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Il disertore di Isaac Emmanuilovic Babel
28 Dicembre 2019![Libri-di-testo Libri-di-testo](https://www.atuttascuola.it/wp-content/uploads/2019/05/Libri-di-testo.jpg)
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Il deserto dei Tartari di Dino Buzzati
28 Dicembre 2019
Il capitolo IX di “Madame Bovary” di Gustave Flaubert racconta il crescente disincanto di Emma Bovary nei confronti della sua vita coniugale e del provincialismo della sua esistenza a Tostes.
Mentre il marito Charles è spesso fuori casa per lavoro, Emma si immerge nei sogni e nelle fantasie su una vita più avventurosa e glamour a Parigi. Si innamora di un portasigari appartenuto al visconte, immaginando la sua vita e le sue relazioni. Emula la vita mondana parigina tramite la lettura di riviste e romanzi, idealizzando un’esistenza di lusso e passioni. Tuttavia, la realtà quotidiana con Charles è deludente per Emma, che si trova a desiderare un evento straordinario che cambi la sua vita. La monotonia e la banalità della vita coniugale si contrappongono alle sue fantasie di grandezza e avventura, lasciandola in una costante attesa di qualcosa di più significativo.
Qui sotto il testo commentato durante la lezione,. in una traduzione diversa rispetto a quella usata in classe, presente sul libro di testo della antologia
Capitolo IX (Parte prima), brano tratto da Madame Bovary di Gustave Flaubert
Spesso, quando Charles erà via, lei andava a prendere nell’armadio, tra le pieghe della biancheria in cui l’aveva riposto il portasigari di seta verde.
Lo contemplava, lo apriva, arrivava persino ad annusarne l’odore della fodera, un miscuglio di verbena e tabacco. A chi era appartenuto?… Al visconte. Forse era un regalo della sua amante. Costei lo aveva ricamato su qualche telaio di palissandro, talmente piccolo da poter sfuggire agli occhi indiscreti, vi aveva chinato sopra per ore e ore la molle chioma pensierosa. Un soffio d’amore era passato tra le maglie del tessuto; ogni gugliata vi aveva fermato una speranza o un ricordo, e tutti quei fili di seta intrecciati raffiguravano la continuità di una tenace passione silenziosa. E poi, una mattina, il visconte l’aveva avuto con sè. Di cosa parlavano mai, quando quell’oggetto giaceva sui larghi ripiani dei caminetti tra vasi di fiori e pendole alla Pompadour? Emma era a Tostes, adesso. E lui era a Parigi, invece, così lontano! Ma com’era questa famosa Parigi? Che nome immenso! Lei se lo ripeteva piano piano, le faceva piacere sentirlo, lo sentiva suonare ai suoi orecchi come la campana d’una cattedrale, e accecava i suoi occhi persino dalle etichette dei suoi barattoli di crema.
La notte, quando i pescivendoli passavano sulle loro carrette sotto le sue finestre, cantando la Marjolaine, lei si svegliava; stava ad ascoltare il rotolio delle ruote cerchiate di ferro che andava smorzandosi all’uscita dal paese, e si diceva:
«Ci saranno domani!»
Li seguiva con l’immaginazione, salivano, scendevano alture, pendii, attraversavano villaggi, correvano sulla strada maestra alla luce delle stelle. E in fondo a un’indeterminata distanza, c’era sempre una zona confusa in cui svaniva il suo sogno.
Acquistò una pianta di Parigi, e, con la punta di un dito, compiva sulla carta le sue escursioni nella capitale. Risaliva i boulevard, fermandosi a ogni angolo, tra le linee delle vie, o davanti ai quadratini bianchi rappresentanti le case. Alla fine aveva gli occhi stanchi, serrava le palpebre e nel buio vedeva le fiammelle dei fanali a gas oscillare al vento e le file delle fragorose carrozze allinearsi davanti ai peristili dei teatri.
Si abbonò al Cestello, periodico femminile, e al Silfo dei salotti. Divorava, senza tralasciar nulla, tutti i resoconti delle prime, delle corse, dei ricevimenti, s’interessava al debutto d’una cantante, all’apertura d’un negozio. Era al corrente di ogni moda nuova, dell’indirizzo dei migliori sarti, dei giorni di ritrovo al Bois o all’Opéra. Studiò, nei romanzi di Eugène Suë, le descrizioni degli arredamenti, lesse Balzac e George Sand, cercando di appagare i propri appetiti con quelle offe immaginarie. Si portava addirittura i libri a tavola e ne sfogliava le pagine, mentre Charles mangiava e le rivolgeva la parola. E in ogni sua lettura, quotidianamente, le ritornava il ricordo del visconte. Non faceva altro che stabilire accostamenti tra lui e i personaggi dei romanzi. Ma il cerchio di cui quello era al centro s’allargava a poco a poco, e quella particolare aureola, staccandosi da quel particolare capo, si spingeva lontano, per illuminare altri sogni.
Più vasta dell’oceano, Parigi risplendeva dunque agli occhi di Emma in un’atmosfera vermiglia. La molteplice vita che si agitava in quel tumulto era tuttavia divisa in varie parti, classificata in scene distinte. Emma ne arrivava a percepire due o tre, che le nascondevano ogni altra e rappresentavano da sole l’intera umanità. Il mondo degli ambasciatori incedeva su lucidi pavimenti, in saloni rivestiti di specchi, intorno a tavoli ovali ricoperti da tappeti di velluto a frange d’oro. C’era uno scialo d’abiti a strascico, grandi misteri, angosce dissimulate sotto i sorrisi. E poi veniva il mondo delle duchesse: eran tutte talmente pallide, figurarsi, si alzavano alle quattro del pomeriggio, poveri angeli dalle gonne orlate di merletti a punto inglese! E i loro uomini, valori misconosciuti dietro le futili apparenze, si facevan morire sotto i cavalli in gran galoppate oziose, consumavan le estati a Baden e, verso la quarantina, convolavano a nozze con le migliori ereditiere. Nei salottini privati dei ristoranti in cui si comincia a mangiare dopo la mezzanotte, rideva alla luce delle candele il variopinto mondo dei letterati e delle attrici. Tutta gente, quella, prodiga come re, traboccante di ambiziosi ideali e di deliranti fantasie. Un’esistenza veramente al di sopra di tutte le altre, tra terra e cielo, nel vortice delle tempeste, qualcosa di sublime. Quanto al resto dell’umanità, era come perduto, senza un luogo preciso, in pratica quasi non esisteva. D’altronde, più le cose le erano vicine, più lei ne distoglieva il pensiero. Quanto la circondava immediatamente, la campagna noiosa, i piccoli borghesi imbecilli, la mediocrità della vita quotidiana, tutto le appariva come un’eccezione nell’universo, un malaugurato caso particolare in cui lei si trovava intrappolata, mentre, fuori di là, si estendeva a perdita d’occhio l’immensità delle gioie e delle passioni. Nel suo struggente desiderio confondeva le sensualità del lusso con gli slanci del cuore, le abitudini eleganti con le delicatezze del sentimento. Non occorrevan forse all’amore, come alle piante indiane, terreni appositamente preparati, una temperatura particolarmente graduata? I sospiri al chiar di luna, i lunghi abbracci, le lacrime fiottanti sulle mani abbandonate, tutte le febbri della carne, tutti i languori dell’affetto non potevano certo andar separati dai balconi dei grandi castelli ove è sempre festa, da qualche salottino con tende di seta e soffici tappeti, giardiniere trionfanti di fiori, letti troneggianti su piedistalli, nè dallo scintillio delle pietre preziose e dei galloni dorati delle livree.
Il mozzo di stalla che, ogni mattina, veniva dalla posta a governar la cavalla, attraversava il corridoio con i suoi grossi zoccoli; il suo camiciotto era tutto un buco, i suoi piedi erano nudi e sporchi. Ecco il groom in calzoni corti di cui bisognava accontentarsi! E, quando aveva finito, se ne andava e non si faceva più vedere per tutta la giornata; ci pensava Charles stesso, al ritorno, a portare la sua bestia nella stalla, a toglierle la sella, a metterle la cavezza, mentre la serva portava una bracciata di paglia e l’aggiustava alla bell’e meglio nella mangiatoia.
In sostituzione di Nastasie (che alla fine se n’era partita da Tostes tra torrenti di lacrime), Emma aveva preso al proprio servizio una ragazzina di quattordici anni, orfanella, con un faccino dolce. Le proibì le cuffie di cotone, le insegnò i discorsi in terza persona con i padroni, l’interdipendenza tra piattini e bicchieri d’acqua, la necessità di bussare prima di entrare in una stanza, l’importanza di stirare e inamidare, il diritto e il dovere di aiutare lei a vestirsi; insomma, ne volle fare la propria cameriera personale. La nuova venuta ubbidiva senza fiatare per la paura di venir licenziata; e, dato che la signora aveva l’abitudine di lasciar la chiave nella credenza, Félicité prelevava ogni sera una piccola provvista di zucchero che si mangiava tutta sola, in letto, dopo aver regolarmente recitato le preghiere.
Il pomeriggio, a volte, la serva scappava a chiacchierare con i postiglioni, nella casa di faccia. La signora restava su, nella sua camera.
La signora portava una vestaglia tutta aperta che lasciava intravedere, tra i risvolti a scialle del corpetto, una camicetta pieghettata, con tre bottoni dorati. Aveva come cintura un cordone a nappine, e sulle pantofoline color granata un ciuffo di larghi nastri copriva il collo del piede. S’era comprata una quantità di carta assorbente, carta da lettere, buste e penne, per quanto non avesse da scrivere assolutamente a nessuno; spolverava e rispolverava l’étagère, si contemplava allo specchio, prendeva un libro, poi, sognando tra le righe, se lo lasciava cadere sui ginocchi. Aveva una gran voglia di far dei viaggi, oppure di tornare a vivere nel suo convento. Desiderava di morire e insieme di abitare a Parigi.
Ci fosse la neve o la pioggia, Charles se n’andava a cavallo per strade fuori mano. Mangiava una frittata sulle tavole delle cascine, infilava un braccio in letti umidi, riceveva in piena faccia il tiepido spruzzo dei salassi, ascoltava rantoli, esaminava feci, frugava tra la biancheria sudicia; ma tutte le sere, rincasando, trovava un bel fuoco fiammeggiante, una cena bene imbandita mobili confortevoli e una moglie elegante, affascinante, con un profumo così suggestivo che non si capiva da dove venisse, forse era la sua stessa pelle a intriderne dolcemente la camicia?
Lei lo incantava con un’infinità di delicatezze; ora una maniera totalmente nuova di foggiare piattini di carta per i doppieri, ora un volante cambiato alla sua veste, ora il nome straordinario di un piatto semplicissimo che la serva aveva miseramente fallito, ma che Charles trangugiava di gusto sino all’ultimo boccone. Lei vide a Rouen certe signore con un mazzetto di ciondoli all’orologio, e immediatamente acquistò un sacco di ciondoli. Lei volle sul suo camino due grandi vasi di vetro turchino, e, poco dopo un astuccio da lavoro in avorio, con un ditale dorato. Meno Charles le capiva, queste eleganze, più gli facevan soggezione: aggiungevano qualcosa al piacere dei sensi, alla dolcezza del focolare. Come una polvere d’oro che ricoprisse per tutta la lunghezza l’angusto sentiero della sua vita di uomo fortunato.
Stava bene lui, aveva un ottimo aspetto; e la sua reputazione era ormai più che salda. I contadini gli si affezionavano perchè non si dava arie. Lui carezzava i bambini, non metteva mai piede in un’osteria, ispirava fiducia per la sua assoluta moralità. Eccelleva soprattutto nei catarri e nelle malattie di petto. Siccome aveva una gran paura di ammazzare i suoi clienti, Charles si limitava, in realtà, a ordinare esclusivamente pozioni calmanti, qualche emetico, un pediluvio, al massimo un’applicazione di sanguisughe. Comunque, era in grado di cavarsela anche come chirurgo: ti poteva salassare come se fossi un cavallo e nell’estrazione dei denti rivelava un polso di ferro.
Per tenersi al corrente, come diceva, si abbonò all’Alveare medico, una nuova pubblicazione di cui gli avevano inviato i prospetti. Provava a leggerne un poco dopo i pasti, ma il calore della stanza s’univa al torpore della digestione, in capo a cinque minuti s’addormentava; e restava là così, il mento tra le mani, i capelli pendenti come una criniera sino alla base della lampada. Emma allora lo guardava e si stringeva nelle spalle. Le fosse almeno toccato come marito uno di quegli uomini dagli ardori silenziosi che trascorrono le notti sui libri e verso i sessant’anni, l’età dei reumatismi, sono in grado d’ostentare sulle marsine nere mal tagliate le fatidiche crocette delle decorazioni! Avrebbe talmente voluto, lei, che quel nome di Bovary, ormai suo, diventasse illustre, avrebbe talmente voluto vederlo in mostra nelle librerie, ripetuto nei giornali, conosciuto dalla Francia intera. Ma Charles non aveva ambizioni! Un medico d’Yvetot, con il quale recentemente aveva avuto un consulto, si era permesso di umiliarlo un poco, al capezzale stesso del malato, davanti ai parenti riuniti: quando la sera Charles raccontò l’episodio, Emma insorse contro quel collega. Charles si commosse a una simile reazione. Con le lacrime agli occhi, baciò la moglie sulla fronte. Ma lei era esasperata per la vergogna; avrebbe voluto battere il marito; per calmarsi andò ad aprire la finestra nel corridoio, aspirava l’aria fredda.
«Che ometto! che ometto!» si diceva piano, e si mordeva le labbra.
La sua irritazione contro di lui si acuiva sempre più. Con l’età, lui prendeva abitudini grossolane; dopo mangiato tagliuzzava i tappi delle bottiglie vuote; si passava e ripassava la lingua sui denti; nel sorbire la minestra, gorgogliava a ogni cucchiaiata; e, poichè cominciava a ingrassare, i suoi occhi che già non eran mai stati grandi parevano respinti in su, verso le tempie, dal dilatarsi della faccia.
A volte Emma gli rinfilava nel panciotto l’orlo rosso della maglia, gli aggiustava la cravatta, gli buttava via i guanti stinti che lui stava per infilarsi; non lo faceva per lui, come lui era disposto a credere; lo faceva per se stessa: per sfogo d’egoismo, per protesta nervosa. Altre volte, gli parlava di quel che aveva letto, un brano di romanzo, una scena di commedia o un aneddoto del bel mondo raccontato dal giornale; dopotutto, Charles era pur sempre qualcuno, un orecchio pronto ad ascoltarla, una approvazione che non mancava mai di venire. Ne faceva di confidenze, lei, alla sua cagnetta! Ne avrebbe fatte persino ai ciocchi del camino, al bilanciere della pendola.
In fondo al suo cuore, tuttavia, era una grande attesa, l’attesa di un vero avvenimento. Come i marinai che si sentono perduti, continuava a girare sulla solitudine della sua esistenza sguardi disperati, cercando d’intravedere lontano, tra le brume dell’orizzonte, il biancore di una vela. Non sapeva immaginare quale avvenimento le avrebbe elargito il caso, qual vento l’avrebbe portato sino a lei, nè verso quale riva lei ne sarebbe stata sospinta, e se sarebbe stata appena una scialuppa o un vascello a tre ponti, carico d’angoscia o ribollente di felicità, oltre le murate. Ma ogni mattina, al suo risveglio, sperava che accadesse subito, quel giorno stesso, e stava ad ascoltare ansiosa tutti i rumori, si alzava di soprassalto, meravigliandosi che ancora non fosse accaduto; al tramonto, sempre più triste, desiderava di essere già alla mattina dopo.
Audio Lezioni sulla Letteratura italiana dell’ottocento del prof. Gaudio