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L’eccidio di Bronte (agosto-settembre 1860) e la novella di G. Verga “Libertà” (1882)
A Bronte vivevano nel 1860 circa 10 mila abitanti, ma l’81% delle terre era detenuto da appena 19 proprietari, fra cui una Duchessa inglese che aveva messo piede in Sicilia una sola volta e che si limitava alla riscossione delle rendite. La Ducea, infatti, era un feudo-latifondo di 15 mila ettari che re Ferdinando IV di Borbone, usurpando terre comunali, aveva donato nel 1798 all’ammiraglio inglese Horatio Nelson. Poco curata dagli eredi di Nelson, la proprietà era odiata dalla popolazione locale e rivendicata per il ritorno delle terre al demanio. Nemici giurati della Ducea erano contadini e boscaioli, ma il capo dei “comunisti” (cioè allora i sostenitori dei diritti del Comune) era un avvocato, Nic. Lombardo. Il decreto per la divisione delle terre demaniali, emanato da Garibaldi pochi giorni dopo lo sbarco, portò i comunisti a pretendere la redistribuzione delle tenuta. Al rifiuto opposto dagli amministratori, la gente più povera, al comando del muratore Rosario Fidala, insorse al grido “A morti li cappedda” (cioè i benestanti). L’avv. Lombardo non potè calmare gli animi e una folla inferocita assaltò le case di notabili, proprietari, nobili e ovviamente la casina Nelson: fu una strage orrenda (16 i morti accertati e svariati feriti). Verga nella sua novella ha narrato i fatti più cruenti, anche se la famosa scena della defenestrazione della nobildonna inglese non avvenne affatto (si trovava in Inghilterra!). Garibaldi ordinò una spietata rappresaglia e il fidato generale Nino Bixio, già soprannominato dai Siciliani “la Belva” per episodi simili (Resuttano, Centuripe, Randazzo, Regalbuto), non perse tempo: fece subito fucilare 5 comunisti a caso, tra cui l’avv. Lombardo (del tutto estraneo all’eccidio), un nano e un malato mentale. D’altronde, Bixio già aveva espresso quel che pensava dei Siciliani in una lettera alla moglie: “È un Paese che bisognerebbe distruggere, e mandarli in Africa a farsi civili”. Garibaldi e i suoi, del resto, non potevano resistere alle pressioni del console inglese di Palermo, John Goodwin, che li sollecitava a tutelare gli interessi britannici in Sicilia: gli Inglesi avevano sovvenzionato l’azione garibaldina, protetto le navi “rosse” nello sbarco a Marsala, promettevano aiuti per conquistare il Meridione d’Italia. In effetti, lo Stretto fu attraversato poi dai garibaldini sulle navi di Vincenzo Florio (latifondista di Marsala, amico degli Inglesi, abile come un Gattopardo a diventare patriota); i fratelli Thovez, amministratori della Ducea, potevano star tranquilli – come dice il Principe di Salina nel Gattopardo: “Tutto è come prima, anzi meglio di prima”. Ancora nel 1950 la Ducea di Bronte godeva dei privilegi dell’extraterritorialità, d’un esercito privato di 105 guardie esigendo gabelle a chi passava su un ponte della tenuta; infatti, dopo una breve requisizione ad opera dei fascisti durante la Seconda Guerra mondiale, era ritornata ai Nelson allo sbarco degli anglo-americani in Sicilia, per poi essere in gran parte distribuita ai coltivatori diretti nel 1965; nel 1981 gli ultimi 6 mila ettari e la grande casina (vecchio monastero benedettino, ora museo) furono venduti al Comune di Bronte per 1 miliardo e 750 milioni di lire, ma gli eredi di Nelson hanno ottenuto di conservare il diritto a titolarsi “duchi di Bronte”.
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