e le ombre si alternavano rapidamente sulle rovine, e un arbusto che avea messo radici sul più alto rivellino, agitavasi di tanto in tanto, come un grottesco fantasma che s’inchinasse verso l’abisso.
– Vede? – diss’ella con quel sorriso incerto e colla voce mal ferma. – C’è qualche cosa che vive e si agita lassù!
– Gli spettri della leggenda.
– Chissà!
– Cotesto è il quarto d’ora delle storie…
– Oppure…
– Oppure cosa?
– Chissà… Cosa fa mio marito?
– Giuoca a tresette.
– E la signora Olani?
– Sta a guardare.
– Ah!…
– Mi racconti la sua storia… – riprese da lì a poco, con singolare vivacità – se non le rincresce per la sua polca -.
La storia che Luciano raccontò era strana davvero!
La seconda moglie del barone d’Arvelo era una Monforte, nobile come il re e povera come Giobbe, forte come un uomo d’arme e tagliata in modo da rispondere per le rime alla galanteria un po’ manesca di don Garzia, e da promettergli una nidiata di d’Arvelo, numerosi come le uova che avrebbe potuto covare la chioccia più massaia di Trezza. Prima delle nozze, le avevano detto degli spiriti che si sentivano nel Castello, e che la notte era un gran tramestìo pei corridoi e per le sale, e si trovavano usci aperti e finestre spalancate, senza sapere come né da chi – usci e finestre ch’erano stati ben chiusi il giorno innanzi – che si udivano gemiti dell’altro mondo, e scrosci di risa da far venire le pelle d’oca al più ardito scampaforche che avesse tenuto alabarda e vestito arnese. Donna Isabella avea risposto che, fra lei e un marito come, al vedere, prometteva esserlo don Garzia, ella non avrebbe avuto paura di tutte le streghe di Spagna e di Sicilia, né di tutti i diavoli dell’inferno. Ed era donna da tener parola.
La prima volta che si svegliò nel letto dove avea dormito l’ultima notte la povera donna Violante, mentre Grazia, la cameriera della prima moglie del barone, le recava il cioccolatte e apriva le finestre, ancora mezzo addormentata, domandò svogliatamente:
– E così, come va che gli spiriti non hanno ballato il trescone di benvenuto alla nuova castellana?
– Non s’e sentito stanotte?… – rispose la povera Grazia, che anche a parlare ne avea una gran paura.
– Sì, ho udito il russare di don Garzia; e ti so dire che russa come dieci guardie vallone.
– Vuol dire che il cappellano ha benedetto la camera meglio delle altre volte.
– Ah! sarà così, oppure che faccio paura al diavolo e agli spiriti.
– O che sarà per domani.
– Eh! hanno dunque il loro cerimoniale, messeri gli spiriti, come nostro signore il re? Racconta dunque!
– Io non so nulla, madonna.
– Chi sa dunque questa storia?
– Mamma Lucia, Brigida, Maso il cuoco, Anselmo ed il Rosso, i due valletti di messere il barone, e messer Bruno, il capocaccia.
– E cosa hanno visto costoro?
– Nulla.
– Nulla! Cosa hanno udito dunque?
– Hanno udito ogni sorta di cose, che Dio ce ne liberi!
– E da quando si sono udite di queste cose che Dio ce ne liberi?
– Dacché è morta la povera donna Violante, la prima moglie di messere.
– Qui?
– Proprio qui, in questo lato del castello; ma dalla cima dei merli sino in fondo alle cucine, di cui le finestre danno sulla corte -.
La baronessa si mise a ridere, e la sera narrò al marito quel che le era stato detto. Don Garzia, invece di riderne anch’esso, montò in una tal collera che mai la maggiore, e incominciò a bestemmiar Dio e i santi come donna Isabella non avea visto né udito fare dagli staffieri più staffieri che fossero a casa de’ suoi fratelli, e a minacciare che se avesse saputo chi si permetteva di spargere cotali fandonie, l’avrebbe fatto saltare dal più alto rivellino del castello. La baronessa fu estremamente sorpresa che quel pezzo di uomo, il quale non doveva aver paura nemmen del diavolo, avesse dato tanto peso a delle sciocche storielle, e in cuor suo ne fu contenta, ché si sentiva più degna del marito di portare i calzoni, e di far la castellana come andava fatto.
– Dormite in santa pace, madonna, – le disse don Garzia, – ché qui, nel castello e fuori, pel giro di dieci leghe, sin dove arriva il mio buon diritto e la mia buona spada, non c’è a temere altro che la mia collera -.
Però la baronessa, sia che le parole del marito l’avessero colpita, sia che delle sciocchezze udite le fosse rimasta qualcosa in mente, si svegliò di soprassalto verso la mezzanotte, credendo d’avere udito, o d’aver sognato, un rumore indistinto, non molto lontano, proprio dietro la parete dell’alcova. Stette in ascolto con un po’ di batticuore; ma non s’udiva più nulla, la lampada notturna ardeva ancora, e il barone russava della meglio. Ella non ardì svegliarlo, ma non poté ripigliar sonno. Il giorno dopo la sua donna la trovò pallida e accigliata, e mentre la pettinava dinanzi allo specchio, la baronessa, coi piedi sugli alari e bene avvolta nella sua veste da camera di broccato, le domandò, dopo avere esitato alquanto:
– Orsù, dimmi tutto quel che sai degli spiriti del castello.
– Io non so altro che quel che ne ho udito raccontare dal Rosso e da Brigida. Volete che vi chiami Brigida?
– No! – rispose con vivacità donna Isabella. – Anzi non dire ad anima viva che io te n’abbia parlato… Raccontami quel che t’hanno detto Brigida e il Rosso.
– Brigida, quando dormiva nella stanzuccia accanto al corridoio qui vicino, udiva tutte le notti, poco prima o poco dopo dei dodici colpi della campana grossa, aprire la finestra che dà sul ballatoio, e la porta del corridoio. La prima volta che Brigida udì quel rumore fu la seconda domenica dopo Pasqua, la ragazza avea avuto la febbre e non poteva dormire; l’indomani tutti coloro ai quali raccontò il fatto credettero che fosse stato inganno della febbre; ma la poverina a misura che il giorno tramontava aveva una gran paura, e cominciò a parlare in tal modo del gran via vai della notte, che tutti credettero fosse delirante, e mamma Lucia rimase a dormire con lei. L’indomani anche mamma Lucia disse che in quella camera non avrebbe voluto passarci un’altra notte per tutto l’oro del mondo. Allora anche coloro i quali s’erano mostrati più increduli cominciarono ad informarsi e del come e del quando, e Maso raccontò quello che non avea voluto dire per timore di farsi dar la baia dai più coraggiosi. Da più di un mese avea udito rumore anche nel tinello, e s’era accorto che gli spiriti facevano man bassa sulla credenza. A poco a poco raccontò pure quel che aveva visto.
– Visto?
– Si, madonna; sospettando che alcuno dei guatteri gli giocasse quel tiro, si appostò nell’andito, dietro il tinello, col suo gran coltellaccio alla cintola, e attese la mezzanotte, ora in cui solevasi udire il rumore. Quando tutt’ad un tratto – non si udiva ronzare nemmeno una mosca – si vede comparir dinanzi un gran fantasma bianco, il quale gli arriva addosso senza dire né ahi né ohi, e gli passa rasente senza fare altro rumore di quel che possa fare un topo che va a caccia del formaggio vecchio. Il povero cuoco non volle saperne altro, e fu a un pelo di buscarne una bella e buona malattia.
– Ah! – disse la baronessa ridendo. – E cosa fece in seguito?
– Non fece nulla, fece acqua in bocca, andò a confessarsi, a comunicarsi, ed ogni sera, prima di mettersi in letto, non mancava di recitare le sue orazioni, e di raccomandarsi ben bene a tutte le anime del purgatorio che sogliono gironzare la notte, in busca di requiem e di suffragi.
– Giacché sono degli spiriti i quali rubano in tinello come dei gatti affamati o dei guatteri ladri, se fossi stata messer Maso, invece d’infilar paternostri, mi sarei raccomandata alla mia miglior lama, onde cercare di scoprire chi fosse il gaglioffo che si permetteva di scambiar le parti coi fantasmi.
– Oh madonna, la stessa cosa disse il Rosso il quale è un pezzo di giovanotto che il diavolo istesso, che è il diavolo, non gli farebbe paura; e si mise a rider forte, e gli disse bastargli l’animo di prendere lo spirito, il fantasma, il diavolo stesso per le corna, e fargli vomitare tutto il ben di Dio di cui dicevasi si desse una buona satolla in cucina; mai non l’avesse fatto! La notte seguente s’apposta anche lui nel corridoio, come avea fatto il cuoco, colla sua brava partigiana in mano, ed aspetta un’ora, due, tre. Infine comincia a credere che Maso si sia burlato di lui, o che il vino gli abbia fatto dire una burletta, e comincia ad addormentarsi, così seduto sulla panca e colle spalle al muro. Quand’ecco tutt’a un tratto, tra veglia e sonno, si vede dinanzi una figura bianca, la quale toccava il tetto col capo, e stava ritta dinanzi a lui, senza muoversi, senza che avesse fatto il minimo rumore nel venire, senza che si sapesse da dove fosse venuta; un po’ di barlume veniva dalla lampada posta nella sala delle guardie, dal vano dell’arco al disopra della parete, e il Rosso giura d’aver visto i due occhi che il fantasma fissava su di lui, lucenti come quelli di un gatto soriano. Il Rosso, o non fosse ancora ben sveglio, o provasse un po’ di paura a quella sùbita apparizione, senza dire né una né due, mise mano alla sua partigiana e menò tal colpo da spaccare in due un toro, fosse stato di bronzo; ma la spada gli si ruppe in mano, così come fosse stata di vetro, o avesse urtato contro il muro; si vide un fuoco d’artifizio di faville, a guisa dei razzi che si sparano per la festa della Madonna dell’Ognina, e il fantasma scomparve, né più né meno di come fa un soffio di vento, lasciando il Rosso atterrito, col suo troncone di spada in mano, e talmente pallido da far paura a chi lo vide per il primo, e d’allora in poi, invece di chiamarlo il Rosso, gli dicono il Bianco -.
La baronessa rideva ancora in aria d’incredulità; ma le sue ciglia si corrugavano di tanto in tanto, e pur tenendo gli occhi fissi nello specchio, non avea badato né al come Grazia la stesse pettinando, né al come le avesse increspato i cannoncini della sua gorgierina ricamata. O che la convinzione della cameriera fosse talmente sincera da esser comunicativa, o che il sogno della notte avesse fatto una potente impressione su di lei, pensava più che non volesse alla notte che doveva passare un’altra volta in quella medesima alcova.
– E cosa si dice nel castello di coteste apparizioni? – domandò dopo un silenzio di qualche durata.
– Madonna…
– Parla!
– Madonna… si dicono delle sciocchezze…
– Raccontamele.
– Messere il barone andrebbe su tutte le furie se lo sapesse.
– Tanto meglio! raccontamele.
– Madonna… io sono una povera fanciulla… Sono un’ignorante… Avrò parlato senza sapere quel che mi dicessi… Messere il barone mi butterebbe dalla finestra più facilmente ch’io non butti via questo pettine che non serve più. Per carità, madonna, non vogliate espormi alla collera di messere!
– Preferiresti esporti alla mia? – esclamò la baronessa aggrottando le ciglia.
– Ahimè!… Madonna!
– Orsù, spicciati; voglio saper tutto quel che si dice, ti ripeto, e bada che se la collera del barone è pericolosa, la mia non ischerza.
– Si dice che sia l’anima della povera donna Violante, la prima moglie del barone, – rispose Grazia messa alle strette, e tutta tremante.
– Come è morta donna Violante?
– S’è buttata in mare.
– Lei?
– Proprio lei, dal ballatoio mezzo rovinato che gira dinanzi alle finestre del corridoio grande, sugli scogli che stanno laggiù; in fondo al precipizio fu trovato il suo velo bianco… Era la notte del secondo giovedì dopo Pasqua.
– E perché s’è uccisa?
– Chi lo sa? Messere dormiva tranquillamente accanto a lei, fu svegliato da un gran grido, non se la trovò più al fianco, e prima che fosse ben sveglio vide una figura bianca la quale fuggiva. Si udì un gran baccano pel castello, tutti furono in piedi in men che non si dica un’avemaria, si trovarono gli usci e le finestre del gran corridoio spalancati, e il barone che correva sul ballatoio come un gatto inferocito; se non era il capocaccia, il quale l’afferrò a tempo, il barone sarebbe caduto dal parapetto rovinato, nel punto dove comincia la scala per la torretta di guardia, di cui non rimangono altro che le testate degli scalini. Il fantasma era scomparso giusto in quel luogo -.
La baronessa s’era fatta pensierosa.
– E’ strano! – mormorò.
– Della povera signora non rimase né si vide altro che quel velo; nella cappella del castello e nella chiesa del villaggio furono dette delle messe per tre giorni, in suffragio della morta, e una gran folla assisté ginocchioni ai funerali, ché tutti le volevano un ben dell’anima per le gran limosine che faceva quand’era in vita; però, sebbene messere avesse dato ordine che le esequie fossero quali si convenivano a così ricca e potente signora, e la bara, colle armi della famiglia ricamate sulle quattro punte della coltre, stesse tre dì e tre notti nella cappella, con più di quaranta ceri accesi continuamente, e lo stendardo grande ai piedi dell’altare, e drappelloni e scudi intorno che mai non si vide pompa più grande, il barone partì immediatamente, né si vide mai più al castello prima d’ora.
– Meno male! – mormorò donna Isabella. – Don Garzia non mi ha detto nulla di tutto ciò, ma è bene ch’io lo sappia.
– Alcuni pescatori poi ch’erano andati sul mare assai prima degli altri, raccontano d’aver visto l’anima della baronessa, tutta vestita di bianco, come una santa che ella era, sulla porta della guardiola lassù, e passeggiare tranquillamente su e giù per la scala rovinata, ove un gabbiano avrebbe paura ad appollaiarsi, quasi stesse camminando su di un bel tappeto turco, e nella miglior sala del castello.
– Ah! – esclamò la baronessa; e non disse altro, si alzò e andò a mettersi alla finestra.
Il giorno era tiepido e bello, e il sole festante che entrava dall’altra finestra sembrava rallegrasse la tetra camera; ma donna Isabella non se ne avvedeva, sembrava meditabonda, e voltandosi a un tratto verso la Grazia:
– Mostrami dov’è caduta donna Violante – le disse.
– Colà in quel punto dove il muro è rotto e cominciava la scala per la guardiola della sentinella, quando vi si metteva una sentinella.
– E perché non ci si mette più adesso? – domandò la baronessa con un singolare interesse.
– Bisognerebbe aver le ali per arrampicarsi lassù; adesso che la scala è rovinata il più ardito manovale non metterebbe i piedi su quel che rimane degli scalini.
– Ah, è vero!… –
E rimase contemplando lungamente la torricciuola, la quale isolata com’era sembrava attaccarsi, paurosa dell’abisso che spalancavasi al di sotto, alla cortina massiccia, e gli avanzi della scalinata, cadenti, smantellati, senza parapetto, sospesi in aria a quattrocento piedi dal precipizio sembravano un addentellato per qualche costruzione fantastica.
– Infatti, – mormorò come parlando fra di sé, – sarebbe impossibile; c’è da averne il capogiro soltanto a guardare -.
Si tirò indietro bruscamente, e chiuse la finestra.
Grazia, vedendo la sua beffarda padrona così accigliata, e accorgendosi che la sua storia avea fatto tale inattesa impressione su di lei, sentiva una tale paura come se avesse dovuto passare la notte nella camera di Brigida.
– Ahimè! madonna, io ho detto tutto per obbedirvi e senza pensare che ci va della mia vita se lo risapesse il barone. Abbiate pietà di me, madonna!
– Non temere, – rispose donna Isabella con un singolare sorriso; – coteste cose, vere o false, non si raccontano al mio signore e marito. Ma dimmi anche quel che si dice del motivo che abbia spinto donna Violante ad uccidersi; poiché un motivo qualunque ci sarà stato; qualcosa si dirà, a torto o a ragione, di’.
– Giuro per le cinque piaghe di Nostro Signore e per la santa giornata di venerdì che è oggi, che non si dice nulla, o almeno che non so nulla. Da principio, quando si è incominciato a sentire dei gemiti nelle notti di temporale, ed anche tutte le notti dal sabato alla domenica, e tutte le volte che fa la luna, o che qualche disgrazia deve avvenire nel castello o nei dintorni, si credeva che la baronessa fosse morta in peccato mortale, e perciò la sua anima chiedesse aiuto dall’altro mondo, mentre i demoni l’attanagliavano; ma poi Beppe, il pescatore, raccontò la visione che gli apparve sull’alto della guardiola, e alcuni giorni dopo quel bravo vecchio di suo zio Gaspare la ebbe confermata, e si ebbe la certezza che l’anima benedetta della baronessa era in luogo di salvazione, e si pensò invece a quella di Corrado il paggio, poveretto!
– Come era morto il paggio? s’era ucciso anche lui?
– Non era morto, era scomparso.
– Quando?
– Due giorni prima della morte di donna Violante.
– E chi l’aveva fatto sparire?
– Chi!… – balbettò la ragazza facendosi pallida. – Ma chi può far sparire un’anima del Signore e portarsela a casa sua, come un lupo ruba una pecora? – Messer demonio.
– Ah! era dunque un gran peccatore cotesto messer Corrado!
– No, madonna, era il giovane più bello e gentile che sia stato al castello -.
La baronessa si mise a ridere.
– Eh! mia povera Grazia, quelli sono i peccatori che messer demonio suol rapire a cotesta maniera!… – E poi, rifacendosi pensosa, volse un lungo e profondo sguardo su quel letto dove il gemito pauroso l’avea fatta sussultare la notte.
– Quando si odono questi gemiti dell’altro mondo? – domandò.
– In quelle notti in cui il fantasma non si fa vedere.
– E’ strano! E dove?
– Qui, madonna, in quest’alcova e nell’andito che c’è accanto, nel corridoio che passa vicino a questa camera, e nello spogliatolo che è dietro l’alcova.
– Insomma qui vicino? –
Per tutta risposta Grazia si fece il segno della croce.
La baronessa strinse le labbra tutt’a un tratto.
– Va bene, – le disse bruscamente. – Ora vattene. Non temere. Non dirò nulla di quel che mi hai detto -.
III.
Donna Isabella passò la giornata ad esaminare minutamente tutte le stanze, anditi, e corridoi vicini alla sua camera, e don Garzia le chiese inutilmente il motivo della sua preoccupazione. La notte dormì poco e agitata, ma non udì nulla; soltanto il vento che s’era levato verso l’alba faceva sbattere una delle finestre che davano sul ballatoio.
L’indomani la baronessa era ancora in letto, quando da dietro il cortinaggio udì il seguente dialogo fra suo marito e il Rosso che l’aiutava a calzare i grossi stivaloni:
– Dimmi un po’, mariuolo, cos’è stato tutto questo baccano che hanno fatto le mie finestre stanotte? –
Il Rosso si grattò il capo e rispose:
– E’ stato che un’ora prima dell’alba si è messo a soffiare lo scirocco.
– Sarà benissimo, ma se le finestre fossero state ben chiuse, lo scirocco non avrebbe potuto farle ballare come una ragazza che abbia il male di San Vito. Ora bada bene al tuo dovere, marrano! ché nel castello intendo tutto vada come l’orologio che è sul campanile della chiesa, adesso che son qua io.
– Messere, voi siete il padrone, – rispose il Rosso esitando, – ma quella finestra lì bisogna lasciarla aperta.
– Dimmi il perché.
– Perché quando si chiude la finestra si sente…
– Eh?
– Si sente, messere!
– Malannaggia l’anima tua! – urlò il barone dando di piglio ad uno stivale per buttarglielo in faccia.
– Messere, voi potete ammazzarmi, se volete, ma ho detto la verità.
– Chi te l’ha soffiata cotesta verità, briccone maledetto?
– Ho visto e udito come vedo ed odo voi, che siete in collera per mia disgrazia e senza mia colpa.
– Tu?
– Io stesso.
– Tu mi rubi il vino della mia cantina, scampaforche!
– Io non avevo bevuto né acqua né vino, messere.
– Tu mi diventi poltrone, dunque! un gatto che fa all’amore ti fa paura. Diventi vecchio, Rosso mio, arnese da ferravecchi, e ti butterò fuori del castello con un calcio più sotto delle reni.
– Messere, io sono buono ancora a qualche cosa, quando mi metterete in faccia a una dozzina di diavoli in carne e ossa, che possano raggiungersi con un buon colpo di partigiana, o che possano ammazzare me come un cane; ma contro un nemico il quale non ha né carne né ossa, e vi rompe il ferro nelle mani come voi fareste di un fil di paglia, per l’anima che darei al primo cane che la volesse! non so cosa potreste fare voi stesso, sebbene siate tenuto il più indiavolato barone di Sicilia -.
Il barone questa volta si grattò il capo, e si accigliò, ma senza collera, o almeno senza averla col Rosso. – Orbè, – gli disse, – chiudimi bene tutte le finestre stanotte, e vattene a dormire senza pensare ad altro -.
Donna Isabella si levò pallida e silenziosa più del solito.
– Avreste paura? – domandò don Garzia.
– Io non ho paura di nulla! – rispose secco secco la baronessa.
Ma la notte non poté chiudere occhio, e mentre suo marito russava come un contrabasso ella si voltava e rivoltava pel letto, e ad un tratto scuotendolo bruscamente pel braccio, e rizzandosi a sedere cogli occhi sbarrati e pallida in viso: – Ascoltate! – gli disse.
Don Garzia spalancò gli occhi anche lui, e vedendola così, si rizzò a sedere sul letto e mise mano alla spada.
– No! – diss’ella, – la vostra spada non vi servirà a nulla.
– Cosa avete udito?
– Ascoltate!
Entrambi rimasero immobili, zitti, intenti; alfine don Garzia buttò la spada con dispetto in mezzo alla camera e si ricoricò sacramentando.
– Mi diventate matta anche voi! – borbottò. – Quella canaglia del Rosso vi ha fatto girare il capo! gli taglierò le orecchie a quel mariuolo.
– Zitto! – esclamò la donna nuovamente, e questa volta con tal voce, con tali occhi, che il barone non osò replicare motto. – Udiste?
– Nulla! per l’anima mia! –
Ad un tratto si rizzò a sedere una seconda volta, se non pallido e turbato come la sua donna, almeno curioso ed attento, e cominciò a vestirsi; mentre infilava gli stivali trasalì vivamente.
– Udite! – ripeté donna Isabella facendosi la croce.
Egli attaccò una grossa bestemmia invece della croce; saltò sulla spada che avea gettato in mezzo alla camera, e così com’era, mezzo svestito, colla spada nuda in pugno, al buio, si slanciò nell’andito che era dietro all’alcova.
Ritornò poco dopo. – Nulla! – disse, – le finestre son chiuse, ho percorso il corridoio, l’andito, lo spogliatoio; siamo matti voi ed io; lasciatemi dormire in pace adesso, giacché se domani il Rosso venisse a sapere quel che ho fatto stanotte, e sino a qual segno sia stato imbecille, dovrei vergognarmi anche di lui -.
Né si udì più nulla; la baronessa rimase sveglia, e don Garzia, sebbene avesse attaccato di nuovo due o tre russate sonore, non poté dormire di seguito come al solito; all’alba si alzò con tal cera che il Rosso, spicciatosi alla svelta dei soliti servigi, stava per battersela.
– Chiamami Bruno – gli disse il barone, e ricominciò a passeggiar per la camera, mentre la baronessa stava pettinandosi. Donna Isabella, preoccupata, lo seguiva colla coda dell’occhio, e lo vide andare per l’andito, l’udì camminare nello spogliatoio; poi lo vide ritornare scuotendo il capo, e mormorando fra di sé: – No! è impossibile!… –
Bruno e il Rosso comparvero.
– Vecchio mio, – gli disse il barone, – ti senti di buscarti un bel ducato d’oro, e passare una notte nel corridoio qui accanto, senza tremare come la rocca di una donnicciuola cui si parli di spiriti?
– Messere, io mi sento di far tutto quel che comandate – rispose Bruno, ma non senza alquanto esitare.
Il barone che conosceva da un pezzo il suo Bruno per un bravaccio indurito a tutte le prove, fu sorpreso da quell’esitazione, e dallo scorgere che il Bruno, contro ogni aspettativa, s’era fatto serio.
– Per l’inferno! – gridò battendo un gran pugno sulla tavola, – mi diventate tutti un branco di poltroni qui!
– Messere, per provarvi come poltroni non lo siamo tutti, farò quel che mi ordinerete.
– E anch’io. – rispose il Rosso, vergognoso di non esser messo alla prova invece del capocaccia. – Così, non avrete più a dubitare delle parole nostre.
– Orbene! giacché tutti avete visto, giacché tutti avete udito, giacché tutti avete toccato con mano, fatemi buona guardia stanotte, appostatevi sul cammino che suol tenere cotesto gaglioffo che ha messo la tremarella addosso a tutta la mia gente. Da qual parte si suol vedere questo fantasma?
– Nel corridoio qui accanto, di solito… Ma nessuno ha più visto nulla dacché quest’ala del castello non è stata più abitata…
– Tu, Bruno, ti porrai a guardia dietro l’uscio che mette nella sala grande, e il Rosso dietro la finestra, in capo al corridoio. Allorché cotesto spirito malnato sarà dentro, e voi avrete accanto le vostre brave daghe, e non vi tremerà né la mano né il cuore, il ribaldo non potrà scappare altro che dalla mia camera… e allora, pel mio Dio o pel suo Diavolo! l’avrà da fare con me. Andate, e buona guardia!
– Io credo che fareste meglio ad ordinare delle messe per l’anima della vostra donna Violante – gli disse la baronessa seria seria, allorquando furono soli.
Il barone fu sul punto di mettersi in collera, ma seppe padroneggiarsi, e rispose in aria di scherno:
– Da quando in qua mi siete divenuta credula come una femminuccia, moglie mia?
– Dacché vedo ed odo cose che non ho mai udite né viste.
– Cos’avete udito, di grazia?
– Quel che avete udito voi! – ribatté essa senza scomporsi.
Don Garzia s’accigliò.
– Io non ho udito né visto nulla – esclamò dispettosamente.
– Ed io ho visto voi come vi vedo in questo momento, e come sareste sorpreso voi stesso di vedervi se lo poteste!
– Ah! – esclamò il barone con un riso che mostrava i suoi denti bianchi ed aguzzi al pari di quelli di un lupo, – è che mi avete fatto girare il capo anche a me, ed ho paura anch’io!
– Credete che io abbia paura, messere? –
Il messere non rispose e andò a mettersi alla finestra di un umore più nero delle grosse nuvole che s’accavallavano sull’orizzonte.
IV.
Il barone fu insolitamente sobrio a cena quella sera. Donna Isabella andò a coricarsi senza dire una parola, senza fare un’osservazione, ma pallida e seria. Don Garzia, quando si fu accertato che il Rosso e il Bruno erano già al loro posto, andò a letto e disse alla moglie motteggiando:
– Stanotte vedremo se il diavolo ci lascerà la coda -.
Donna Isabella non rispose, ma don Garzia non russò e dormì di un occhio solo.
Mezzanotte era suonata da un pezzo, il barone avea levato il capo ascoltando i dodici tocchi, poi s’era voltato e rivoltato pel letto due o tre volte, avea sbadigliato, infine s’era addormentato per davvero. Tutto era tranquillo, e taceva anche il vento; donna Isabella, che era stata desta sino allora, cominciava ad assopirsi.
Ad un tratto un grido terribile rimbombò per l’immenso corridoio; era un grido supremo di terrore, di delirio, che non poteva riconoscersi a qual voce appartenesse, che non aveva nulla d’umano; nello stesso tempo si udì un gran tramestìo, l’uscio e la finestra della camera furono spalancati con impeto, quasi da un violento colpo di vento, e al lume dubbio della lampada parve che una figura bianca in un baleno attraversasse la camera e fuggisse dalla finestra.
La baronessa, agghiacciata dal terrore fra le coltri, vide il marito slanciarsi dietro il fantasma colla spada in pugno, e saltare dalla finestra sul ballatoio. Egli correva come un forsennato, seguito da Bruno, inseguendo il fantasma che fuggiva come un uccello, sull’orlo del parapetto rovinato; entrambi, coi capelli irti sul capo, videro al certo, non fu illusione, la bianca figura arrampicarsi leggermente pei sassi che sporgevano ancora dalla cortina, al posto dov’era stata la scala, e sparire nel buio.
– Per la Madonna dell’Ognina! – esclamò il barone dopo alcuni istanti di stupore, – lo toccherò colla mia spada, o che si prenda l’anima mia, s’è il Diavolo in carne ed ossa! –
Don Garzia non credeva né a Dio né al Diavolo, sebbene li rispettasse entrambi; ma senza saper perché si ricordò delle parole dettegli da donna Isabella la mattina, e fremette.
Donna Isabella non gli avea fatto la più semplice domanda, o si spaventasse a farla, o la credesse inutile. Il barone del resto era di tale umore da non permetterne tal’une. L’indomani però dissegli risolutamente che non intendeva dormire più oltre in quella camera.
– Aspettate ancora stanotte, – rispose il marito, – farò buona guardia io stesso, e se domani non riderete delle vostre paure, vi lascerò padrona di far quel che meglio vorrete -.
Ella non osò aggiunger verbo, soltanto qualche momento dopo gli domandò:
– Di che malattia è morta la vostra prima moglie, messere? –
Ei la guardò bieco, e rispose:
– Di mal caduco, madonna.
– Io non avrò cotesto male, vi prometto! – disse ella con strano accento.
Don Garzia, insieme a tutti i vizi del soldato di ventura e del gentiluomo-brigante, ne avea la sola virtù: una bravura a tutta prova. Egli fece quel che non osava più fare Bruno, il terribile Bruno, e per cui era mezzo morto anche il Rosso, giovanotto ardito se mai ce ne fossero; e passò tre notti di seguito nel corridoio, senza batter ciglio, senza muoversi più che non si muovesse il pilastro al quale stava appoggiato, colla mano sull’elsa della spada e l’orecchio teso: il vento sbatteva le imposte della finestra ch’era stata lasciata aperta per ordine suo, i gufi svolazzavano sul ballatoio, i pipistrelli s’inseguivano stridendo per l’andito; il lume della lampada riverberavasi pel vano dell’arco della sala delle guardie e sembrava vacillante; ma del resto tutto era queto, e don Garzia sarebbesi stancato di passar le notti in sentinella, come un uomo d’armi, se il ricordo di quel che avea visto coi propri occhi non fosse stato ancora profondamente impresso nella sua mente, e se una parola della moglie non gli avesse messo in corpo una di quelle preoccupazioni che non lasciano più dormire né lo spirito né il corpo, uno di quei dubbi che imperiosamente domandano uno schiarimento; la sua coscienza dormiva ancora, ma le sue reminiscenze, tal’une circostanze lasciate passare inosservate, si svegliavano ad un tratto, gli si rizzavano dinanzi in forma di tal sospetto, che don Garzia, zotico, brutale, dispotico signore, scettico e superstizioso ad un tempo, ma in fondo sinceramente barone, vale a dire ossequioso al re, e alla Chiesa, che lo facevano quello che egli era, se ne sentiva padroneggiato, e provava il bisogno di scioglierlo colla persuasione, o colla spada.
Era la quarta notte che don Garzia attendeva; il mare era in tempesta, il tuono scuoteva il castello dalle fondamenta, la grandine scrosciava impetuosamente sui vetri, e le banderuole dei torrioni gemevano ad intervalli; di tanto in tanto un lampo solcava il buio del corridoio per tutta la sua lunghezza, e sembrava gettarvi un’onda di spettri; tutt’a un tratto il lume ch’era nella sala delle guardie si spense.
Don Garzia rimase al buio. Le tenebre che lo avvolgevano sembravano stringerlo ed opprimerlo da tutte le parti, soffocargli il respiro nel petto, la voce nella gola, e inchiodargli il ferro nella guaina; improvvisamente quel soldataccio risoluto sentì un brivido che gli penetrava tutte le ossa: fra le tenebre, in mezzo a tutti quei rumori vari, confusi, ma che avevano un non so che di pauroso, parvegli udire un altro rumore più vicino, più spaventoso, tale da far battere di febbre il polso di quell’uomo; le tenebre furono squarciate da un lampo, e videsi di faccia, ritta, immobile, quella figura bianca che aveva visto fuggire un’altra volta dinanzi a lui, e d’allora in poi aveva inseguito lui nella coscienza o nel pensiero, – ora la guardava con occhi lucenti e terribili. Tutto ciò non fu che un istante, una visione; – coi capelli irti, vibrò una stoccata formidabile, sentì l’elsa urtare contro qualche cosa, udì un grido di morte che gli agghiacciò tutto il sangue nelle vene, e in un delirio di terrore gli fece ritirare la spada e fare un salto indietro, atterrito, chiamando la sua gente con quanta voce aveva in corpo.
Scorsero due o tre minuti terribili, in cui non si udì più nulla; egli rimase in mezzo a quel buio, vicino a quella cosa che la sua spada aveva toccato. Pel castello si udì un gran tramestìo, si vide correre la gente, e sulle pareti cominciarono a riflettersi le fiaccole dei valletti. Don Garzia si slanciò sull’uscio gridando:
– Non entri nessuno all’infuori del Bruno, se v’è cara la vita! –
Tutti s’erano fermati attoniti vedendo il barone così pallido, coll’occhio stral’unato e la spada in pugno, ancora macchiata di sangue. Bruno entrò, e vide uno spettacolo orribile.
Vicino alla parete giaceva il cadavere di donna Violante, vestita del suo accappatoio bianco, com’era fuggita dal letto del marito la notte in cui s’era creduto che si fosse buttata in mare. Il viso avea pallido come cera e dimagrato enormemente, i capelli arruffati ed incolti, gli occhi spalancati, lucidi, fissi, spaventosi. La ferita era stata mortale e non sanguinava quasi, solo alcune gocce di sangue l’erano uscite dalla bocca e le rigavano il mento.
– Avevi ragione Bruno! – disse il barone con voce sorda. – Non volevo crederci ai fantasmi; le credevo sciocchezze di femminucce; ma adesso ci credo anch’io. Bisogna buttare in mare questa forma della mia povera moglie che ha preso lo spirito maligno… e senza che nessuno al castello e fuori ne sappia nulla, ché sarebbero capaci d’inventarci su non so quale storia assurda… –
Bruno capiva e non ebbe bisogno d’altre spiegazioni; però il suo signore non dimenticò di aggiungere sottovoce:
– Senti, vecchio mio, sai bene che se la cosa si risapesse così come sembra essere avvenuta, io sarei stato bigamo e peggio, e la tua testa sarebbe assai malferma sulle tue spalle, in fede mia! –
In chiesa, ricorrendo l’anniversario della morte di donna Violante, le furono resi dei pomposi e costosi suffragi; però, non si sa come, cominciavasi a buccinare al castello e fuori che la cosa fosse proprio avvenuta come sembrava, e come don Garzia non voleva che sembrasse; e Bruno, il quale perciò cominciava a dubitare che la sua testa non fosse ben ferma sulle sue spalle, un bel giorno a caccia mise per distrazione una palla d’archibugio fra la prima e la seconda vertebra del suo signore.
Donna Isabella, che avea una gran paura del mal caduco, era andata a villeggiare presso la sua famiglia, e siccome l’aria le faceva bene, non era più ritornata.
V.
Questa era la leggenda del Castello di Trezza, che tutti sapevano nei dintorni, che tutti raccontavano in modo diverso, mescolandovi gli spiriti, le anime del Purgatorio, e la Madonna dell’Ognina. I terremoti, il tempo, gli uomini, avevano ridotto un mucchio di rovine la splendida e forte dimora di signori i quali, al tempo di Artale d’Alagona, aveano sfidato impunemente la collera del re, e sembravano avervi impresso una stimmate maledetta, che dava una misteriosa attrattiva alla leggenda, e affascinava lo sguardo della signora Matilde, mentre ascoltava silenziosamente.
– E di quell’uomo? – domandò improvvisamente, – di quel giovanotto che per sua disgrazia non era morto cadendo nel trabocchetto, e che vi agonizzava lentamente, cosa ne è avvenuto?
– Chissà? Forse il barone avrà udito ancora dei gemiti soffocati, o delle grida disperate che imploravano la morte, forse dopo alcuni giorni, si sarà sentito il lezzo del cadavere da quella specie di pozzo, forse avrà voluto prevenire che ciò avvenisse, – vi fece gettar della calce viva, e non si sentì più nulla.
– E’ una storia spaventosa! – mormorò la signora Matilde. – Togliamone pure i fantasmi, il suono della mezzanotte, il vento che spalanca usci e finestre, e le banderuole che gemono, è una spaventosa storia!
– Una storia la quale non sarebbe più possibile oggi che i mariti ricorrono ai Tribunali, o alla peggio si battono – rispose Luciano ridendo.
Ella gli agghiacciò il riso in bocca con uno sguardo singolare. – Lo credete? – domandò.
Luciano ammutolì per quello sguardo, per quell’accento, pel sentirsi dar del voi così distrattamente e a quella guisa. Sopraggiungeva il signor Giordano.
Parlatemi d’altro, – diss’ella sottovoce, con singolare vivacità, – non discorriamo più di cotesto… –
VI.
Il signor Luciano e la signora Matilde si vedevano quasi tutti i giorni, in quella piccola società d’amici che le veglie o le escursioni pei dintorni riunivano quotidianamente. La signora fu indisposta due o tre giorni, e non si fece vedere. Allorché s’incontrarono la prima volta parve così mutata a Luciano che ei le domandò premurosamente della salute; il contegno di lei, le sue risposte, furono così imbarazzate, che il giovane ne fu imbarazzato egli pure, senza saper perché.
Evidentemente ella lo evitava. Era sempre allegra, spiritosa ed amabile con tutti, ma con lui era cambiata. – Anche il marito avea cambiato maniere – senza che nulla fosse avvenuto, senza che una parola fosse stata detta, senza che Luciano stesso sapesse ancora perché ei fosse così turbato, perché l’imbarazzo di lei rendesse imbarazzato anche lui, e perché si fosse accorto del cambiamento del signor Giordano. Una bella sera di l’una piena tutta la comitiva era uscita a passeggiare, e Luciano offrì risolutamente il braccio alla signora Matilde; ella esitò alquanto, ma non osò rifiutare; camminavano lentamente, in silenzio, mentre gli altri ciarlavano e ridevano; ad un tratto ella gli strinse il braccio, e gli disse con un soffio di voce: – Vedete! –
Il signor Giordano era lì presso, dando il braccio alla signora Olani. La mano che stringeva il braccio di Luciano era convulsa e tremante, la voce avea una vibrazione insolita.
Quando il signor Giordano ebbe lasciata al cancello della villa la signora Olani, sembrò lasciare anche una maschera che si fosse imposta sino a quel momento, e mostrossi soprappensieri, taciturno e accigliato.
– Ho paura!… ho paura di lui!… – mormorò Matilde sottovoce.
Luciano premette quel braccio delicato che s’appoggiava leggermente al suo, e che gli rispose tremante e gli si abbandonò confidente e innamorato, a lui che non avrebbe potuto proteggerla neppure dando tutto il sangue delle sue vene. Si volsero uno sguardo, uno sguardo solo, lucente nella penombra – quello della donna smarrito – e chinarono gli occhi. Sull’uscio della casa si lasciarono. Ei non osò stringerle la mano.
Ella partì, né seppe giammai quali notti ardenti di visioni egli avesse passato, quali febbri l’avessero roso accanto a lei, mentre sembrava così calmo e indifferente, quante volte fosse stato a divorarla, non visto, cogli occhi, e quel che si fosse passato dentro di lui allorché sorridendo dovette dirle addio dinanzi a tutti, e quando la vide passare, rincantucciata nell’angolo della carrozza, colle guance pallide e gli occhi fissi nel vuoto, e qual nodo d’amarezza gli avesse affogato il cuore allorché rivide chiusa quella finestra dove l’avea vista tante volte. L’indovinò? indovinò egli stesso quel che avesse sofferto ella pure? Quando s’incontrarono di nuovo, dopo lungo tempo, parvero non conoscersi, non vedersi, impallidirono e non si salutarono.
Finalmente s’incontrarono un’altra volta – al ballo, in chiesa, al teatro, auspice Dio o la fatalità; ei le disse: – Come potrei vedervi? – Ella impallidì, si fece di bracia, chinò gli occhi, glieli fissò ardenti nei suoi, e rispose: – Domani -.
E il domani si videro – un’ora dopo ella avea l’anima ebbra di estasi, i polsi tremanti di febbre, e gli occhi pieni di lagrime. – Perché m’avete raccontato quella storia? – ripeteva balbettando come in sogno.
Era pentimento, rimprovero, o presentimento?
Alcuni mesi dopo, in autunno, la medesima compagnia d’amici s’era riunita ad Aci Castello. I due che s’amavano avevano saputo nascondere la loro febbre, o il marito avea saputo dissimulare la sua collera, o la signora Olani era stata più assorbente. Si vedevano come prima, si riunivano come prima, erano allegri, o sembravano, come prima. – Qualche fuggitivo rossore di più sulle gote, e qualche lampo negli occhi – null’altro! Si facevano le solite scampagnate, i soliti ballonzoli, si andava in barca o a cavallo sugli asini, e si progettò anche il solito pranzo sulla vecchia torre del castello. La signora Matilde mise in mezzo tutti gli ostacoli; il marito la guardò in un certo modo, e le domandò la ragione dell’insolita ripugnanza…
Andò anche lei.
Il pranzo fu allegro come quello dell’anno precedente. Si mangiò sull’erba, si ballò sull’erba, e si buttarono sull’erba le bottiglie dopo che ne furono fatti saltare i turaccioli. Si ciarlò del castello, di memorie storiche, dei Normanni e dei Saraceni, della pesca delle acciughe e dei secoli cavallereschi, e tornarono in campo le vecchie leggende, e si raccontò di nuovo a pezzi e a bocconi la storia che Luciano avea raccontato la prima volta in quel luogo medesimo, e che alcuni nuovi venuti ascoltavano con avidità, digerendo tranquillamente, ed assaggiando il buon moscato di Siracusa.
Luciano e la signora Matilde stavano zitti da lungo tempo, ed evitavano di guardarsi.
VII.
Don Garzia d’Arvelo era diventato inaspettatamente, a cinquant’anni, signore dei numerosi feudi che dipendevano dalla baronia di Trezza; il barone suo nipote era stato trovato in un burrone, lungo stecchito, un bel dì, o una brutta notte, che era andato a caccia di non so qual selvaggina. Il cavaliere d’Arvelo, ora che era barone, fece impiccare preliminarmente due o tre vassalli i quali avevano la disgrazia di possedere bella selvaggina in casa, e la triste riputazione di tenere all’onore come altrettanti gentiluomini; poi era montato a cavallo, e siccome sospettavasi anche che il signore di Grevie avesse saldato in quel tal modo spicciativo alcuni vecchi conti di famiglia, era andato ad aspettarlo ad un certo crocicchio, e senza stare a sofisticare sulla probabilità del si dice, aveva messo il saldo alla partita.
Soddisfatti così i suoi obblighi di d’Arvelo e di signore non uso a farsi posare mosca sul naso, era andato ad assidersi tranquillamente sul seggio baronale, avea appeso la spada al chiodo del suo antecessore, e, tanto per farsi la mano da padrone, avea fatto sentire come la sua fosse di ferro a tutti quei poveri diavoli che stavano nei limiti della sua giurisdizione, ed anche delle sue scorrerie, ché un po’ del predone gli era rimasto colle vecchie abitudini di cavalier di ventura. Tutti coloro che nel requiem ordinato in suffragio del giovane barone avevano innestato sottovoce certi mottetti che non erano nella liturgia, ebbero a pentirsene, e dovettero ripetere, senza che sapessero di storia, il detto della vecchia di Nerone. Lupo per lupo, il vecchio che succedeva al giovane mostrava tali ganasce e tale appetito, che al paragone il lupacchiotto morto diventava un agnellino. Il cavaliere, cadetto di grande famiglia, era stato tanto tempo ad aguzzarsi le zanne e ad ustolare attorno a tutto quel ben di Dio in cui sguazzava il nipote, capo della casa e suo signore e padrone, che malgrado le scorrerie di tutti i generi, sulle quali il fratello e poscia il nipote avevano chiuso un occhio, si poteva dire di lui che fosse affamato da cinquant’anni; sicché era naturalissimo che allorquando poté darsi una buona satolla di tutti gli intingoli del potere più sfrenato, lo fece da ghiottone, il quale abbia stomaco di struzzo.
Del resto il Re, suo signore dopo Dio, era lontano, e i d’Arvelo erano d’illustre famiglia, grandi di Spagna, di quelli che non si sberrettano né dinanzi al Re, né dinanzi a Dio, titolari di diverse cariche a Corte, baroni ricchi e potenti, un po’ alleati della mano sinistra coi Barbareschi, di quei mastini insomma che andavano lisciati pel verso del pelo. Don Garzia andò a Corte; si batté con un gentiluomo che osò ridere dei suoi baffi irsuti e dei suoi galloni consunti, e gli mise tre pollici di ferro fra le costole, prestò il suo omaggio di sudditanza al Re, il quale lo invitò alla sua tavola, e fra il caciocavallo e i fichi secchi gli disse, che poiché la famiglia d’Arvelo non avea altri successori, il suo buon piacere era che don Garzia sposasse una damigella Castilla, la quale attendeva marito nel Monastero di Monte Vergine. Don Garzia, buon suddito e buon capo di grande famiglia, sposò la damigella senza farselo dir due volte, e senza vederla una volta sola prima di condurla all’altare, ma dopo aver ben guardato nelle pergamene della famiglia della sposa e nei quattro quarti del suo blasone; la mise in una lettiga nuova, con buona mano d’uomini d’arme e di cagnotti davanti, ai lati, e dietro; montò il suo cavallo pugliese, e se la menò a Trezza.
La sera dell’arrivo degli sposi si fecero gran luminarie al castello, nel villaggio, e nei dintorni, la campana della chiesuola suonò sino a creparne, si ballò tutta la notte sulla spiaggia, e del vino del Bosco e di Terreforti delle cantine del barone ne bevve persino il mare. Nondimeno, allorché la sposa fu entrata in quella cameraccia scura e triste, in fondo all’alcova immensa della quale ergevasi come un catafalco il talamo nuziale, non poté vincere un senso di ripugnanza e quasi di paura, e domandò al marito:
– Come va, mio signore, che essendo voi tanto ricco, avete una sì brutta cameraccia? –
Don Garzia, il quale ricordavasi di dover essere galante pel quarto d’ora, rispose:
– La camera sarà bella ora che ci starete voi, madonna -.
Però la prima volta che donna Violante si svegliò in quella brutta cameraccia, e al fianco di quel brutto sire, dovette essere un gran brutto svegliarsi. Ma ell’era damigella di buona famiglia, bene educata all’obbedienza passiva, fiera soltanto del nome della sua casa e di quello che le era stato dato in tutela; era stata strappata bruscamente alla calma del suo convento, ai tranquilli diletti, ai sogni vagamente turbati della sua giovinezza, ad un romanzetto appena abbozzato, ed era stata gettata, – ella che avea sangue di re nelle vene, – nell’alcova di quel marrano, cui per caso era caduto in capo un berretto di barone: ella avea accettato quel marrano, perché il Re, il capo della sua famiglia, le leggi della sua casta glielo imponevano, e avea soffocato la sua ripugnanza, allorché la mano nera e callosa di quel vecchio s’era posata sulle sue spalle bianche e superbe, perché era suo marito: dolce e gentile com’era, cercava a furia di dolci e gentili maniere raddolcire quel vecchio lupo che le ringhiava accanto, e le mostrava i denti aguzzi allorché voleva sembrare amabile. Però quello non era tal lupo cui l’acqua santa del matrimonio potesse far cambiare il pelo; e quanto a vizi avea tutti quelli che s’incontrano sulla strada di un soldato di ventura, dietro le insegne delle bettole. Per giunta, e per disgrazia, donna Violante dopo due anni di matrimonio non solo non avea messo al mondo il dito mignolo d’un baroncino, ma non avea nemmen l’aria di darsene per intesa, e d’aver capito il motivo per cui don Garzia s’era tolto in casa la noia e la spesa di una moglie.
Quella moglie delicata, linfatica, colle mani bianche, che gli parlava a voce bassa, che arrossiva alle sue canzonette allegre ed alle sue esclamazioni gioviali, che scappava spaventata allorché il sire era in buon umore, che non gli sapeva condire i suoi intingoli prediletti, e che non era stata buona nemmeno a dargli un successore, gli faceva l’effetto d’un ninnolo di lusso, da tenersi sotto chiave come i diamanti di famiglia; perciò, lungi di smettere le sue abitudini di lanzichenecco, ci s’era lasciato andare allegramente, senza prendersi nemmeno la pena di nasconderlo alla moglie, la quale era così timida, e tremava talmente, allorché ei si metteva in collera alla menoma osservazione, da sembrargli stupida. Cacciava, beveva, correva pei tetti e scavalcava le siepi, e quando ritornava ubbriaco, o di cattivo umore, guai alle mosche che si permettevano di ronzare!
Un’ultima scappata di don Garzia però avea fatto tale scandalo, che andò a colpire nel vivo quella vittima rassegnata. La fierezza di patrizia, l’amor proprio di donna, la gelosia di moglie, si ribellarono alfine in donna Violante, e le diedero per la prima volta un’energia fittizia.
– Mio signore, – dissegli con voce tremante, ma senza chinare gli occhi dinanzi al brusco cipiglio del marito, – rimandatemi al convento dal quale m’avete tolta, poiché sono tanto scaduta dalla vostra stima!
– Che vuol dir ciò? – borbottò don Garzia, – e chi vi ha detto di esser scaduta?
– Come va dunque, che vi rispettiate così poco voi stesso, da scendere sino alla Mena? –
Il barone stava per attaccare una mezza dozzina di quei sacrati che facevan tremare il castello sino dalle fondamenta, ma si contentò di sghignazzar forte:
– Da quando in qua, madonna, al castello di Trezza le galline si permettono di alzar la cresta? Badate a covarmi dei baroni, piuttosto, com’è vostro dovere, e lasciatemi cantar mattutino e compieta secondo il mio buon piacere -.
La baronessa l’indomani s’era levata pallida e sofferente, ma cogli occhi luccicanti di un insolito splendore; sembrava rassegnata, ma di una rassegnazione cupa, meditabonda, lampeggiante di tratto in tratto la ribellione e la vendetta; quel marito istesso così rozzo, così brutale, fu una volta sorpreso e impensierito dell’aria indefinibile ed insolita di quella donna che posava il capo sul suo medesimo guanciale, quantunque un sol muscolo della fisionomia di lei non si movesse, e volle mostrarle che le avea perdonato la sua velleità di resistenza con un bacio avvinazzato. – Ella non lo respinse, non si mosse, rimase cogli occhi chiusi, le labbra scolorite e serrate, le guance pallide e ombreggiate dalla lunga frangia delle sue ciglia: soltanto una lagrima ardente luccicò un momento fra quelle ciglia, e scese lenta lenta.
VIII.
Una sera il barone tardava a venire; la luna specchiavasi sui vetri istoriati dell’alta finestra, e il mare fiottava sommessamente. La baronessa stava da lunga pezza assorta, sulla sua alta seggiola a braccioli, col mento nella mano, distratta o meditabonda. Corrado, il bel paggio del barone d’Arvelo, le aveva domandato inutilmente due volte se gli comandasse di montare a cavallo, e d’andare in traccia del suo signore.
Alfine donna Violante gli fissò in viso lo sguardo pensoso. – Era un bel giovanetto, Corrado, dall’occhio nero e vellutato, e dalle guance brune e fresche come quelle di una vaga fanciulla di Trezza, così timido che quelle guance dorate si imporporavano alquanto sotto lo sguardo distratto della sua signora. – Ella lo fissò a lungo senza vederlo.
– No! – disse poscia. – perché?… –
Si alzò, andò ad aprire la finestra, e appoggiò i gomiti al davanzale. Il mare era levigato e lucente; i pescatori sparsi per la riva, o aggruppati dinanzi agli usci delle loro casipole, chiacchieravano della pesca del tonno e della salatura delle acciughe; lontan lontano, perduto fra la bruna distesa, si udiva ad intervalli un canto monotono e orientale, le onde morivano come un sospiro ai piedi dell’alta muraglia; la spuma biancheggiava un istante, e l’acre odore marino saliva a buffi, come ad ondate anch’esso. La baronessa stette a contemplare sbadatamente tutto ciò, e sorprese se stessa, lei così in alto nella camera dorata di quella dimora signorile, ad ascoltare con singolare interesse i discorsi di quella gente posta così basso al piede delle sue torri. Poi guardò il vano nero di quei poveri usci, il fiammeggiare del focolare, il fumo che svolgevasi lento lento dal tetto; infine si volse bruscamente, quasi sorpresa dal paggio che, ritto sull’uscio, attendeva i suoi ordini, guardò di nuovo la spiaggia, il mare, l’orizzonte segnato da una sfumatura di luce, l’ombra degli scogli che andava e veniva coll’onda, e tornò a fissar Corrado, questa volta più lungamente. Ad un tratto arrossì, come sorpresa della sua distrazione, e per dir qualche cosa domandò sbadatamente:
– Che ora è Corrado?
– Son le due di notte, madonna.
– Ah! –
Le sue ciglia si corrugarono di nuovo, chinò gli occhi un istante, e con un suono d’amarezza indicibile:
– Tarda molto stasera il barone!…
– Non temete, madonna; la campagna è sicura, la sera è bella, e la luna non ha una nube.
– E’ vero! – diss’ella con uno strano sorriso. – E’ proprio una sera da amanti!… –
E seguitò a fissare il giovinetto col suo sguardo da padrona, senza pensare a lui che ne era colpito.
Lasciò la finestra e andò a sedere sulla seggiola stemmata, ai piedi della quale si teneva il paggio; non più melanconica, né meditabonda, ma inquieta, agitata, e nervosa.
– Conosci la Mena? – domandò ad un tratto bruscamente.
– La mugnaia del Capo dei Molini?
– Sì, la mugnaia del Capo dei Molini! – ripeté con un singolare sorriso.
– La conosco, madonna.
– E anch’io! – esclamò con voce sorda. – Me l’ha fatta conoscere mio marito! –
Per l’altera castellana Corrado non era altro che un domestico, un giovanetto che portava il suo stemma ricamato sul giustacuore di velluto, e che era leggiadro, e avea la chioma bionda e inanellata per far onore alla casa. Ella dunque parlava come fra sé, colla sua eco, perché il suo cuore era troppo pieno, perché l’amarezza non s’era sfogata in lagrime, e gli fece una singolare domanda, con singolare accento e cogli occhi fissi al suolo:
– Perché non sei l’amante della Mena anche tu?
– Io, madonna?
– Sì, tutti vanno pazzi per cotesta mugnaia!
– Io sono un povero paggio, madonna!…
Ella gli fissò in viso quello sguardo accigliato, e a poco a poco le sopracciglia si spianarono.
– Povero o no, tu sei un bel paggio. Non lo sai? –
I loro occhi si incontrarono un istante e si evitarono nello stesso tempo. Se la vanità del giovinetto si fosse risvegliata a quelle parole, tutto sarebbe finito fra di loro e l’orgoglio della patrizia si sarebbe inalberato così all’audacia del paggio, che il cuore della donna si sarebbe chiuso per sempre. Ma il giovinetto sospirò, e rispose chinando gli occhi:
– Ahimè! madonna! –
Quel sospiro aveva un’immensa attrattiva.
Mille nuovi sentimenti confusi e violenti andavano gonfiandosi nell’animo della baronessa, come le nubi su di un mare tempestoso. Ella pure, bianca, superba, ella che discendeva da principi reali e da re castigliani, non poté fare a meno di paragonare quel giovinetto ingenuo, leggiadro, che avea cuore di cavaliere sotto una livrea di domestico, a quell’uomo rozzo, brutto, villano, coronato di barone, cui s’era data, e il quale la posponeva ad una bellezza da trivio, che portava zoccoli ai piedi e sacchi di farina sul dorso. Lagrime ardenti le luccicarono nell’orbita, asciugate subito da qualcosa di più ardente ancora, divorate in segreto; tutto quel movimento interno sembrava aver voce e parola, sembrava gridare da tutte le sue membra e da tutti i suoi pori, e il paggio osava fissare per la prima volta su quella sovrana bellezza, delirante in segreto e che faceva delirare, i suoi begli occhi azzurri, scintillanti di luce insolita.
– Corrado! – esclamò ella all’improvviso, con voce sorda e interrotta, come perdesse la testa; – tu che la conosci… tu che sei uomo… dimmi se cotesta mugnaia… è bella… s’è più bella di me… Oh dimmelo! non aver paura…
Il giovanetto guardava affascinato quella donna corrucciata, fremente, gelosa, rossa di onta e di dispetto, bella da far dannare un angelo; impallidì e non rispose: poi colla voce tremante, colle mani giunte, con un accento che fece scuotere e trasalire la sua signora, esclamò: – Oh… abbiate pietà di me!… madonna!…
Ella gli lanciò un’occhiata fosca, senza sguardo, e si allontanò rapidamente, fuggendo; andò ad appoggiarsi al davanzale, a bere avidamente la fresca brezza della notte. Quattro ore suonavano in quel momento; non si vedeva un sol lume, né si udiva una voce. Che cosa avveniva in quell’anima combattuta? Nessuno avrebbe saputo dirlo, lei meno di ogni altra, ché tali pensieri sono vertiginosi, tempestosi anche, come è complesso il sentimento da cui emanano. E ad un tratto volgendosi bruscamente verso di lui:
– Senti, – gli disse. – Hai torto! Paggio o no, povero o no, sei bello e giovane da far perdere la testa, e hai torto a non essere l’amante della Mena; il tuo padrone, che è vecchio e brutto, l’ama… l’amore è la giovinezza, la beltà, il piacere; non ci credevo… ma mio marito me l’ha insegnato, – e questo marito non è né giovane, né bello, né gentile. – Io mi son data a lui – ero bella, ti giuro, ero bella allora, delicata, tutta sorriso, col cuore ansioso e trepidante arcanamente sotto la ruvida mano che m’accarezzava. Nel convento avevo sognato tante volte che quella prima carezza mi sarebbe venuta da un’altra mano bianca e delicata che mi avea salutato, e che le mie vergini labbra avrebbero rabbrividito la prima volta sotto quelle altre che m’aveano sorriso, ombreggiate da baffetti d’oro, attraverso la grata. Invece furono le labbra irsute del barone d’Arvelo… – Colui era bello come te, biondo come te, giovane come te; io gli rapii la mia beltà, la mia giovinezza, il mio primo bacio che gli avevo promesso col primo sguardo, il mio cuore, che era suo, per darli a quest’uomo cui m’avevano ordinato di darli, e glieli diedi lealmente. Ora senti, io sono povera come te, non possedevo che il mio bel nome e gli ho dato anche quello, e ho combattuto i miei sogni, le mie ripugnanze, i palpiti stessi del mio cuore. Adesso quest’uomo cui ho sacrificato tutto ciò, che mi ha rapito tutto ciò, questo ladro, questo sleal cavaliere, questo marito infame, ha mescolato il mio primo bacio di vergine al bacio di una cortigiana… –
– Tu non sai, non puoi sapere qual effetto possano fare tali infamie sull’animo di una patrizia… Ma giuro, per santa Rosalia! che mi vendicherò in tal modo, che farò tale ingiuria a quest’uomo, che lo coprirò di tale vergogna, quale non basterà a lavare tutto il sangue delle sue vene e delle mie… Io son giovane ancora, sarò ancora bella quando amerò… Ti giuro!… Vuoi? di’! vuoi? –
Egli tremava tutto. – Ella gli afferrò il capo con gesto risoluto, con occhi ardenti e foschi, e gli stampò sulla bocca un bacio di fuoco.
IX.
Donna Violante non chiuse occhio in tutta la notte. Stava col gomito sul guanciale, fissando uno sguardo intraducibile, immobile, instancabile, su quel marito che dormiva tranquillo accanto a lei, di cui l’alito avvinazzato le sfiorava il viso, e il quale l’avrebbe stritolata sotto il suo pugno di ferro, se avesse potuto immaginare quali fantasmi passassero per gli occhi sbarrati di lei. E all’indomani, colle guance accese di febbre, e il sorriso convulso, gli disse:
– Non vi pare che sarebbe tempo di cercare un altro paggio, don Garzia?
– Perché?
– Corrado non è più un ragazzo; e voi lasciate troppo spesso sola vostra moglie, perché egli possa starle sempre vicino senza dar da ciarlare ai vostri nemici -.
Il barone aggrottò le ciglia, e rispose:
– Amici e nemici mi conoscono abbastanza perché né la cosa né le ciarle siano possibili -.
Sugli occhi della donna lampeggiò un sorriso da demone.
– E poi, – aggiunse don Garzia, – vi stimo abbastanza per temere che voi, nobile e fiera, possiate scendere sino ad un paggio -. E buttandole galantemente le braccia al collo accostò le sue labbra a quelle di lei. Ella, bianca come una statua, gli rese il bacio con insolita energia.
Nondimeno, malgrado l’alterigia baronale, e la fiducia nella sua possanza, don Garzia era tal vecchio peccatore da non dormir più tranquillo i suoi sonni una volta che gli era stata messa nell’orecchio una pulce di quella fatta, e, andato a trovar Corrado:
– Orsù, bel giovane, – gli disse, – eccoti questo borsellino pel viaggio, e queste due righe di benservito, e vatti a cercar fortuna altrove -.
Il giovane rimase sbalordito, e non potendo aspettarsi da che parte gli venisse il congedo, temette che qualcosa del terribile segreto fosse trapelata; e tremante, non per sé, ma per colei di cui avea sognato tutta la notte gli occhi lucenti, e l’ebbrezze convulse:
– Almeno, mio signore, – balbettò, – piacciavi dirmi, in grazia, perché mi scacciate!
– Perché sei già in età da guadagnarti il pane dove c’è da menar le mani, invece di stare a grattar la chitarra, ed è tempo di pensare a vestir l’arnese, piuttosto che farsettino di velluto.
– Orbè, messere, lasciatemi al vostro servizio, in mercé, se in nulla vi dispiacqui, e in quell’ufficio che meglio vi tornerà -.
Il barone si grattò il naso, come soleva fare tutte le volte che gli veniva voglia di assestare un ceffone.
– Via! – gli disse con tal piglio da non dover tornar due volte sulle cose dette; – levamiti dai piedi, mascalzone; ché dei tuoi servigi non so che farmene, e bada che se la sera di domani ti trova ancora nel castello non ne uscirai dalla porta -.
Il povero paggio aveva perduto la testa; malgrado la gran paura che mettevagli addosso il suo signore tentò tutti i mezzi per cercar di vedere quella donna che gli avea irradiato di luce la vita in un attimo, e che amava più della vita. Ma la baronessa lo evitava, come avesse voluto fuggire se stessa, o le sue memorie. Tutti i progetti e i timori più assurdi si affollarono nella testa delirante del giovane innamorato, e credendo la vita di donna Violante minacciata dal barone, decise di far di tutto per salvarla. Finalmente, mentre sollevava una tenda sotto la quale ella passava, fiera, calma e impenetrabile, le sussurrò sottovoce:
– Se il mio sangue può giovarvi a qualcosa, prendetevelo, madonna! –
Ella non si volse, non rispose, e passò oltre. Ei rimase come fulminato.
X.
La sera che non dovea più trovar Corrado nel castello si avvicinava rapidamente, ed egli non si rammentava nemmeno della terribile minaccia di quel signore che giammai non minacciava invano. Era pazzo di amore; avrebbe pagato colla testa un quarto d’ora di colloquio colla sua signora. Il barone prima di andare a dormire soleva fare tutte le sere la visita del castello. Corrado contava su quel momento per avere un’ultima spiegazione, o un ultimo addio dalla baronessa. Allorché tutto fu buio, s’insinuò non visto nel ballatoio, e venne a riuscire dietro la finestra di donna Violante.
Don Garzia era seduto colle spalle alla finestra, e stava cenando. La moglie eragli di faccia, col mento sulla mano e gli occhi fissi, impietrati. Ad un tratto, fosse presentimento, fosse fluido misterioso, fosse qualche lieve rumore fatto dal giovane coll’appoggiare il viso ai vetri, ella trasalì, alzò il capo vivamente, e i suoi sguardi s’incontrarono con quelli del paggio a guisa di due correnti elettriche.
– Cos’avete? – domandò il barone.
– Nulla – diss’ella, bianca e impassibile come una statua.
Il barone si voltò verso la finestra: – Che rumore e cotesto? –
Donna Violante chiamò la cameriera; e le ordinò di chiudere bene; era fredda e rigida come una statua di marmo. – Sarà il vento, – soggiunse, – o la finestra non è ben chiusa -.
Corrado ebbe appena il tempo di rannicchiarsi rasente al muro. Il barone di tanto in tanto volgeva alla sfuggita sulla moglie uno sguardo singolare, e, cosa più singolare, era sobrio! – Non bevete un sorso? – domandò versandole del vino.
Ella non osò rifiutare, alzò lentamente il bicchiere, e si udirono i suoi denti urtare due o tre volte contro il vetro.
Poi rimase pensierosa, ma con certa ansietà febbrile, gettando sguardi irrequieti qua e là.
– Bisogna che vi cerchi un altro paggio, ora che Corrado è partito – disse il barone figgendole gli occhi in viso.
Donna Violante non rispose, ma levò gli occhi anche lei, e si guardarono. Il barone bevve un altro bicchier di moscato, e si alzò per andare a far la ronda della sera.
Come fu sola la donna, si levò anch’essa, quasi spinta da una molla, e si diede a passeggiar per la camera, agitata e convulsa. Ogni volta che passava dinanzi alla finestra vi gettava un’occhiata scintillante. Ad un tratto vi andò risolutamente, e l’aperse.
Essi si trovarono faccia a faccia, e si guardarono in silenzio.
– Ma che fai qui? – domandò donna Violante con accento febbrile!
– Son venuto a morire – rispose il paggio con calma terribile.
– Ah! – esclamò ella con un sorriso amaro. – Lo sai che t’ho fatto scacciar io?
– Voi!
– Io!
– Perché m’avete fatto scacciare?
– Perché non ho potuto far scacciare me stessa, e perché non ho avuto il coraggio di uccidermi dopo di essermi vendicata.
– Che vi ho fatto? – esclamò egli colle lagrime nella voce.
– Che m’hai fatto?… – rispose la donna fissandolo con occhi stral’unati. – Che m’hai fatto?… Ebbene, cosa vuoi ancora? cosa sei venuto a fare?
– Son venuto a dirvi che vi amo! – diss’egli senza entusiamo e senza amarezza.
– Tu! – esclamò la baronessa celandosi il viso fra le mani.
– Perdonatemelo, Madonna! – aggiunse il paggio sorridendo tristamente – cotesto amore che vi offende lo sconterò in un modo terribile.
– No! – diss’ella con voce delirante. – Non voglio che tu muoia, non voglio più amarti, e non voglio rivederti mai più!… no! no! vattene! –
Egli scosse il capo rassegnato. – Andarmene? E’ tardi, il ponte levatoio è tirato, e il barone mi ha detto che questa sera non avrebbe voluto trovarmi più qui. Bisognava che io arrischiassi qualche cosa per vedervi un’ultima volta, così bella come vi ho sempre dinanzi agli occhi, e che io paghi con qualcosa di prezioso il potervi dire la terribile parola che vi ho detto.
– Ebbene! – rispose donna Violante, pallida come lui, tremante come lui – anche io sconterò il mio fallo… E’ giusto! –
In questo momento si udirono i passi del barone che ritornava accompagnato da qualcuno.
– Sia! – esclamò convulsivamente la baronessa. – Ti amo, son tua, sia! moriamo! –
E gli cinse le braccia al collo, e gli attaccò alle labbra le labbra febbrili. Si udì la voce di don Garzia che diceva al Bruno:
– Tu va sul ballatoio e sta a guardia da quella parte -.
Corrado si strappò da quell’amplesso di morte, con uno sforzo più grande di quel che ci sarebbe voluto per precipitarsi dalla finestra di cui gli veniva chiuso lo scampo, e stringendole la mano risolutamente:
– No! voi no! Ricordatevi di me, Violante, e non temete per voi. Il povero paggio saprà morire come un gentiluomo -.
E mentre si udivano già i passi del barone dietro l’uscio, e Bruno che percorreva il ballatoio, si slanciò nell’andito ch’era dietro l’alcova, e in fondo al quale spalancavasi il trabocchetto.
Don Garzia entrò con passo rapido, non guardò nemmen la moglie, la quale sembrava un cadavere, gittò un’occhiata alla finestra chiusa, ed entrò nell’andito senza dire una parola.
Non si udì più nulla. Poco dopo riapparve d’Arvelo, calmo e impenetrabile come al solito. – Tutto è tranquillo, – disse. – Andiamo a dormire, Madonna -.
XI.
La notte s’era fatta tempestosa, il vento sembrava assumere voci e gemiti umani, e le onde flagellavano la rocca con un rumore come di un tonfo che soffocasse un gemito d’agonia. Il barone dormiva.
Ella lo vedeva dormire, immobile, sfinita, moribonda d’angoscia, sentiva la tempesta dentro di sé, e non osava muoversi per timor di destarlo. Avea gli occhi foschi, le labbra semiaperte, il cuore le si rompeva nel petto, e sembravale che il sangue le si travolgesse nelle vene. Provava bagliori, sfinimenti, impeti inesplicabili, vertigini che la soffocavano, tentazioni furibonde, grida che le salivano alla gola, fascini che l’agghiacciavano, terrori che la spingevano alla follia. Sembravale di momento in momento che la vòlta dell’alcova si abbassasse a soffocarla, o che l’onda salisse e traboccasse dalla finestra, o che le imposte fossero scosse con impeto disperato da una mano che si afferrasse a qualcosa, o che il muggito del mare soverchiasse un urlo delirante d’agonia: il gemito del vento le penetrava sin nelle ossa, con parole arcane ch’ella intendeva, che le dicevano arcane cose, e le facevano dirizzare i capelli sul capo – e teneva sempre gli occhi intenti e affascinati nelle orbite incavate ed oscure di quel marito dormente, il quale sembrava la guardasse attraverso la palpebre chiuse, e leggesse chiaramente tutti i terrori che sconvolgevano la sua ragione. – Di tanto in tanto si asciugava il freddo sudore che le bagnava la fronte, e ravviava macchinalmente i capelli che sentiva formicolarsi sul capo, come fossero divenuti cose animate anche essi. Quando l’uragano taceva, provava un terrore più arcano, e con un movimento macchinale nascondeva il capo sotto le coltri, per non udire qualcosa di terribile. Ad un tratto quel suono che parevale avere udito in mezzo agli urli della tempesta, quel gemito d’agonia, visione o realtà, s’udì più chiaro e distinto. Allora mise uno strido che non aveva più nulla d’umano, e si slanciò fuori del letto.
Il barone, svegliato di soprassalto, la scorse come un bianco fantasma fuggire dalla finestra, si precipitò ad inseguirla, saltò sul ballatoio e non vide più nulla. La tempesta ruggiva come prima.
Sul precipizio fu trovato il fazzoletto che avea asciugato quel sudore d’angoscia sovrumana.
XII.
La storia avea divertito tutti, anche quelli che la conoscevano diggià, e che la commentavano ai nuovi venuti colla leggenda degli spiriti che avevano abitato il castello. La sera era venuta, l’ora e il racconto aiutavano le vagabonde fantasticherie dell’eccellente digestione. Luciano e la signora Matilde avevano impallidito qualche volta durante quel racconto che conoscevano:
– Badate, – le sussurrò egli sottovoce. – vostro marito vi osserva! –
Ella si fece rossa, poi impallidì, guardò il mare che imbruniva, e s’avviò la prima. Scesero le scale crollanti, e giunti al basso era quasi buio. La grossa tavola che faceva da ponte levatoio sull’abisso spaventoso il quale spalancasi sotto la rocca, a quell’ora era un passaggio pericoloso. I più prudenti si fermarono prima di metterci piede, e proposero di mandare al villaggio per cercar dei lumi.
– Avete paura? – esclamò il signor Giordano con un sorrisetto sardonico.
E si mise arditamente sullo strettissimo ponte. Sua moglie lo seguì tranquilla e un po’ pallida, Luciano le tenne dietro e le strinse la mano.
In quel momento, a 150 metri sul precipizio, accanto a quel marito di cui s’erano svegliati i sospetti, quella stretta di mano, di furto, fra le tenebre avea qualcosa di sovrumano. L’altro li vide forse nell’ombra, lo indovinò, avea calcolato su di ciò… Si volse bruscamente e la chiamò per nome. Si udì un grido, un grido supremo, ella vacillò, afferrandosi a quella mano che l’avea perduta per aiutarla, e cadde con lui nell’abisso.
A Trezza si dice che nelle notti di temporale si odano di nuovo dei gemiti, e si vedano dei fantasmi fra le rovine del castello.