Seconda guerra mondiale
27 Gennaio 2019Paul Verlaine di Carlo Zacco
27 Gennaio 2019Libro secondo del Cortegiano di Baldassarre Castiglione
di Carlo Zacco
Seconda serata
Se la trattazione fin qui c’è stata rappresentata come improvvisata non più così è nella seconda serata. Anche questo è un modo proprio che è esemplato su quello ciceroniano del de oratore, Crasso aveva svolto il suo discorso sulla formazione del perfetto oratore nel primo libro senza che fosse preordinato. Il compito di trattare ulteriormente la questione viene affidata ad Antonio e rimandata al giorno successivo. E d’altra parte vien da Cicerone stesso ripreso il movimento dei personaggi: nel caso di Cicerone ci sono dei personaggi che escono dalla casa di crasso e altri che sentendo ciò di cui si era trattato, arrivano.
L’avvio al terzo libro. Questo spunto viene ripreso dal Castiglione ma liberamente gestito. Così come viene ripreso ma liberamente gestito lo spazio proemiale. Sul secondo libro ci soffermiamo molto meno su quello che è l’assetto del libro, e invece ci soffermiamo molto di più sulla conclusione perché attraverso la conclusione del secondo libro che si imposta quella che è la nuova trattazione, quella non prevista inizialmente dal gioco (il gioco prevede la formazione del perfetto cortegiano) alla fine di questo secondo libro si introduce l’argomento non previsto che è la formazione della figura della perfetta donna di palazzo.
? Novità della terza redazione. Quindi diciamo che la figura che sta in parallelo a quella del perfetto cortigiano e che comporta una svolta interna, una svolta che è legata alla genesi stessa del libro, perché questa svolta è la svolta della terza redazione: la formazione della perfetta donna di palazzo è di fatto impostata ex novo per come viene svolto il trattato nella terza redazione.
Dedicatoria: i laudatores temporis acti
La voce autoriale. Del secondo libro però alcune cose vanno dette perché hanno una loro importanza. Innanzitutto come abbiamo visto c’è il proemio dove di nuovo l’autore prende il controllo diretto nei confronti del dedicatario Alfonso Ariosto. E’ la voce autoriale scopertamente autoriale.
I laudatores temporis acti. Qui viene trattato un tema che frequentemente trattato nella letteratura e in altro, che è quello relativo ai laudatores temporis acti. Quelli che lodano il passato e condannano il presente.
? i discorsi machiavelliani. E’ stato giustamente notato che appunto nella considerazione in relazione ai laudatores temporis acti noi possiamo avere una possibilità di confronto con un analogo proemio nei Discorsi da parte del Machiavelli. Non è un tema che qui intendo trattare però è significativo che in entrambi gli autori sia introdotta la trattazione di questo tema.
Celebrazione del presente. Qui mi limito a dire come è risolta la questione da parte del Castiglione il quale naturalmente non accetta che vengano lodati i tempi passati ee condannati i tempi presenti. E questo è per noi del tutto ovvio: come si potrebbe celebrare la corte di Urbino se si facesse un discorso di questo genere. Ovvio se si tiene presente che la celebrazione della corte di Urbino dell’anno 1507 e complessivamente la corte di Guidubaldo, è legata a quella che è la celebrazione anche degli sviluppi successivi della corte di Urbino: tutto il corso del tempo della corte di Urbino e questo viene detto con chiarezza in altri proemi ma risulta con chiarezza anche dalle inserzioni encomiastiche, per esempio quella di Francesco Maria dell rovere dove si fa riferimento a quello che sarebbe stato il frutto effettivo che già si manifestava quando era molto giovane.
Metafora della navigazione. I laudatores temporis acti sono identificati qui in special modo nei vecchi che lodano le corti del passato. In sintesi estrema, che cosa dice il Castiglione?
? una distorsione prospettica. Il Castiglione si avvale a sua volta dell’ampia metafora della vita come navigazione e fa presente in realtà i vecchi non si rendono conto che lodano i tempi passati ritenendoli pieni di virtù e di cose egregie perché i tempi passati sono i tempi della loro giovinezza. E non si rendono conto che sono strettamente collegati nella loro rievocazione memoriale con quella che l’evocazione di quello che era il tempo migliore della loro stessa vita. E quindi guardano al presente con quella prospettiva, e non si rendono conto di incorrere in quello che è un errore di giudizio. E’ l’errore del loro giudizio, non il peggioramento dei tempi recenti.
Ma è vero? Se i tempi presenti peggiorassero rispetto al passato, posto che questa lamentazione si trova scritta in tutte le storie, da tempo antico ad oggi, il mondo sarebbe rovinato completamente, perché si sarebbe arrivati ad un peggioramento tanto costante da produrre una rovina totale. Quindi è un errore di prospettiva, e lo stesso vale appunto come sul piano generale nella vita e nella storia, così per quello che riguarda il rapporto tra le corti.
Vizio e virtù sempre presenti. Da che cosa dipende questo errore di prospettiva oltre che questa questione che i vecchi dicono? Non si rendono conto del rapporto che c’è tra il vizio e la virtù: della concatenata contrarietà del vizio e della virtù, un tema platonico che qui accenno soltanto nella soluzione data dal Castiglione. Se il vizio è molto grande, ed in effetti nei tempi presenti c’è un vizio molto grande poiché quanti uomini scelerati ci sono lo si vede dappertutto, pure significa che c’è una virtù molto grande: perché i due estremi in questo senso si toccano e dunque se c’è un grande vizio c’è una grande virtù. Maggiore è il vizio maggiore è la virtù.
Una cartina di tornasole: gli antichi. E d’altra parte se questo è così è perché gli ingegni sono molto superiori al presente rispetto agli ingegni delle corti del tempo precedente. Sono questi ingegni da paragonare non con quelli delle corti precedenti, ma con i grandi antichi: se si va a guardare cosa succedeva nella parte della storia antica dove ci sono grandi personaggi e grandi ingegni si vede che cerano anche grandi virtuosi e grandi scelerati. E così è nel tempo presente più si produce da un lato il vizio dall’altro la virtù. Quindi questo discorso non è accettabile.
L’eterno cambiamento dei costumi. D’altra parte se noi confrontiamo le corti del passato a quelle di oggi da un altro punto di vista, per quello che riguarda i costumi, anche qui l’errore di prospettiva dei vecchi emerge con evidenza: i costumi delle corti cambiano: quello che era di ‘moda nelle corti quattrocentesche, adesso farebbe ridere tutti. Dunque c’è una variazione, un mutamento: il tempo muta, mutano i costumi, muta la situazione. Questo appunto errore dei vecchi non deve portare ad un giudizio negativo sul tempo presente.
L’eccellenza attuale. D’altra parte l’eccellenza dei costumi attuali della corte di Urbino mostra che non si può parlare di una decadenza del presente rispetto al passato. Ciò premesso viene ad essere reintrodotta la cornice. Altro aspetto del proemio è l’introduzione della cornice, qui molto ridotta naturalmente rispetto a quella del primo, e poi si passa al discorso.
La cornice
Il problema della memoria. Il modo in cui viene fatta questa introduzione di cornice è molto interessante proprio sul tema della memoria. Ed è un altro indizio che ci dà il Castiglione. Che cosa succede quando si ascoltano le altre conversazioni? Che ciascuno ne trae quello che è la sua stessa impressione sia per il giudizio che dà di quello che viene detto, sia per il ricordo di quello che gli rimane in mente. Perché viene detto questo? Perché quelli che erano assenti hanno bisogno di sapere quello che è stato detto il giorno prima, perché se il discorso continua, continua sulla base di quello che è stato detto. E allora il prefetto, cioè il nostro Francesco Maria della Rovere, domanda ai presenti, ma variamente gli viene risposto.
La responsabilità autoriale. Quindi questo è un altro aspetto da tener presente che rimanda di nuovo alla responsabilità autoriale. E’ una grata memoria che viene appunto rievocata dal Castiglione, il Castiglione era assente, gli è stato riferito da persona degna di fede, ma gli è stato appunto riferito appunto quello che era stato ascoltato, e dunque se i pareri degli ascoltanti sono vari, se la loro memoria è varia, questo significa appunto sottolineare in modo sottile, anche quello che è proprio anche della responsabilità autoriale. E’ una sorta di gioco da parte dell’autore che è molto consapevole anche potremmo dire sul piano della metascrittura della sua opera, del modo di scrivere la sua opera e di far riflette su come la sua opera è scritta.
Riprende il Fregoso. Allora qui si tratta delle condizioni del cortigiano, come queste condizioni debbano essere esercitate. Il nostro Fregoso come avevo detto si rifà a quello che aveva detto il Canossa, anche qui riprende quel gioco di contraddizioni e battute che avevamo visto, c’è però una grande aspettativa questa volta quindi il compito del Fregoso è da questo punto di vista più impegnativo perché non è più un discorso fatto all’improvviso e qui per semplificare possiamo dire che qui viene messa in evidenza un’accorta serie di avvertenze che toccano aspetti diversi.
Il discernimento. C’è naturalmente un impostazione di carattere generale difficile da sintetizzare, e possiamo vederla alla fine del capitolo VI. Come indicazione generalissima che introduce la serie di avvertenze. «Però il governarsi bene in questo parmi che consista in una certa prudenzia e giudicio di elezione, e conoscere il piú e ‘l meno che nelle cose si accresce e scema per operarle oportunamente o fuor di stagione. E benché il cortegian sia di cosí bon giudicio che possa discernere [verbo importante perché il concetto basilare sarà la discrezione, come per Guicciardini] queste differenzie, non è però che piú facile non gli sia conseguir quello che cerca essendogli aperto il pensiero con qualche precetto e mostratogli le vie e quasi i lochi dove fondar si debba, che se solamente attendesse al generale» ci viene detto che per quanto non si possano dare delle regole di carattere tale da poter essere sempre messe in pratica dal cortigiano, devono essere devono essere date delle avertenze, una serie di avvertenze che devono riguardate il tempo, il modo il luogo, il momento eccetera secondo cui il cortegiano deve procedere.
? tempi, luoghi, circostanze. La distinzione per parti ci viene data al capitolo settimo. Regola generalissima è quella già data precedentemente dal Canossa: evitare l’affettazione. E poi cosa bisogna considerare? «Appresso consideri ben che cosa è quella che egli fa o dice e ‘l loco dove la fa, in presenzia di cui, a che tempo, la causa perché la fa, la età sua, la professione, il fine dove tende e i mezzi che a quello condur lo possono; e cosí con queste avvertenzie s’accommodi discretamente a tutto quello che fare o dir vole». Ecco, quando viene messo in evidenza, viene messo in evidenza proprio in relazione proprio a tutta questa serie di situazioni: tempi, luoghi, circostanze, condizione stessa del cortegiano: in questo suo operare deve porsi con discrezione.
Alcuni esempi. Guardate che questo ha a che vedere con tutta una serie di elementi, io mi limito ad estrapolarne alcuni, per esempio quello che è libero di fare in privato, non è altrettanto liberi di fare in pubblico: c’è sempre il fatto che deve essere pronto ad esercitare un controllo su di sé per come si manifesta. Poi quello che il cortegiano può fare, per esempio, in presenza di cortegiani maschi, non deve essere fatto in presenza di donne. Quello che va bene chi è un cortegiano vecchio, non va bene per un cortegiano giovane. Situazioni e modi diversi.
Compare il tema dell’amore. Quello che può essere interessante da dire subito è che proprio il tema dell’amore si insinua proprio in questo. E qui la caricatura del cortigiano più vecchio Morello di Ortona che si offende tantissimo quando gli si dice che l’amore non si addice ai vecchi. Il discorso che sempre punta qu quello che si era già detto in relazione la primo libro: evitare l’affettazione, seguire l’ordine, la proporzione, la convenienza, la misura ma con grande attenzione e cautela: c’è il problema della prudenza.
La conversazione. Per cui può essere necessario simulare e dissimulare: bisogna stare molto attenti alle persone con cui ci si trova e a quello che si fa. Cautela che richiede anche un adattamento. Per esempio nella conversazione, nell’intrattenimento quotidiano: teniamo presente che tutte le buone condizioni del cortigiano non sarebbero messe a frutto in modo sufficiente per formare il perfetto cortigiano se non avesse una gentil ed amabile maniera del conversare cortigiano. Il conversare, che è legato alla parola naturalmente, ma il modo di porsi in relazione nella corte, nei suoi due poli possiamo dire: la conversazione col principe, e la conversazione con gli altri cortigiani. La conversazione col principe può introdurre anche degli elementi di rischio non indifferente. Ci sono qui aspetti che introducono anche elementi di carattere realistico per quello che riguarda la condizione di Italia e la situazione la situazione del cattivo principe. La conversazione deve essere tale da essere svolta in modo opportuno ed adeguato, varia nel tempo, muta nel tempo anche di giorno in giorno.
Regola generalissima. Il nostro perfetto cortigiano deve essere capace di adeguarsi al mutamento costante: non si può dare nessua regola in questo se non proprio ricordare ancora che la discrezione deve essere sua norma e regola di comportamento.
La brillante conversazione: le facezie. Naturalmente una parte interessante particolarmente è quella data dal brillante conversare ci corte, e sul tema del brillante conversare di corte si introduce l’ampia digressione sulle facezie. Che è una delle parti che pur costituiscono una sorta di digressione episodio nel discorso a sé stante, collegato al tema della corte, non autonoma, però c’è una trattazione vera e propria sui motti e sulle facezie. Qui esemplata in modo molto abile letterariamente sul secondo libro del cortegiano.
Il mago delle facezie: il Bibbiena. E qui il Fregoso ha una spalla, un secondo personaggio che è il Bibbiena. L’arguto per eccellenza, l’abile per antonomasia nell’arte della facezia, il Bibbiena come esperto nella trattazione non solo conduce avanti e poi completa questa parte relativa alla facezia, ma introduce un ultima parte che completa quello che non ci poteva essere in Cicerone naturalmente, e cioè le burle.
? la beffa. Qui c’è un aspetto che ci introduce al terzo libro: le novelle: le burle introducono il racconto da parte del Bibbiena, gustosissimo, di racconti di burle. Si introduce la vera e propria novella di beffa. Bibbiena le racconta naturalmente come burle che erano state davvero fatte, e alcune di queste burle il Bibbiena stesso le ha avute.
Lonestà delle donne. Ma la cosa che ci interessa è che viene introdotto come rappresentante e scrittone di novelle di beffa il Boccaccio. E sono discusse in termini di casistica le novelle di beffa del Boccaccio come se si trattasse di episodi effettivamente avvenuti. E dato che nelle novelle di beffa Boccaccio rappresenta le donne beffatrici e beffate, si introduce il tema dell’onestà della donna. Tema già accennato nel contesto dei motti da parte del Bibbiena, perché i motti, le facezie devono avere una misura, non devono screditare: e ci sono degli oggetti che assolutamente non devono essere screditati o colpiti: l’onestà della donna non deve essere mai colpita, non ci deve essere il modo di morderla sull’onestà, perché l’onore per una donna è l’elemento fondante. Onore legato ad onestà: come l’onore nelle armi dell’uomo così l’onestà della donna non deve essere svergognato, nemmeno se la donna fosse disonesta. Si può mordere solo allusivamente, non colpendo. Su questo piano si introduce la battaglia sulle donne, e la svolta: l’istituzione della figura della donna di palazzo.
La conclusione del II Libro ci consente come viene ad essere introdotto questo tema che non è presente fin dall’inizio del gioco di formar con parole il perfetto cortegiano, e qui viene ad essere introdotto un altro tema, parallelo e a questo collegato, che è formare con parole la perfetta donna di palazzo. Teniamo presente che in linea di massima ci saranno una o due occorrenze del termine cortigiana, perché cortegiana nella lingua del tempo voleva dire meretrice, quindi in linea di massima si tende a non usarlo per la donna di palazzo, per evitare equivoci. Come accennato il mutamento rispetto alla redazione precedente si fa consistente perché la modificazione della parte finale del II libro è funzionale alla modificazione di quello che era il terzo libro della seconda redazione, che si sdoppia, con midificazione (con dimezzamento) di parti, nel III – IV della terza redazione. Allora, avevo accennato come qui di fatto viene introdotto il discorso, come sempre come se si trattasse di un occorrenza naturale nel contesto della discussione, all’interno, o meglio alla conclusione della trattazione che sta svolgendo il Bibbiena, Bernardo Bibbiena, sulle facezie. Avevamo visto come la digressione relativa alle facezie occupi una buona parte del II libro, in questa digressione che è iniziata da Fregoso che è colui che ha il compito di svolgere la trattazione sul cortegiano nel secondo libro, ad un certo punto introduce l’esperto, per così dire, che è appunto l’arguto cardinale Bibbiena. Il Bibbiena per l’appunto svolge questa parte sia riattualizzando i modelli di riferimento: e modello strutturale è in primo luogo anche per questa parte, lo abbiamo detto, la digressione sulle facezie del secondo libro ciceroniano del De Oratore; e poi aggiunge un ultima parte che è tutta moderna e che riguarda le cosiddette burle, cioè le beffe. In questa parte non fa solo riferimenti ad episodi che narra come effettivamente accaduti al suo tempo, ma fa riferimento anche alle novelle di beffa del Boccaccio: nel capitolo LXXXIX all’inizio, citando le novelle di beffa del Boccaccio, faceva riferimento alle notissime novelle di Bruno e Buffalmacco, nei confronti di Calandrino e Maestro Simone, e citava le molte altre novelle «di donne che sono veramente ingegnose e belle». Svolgeva poi il racconto relativo alle burle e spiegava come al cortigiano però non si adattino quelle burle che assomigliano piuttosto a truffe: e dunque i cortigiani devono evitare quel tipo di burle come truffe, e devono invece essere attenti alle convenienze e al modo. Non devono neanche mettere a segno delle beffe che siano tropo aspre, troppo acerbe e conclude il capitolo LXXXIX dicendo che le beffe devono «aver rispetto e reverenza, così in questo come in tutte le altre cose, alle donne, e massimamente non intervenga offesa della onestà». Avevamo accennato che qui subito insorge il Pallavicino, Gasparo, che subito accusa il Bibbiena di essere troppo parziale, nei confronti delle donne, e con una serie di domande incalzanti che mostrano bene come appunto il Pallavicino si senta sul vivo, mette in evidenza che ritiene ingiusto che le donne debbano avere un privilegio in questo senso nei confronti degli uomini, perché se agli uomini deve essere cara l’onestà delle donne, altrettanto alle donne deve essere caro l’onore degli uomini. E Bibbiena non intendeva dire che alle donne non doveva essere caro l’onore degli uomini, ma il Bibbiena voleva sottolineare che le donne non devono essere attaccate con burle o facezie che riguardino la loro onestà, mentre in relazione al tema dell’onestà questo può essere fatto nei confronti degli uomini in modo più indolore rispetto alle donne; e qui mette in evidenza la disparità di condizione che è una disparità di condizioni sociali e di costume. Alle donne sono posti dei freni molto più stretti per cui certi comportamenti che se fatti dagli uomini non sono tali da indurre a giudizi negativi per quanto li riguarda, invece basta soltanto che ci sia una parola fuori posto, una falsa accusa, una calunnia nei confronti dell’onestà delle donne che questo comporta un grave disonore per la donna stessa. E conclude dicendo: « però essendo il parlar dell’onestà delle donne tanto pericolosa cosa da offenderle gravemente, dico che dovemo morderle in altro e astenerci da questo; perché pungendo la facezia o la burla troppo acerbamente, esce del termine che già avemo detto convenirsi a gentilomo». Il gentiluomo è appunto colui che deve essere l’uomo di corte: il perfetto cortigiano che deve essere gentiluomo. E come sempre viene ad essere introdotta una sorta di pausa mediante la cornice diegetica: quando un personaggio aspetta un momento prima di riprendere a parlare si inserisce un altro personaggio che può o far domande o porre un obiezione o vivacizzare il discorso. E qui interviene un altro personaggio autorevole, ridendo: molto spesso questa espressione ricorre, come pure nel testo ciceroniano. C’è la sottolineatura anche della piacevolezza del fatto che qui si tratta formalmente di un gioco. Allora il signore Ottaviano Fregoso aggiunge una notazione di carattere misogino nei confronti delle donne, e la introduce attribuendo questo parere al Pallavicino, o meglio suggerendo una obiezione che potrebbe fare il Pallavicino; dirà che non è lui che ha questa opinione la ma attribuisce al misogino-Pallavicino. attribuisce appunto al Pallavicino che se è stata fatta questa legge nei confronti delle donne, e cioè della necessità di tenerle a freno per quanto riguarda la continenza questo è dovuto alla loro natura, e le donne qui sono definite «animali imperfettissimi». Animali vuol dire esseri animati; imperfettissimi cioè: le donne avrebbero un grado tale di imperfezione ed avrebbero una così scarsa o nessuna dignità rispetto agli uomini, per cui era assolutamente necessario, essendo la continenza femminile indispensabile, per aver certezza dei figlioli, che si ponessero alle donne dei freni così stretti. Se nei termini della continenza e dunque, questo è collegato con l’onestà ovviamente, sono posti dei freni così stretti si consente alle donne invece di non guardare a tanto invece per quello che riguarda altre qualità. E allora si pone una obiezione: se per poter pungere, sia pure in modo adeguato, è necessario pure pungere dove vi sia un difetto o una mancanza, e quindi qualcosa di non conveniente nel comportamento di chi viene morso o punto, essendo l’unico quel freno che è posto alle donne relativo alla continenza, se si toglie la possibilità di toccarle sul piano dell’onestà, di fatto si toglie la possibilità di fare motti, facezie o burle nei loro confronti. Interviene la duchessa. Ecco, in questa parte finale del libro non casualmente la duchessa assume più spazio. E qui c’è una schermaglia tra personaggi: la duchessa accusa Ottaviano di parlare male delle donne, e in questo modo non può pretendere che le donne lo amino. Ottaviano si schernisce dicendo che non ha nessun desiderio che le donne lo amino, e dice comunque che non è la propria opinione, ma quella di Gasparo, opinione che Gasparo potrebbe appunto allegare. A questo punto interviene Bernardo il quale dice che sarebbe una bella cosa se si potesse battere in un sol colpo i due nemici delle donne, Ottaviano e Gasparo, e farli riconciliare con le donne e questo suscita di nuovo un intervento del Pallavicino che nega assolutamente di essere nemico delle donne, e dice che invece sono loro ad essere nemiche degli uomini. E qui si torna sul tema e anche sulla casistica delle facezie e delle novelle del Boccaccio: come già vi avevo accennato vengono poste sullo stesso piano episodi che si definiscono effettivamente accaduti, come lo scambio di battute che sarebbe avvenuto alla corte spagnola tra questo Alonzo Carilllo e la signora Boadiglia, e quello che il Boccaccio aveva raccontato nelle sue novelle. E qui vengono accennate tre novelle del Boccaccio: viene dunque fatto un confronto ed una discussione su una casistica che viene posta in evidenza e discussa in modo diverso dai due personaggi di Gasparo Pallavicino e del Bibbiena. Per quello che riguarda la facezia relativo ad Alonso Carillo e alla Boadiglia fa richiamo a quello che aveva detto in una parte precedente il Bibbiena e viene ridiscusso a confronto con un’altra battuta successiva, su questo non mi soffermo, ma mi interessa quello che riguarda le novelle del Boccaccio. Le novelle del Boccaccio che sono in discussione sono due della VII giornata, cioè la giornata delle beffe che le donne fanno ai loro mariti, e una, che è una novella pure di beffa, ma che fa parte della III giornata (la VI della III giornata). Gasparo Pallavicino ritiene in questo senso che sia di nuovo una dimostrazione della parzialità da parte del Bibbiena che non vuole riconoscere che ci debba essere uguale diritto degli uomini a beffare le donne, di quanto non sia viceversa. E qui Bibbiena in primo luogo vorrebbe sottrarsi al discorso, si rivolge all’uditorio, perché il compito che gli è stato affidato non è quello di svolgere un discorso in relazione a ciò che è pertinente per gli uomini o per le donne, ma di un discorso soltanto per quello che riguarda le facezie. E ritiene di aver detto sufficienza quello che può essere una risposta a Gasparo, perché già ne aveva parlato a sufficienza, quando aveva stabilito, nel contesto del suo discorso sulle facezie, quelli che erano i termini convenienti e non convenienti, per mordere ed essere arguti e faceti gli uomini e le donne. Ritorna come avevo detto nella casistica delle facezie, il caso dei due personaggi spagnoli che avevo detto, e viene a discutere di quello che riguarda le novelle del Boccaccio. Le novelle del Boccaccio sono discusse come se fossero fatti realmente accaduto; il Bibbiena nega che le donne facciano bene ad ingannare i mariti, però ritiene che si debba considerare il peso della maggiore o minore offesa, e in che modo l’offesa sia stata fatta. Ingegnosi e belli gli spunti del Boccaccio per quello che riguarda queste burle, da non comparare nel modo in cui ha fato il Pallavicino. Per questa ragione: nella sostanza viene paragonata questa beffa di Ricciardo Minutoli a Catella, alle altre due. Allora, nelle altre due novelle che sono le novelle della VII giornata, ci sono due mogli che si fanno beffe del marito eprchè hanno entrambe un amante. Linganno viene fatto al marito perché le donne desiderano per c’è mantenere il loro rapporto amoroso con l’amante, quindi esercitare la propria volontà. Invece molto più spinosa è la novella di Catella e Ricciardo Minùtoli. Ricciardo Minutoli si era innamorato di questa donna, che era la moglie di Filippello, nobile suo amico tra l’altro. Siamo a Napoli, e la donna non voleva saperne di lui perché era innamorata del marito ed era gelosissima del marito. Allora Ricciardo Minutoli si avvale di un inganno: appunto facendo leva sulla gelosia della donna. Finge che il marito di lei abbia un’amante e che si vogliano incontrare con questa amante in un bagno (i bagni erano luoghi di incontro anche amoroso) e finge di darle le precise indicazioni di questo appuntamento, sicuro che Catella, gelosissima, vorrà intervenire. Catella infatti crede di poter svergognare il marito, arriva sul luogo del presunto appuntamento credendo di arrivare prima dell’altra donna, finge di essere la donna con cui il marito Filippello avrebbe avuto questo appuntamento e attende nel buio l’arrivo del marito. Ha un incontro amoroso con colui che crede essere il marito traditore: in realtà colui con cui ha l’incontro è Ricciardo Minùtoli. Quando poi comincia a offendere il marito cercando di svergognarlo pensando appunto che potesse dimostrare di averlo colto sul fatto, in realtà viene a scoprire che ha avuto un incontro amoroso non con il marito, ma con quello che voleva appunto essere il suo amante. La novella si conclude in un modo tale per cui darà un argomento successivamente a Gasparo Pallavicino, perché Catella si dispera, vorrebbe fuggire, e un po’ con le minacce, un po con le lusinghe Ricciardo Minutoli la convince a restare e alla fine anche per le connotazioni del loro incontro amoroso e per le capacità persuasive di Ricciardo, Catella decide da quel momento di diventare l’amante di Ricciardo, e quindi la novella si conclude con un cambiamento della situazione della donna, ma che però è stata sforzata a fare ciò che non voleva, e infatti il Bibbiena con in testa questa opportunità dell’agire che si tratta di un tradimento indotto da Ricciardo, dicendo, siamo alla fine del capitolo XCIII «Ricciardo con quello inganno sforzò colei e fecela far di se stessa quello che ella non voleva; e Beatrice ingannò suo marito per far essa di se stessa quello che le piaceva». Quindi c’è una netta differenza nell’agire delle due donne e nei risultati delle due donne. Teniamo presente che la novella boccacciana di Catella, è stata bel tenuta presente da Machiavelli nella Mandragola. Naturalmente Gasparo Pallavicino introduce a questo punto il tema della passione amorosa, e dice che quegli inganni che sono fatti per amore, devono essere ammessi così negli uomini come nelle donne, ma l Bibbiena contesta ed esprime un’altra valutazione ed un’altra concezione, esprime una concezione dell’amore sincero, dell’amore veridico, dell’amore proprio del nobile innamorato: il nobile innamorato, il gentiluomo di valore, non farà mai un tradimento di questo genere nei confronti della donna: ama a cuore una donna e desidera non diventare il padrone con il tradimento del suo corpo, ma invece desidera vincere la rocca del suo animo. Desidera l’amore della donna come il dono dell’anima della donna a lui e questa è la ragione di fondo, per cui assolutamente esclude qualunque forma di tradimento in amore, vanno esclusi tradimenti, incantesimi, malìe, ma vanno esclusi anche i doni: perché ci potrebbe essere una corrispondenza della donna per utilità. Mentre è il libro scambio del dono amoroso che viene giudicato come degno di un valoroso amante, e che riguarda per l’appunto la rocca dell’anima piuttosto che il possesso del corpo. Ma Gasparo Pallavicino non rinuncia a continuare su questo piano, e introduce un’ulteriore notazione misogina, e si avvale per questa ragione proprio della conclusione della novella di Catella, e cioè sostiene che il tradimento può essere un mezzo per ottenere un fine voluto sostenendo che sempre chi possiede il corpo delle donne è anche signore dell’animo. Il Bibbiena respinge questa ipotesi, anzi questa tesi con una espressione che a noi può sembrare paradossale ma che ha a che fare con i costumi del tempo: assolutamente questo è smentito perché altrimenti le donne amerebbero i mariti, cosa che invece non è. Sappiamo che secondo il costume del tempo i matrimoni erano combinati. Il carattere paradossale di questo non viene comunque rilevato nel discorso, ma si conclude appunto parlando di nuovo del Boccaccio e citando Boccacio interpretato in una chiave misogina: cioè si dice che il Boccaccio, come tutti sanno, era nemico delle donne. E questo fa riferimento naturalmente al Corbaccio, non al Decameron, anche se qualche venatura di misoginia è presente anche lì. Naturalmente qui il dibattito va avanti perché Gasparo non accetta di essere considerato nemico delle donne, e mentre respinge questo fa una affermazione che mette in evidenza ancora la sua misoginia, sostenendo che si trovano ben pochi uomini di valore che generalmente tengano conto alcuno di donne. Bibbiena replica a questo punto che non solo offende le donne ma anche gli uomini. A poi fa una provocazione rivolta alle donne (attenzione, le donne non sono ancora intervenute in questo dialogo-discussione) e dice appunto che allora ha ragione Ottaviano Fregoso, che le donne non se la prendano a meno che non si tocchi la loro onestà perché nessuna delle donne ha ancora reagito. Le donne non reagiscono a parole quanto piuttosto con un azione scenica allusiva: la Duchessa dà un segnale, e tutte le donne ridendo corrono verso Gasparo Pallavicino come se volessero picchiarlo, e farne come le Baccanti d’Orfeo. Dicendo «Ora vedrete, se ci curiamo che di noi si dica male!». Quindi con questa azione scenica questo battibecco-discussione per il momento si conclude e ci si avvia verso diciamo una ulteriore disposizione del libro. Gasparo Pallavicino si lamenta di questa cosa, ma tutti ormai si sono alzati in piedi, il sonno che potevano avere se ne è andato, e accusa le donne di voler usare la forza invece della ragione e di aver fatto ricorso ad una licenza boccaccesca, di un congedo fatto con la forza come farebbe un soldato. Allora si introduce il tema del conflitto, del confronto tra misogini e filogini rappresentato nei termini di una battaglia cavalleresca. Allora, questo aspetto era assolutamente centrale nella redazione precedente (teniamo presente che qui noi abbiamo visto Ottaviano Fregoso accendere le polveri con quella espressione relativa alle donne come animali imperfettissimi, però è soprattutto Gasparo Pallavicino che sostiene le posizioni misogine) nella redazione precedente era lo stesso Ottaviano Fregoso a fare questo: le battute che abbiamo visto attribuite al Pallavicino erano di Ottaviano Fregoso, e l’articolazione era diversa, ma sono particolari su cui non entro. Allora Emilia Pio propone che intervenga un cavaliere: propone che si dia battaglia per sconfiggere in campo questa metaforica battaglia cavalleresca a Gasparo Pallavicino e alla sua posizione misogina. E investe, nel ruolo di cavaliere difensore delle donne, il magnifico giuliano, che è stimato protettore dell’onore delle donne, ed adesso deve dimostrare per l’appunto, se davvero è così, se la sua fama è meritata. Ricordiamo che questo gusto delle battaglia, dei confronti, delle dispute, rappresentate nella metafora delle battaglie cavalleresche è un elemento cortigiano, ben presente nelle corti di fine quattrocento inizio cinquecento. Non è un caso che la forma iniziale della discussione è presentata come dei cavalieri alla presenza delle donne, è presente anche negli Asolani. In questo senso si inserisce in un gusto che non casualmente, per quanto ne riguarda l’origine, era stato definito vetero-cortigiano: questo gusto della battaglia cavalleresca, degli scontri come se fossero scontri in armi da cavalieri, contrassegnava molto fortemente la seconda redazione, non solo questa parte finale del secondo libro, ma fondamentalmente tutta la discussione sulle donne dell’originario terzo libro della seconda redazione era tutto articolato in modo anche piuttosto pittoresco, con battute che sottolineavano anche a livello lessicale l’elemento della battaglia, era contrassegnato fortemente in questo modo. Qui rimane una sorta di macchia di colore quasi soltanto alla conclusione di questo secondo libro, nel terzo non è ripreso allo stesso modo, e questa sottolineatura della disputa come battaglia cavalleresca è di fatto lasciata largamente cadere.
Come sempre quando un personaggio è investito di un compito, come abbiamo visto per altri passaggi, c’è da parte sua uno schermirsi nel giudizio che dà di sé (topos modestie anche per il personaggio) di essere inadatto allo scopo. E d’altra parte nell’opera del Castiglione al consueto topos modestiae si somma anche l’effetto della sprezzatura. Quindi di fatto ciò di cui è capace un personaggio deve essere nascosto, simulando una condizione diversa, rispetto a quella che è la propria in modo tale da manifestare un modo di essere di sé che verrà manifestato e meglio apprezzato dagli altri. In un primo momento il Magnifico Giuliano interviene dicendo che non sarebbe più necessario condurre avanti il discorso, perché la cosa è più chiara che il sole; che Ottaviano Fregoso ha fatto male anche solo beffando, perché egli è personaggio di autorità, a spingere il Pallavicino a prendere delle posizioni che offendono le donne m anche gli uomini. E che come gentiluomini hanno come compito e come condizione quella di riverire e rispettare le donne, e che secondo lui sarebbe anche inutile condurre troppo aventi il discorso perché la questione è più chiara che il sole, e dimostrare una cosa che è chiara significa rischiare di intorbidirla, rendendola meno chiara. D’altra parte affermando la parità della virtù tra uomini e donne afferma anche che per poter condurre ad armi pari il combattimento bisognerebbe che ci fosse una costruzione di una figura equivalente a quella del perfetto cortigiano. Se deve difendere in modo adeguato le donne, e deve contrastare quello che dice il Pallavicino, deve questa donna di palazzo avere al tempo stesso le qualità, le perfezioni che sono state date al cortigiano. Naturalmente on attribuisce questo a sé (cap 98)« Ma, se la cosa avesse da esser pari, bisognarebbe prima che un tanto ingenioso e tanto eloquente quanto sono il conte Ludovico e messer Federico» cioè coloro che hanno svolto la trattazione nel primo e nel secondo libro «formasse una donna di palazzo con tutte le perfezioni appartenenti a donna, cosí come essi hanno formato il cortegiano con le perfezioni appartenenti ad omo; ed allor se quel che diffendesse la lor causa fosse d’ingegno e d’eloquenzia mediocre, penso che, per esser aiutato dalla verità, dimostraria chiaramente che le donne son cosí virtuose come gli omini». Prima va formata la donna di palazzo, e poi chi è più eloquente può controbattere. Siamo nel contesto del nostro gioco: interviene Emilia Pio che dice: «Anzi molto piú», e cioè non l’uguaglianza tra gli uomini e le donne, ma l’eccellenza delle donne. E introduce un paradosso, puramente linguistico: «e che cosí sia, vedete che la virtú è femina e ‘l vicio maschio». L’idea che si formi una perfetta donna di palazzo è quella che consente una trasformazione radicale rispetto all’impianto precedente che appunto aveva il vecchio terzo libro, impostato sulla fine di questo secondo. Che cosa succedeva nel vecchio terzo libro? Faceva capolino quest’idea che si potesse formare, creare con parole la perfetta donna di palazzo, alla fine del vecchio terzo libro, come un altro gioco rimandato ad un’altra sera. Invece viene ad essere modificato l’assetto e in modo funzionale: perché viene totalmente riorientato il discorso sulle donne e la disputa sulla virtù e l’eccellenza della donne perché questo discorso è inserito in un ambito in cui innanzitutto viene preposta la formazione della perfetta donna di palazzo come figura che si pone in parallelo rispetto al perfetto cortigiano. Introducendo appunto una variazione in corso d’opera (sia per i dialoghi rappresentati, sia per la stessa redazione dell’opera) così che viene modificata nella sostanza la struttura. Naturalmente ci sono ancora le battute finali prima della conclusione del libro. E qui viene chiamato in campo l’altro misogino. Il fisia si fa portavoce degli stereotipi sulle donne. Più di una volta ho detto che il Frigio è il personaggio in relazione al quale il Castiglione aveva pensato di scrivere una sorta di trattatello in forma di lettera proprio in difesa delle donne: quello che è un nucleo genetico in relazione alla trattazione sulle donne, in primo luogo ci è appunto consegnata da questa lettera che ci rimane seppur mutila tra le carte del Castiglione. Probabilmente questo era sorto come nucleo genetico che aveva a che fare coi vari argomenti da trattare nel contesto del discorso sulle corti. Poi era stato inglobato venendo a costituire quella sorta di coacervo che era il vecchio terzo libro, e adesso viene ripreso e modificato nell’assetto. C’è un passaggio alla conclusione del libro: il Pallavicino e il Frigio si prendono il gioco del magnifico giuliano dicendo che egli non potrà certo fare ciò che egli promette; Emilia pio contraddice su questo e interviene la duchessa: fa più di un intervenendo e nel 99 fa un intervento come espressione di autorità, non casualmetne usando il verbo volere. Primo intervento riguarda il regolare il tempo: abbiamo visto che la duchessa è quella che dà la norma e la regola: per essere l’ora molto tarda voglio che differiamo il tutto a domani; e d’altra parte la duchessa è d’accordo su quello che ha detto il magnifico giuliano, «tanto piú perché mi par ben fatto pigliar il consiglio del signor Magnifico: cioè che, prima che si venga a questa disputa, cosí si formi una donna di palazzo con tutte le perfezioni, come hanno formato questi signori il perfetto cortegiano». Dopo due battute di Emilia Pio e Frigio poi riprende la parola la duchessa: «Io voglio, – disse, – confidarmi del signor Magnifico» e attribuisce al magnifico giuliano il compito di imagginare, di pensare in modo tale da poter delineare quella perfezione che appunto si possa desiderare nella donna di palazzo. E esprimerla con parole. Il procedimento è duplice e non è casuale: immaginare vuol dire avere una creazione di carattere mentale, che deve essere poi tradotta in maniera adeguata in parole «e cosí averemo che opporre alle false calunnie del signor Gasparo». Il magnifico si schermisce, e non sono sufficiente, e non sono al pari con gli altri due, ma poi dice una cosa importante: un’altra cosa che richiama anche il rapporto tra reale ed ideale che avevamo già visto. E dice: «il Conte e messer Federico, i quali con la eloquenzia sua hanno formato un cortegiano che mai non fu né forse po essere» emerge un elemento portato non casualmente dal magnifico giuliano, e che mette in evidenza il carattere ideale di questa formazione: abbiamo già visto che c’è questo doppio piano che continuamente viene proposto; e quella perfezione delineata dal cortigiano veniva anche messa in scena, con sprezzatura, nella presentazione dei dialoghi, però al tempo stesso emerge la consapevolezza dello scarto che c’è tra la realtà e l’ideale. Non è un caso che il magnifico dica questo, uno scarto ancora maggiore ci sarà in ciò che dice il magnifico giuliano all’inizio della sua trattazione dicendo che non ha un modello cui fare riferimento, per la donna di palazzo. E qui esclude i modelli presenti: ha il modello massimo per la regina, che è la Duchessa, ma qui volendo formare la donna di palazzo e non la regina, deve fare una creazione mentale senza modelli. E d’altra parte per riuscire ad ottenere quello che dice di non poter da solo ottenere, proprio perché si è schernito con il topos modestiae, chiede che valgano per lui le stesse regole del gioco, e cioè il poter contraddire, l’intervento degli altri. Il contraddire viene qui messo in evidenza come un modo per poter condurre più oltre il discorso e per poterlo approfondire, e in realtà come vedremo ci sono aspetti della disputa che inevitabilmente rimangono irrisolti: sarebbe irrealistico pensa che i misogini cambino idea: e infatti non cambiano idea, ma vengono battuti. La posizione dominante nel terzo libro è quella dei filogini, senza dubbi.
La Duchessa lo invita dunque a metterci tutto l’impegno e a pensare come formare la donna di palazzo in modo che quelli che si opponevano si vergognino a dire che non abbia pari virtù del cortigiano. La duchessa fa notare, e questo è funzionale a quello che viene dopo , che sarà un bene che Federico non continui più oltre a parlare del cortegiano perché lo ha già ornato fin troppo. Messer Federico dice che gli rimaneva poco da dire, e quel poco se lè dimenticato dopo quella spataffiata sulle facezie. Perché viene detto questo? Perché in realtà l’aspettativa che viene creata nel libro successivo è di un discorso a due voci. In realtà il fatto che Federico abbia qualcosa da dire sarà solo accennato e poi sarà subito fatto uscire di scena. Come la duchessa congeda i nostri? Dicendo che il giorno successivo si sarebbero trovati a buon ora, e dice «aremo tempo di satisfar all’una cosa e l’altra» facendo dunque intendere e creando una aspettativa che anche Federico Fregoso continui e concluda il suo discorso, cosa che verrà messa fuori campo appena Federico inizia a parlare e lui stesso non vorrà più continuare. Il libro si chiude con la cornice, tutti prendono congedo e ognuno si ritira nelle sue stanze.
Indice:
-
Il Cortegiano di Castiglione introduzione di Carlo Zacco
-
La dedicatoria del Cortegiano di Castiglione introduzione di Carlo Zacco
-
1 Libro primo del Cortegiano di Carlo Zacco
-
2 Libro secondo del Cortegiano di Carlo Zacco
-
3.1-3 Libro terzo del Cortegiano (introduzione e primi tre capitoli) di Carlo Zacco
-
3.4-10 Institutio di Carlo Zacco
-
3.11-20 Disputa filosofica di Carlo Zacco
-
3.21-45 Gli exempla Il Magnifico di Carlo Zacco
-
3.46-53 Gli exempla Cesare Gonzaga di Carlo Zacco
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Audio Lezioni sulla Letteratura italiana del cinquecento del prof. Gaudio
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Il Cortegiano di Castiglione introduzione di Carlo Zacco
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La dedicatoria del Cortegiano di Castiglione introduzione di Carlo Zacco
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1 Libro primo del Cortegiano di Carlo Zacco
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2 Libro secondo del Cortegiano di Carlo Zacco
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3.1-3 Libro terzo del Cortegiano (introduzione e primi tre capitoli) di Carlo Zacco
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3.4-10 Institutio di Carlo Zacco
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3.11-20 Disputa filosofica di Carlo Zacco
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3.21-45 Gli exempla Il Magnifico di Carlo Zacco
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3.46-53 Gli exempla Cesare Gonzaga di Carlo Zacco
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