Giovanni Ghiselli: professore di greco e latino
27 Gennaio 2019Giusy
27 Gennaio 2019Giovanni Ghiselli
Autori citati: (in ordine di apparizione): Erodoto, Pirandello, Eschilo, Sofocle, Euripide, Plutarco, Curzio Rufo, Cornelio Nepote, Apollonio Rodio, Demostene, Isocrate, Aristotele, Giusti, Fritz Lang, Woody Allen; Orazio; Shakespeare, Pasolini, Balzac, Tacito, Lucano, Polibio, Tito Livio, Catone il Vecchio, Properzio, Giovenale, Dionigi di Alicarnasso, Marziale, Petronio. Apollineo e Dionisiaco
A proposito degli “altri”, degli stranieri, dei diversi, la letteratura antica ci insegna, a volte, la tolleranza[1]. Partiamo da questo aspetto positivo.
Dalle Storie di Erodoto proviene un insegnamento che rimane valido pure oggi. Si tratta del cosiddetto relativismo erodoteo, considerato da alcuni un tratto che accomuna lo storiografo con la sofistica di Protagora il quale sostenne che l’uomo è “misura di tutte le cose”[2].
Ma il relativismo del sofista tende a mettere in discussione tutti i valori assoluti, a negare, direbbe il gesuita Naphta di La montagna incantata di T. Mann “Dio e l’Assoluto, per darsi in braccio al diabolico antiassoluto”[3], mentre quello di Erodoto non riguarda l’ordinamento del cosmo, non vuole toccare gli dèi né sfiorare gli oracoli, bensì intende rifiutare l’intolleranza.
Nel terzo libro dello storiografo di Alicarnasso troviamo un episodio che afferma il valore della tolleranza e costituisce uno dei più alti insegnamenti della cultura antica.
Il re Dario domandò ad alcuni Greci se sarebbero stati disposti a cibarsi dei loro padri morti, ed essi risposero che non l’avrebbero fatto per niente al mondo.
Quindi il re dei Persiani chiese agli Indiani chiamati Callati” oi{ tou;” goneva” katesqivousi”( 3, 38, 4) i quali mangiano i genitori, a quale prezzo avrebbero accettato di bruciarli nel fuoco, e quelli, gridando forte, lo invitarono a non dire tali empietà. Così, conclude Erodoto, queste usanze sono diventate tradizionali, e a me sembra che giustamente Pindaro abbia fatto affermando che la consuetudine è regina di tutte le cose (“novmon pavntwn basileva fhvsa” einai”).
Il frammento di Pindaro è citato nel Gorgia (484b) di Platone da Callicle, il quale invero dà alla parola novmo” il significato di legge naturale che giustifica la violenza, come quella di Eracle che portò via le vacche di Gerione senza averle pagate né ricevute in dono (“ou[te priavmeno” ou[te dovnto” tou’ Ghruovnou hjlavsato ta;” bou'””).
“Pindaro infatti utilizzava questa massima per giustificare chi non aveva esitato a usare la violenza per affermare il novmo” ellenico sulla barbarie altrui () Al contrario, Erodoto non presenta affatto il novmo” ellenico come valore assoluto, ma () riconosce la parità del novmo” ellenico con quello indiano”[4].
Ebbene questa parola (novmo”) può essere emblematica non solo del relativismo di Erodoto, ma, dato che assume differenti significati quando è usata da autori e personaggi diversi, essa può voler dire anche l’incomunicabilità tra gli uomini e l’ambiguità della condizione umana. A questo proposito sono illuminanti le parole di Vernant e Vidal-Naquet che parlano dell’Antigone di Sofocle, autore di tragedie accostabile per tanti versi allo storico delle guerre persiane :” In bocca ai diversi personaggi, le stesse parole acquistano significati differenti e opposti, perché il loro valore semantico non è lo stesso nella lingua religiosa, giuridica, politica, comune. Così per Antigone, novmo” designa il contrario di ciò che Creonte, nelle circostanze in cui è posto, chiama anche lui novmo”. Per la fanciulla il termine significa “norma religiosa”; per Creonte, “editto promulgato dal capo dello Stato”. E in realtà il campo semantico di novmo” è sufficientemente esteso per comprendere, con altri, ambedue i sensi…Le parole scambiate sullo spazio scenico, anziché stabilire la comunicazione e l’accordo fra i personaggi, sottolineano viceversa l’impermeabilità degli spiriti, il blocco dei caratteri; segnano le barriere che separano i protagonisti, fanno risaltare le linee conflittuali. Ciascun eroe, chiuso nell’universo che gli è proprio, dà alla parola un senso ed uno solo…ciò che il messaggio tragico trasmette, quando è compreso, è appunto che nelle parole scambiate fra gli uomini esistono zone d’opacità e d’incomunicabilità. Nel momento in cui vede sulla scena i protagonisti aderire esclusivamente a un senso e, così accecati, perdere se stessi o dilaniarsi a vicenda, lo spettatore è portato a comprendere che esistono in realtà due sensi possibili, o più. Il messaggio tragico gli diviene intelligibile nella misura in cui, strappato alle sue certezze e alle sue limitazioni antiche, egli riconosce l’ambiguità dei termini, dei valori, della condizione umana. Riconoscendo l’universo come conflittuale, aprendosi a una visione problematica del mondo, egli stesso si fa, attraverso lo spettacolo, coscienza tragica”[5].
L’ambiguità del linguaggio e l’impossibilità di intendersi viene teorizzata da Pirandello nei Sei personaggi: “Ma se è tutto qui il male! Nelle parole!come possiamo intenderci, signore, se nelle parole ch’io dico metto il senso e il valore delle cose come sono andate dentro di me; mentre chi le ascolta, inevitabilmente le assume col senso e col valore che hanno per sé, del mondo com’egli l’ha dentro! Crediamo d’intenderci; non ci intendiamo mai!”[6].
Luogo simile si trova nell’ultimo romanzo dell’Agrigentino, Uno, nessuno e centomila [7]: “il guajo è che voi, caro, non s’aprete mai, né io vi potrò mai comunicare come si traduca in me quello che voi mi dite. Non avete parlato turco, no. Abbiamo usato, io e voi la stessa lingua, le stesse parole. Ma che colpa abbiamo, io e voi, se le parole, per sé, sono vuote? Vuote, caro mio. E voi le riempite del senso vostro, nel dirmele; e io nell’accoglierle, inevitabilmente, le riempio del senso mio. Abbiamo creduto d’intenderci; non ci siamo intesi affatto” (p. 39). Dal diverso valore che due persone danno alla stessa parola nasce allora l’incomprensione e può scoppiare l’intolleranza.
I costumi e anche le parole dunque hanno valore relativo.
Sentiamo il commento di Bettini al celeberrimo episodo erodoteo:” entrambe le volte la domanda di Dario ricevette, come risposta, un diniego pieno di orrore: a nessun prezzo i Greci sarebbero stati disposti a fare quello che fanno gli Indiani Callati, a nessun prezzo i Callati sarebbero stati disposti a fare quello che fanno i Greci. Secondo Erodoto l’esperimento di Dario confermava la sua tesi, ossia che gli uomini considerano i propri costumi (novmoi)-anche quelli che sembrano più bizzarri- i migliori fra tutti i costumi possibili. Almeno a prima vista, dunque, questo testo ci mette di fronte a una testimonianza di non di tolleranza per i costumi altrui, ma, al contrario, di ipervalutazione dei propri. I Greci si mostrano in questo caso fortemente etnocentrici, così come etnocentrici si mostrano anche gli Indiani Callati () Ma che cosa accade se si decide di prendere, sulla situazione, un terzo punto di vista, quello di un osservatore che non è né greco, né indiano? () Proviamo dunque a immaginare che cosa potrebbe pensare Dario (e con lui il lettore di Erodoto) dopo aver sentito le opinioni dei due contendenti. Dario potrebbe concludere non solo che, come Erodoto dichiara, ciascuna comunità considera i propri costumi migliori di tutti gli altri; ma anche che questi costumi (novmoi) sono nello stesso tempo molto relativi, visto che gli uni rifiutavano quelli degli altri con lo stesso identico orrore. Se i Greci rifiutano i costumi dei Callati, e i Callati rifiutano quelli dei Greci, non sarà forse vero che a quel punto né i Callati né i Greci hanno ragione in modo assoluto? A questo punto, se Dario avesse avuto voglia di andare in fondo al suo ragionamento, avrebbe potuto raggiungere la conclusione- forse malinconica- che anche i suoi stessi costumi, quelli che lui condivideva, non potevano che essere altrettanto relativi. Al fondo dell’esperimento di Dario, dunque, sta anche una buona dose di scetticismo. E’ questo l’atteggiamento che permette a Dario di compiere un confronto così spregiudicato.
Siamo dunque di fronte al paradosso di un testo che, nel momento in cui enfatizza la forza assoluta dei costumi, apre contemporaneamente la via a una considerazione relativistica dei medesimi. Il pensiero di Erodoto risulta qui piuttosto complesso-come del resto accade quando si ha a che fare con il problema dell’identità culturale”[8].
“Tutte queste usanze”, commenta C. M. Bowra, “vengono considerate da lui con ammirevole spirito di tolleranza e senza alcuno sdegno per ciò che molti Greci avrebbero considerato come pratiche disgustose e barbare. Egli cita in proposito le parole di Pindaro:”Il costume è re di ogni cosa”; e anche se Pindaro le aveva usate per provare che gli dei possono fare ciò che gli uomini non possono, Erodoto le applica per provare, con spirito assai più generoso, che gli uomini devono agire in base alla loro educazione e alle loro tradizioni”[9].
Erodoto inizia questo capitolo sul relativismo affermando:” in ogni caso secondo me è evidente che molto matto era Cambise (” ejmavnh megavlw” oJ Kambuvsh”” ); altrimenti non si sarebbe messo a schernire religioni e costumi (3, 38, 1).
E possibile applicare questo ejmavnh ai razzisti nostrani e stranieri.
Quando Alessandro Magno arrivò a Menfi (inverno 332-331), in Egitto, sacrificò agli altri dèi e ad Api[10] volendo differenziarsi dal re matto Cambise. Costui, dopo avere conquistato l’Egitto, aveva profanato la tomba del faraone Amasi straziandone il cadavere ( Erodoto, Storie, 3, 16), aveva ferito a morte il vitello Api, fatto flagellare i sacerdoti e uccidere i devoti (3, 29). Poi, sempre più pazzo, fece ammazzare il fratello Smerdi (3, 30) e la sorella, la quale era pure sua sposa (3, 31). Prima di questa del resto ne aveva sposata un’altra, e l’autore ci informa che “i Persiani non usavano affatto sposare le sorelle”. Incestuoso e fratricida dunque. Uccise poi, trafiggendogli il cuore con una freccia, il figlio del dignitario Pressaspe il quale, dietro richiesta del re, lo aveva informato del fatto che i Persiani lo criticavano per l’amore eccessivo del vino[11] (3, 34-35). Inoltre il re persiano aveva cercato di uccidere Creso che lo aveva ammonito di non lasciarsi trascinare dall’ira ( 3, 36). Infine Cambise derideva e bruciava le immagini degli dèi nei santuari (3, 37). Quindi Erodoto giudica pazzo Cambise e motiva questo giudizio: se non fosse stato matto il re dei Persiani non sarebbe arrivato a schernire (katagela’n, 3, 38) religioni e costumi. Infatti se uno invitasse gli uomini a scegliere le usanze migliori, ciascuno sceglierebbe le proprie, poiché ciascuno è convinto che le proprie siano di gran lunga le più belle. Egli era necessariamente un pazzo (mainovmenon a[ndra, 3, 38, 2) poiché
solo un folle mette in ridicolo le tradizioni locali.
Ad Alessandro viceversa sottomettere non bastava. I popoli dovevano riconoscere chegli veniva a casa loro con uno scopo di liberazione e di edificazione, che ne avrebbe rispettato la fede, i costumi, le usanzeIl rispetto che manifestò ai sacerdoti egiziani gli attirò facilmente la simpatia di tale casta, chera stata crudelmente oppressa dall’intolleranza asiatica. Alessandro, impadronendosi dell’Egitto, aveva completato la conquista delle coste mediterranee poste sotto il dominio dei Persiani. La più audace idea politica di Pericle-liberare l’Egitto per consolidare la potenza navale e commerciale di Atene-non era soltanto attuata, ma largamente superata”[12]. Alessandro volle ripagare gli Egiziani dei torti subiti dal re folle, sanguinario, dispotico.
In effetti se c’è un personaggio che suscita riprovazione nella cultura greca della quale il re macedone allievo di Aristotele era imbevuto, questo è il tiranno.
Nelle Storie di Erodoto la teoria antitirannica è attribuita al nobile persiano Otane il quale, durante il famoso dibattito costituzionale del terzo libro, contrappone la monarchia al potere del popolo che prima di tutto ha il nome più bello: ” ijsonomivhn”, poi non fa nulla di quanto perpetra l’autocrate: infatti esercita a sorte le magistrature ed ha un potere soggetto a controllo:” uJpeuvqunon de; ajrch;n e[cei” (3, 80, 6). Lo storiografo attraverso Otane formula già la teoria, poi riproposta da Polibio, secondo la quale la monarchia degenera inevitabilmente in tirannide.
Tra i sette nobili Persiani, quando ebbero parlato anche Megabizo, che propugnava l’oligarchia, quindi Dario, il quale sosteneva la monarchia e l’inevitabilità della degenerazione sia della democrazia sia dell’aristocrazia (3, 82) verso le rispettive forme deteriori, prevalse quest’ultimo con l’argomento che a loro l’indipendenza dai Medi era venuta da un monarca, ossia Ciro il Vecchio. Allora Otane non entrò in lizza per diventare re, dicendo parole belle assai, una specie di manifesto dell’antisadismo:”ou[te ga;r a[rcein ou[te a[rcesqai ejqevlw” (3, 83, 2), infatti non voglio comandare né essere comandato.
Tiranno per il greco Erodoto è anche il mouvnarco”[ [13] raffigurato da Otane, nel dibattito sulla migliore costituzione (3, 79-84): costui è uno che invidia i migliori, si compiace dei peggiori, ed è pronto ad accogliere le calunnie. Infatti dai beni che possiede gli deriva l’u{bri” , mentre fin dall’origine gli è connaturato lo fqovno”, l’invidia. Siccome ha questi due vizi, e[cei pa’san kakovthta, detiene ogni malvagità (3, 80, 4). Insomma egli: “novmaiav te kinevei pavtria kai; bia’tai gunai’ka” kteivnei te ajkrivtou”” (3, 80, 5) sovverte le patrie usanze, violenta le donne e manda a morte senza giudizio.
La mania della distruzione delle intelligenze fa parte dalla mente autocratica: sappiamo, sempre da Erodoto, che la scuola dei tiranni insegna a uccidere gli oppositori in generale, e, prima di tutti, chiunque dia segni di intelligenza e indipendenza. Periandro di Corinto, quando era ancora un despota apprendista e la sua malvagità non si era scatenata, accolse il suggerimento di Trasibulo di Mileto il quale:”oiJ uJpetivqeto QrasuvbouloÏ, tou;” uJperovcou” tw’n ajstw’n foneuvein”, gli consigliava di mettere a morte i cittadini che si distinguevano ( Storie , 5, 92 h). Il despota esperto aveva dato il consiglio criminale in maniera simbolica: mostrandosi a un araldo, mandato da Corinto a domandargli come si potesse governare la città nella maniera più sicura e bella, mentre recideva le spighe più alte di un campo di grano. Periandro comprese e allora rivelò ogni malvagità (” ejnqau’ta dh; pa’san kakovthta ejxevfaine”).
Anche il nobile persiano fautore dell’ ijsonomivh usa l’espressione pa’san kakovthta (3, 80, 4), ogni malvagità, conseguenza dell’ u{bri”, la prepotenza, a sua volta originata dall’invidia e dai beni a disposizione del monarca ( “uJpo; tw’n parevontwn ajgaqw’n”, 3, 80, 3).
“Così il persiano Otane riassume ciò che è in sostanza il motivo comune fra i Greci per l’opposizione alla tirannide”[14].
Dai capitoli erodotei ricordati sopra derivano i modelli costituzionali della filosofia ( Platone, Aristotele ) e della storiografia (Polibio) successive.
Dico non solo della storiografia greca. Tito Livio attribuisce lo stesso gesto di Trasibulo, con le stesse intenzioni, al re Tarquinio il Superbo, il quale indicò al figlio Sesto cosa fare degli abitanti di Gabi con un’analoga risposta simbolica, senza parole:” rex velut deliberabundus in hortum aedium transit sequente nuntio filii; ibi inambulans tacitus summa papaverum capita dicitur baculo decussisse “(1, 54), il re quasi meditabondo passò nel giardino della reggia seguito dall’inviato del figlio; lì passeggiando in silenzio, si dice che troncasse con un bastone le teste dei papaveri[15].
Nelle tragedie il tiranno è il paradigma mitico di questo principio.
La mancanza di controllo ne fa l’antitesi del capo democratico. Tale è Edipo finché non comprende, tale il Creonte di Sofocle, tale, nei Persiani di Eschilo, Serse altro grande re persiano, il quale, pur se sconfitto, non è “uJpeuvquno” povlei” (v. 213), tenuto a rendere conto [16] alla città, come invece lo è uno stratego eletto dal popolo.
Eschilo contrappone al potere assoluto il sistema democratico di Atene quando, nei Persiani, la regina Atossa domanda ai vecchi dignitari chi sia il pastore e il padrone dell’esercito. Allora il corifeo risponde:”ou[tino” dou’loi kevklhntai fwto;” oujd j uJphvkooi” (v. 242), di nessun uomo sono chiamati servi né sudditi.
Nelle Supplici di Euripide, Teseo è il Pericle in vesti eroiche il quale elogia la costituzione democratica dialogando con l’araldo mandato da Creonte, tiranno di Tebe. Atene dunque non è comandata da un uomo solo, ma è una città libera (ejleuqevra povli” , v. 405). L’araldo di Creonte ribatte che il governo di un solo uomo non è un male: infatti il re esclude i demagoghi, i quali, gonfiando la folla con le parole, la volgono di qua e di là a proprio profitto. Del resto chi lavora la terra non ha tempo né per imparare né per dedicarsi alle faccende pubbliche:” oJ ga;r crovno” mavqhsin ajnti; tou’ tavcou” -kreivssw divdwsi (vv. 419-420), è infatti il tempo che dà un sapere più forte invece della fretta.
Teseo non controbatte la critica ai demagoghi, che condivide, ma risponde che il tiranno è l’entità più ostile alla polis:” oujde;n turavnnou dusmenevsteron povlei” (v. 429). Egli infatti uccide i migliori, quelli dei quali considera la capacità di pensare, in quanto teme per il suo potere:”kai; tou;” ajrivstou” ou{” a]n hJgh’tai fronei’n-kteivnei, dedoikw;” th'” turannivdo” pevri” (vv. 444-445). Sicché la città si indebolisce: come potrebbe essere forte quando uno miete i giovani come da un campo di primavera si porta via la spiga a colpi di falce? (vv. 447-449). Inoltre il despota si impossessa dei beni altrui rendendo vane le fatiche di chi voleva acquistare ricchezze per i propri figli. Per non parlare delle figlie che l’autocrate vuole rendere strumenti del suo piacere.
l’Elettra di Euripide recitando il biasimo funebre di Egisto allude, con pudica e verginale aposiopesi, alle porcherie che l’usurpatore faceva con le donne:”ta; d j eij” gunai’ka”, parqevnw/ ga;r ouj kalo;n-levgein, siwpw’ ” (Elettra, vv. 945-946).
Si vede che sono gli stessi motivi della storiografia.
Del resto non sono molto diversi i tiranni bolliti, con “alte strida”, nel Flegetonte dell’Inferno di Dante:”Io vidi gente sotto infino al ciglio;/e ‘l gran Centauro disse:” E’ son tiranni/che dier nel sangue e nell’aver di piglio” (XII, 103-105. Settimo cerchio-violenti-primo girone).
Il tiranno insomma è un intollerante e un sanguinario che deve essere confutato e combattuto. Anche lui del resto, se giunge alla resipiscenza, può avere delle attenuanti sospensive del castigo meritato dalla sua u{bri~.
Ad Atene intorno al 630 a. C. il nobile Cilone cercò di instaurare la tirannide mettendosi a capo dei contadini e occupando l’acropoli, ma il tentativo fu represso con violenza da Megacle Alcmeonide, che, seguace di Apollo delfico, fece ammazzare i ciloniani rifugiatisi invano nel tempio delle Erinni, le dee venerande della religione orfico-dionisiaca. Ebbene questo gesto da supplici avrebbe dovuto salvare i seguaci dellaspirante tiranno. Infatti gli Alcmeonidi uccidendoli si macchiarono di sacrilegio, e, chiamati maledetti, erano odiati (“klhqevnte” ejnagei'” ejmisou’nto”, Plutarco, Vita di Solone , 12, 2); quindi i ciloniani sopravvissuti li combattevano. Agli inizi del VI secolo (596 a. C.) Solone, già famoso (h[dh dovxan oJ Sovlwn e[cwn”, Vita, 12, 3), si fece avanti e convinse i cosiddetti sacrileghi a sottoporsi al processo (“e[peise tou;” ejnagei'” legomevnou” divkhn uJposcei’n” Vita, 12, 3). Allora trecento giudici scelti tra gli ottimati riconobbero la loro colpevolezza: i vivi furono esiliati , e degli altri gettarono oltre confine i cadaveri riesumati (“tw’n d j ajpoqanovntwn tou;” nekrou;” ajnoruvxante” ejxevrriyan uJpe;r tou;” o{rou””(Vita, 12, 4).
Condanna di una cultura diversa da parte di Curzio Rufo.
Alessandro Magno dopo avere sconfitto Dario III a Gaugamela (ottobre 331 a. C.) entrò a Babilonia che gli aprì le porte. Ebbene, secondo Curzio Rufo da questo momento iniziò la degenerazione del conquistatore e il decadimento del suo esercito. Il soggiorno in questa città pregiudicò la disciplina militare. Infatti i costumi babilonesi sono i più corrotti e nessun luogo è più attrezzato per stimolare e allettare sfrenate passioni.
: Nihil urbis eius corruptius moribus, nihil ad inritandas inliciendasque immodicas cupiditates instructius » ( Historiae Alexandri Magni, 5, 1, 36). La condanna di questa cultura diversa è assoluta.
Quindi Curzio Rufo continua a descrivere i costumi babilonesi con disprezzo. Padri e mariti prostituiscono mogli e figli (Historiae Alexandri Magni, 5, 1, 37). Tutti si abbandonano al vino e allubriachezza. Le donne che vanno ai banchetti dapprima si comportano con dignità, poi, si sfilano le sopravvesti e, a poco a poco pudorem profanant, (5, 1, 38), disonorano il pudore; alla fine, ima corporum velamenta proiciunt, gettano via anche
gli indumenti intimi, e questo non solo le meretrici ma anche matrone e ragazze: da loro comitas habetur, è considerata una cortesia vulgati corporis vilitas (5, 1, 38) il corpo venduto a buon mercato.
Di nuovo la tolleranza di Erodoto.
Erodoto, viceversa, racconta di un novmo” babilonese assai strano che egli tuttavia considera sofwvtato”, avvedutissimo (1, 196): lì le ragazze belle vengono messe in vendita per essere sposate. Con il denaro ricavato si comprano il marito le brutte:”to; de; crusivon ejgivneto ajpo; tw’n eujeidevwn parqevnwn, kai; ou{tw” aiJ eu[morfoi ta;” ajmovrfou” kai; ejmphvrou” ejxedivdosan” (Storie, I, 196, 3), il denaro veniva dalle ragazze di bell’aspetto, e così le belle davano in matrimonio le brutte e le storpie. Questo, secondo l’autore, era il loro costume antico più bello (kavllisto” novmo”), mentre è meno encomiabile, aggiunge, quello recente di prostituire le figlie.
Anche Droysen sottolinea l’antichità e la dignità della cultura babilonese, non in grado comunque di reggere il confronto con quella greca: A Babilonia si viveva ancora in mezzo ad una cultura millenaria. Si scriveva in caratteri cuneiformi su tavolette dargilla. Si osservava e si calcolava il corso degli astri. Simpiegava un sistema metrico perfezionato. E gli abitanti avevano conservato l’antica abilità in tutti i campi delle arti e dei mestieri. Ed ecco i primi elementi ellenici entrare in questa vita raffinata, strana e multicolore, insignificanti per numero, ma dotati duna potenza dassimilazione e di fecondazione in cui risiedeva il segreto della loro superiorità”[17].
Erodoto insomma permea le sue storie con una religiosità non dogmatica[18], secondo la quale aleggia nel cosmo un numinoso che viene interpretato in vari modi dai singoli popoli. Il che non toglie che si verifichino coincidenze di usi tra genti lontane e culture per molti altri aspetti diverse: in 6, 58, 2 per esempio egli nota che “gli Spartani per le morti dei re hanno la stessa usanza che i barbari d’Asia (novmo” ejsti;…wJuto;” kai; toi’si barbavroisi toi’si ejn th’/ jAsivh/), e, in 6, 60 che in un altro uso i Lacedemoni concordano con gli Egiziani: araldi, flautisti e cuochi ereditano il mestiere dal padre.
Il relativismo culturale del resto non è professato soltanto da Erodoto : nella letteratura latina lo ritroviamo in Cornelio Nepote il quale nel Proemio al Liber de excellentibus ducibus exterarum gentium afferma che dalla sua opera si può imparare:”non eadem omnibus esse honesta atque turpia “, che non sono uguali per tutti gli atti onorevoli e turpi, tant’è vero che a Sparta le vedove, anche nobili, partecipano ai banchetti “mercede “, per denaro.
Ma torniamo ai Greci: Apollonio Rodio nelle Argonautiche registra le singolarità di un mondo altro, di culture diverse: i Colchi per esempio depongono sottoterra i cadaveri delle donne, ma appendono agli alberi quelli degli uomini; in tal modo l’aria ha parte uguale alla terra (3, 207-210).
Antifonte sofista [19] nel Discorso sulla verità va oltre Erodoto: denuncia come innaturali le differenze che le leggi e le usanze stabiliscono tra gli uomini. “Le disposizioni delle leggi sono avventizie, quelle della natura necessarie. E quelle delle leggi dovute a un accordo non sono naturali. E quelle nate dalla natura non sono dovute a un accordoLa maggior parte delle determinazioni giuste secondo la legge si trovano in posizione ostile nei confronti della natura quelli che provengono da una casata non illustre non li rispettiamo né onoriamo. In questo ci comportiamo come barbari gli uni verso gli altri. Infatti per natura in tutto tutti siamo costituiti per essere uguali barbari ed Ellenitutti di fatto inspiriamo nell’aria attraverso la bocca e le narici e tutti mangiamo con le mani “[20].
Non sempre però gli autori greci propugnano l’equivalenza tra le culture: Euripide nell’ Ifigenia in Aulide, scritta in Macedonia dopo il 408, quando Sparta si stava accostando alla Persia per sconfiggere la lega attica, chiama a raccolta di tutte le energie dei Greci contro i nemici orientali. Ifigenia, la ragazza che assume la parte eroica di vittima sacrificale, offre la propria vita alla patria greca dicendo:”Do il mio corpo per l’Ellade./Sacrificate, espugnate Troia. Questo infatti sarà il mio monumento/ a lungo; questi i figli, le nozze e la gloria mia./E’ naturale che gli Elleni comandino sui barbari, e non i barbari,/madre, sui Greci: loro infatti sono schiavi, noi liberi” (vv. 1397-1401).
Ma nel 366 Alcidamante dettò questa massima: A tutti gli uomini Dio ha concesso la libertà; la natura non ha fatto nascere schiavo nessuno”[21]. Si trovava scritto in un pamphlet scritto a favore dei Messeni in lotta contro gli oppressori spartani.
Ecco quanto scrive Alcidamante nel Messeniaco:” ejleuqevrou~ ajfh`ke pavnta~ qeov~, oujdevna dou`lon hJ fuvsiÏ, pepoivhken”, dio ci lasciò tutti liberi, la natura nessuno fece schiavo.
Con l’Archidamo il retore Isocrate può considerarsi lo “storico”, per così dire, della mentalità schiavistica spartana in senso stretto: il discorso, infatti, è impernato, per gran parte, sulla ricostruzione dellantichissima vittoria di Spartani su Messenii, per mostrare il buon diritto degli Spartani a tenere i Messenii sotto il giogo della tremenda schiavitù.
Dice lArchidamo isocratèo: gli alleati vi propongono di rinunciare a Messene per fare la pacevorrebbero dunque che voi in breve tempo gettaste via la gloria, che i nostri anenati, in mezzo ai pericoli, ci lasciarono per settecento anni” …L’Archidamo di Isocrate è insomma proteso alla difesa dello schiavismo spartano su una base “storica “.
Eppure in una tragedia precedente, lAndromaca (427 ca) , Euripide aveva attribuito alla vedova di Ettore questi versi cruciali che accusano i Greci di essere loro i veri barbari: w bavrbar j ejxeurovnte~ [Ellhne~ kakav-tiv tonde pai`da kteivnet j oujde;n ai[tion; (764-765), o Greci inventori della barbarie, perché uccidete questo bambino che non è colpevole di niente? Ammazzare un bambino per paura di suo padre è la viltà e la barbarie più grande che ci sia.
Gli fa eco Demostene il quale nella terza Olintiaca[22] ricorda che durante la pentecontaetia il re di Macedonia obbediva agli Ateniesi com’è giusto che un barbaro sia soggetto ai Greci (24).
Riferisco l’opinione di altri due autori del quarto secolo i quali sostengono la diversità, in peggio, dei barbari dai Greci: Isocrate e Aristotele. Il principe della retorica nel Panegirico[23] denigra i Persiani attribuendo loro la morale degli schiavi: essi sono educati alla servitù più compiutamente che i servi degli Ateniesi (150).
Aristotele[24] nella Politica sostiene che i barbari non hanno la parte che per natura comanda (o[ti to; fuvsei a[rcon oujk e[cousin) e quindi la loro comunità è fatta di schiavi (1252b).
L’intolleranza è una vera e propria malattia.
Maurizio Bettini suggerisce questa cura:” Possiamo però dire che, fra i rimedi più sicuri per guarire da questo morbo, sta la terapia del rovesciamento. Con questa espressione intendiamo un esercizio quasi quotidiano che consiste nel rovesciare sistematicamente il proprio punto di vista per assumere quello dell'”altro”: in modo da poter guardare se stessi con gli occhi altrui. Di questo esercizio è stato maestro uno dei più grandi pensatori che l’Europa del XVI secolo possa vantare, Michele de Montaigne” [25].
Insomma dobbiamo essere capaci di uscire dalla parte che stiamo vivendo, o recitando, per assumerne un’altra o almeno considerarne plausibile l’esistenza .
La terapia del rovesciamento non è molto diversa dal sentimento del contrario” di Pirandello. Il saggio L’umorismo presenta tre esempi: il primo è quello celeberrimo della vecchia signora coi capelli ritinti, tutti unti non si sa di quale orribile manteca, e poi tutta goffamente imbellettata e parata d’abiti giovanili. Mi metto a ridere. Avverto che quella vecchia signora è il contrario di ciò che una vecchia rispettabile signora dovrebbe essere. Posso così, a prima giunta e superficialmente, arrestarmi a questa prima impressione cronica. Il comico è appunto un avvertimento del contrario”.
Ma poi interviene la riflessione che suscita il sentimento del contrario ossia l’umorismo :”Ma se ora interviene in me la riflessione, e mi suggerisce che quella vecchia signora non prova forse nessun piacere a pararsi così come un pappagallo, ma che forse ne soffre e lo fa soltanto perché pietosamente s inganna che, parata così, nascondendo così le rughe e la canizie, riesca a trattenere a sé l’amore del marito molto più giovane di lei, ecco che io non posso più riderne come prima, perché appunto la riflessione, lavorando in me, mi ha fatto andar oltre a quel primo avvertimento, o piuttosto più addentro: da quel primo avvertimento del contrario, mi ha fatto passare a questo sentimento del contrario. Ed è tutta qui la differenza tra il comico e l’umoristico” [26]. Si tratta insomma di riflettere sul dolore di chi ci farebbe ridere, di sentire con chi soffre e provare simpatia per lui-
Il secondo esempio è questo tratto da Dostoevskij: Signore, signore! oh! Signore, forse, come gli altri, voi stimate ridicolo tutto questo; forse vi annojo raccontandovi questi stupidi e miserabili particolari della mia vita domestica; ma per me non è ridicolo, perché io sento tutto ciò”-Così grida Marmeladoff nell’osteria, in Delitto e Castigo[27] del Dostoevskij, a Raskolnikoff tra le risate degli avventori ubriachi. E questo grido è appunto la protesta dolorosa ed esasperata dun personaggio umoristico contro chi, di fronte a lui, si ferma a un primo avvertimento superficiale e non riesce a vederne altro che la comicità”[28].
Il terzo esempio deriva da S. Ambrogio di Giusti: Un poeta, il Giusti, entra un giorno nella chiesa di S. Ambrogio a Milano, e vi trova un pieno di soldatiIl suo primo sentimento è d’odio: quei soldatacci ispidi e duri son lì a ricordargli la patria schiava. Ma ecco levarsi nel tempio il suono dell’organo: poi quel cantico tedesco lento lento,
Dun suono grave, flebile, solenne [29]
Che è preghiera e pure lamento. Ebbene, questo suono determina a un tratto una disposizione insolita nel poeta, avvezzo a usare il flagello della satira politica e civile: determina in lui la disposizione propriamente umoristica: cioè lo dispone a quella particolare riflessione che, spassionandosi dal primo sentimento, dell’odio suscitato dalla vista di quei soldati, genera appunto il sentimento del contrario. Il poeta ha sentito nell’inno
La dolcezza amara/Dei canti uditi da fanciullo: il core/Che da voce domestica glimpara,/Ce li ripete i giorni del dolore./Un pensier mesto della madre cara,/Un desiderio di pace e d’amore,/Uno sgomento di lontano esilio[30]
E riflette che quei soldati, strappati ai loro tetti da un re pauroso,
A dura vita, a dura disciplina,/Muti, derisi, solitari stanno, /Strumenti ciechi docchiuta rapina,/che lor non tocca e che forse non sanno[31]
Ed ecco il contrario dell’odio di prima:
Povera gente! Lontana da suoi,/In un paese qui che le vuol male[32]
Il poeta è costretto a fuggire dalla chiesa perché
Qui, se non fuggo, abbraccio un caporale, /Colla su brava mazza di nocciolo/Duro e piantato lì come un piolo”[33].
Questo è il terzo esempio di avvertimento del contrario passato a sentimento del contrario.
Il mettersi nei panni dell’altro non significa accettare tutte le diversità:” Il vero problema nasce con le diversità che si pongono in irriducibile conflitto con il modello di umanità, un conflitto nel quale la soddisfazione dell’esigenza degli uni costituisce necessariamente violenza per gli altri e viceversa. Nel famoso film di Fritz Lang, M, l’assassino di bambine non mente, quando illustra tragicamente la sua reale esigenza che lo induce a quegli atti omicidi, e l’altissimo costo che significherebbe per lui la repressione di quegli impulsi, ma d’altra parte anche il diritto di quelle bambine di non essere uccise-ossia il loro diritto di esigere la sua repressione-non è meno reale. Pure il delitto di Raskol’ nikov nasce da una passione sofferta e reale; se egli ne venisse impedito, ciò significherebbe il sacrificio di una sua oscura ma autentica esigenza, e d’altronde senza quel sacrificio sono le sue vittime a venire calpestate. Si tratta di casi estremi, che indicano tuttavia la difficoltà di tracciare un confine fra l’esigenza dell’universale e la rivendicazione della diversità, e che indicano soprattutto la difficoltà di risolvere il problema sul mero terreno della prosa del mondo, sul piano puramente sociologico: per Dostoevskij soltanto la prospettiva di Sonia, della carità, può risolvere il dilemma di Raskol’nikov”[34]. A questo punto si può menzionare anche Match point, l’ultimo film di Woody Allen (gennaio 2006).
C’è un relativismo che riguarda i diversi ceti o le diverse età.
Orazio nell’ Ars poetica[35] distingue le varie parti che ciascuno di noi recita nel palcoscenico della vita .
Dunque:”aetatis cuiusque notandi sunt tibi mores” (156), si deve badare bene ai costumi specifici di ciascuna età. Segue una descrizione dei mores delle varie fasi della vita: il puer il quale gestit paribus colludere (159), smania di giocare con i suoi pari e cambia umore spesso: et mutatur in horas (160).
Poi l’ imberbus iuvenis il giovinetto imberbe: egli gaudet equis canibusque, giosce dei cavalli e dei cani, è cereus in vitium flecti, facile come la cera a prendere l’impronta del vizio, prodigus aeris, prodigo di denaro.
Poi, conversis studiis aetas animusque virilis/, quaerit opes et amicitias, inservit honori (vv. 166-167), cambiate le inclinazioni, l’età adulta cerca ricchezze e aderenze, si dedica alla conquista del potere.
Infine c’è il vecchio circondato da fastidi e noie, pauroso, procrastinatore, avido del futuro:”difficilis, querulus, laudator temporis acti/se puero, castigator censorque minorum” (vv. 173-174), difficile, lamentoso, elogiatore del tempo trascorso da ragazzo, critico e censore dei giovani. Sono dunque quattro atti che recitiamo in quattro parti diverse con quattro aspetti diversi.
Sentiamo anche Shakespeare:” All the world’s a stage-And all the men and women merely players” (As you like it [36], II, 7), tutto il mondo è un palcoscenico e tutti gli uomini e le donne non sono che attori. Essi, continua il malinconico Jaques, hanno le loro uscite e le loro entrate. Una stessa persona, nella sua vita, rappresenta parecchie parti, poiché sette età costituiscono gli atti”. Segue la descrizione di questi sette atti nei quali ciscuno di noi recita sette ruoli. Mi interessa il secondo: quello dello “scolaro piagnucoloso che con la sua cartella e col suo mattutino viso si trascina come una lumaca malvolentieri alla scuola”; poi il terzo quello dell’ innamorato “che sospira come una fornace, con una triste ballata composta per le sopracciglia dell’amata”.
Infine “l’ultima scena che chiude questa storia strana e piena di eventi è seconda fanciullezza e completo oblio, senza denti, senza vista, senza gusto, senza nulla”.
Contrasto di culture. Vuoto di carità.
Euripide nella Medea[37] mette in evidenza un contrasto di culture distribuendo luci e ombre in maniera diversa rispetto alla successiva Ifigenia in Aulide .
P. P. Pasolini rileva il vuoto di Carità”[38] nell’Italia degli anni Settanta.
Dalla tragedia di Euripide, com’è noto, l’autore degli Scritti corsari ha tratto un film[39] nel quale ha voluto mettere in evidenza “il confronto dell’universo arcaico, ieratico, clericale[40], con il mondo di Giasone, mondo invece razionale e pragmatico”[41]. Cerchiamo di chiarire queste affermazioni, utilissime a capire il testo di Euripide, attraverso un confronto con alcune parole della cara tragedia .
Il pragmatismo dell’uomo greco si manifesta apertamente quando il seduttore dichiara a Medea di avere voluto cambiare donna, prendendo la principessa di Corinto, non perché odiasse la madre dei suoi figli, o perché ne volesse altri, ma per la cosa più importante: vivere bene, lui con la famiglia (o le famiglie) e senza restrizioni[42], sapendo con certezza che il povero tutti lo sfuggono, anche se amico. Egli insomma “dra’/ ta; sumforwvtata ” (v. 876) fa quello che è più utile, come riconosce la moglie abbandonata, quando finge di sottomettersi beffeggiandolo. L’uomo più civilizzato antepone a tutto la categoria dell’utile.
La stessa scelta contraria all’amore dichiara Carlo Grandet scrivendo a sua cugina Eugenia che lo aveva atteso per sette anni dopo che si erano giurati amore eterno:”L’amore, nel matrimonio, è una chimera. Oggi la mia esperienza mi dice che bisogna obbedire a tutte le leggi sociali e salvaguardare col matrimonio tutte le convenienze volute dal mondoOggi io posseggo ottantamila lire di rendita. Questo denaro mi consente di unirmi alla famiglia d’Aubrion, la cui ereditiera, una giovane di diciannove anni, mi porta col matrimonio il suo nome, un titolo, la carica di gentiluomo onorario di camera di sua Maestà, e una posizione fra le più brillanti. Vi confesserò, mia cara cugina, ch’io non amo affatto la signorina d’Aubrion; ma, unendomi a lei, assicuro ai miei figli una situazione sociale i cui vantaggi saranno in avvenire incalcolabili”[43].
Eugenia Grandet invece, al pari di Medea, seppure con maggiore mitezza, non accetta le convenzioni sociali dell’eterna borghesia e risponde al cugino arrampicatore sociale:”Sì, cugino, avete giudicato bene il mio spirito e i miei modi: non sono fatta per la società, non ne conosco né i calcoli né i costumi, e non s’aprei darvi i piaceri che voi volete trovarvi. Siate felice, secondo le convenzioni sociali alle quali avete sacrificato il nostro primo amore”[44].
Personaggio simile a Giasone è Odisseo del Filottete[45] di Sofocle, la consumata volpe, che suggerisce allo schietto figlio di Achille di agire con la frode (dovlw/ , v. 101) e di parlare mentendo, se la menzogna porta salvezza e profitto:”o{tan ti dra’/” ej” kevrdo”, oujk ojknei’n prevpei” (v. 111), quando fai qualche cosa per un guadagno non è conveniente esitare.
In questa categoria dell’utile non onesto può essere inserita anche la Poppea Sabina di Tacito[46] la quale: unde utilitas ostenderetur, illuc libidinem transferebat (Annales, XIII, 45), volgeva la libidine nella direzione dalla quale si presentava l’utile.
Sentiamo ancora Pasolini:”L’interpretazione puramente pragmatica (senza Carità) delle azioni umane deriva dunque in conclusione da questa assenza di cultura: o perlomeno da questa cultura puramente formale e pratica”[47].
Medea la barbara, la furente, in taluni contesti anche la dissoluta, trova comunque autori inclini a rivalutarla. Euripide comprende il suo strazio di donna tradita e certamente non approva la cultura della Corinto civilizzata e nemica di Atene
La sua Medea ambientata appunto a Corinto rappresenta un mondo in sfacelo morale: il Coro nel primo Stasimo lamenta:” bevbake d j o{rkwn cavri”, oujd’ j e[t j aijdw;”- JEllavdi ta’/ megavla mevnei ” (vv. 439-440), se n’è andato il rispetto dei giuramenti né più rimane il pudore nell’Ellade grande.
La barbara della Colchide è figura problematica e segno di contraddizione: Orazio nell’Epodo 16[48] suggerisce la fuga dalle guerre civili verso isole felici, un luogo dell’età dell’oro, dove la terra è generosa, gli animali produttivi, il clima mite, le donne pudiche, poiché non hanno avuto il cattivo esempio di quella “sporcacciona” di Medea:”Non huc Argoo contendit remige pinus/neque impudica Colchis intulit pedem ” (vv. 59-60), qua non ha diretto la rotta la nave con i rematori di Argo, né la svergognata donna di Colchide vi ha messo piede.
Lucano[49], che aveva scritto una tragedia su Medea, mette invece in rilievo la crudeltà della barbara paragonata del resto con quella non meno efferata di Cesare:” Sic barbara Colchis/creditur ultorem metuens regnique fugaeque/ense suo fratrisque simul cervice parata/expectasse patrem” (Pharsalia, X, 464-467), così si crede che la barbara della Colchide temendolo quale vendicatore del regno e della fuga, abbia aspettato il padre con la sua spada e nello stesso tempo con la testa del fratello già pronta[50].
La diversità dei Greci viene vista dai Romani ora con ammirazione, ora con odio e disprezzo, o con paura.
Emilio Paolo dopo avere sconfitto il re di Macedonia Perseo nella battaglia di Pidna (168 a. C.) manifestò il suo filellenismo visitando i luoghi più sacri della Grecia che tuttora sono frequentati da parte di chi ama quella splendidissima civiltà: Argo, Epidauro, e soprattutto Olimpia : qui il console romano vide la statua di Zeus, rimase sbalordito (“kai; to; a[galma qeasavmeno” ejxeplavgh”, Polibio, Storie, 30, 10, 6) e disse che soltanto Fidia aveva saputo rappresentare lo Zeus di Omero, e che la realtà superava di molto le sue attese. L’umanesimo di Emilio però non risparmia gli Epiroti che infatti vengono definiti dallo storiografo di Megalopoli come simili agli Etoli, uomini messi al bando dall’umanità. Gente che prima aggrediva gli altri Greci, poi si dilaniava da sola: erano pronti a tutto e avevano raggiunto un tal grado di bestialità che neppure permettevano ai loro magistrati di deliberare. Perciò l’Etolia era in preda al caos, alla criminalità e alla violenza assassina, e nulla di quanto vi si faceva era frutto di riflessione e di un progetto preciso, ma tutto veniva fatto a caso e alla rinfusa, come se si fosse abbattuto su di loro una sorta di uragano (“pavnta d j eijkh’/ kai; fuvrdhn ejpravtteto, kaqaperei; laivlapov” tino” ejmpeptwkuiva” eij” aujtouv””, Storie, XXX, 11 6).
Vediamo come “lo traduce” Tito Livio:” Linguam tantum Graecorum habent sicut speciem hominum: moribus ritibusque efferatioribus quam ulli barbari, immo quam immanes beluae vivunt “(34, 24) dei Greci hanno soltanto la lingua, come di uomini solo l’aspetto: vivono con usanze e costumi più selvaggi di tutti i barbari, anzi delle stesse bestie feroci.
Il tradizionalismo romano è comunque contrario ai Greci visti come graeculi intriganti e libidinosi. “C’è una linea unitaria, come un filum , che nella storiografia romana conduce da Catone a Sallustio a Tacito. Questi tre storici insistono particolarmente sulla disciplina et vita dell’Italia (Catone), sulla cura degli antichi pro Italica gente (Sallustio), sulla necessità di conservare l’antiquus mos italico e di impedire-per una malintesa tendenza provinciale-il decadimento economico dell’Italia (Tacito)”[51].
Sentiamo Catone il Vecchio il quale contrastò la nobilitas scipionica simpatizzante con la cultura ellenica, e nel 184 a. C. fu eletto alla censura che esercitò in maniera da renderla proverbiale per il suo rigore[52].
Nei Libri ad Marcum filium c’è un passo celeberrimo che accusa il popolo nemico dei Greci e in particolare, tra loro, la genìa malefica dei medici congiurati contro i Romani.
Leggiamone alcune parole:”Dicam de istis Graecis suo loco, Marce fili, quid Athenis exquisitum habeam, et quod bonum sit illorum litteras inspicere, non perdiscere. Vincam nequissimum et indocile esse genus illorum. Et hoc puta vatem dixisse, quandoque, ista gens suas litteras dabit, omnia corrumpet, tum etiam magis, si medicos suos huc mittet. Iurarunt inter se barbaros necare omnis medicina, sed hoc ipsum mercede faciunt, ut fides iis sit et facile disperdant. Nos quoque dictitant barbaros et spurcius nos quam al’ios Opicon appellatione foedant. Interdixi tibi de medicis” (fr. 1 Jordan), dirò di questi Greci a suo tempo, figlio Marco, che cosa io abbia scoperto ad Atene, e come sia bene prendere in considerazione le loro lettere, non impararle a fondo. Ti dimostrerò che la loro è una razza scadentissima e riottosa. E credi che questo l’ho detto da profeta: quando avverrà che questa razza ci darà la sua cultura, corromperà tutto, particolarmente quando e se manderà qui i suoi medici. Hanno stipulato un giuramento tra loro di ammazzare tutti i barbari con la medicina, ma questo stesso misfatto lo compiranno a pagamento, per acquistare credibilità e annientarci facilmente. Anche noi chiamano sempre barbari e ci infamano più lerciamente che gli altri col nome di Opici[53]. Ti proibisco di chiamare i medici.
La pretesa dellautarchia.
“Del modello educativo catoniano è architrave l’autarchia, l’autosufficienza. E questo è un carattere che connota tutta l’epoca arcaica, e serba un suo prestigio anche dopo la diffusione di modelli culturali ed educativi ellenistici”[54].
Si può pensare, per antitesi, al Duvskolo” di Menandro[55] che si illude di potersela cavare in una completa autarchia, ma quando, caduto in un pozzo, non riesce a venirne fuori senza l’aiuto del figliastro Gorgia che pure aveva maltrattato, giunge alla resipiscenza, a quel tw’/ pavqei mavqo” di origine eschilea[56] che la Commedia Nuova non ha dimenticato.
Sentiamo alcune parole del vecchio misantropo che aveva perso fiducia nel genere umano vedendolo intento solo al calcolo del profitto:
“In una cosa probabilmente ho sbagliato, io che credevo di essere un autosufficiente (aujtavrkh”) e di non avere bisogno di nessuno. Ma ora che ho visto la fine della vita, rapida, imprevedibile, ho scoperto che non capivo bene allora.
Infatti deve sempre esserci, ed essere vicino, uno che ti possa aiutare. Ma per Efesto sono stato così guastato io
vedendo il modo di vivere di ciascuno, i loro calcoli (tou;” logismouv”) e l’attenzione che hanno per il profitto (pro;” to; kerdaivnein). Non avrei pensato che ci fosse tra tutti uno che fosse benevolo a un altro. Questo mi inceppava il cammino. Il solo Gorgia con fatica mi ha dato una prova compiendo un’azione da uomo nobilissimo: infatti ha salvato me che non lo lasciavo nemmeno avvicinare alla porta, né lo aiutavo mai in alcun modo, né gli rivolgevo la parola, né rispondevo con gentilezza. Eppure mi ha salvato” (Dyskolos, vv. 713-726).
L’autarchia catoniana era pure relativa all’allattamento.
“Le matrone, nella rappresentazione ideale della loro maternità, dovevano allattare personalmente i loro figli (labor nutricis), come faceva la moglie di Catone il Censore, secondo il racconto di Plutarco (Vita di Catone, 20, 5). Questa, conformemente al modello ideale, non soltanto non affidava i suoi figli a una balia, spesso di condizione servile, secondo un uso che ben presto si diffuse tra le matrone romane altolocate, ma allattava anche, con un significativo rovesciamento dei ruoli, i piccoli schiavi di casa, per instillare loro, assieme al latte, il senso di leale appartenenza e di devozione alla famiglia del dominus . Ancora in età imperiale, sarà deprecata l’abitudine delle matrone di far allattare i figli dalle nutrici, in quanto si riteneva che il latte materno, così come il seme maschile, contribuisse a determinare l’aspetto fisico e il carattere del neonato e che l’allattamento di una schiava, o di una balia a pagamento, introducesse un elemento, si potrebbe dire, geneticamente estraneo, in grado di allentare i legami naturali fra genitori e figli (Aulo Gellio, Notti attiche, 12, 1) “[57].
Un secolo e mezzo più tardi le matrone romane potevano arrivare a vergognarsi di avere partorito e allattato i figli. Lo deduco da Properzio che esorta l’amante alla rixa amorosa nella luce:”necdum inclinatae prohibent te ludere mammae:/viderit haec, si quam iam peperisse pudet ” (II, 15, 20-21), non ancora le mammelle cadenti ti impediscono tali giochi: badi a questo una se si vergogna di aver partorito.
Ancora sul misellenismo dei Romani.
Nel Dialogus de oratoribus di Tacito, Messalla lamenta che tutto è cambiato in peggio poiché i genitori non si occupano dei figli e l’educazione avviene per delega:” At nunc natus infans delegatur Graeculae alicui ancillae” (29), ora il bambino appena nato si affida a un’ancella greca, cui si aggiungono un paio di schiavi dei peggiori. Viene fuori di nuovo l’antipatia dei tradizionalisti italici per la razza dei graeculi, l’avversione che forse spinse Virgilio a cercare capostipiti Troiani piuttosto che Greci per i Romani di alto lignaggio.
Del resto-continua Messala- gli stessi genitori non sono migliori dei loro servi nella decadenza :”Quin etiam ipsi parentes non probitati neque modestiae parvulos adsuefaciunt, sed lasciviae et dicacitati, per quae paulatim impudentia inr?pit et sui alienique contemptus ” che anzi gli stessi genitori non abituano i fanciulli all’onestà e alla moderazione, ma alla sfrenatezza e al motteggio attraverso cui a poco a poco si insinuano l’impudenza e il disprezzo di sé e degli altri.
Anche Giovenale se la prende con i Greci manifestando quel moralismo che offese l’Adriano della Yourcenar:”In una delle sue Satire, Giovenale osò insultare il mimo Paride, che mi piaceva: ne avevo abbastanza di quel poeta ampolloso e corrucciato, non mi piaceva il suo grossolano disprezzo per l’Oriente e la Grecia, le sue affettate simpatie per la cosiddetta austerità dei nostri padri, e quel miscuglio di descrizioni particolareggiate del vizio e declamazioni inneggianti alla virtù che stuzzica i sensi del lettore e ne rassicura l’ipocrisia. Nella sua qualità di letterato, aveva diritto però a certi riguardi, e lo feci chiamare a Tivoli per comunicargli di persona il decreto d’esilio. Questo spregiatore del lusso e dei piaceri di Roma ormai potrà studiare sul posto i costumi della provincia; i suoi insulti a Paride avevano segnato il termine della sua commedia”[58].
Sentiamo allora Giovenale sull’invasione di Roma da parte dei Greci e peggio:
” Quae nunc divitibus gens acceptissima nostris
et quos praecipue fugiam, properabo fateri,
nec pudor obstabit. Non possum ferre, Quirites,
graecam urbem; quamvis quota portio faecis Achaei?
Iam pridem Syrus in Tiberim defluxit Orontes
et linguam et mores et cum tibicine chordas
obliquas nec non gentilia tympana secum
vexit et ad circum iussas prostare puellas.
Ite, quibus grata est picta lupa barbara mitra:
rusticus ille tuus sumit trechedipna, Quirine,
et ceromatico fert niceteria collo.” (III, vv. 58-68), quella che è la razza più gradita ai nostri ricconi e quelli che sopra tutti voglio schivare, mi affretterò a denunciare, né la vergogna mi ostacolerà. Non posso sopportare, Quiriti, una Roma greca: per quanto, quale percentuale di questa feccia è greca? E’ un pezzo che l’Oronte di Siria è sfociato nel Tevere e ha trascinato con sé lingua e costumi, e con il flautista corde oblique e tamburelli tipici di quella razza, e ragazze costrette a prostituirsi vicino al Circo. Andate voi cui piace la barbara lupa dalla mitra dipinta: quel tuo contadino antico, Quirino, mette le scarpe del parassita, e porta medaglie di vittoria al collo spalmato di creme.
Il rifiuto di questa invadenza della cultura orientale si legge, in greco, nello scritto Sui retori antichi di Dionisio di Alicarnasso[59] il quale condanna l’eloquenza del tempo successivo ad Alessandro Magno considerata insopportabile per la teatralità: “l’eloquenza misia o frigia, l’etera venuta di recente da taluni fondi dell’Asia”, riuscì a scacciare la moglie legittima, ossia l’eloquenza attica (1-3).
Altrettanto fanno i tradizionalisti nei confronti dei culti importati, in particolare dall’Oriente: Tacito negli Annales esprime un disprezzo più profondo per il Cristianesimo e altre superstizioni analoghe:”Ergo abolendo rumori Nero subdidit reos et quaesitissimis poenis afecit quos per flagitia invisos vulgus Christianos appellabat. Auctor nominis eius Christus Tiberio imperitante per procuratorem Pontium Pilatum supplicio adfectus erat; repressaque in praesens exitiabilis superstitio rursum erumpebat, non modo per Iudaem, originem eius mali, sed per urbem etiam quo cuncta undique atrocia aut pudenda confluunt celebranturque. Igitur primum correpti qui fatebantur, deinde indicio eorum multitudo ingens haud proinde in crimine incendii quam odio humani generis convicti sunt” (XV, 44), Allora, per sopprimere quelle voci[60], Nerone inventò dei colpevoli[61] e torturò con ricercatissimi tormenti quelli che, già odiati per le opinioni scandalose, il volgo chiamava Cristiani. Eponimo di quella setta tal Cristo che era stato giustiziato mediante un supplizio dal procuratore Ponzio Pilato. Ma soffocata sul momento quella perniciosa superstizione dilagava di nuovo, non solo attraverso la Giudea, culla di quel male, ma anche in Roma dove le atrocità o le vergogne confluiscono e diventano famose. Dunque prima arrestati quelli che confessavano, poi dietro denuncia di questi una grande moltitudine venne ritenuta colpevoli non tanto del crimine dell’incendio quanto di odio per l’umanità.
Ma torniamo alla Satira III di Giovenale. Questi Graeculi, danno l’assalto ai colli di Roma e sono tutt’altro che disarmati:
“Ingenium velox, audacia perdita, sermo
promptus et Isaeo torrentior. Ede quid illum
esse putes. Quemvis hominem secum attulit ad nos:
grammaticus, rhetor, geometres, pictor, aliptes,
augur, schoenobates, medicus, magus, omnia novit
Graeculus esuriens; in caelum, iusseris, ibit” (vv.73-78), mente svelta, audacia disperata, chiacchiera pronta e più torrenziale di quella di Iseo[62]. Dimmi cosa credi che sia colui. Ha portato da noi con sé l’uomo che vuoi: grammatico, retore, geometra, pittore, massaggiatore, augure, funambolo, medico, mago, tutto sa fare il grecastro affamato; in cielo gli avrai comandato di andare, ci andrà.
dicembrel
Audacia (v. 73) è una parola chiave che, come in greco tovlma, significa mancanza di moderazione, ovvero estremismo.
Questa parola si presta a illustrare la diversità dei significati di un medesimo vocabolo secondo le persone che lo usano.
Le parole audacia e tovlma capovolgono addirittura il loro significato durante le guerre civili, quando l’intolleranza arriva a dividere perfino le famiglie e a creare una guerra spietata di tutti contro tutti.
Nei conflitti interni molti valori si ribaltano: lo afferma Tucidide a proposito della stavsi” di Corcira (del 432 a. C,): allora ci fu una tranvalutazione generale e le stesse parole cambiarono il loro significato originario:”Kai; th;n eijwqui’an ajxivwsin tw’ ojnomavtwn ej” ta; e[rga ajnthvllaxan th’/ dikaiwvsei. Tovlma me;n ga;r ajlovgisto” ajndreiva filevtairo” ejnomivsqh” (III, 82, 4), e cambiarono arbitrariamente l’usuale valore delle parole in rapporto ai fatti. Infatti l’audacia irrazionale fu considerata coraggio devoto ai compagni di partito.
“Un’audacia ” ajlovgisto”” prende il nome di coraggio, la prudenza si chiama pigrizia, la moderazione viltà, il legame di setta viene prima di quello di sangue, e il giuramento non viene prestato in nome delle leggi divine, bensì per violare le umane. Sinistro carnevale, mondo a rovescio, in cui è necessario lottare con ogni mezzo per superarsi e in cui nessuna neutralità è ammessa. Così appare, a Corcira, per la prima volta tra gli Elleni, la più feroce di tutte le guerre (Tucidide, III, 82-84)” M. Cacciari, Geofilosofia dell’Europa, pp. 42-43.
Nel Bellum Catilinae di Sallustio, Catone, parlando in senato dopo e contro Cesare, il quale aveva chiesto di punire i congiurati “solo” confiscando i loro beni e tenendoli prigionieri in catene nei municipi, denuncia questo cambiamento del valore delle parole:”iam pridem equidem nos vera vocabula rerum amisimus: quia bona aliena largiri liberalitas, malarum rerum audacia fortitudo vocatur, eo res publica in extremo sita est ” (52, 11), già da tempo veramente abbiamo perduto la verità nel nominare le cose: poiché essere prodighi dei beni altrui si chiama liberalità, l’audacia nel male, coraggio, perciò la repubblica è ridotta allo stremo.
Questa audacia attribuita ai Catilinari è una forma di estremismo. Nella prima Catilinaria Cicerone attacca il nemico attribuendogli piani e intenti eversivi:”quem ad finem sese effrenata iactabit audacia? ” (I, 1, 1), fino a quale estremo si lancerà l’estremismo scatenato?
Il biasimo dell’audacia è ricorrente nei tradizionalisti e investe anche la critica d’arte.
Sentiamo Petronio a proposito della pittura:” pictura quoque non alium exitum fecit, postquam Aegyptiorum audacia tam magnae artis compendiariam invenit ” (2, 9), anche la pittura non ha avuto risultato diverso dopoché la sfrontatezza degli Egiziani ha trovato la scorciatoia di un’arte tanto grande. Allude al cosiddetto III stile pompeiano (metà del I secolo d. C.) Si tratta di una pittura a macchia, rapida, per cenni
Rimaniamo ancora su Giovenale. Questa gentaglia venuta dall’Oriente porterà via i posti migliori agli autoctoni.
“Usque adeo nihil est, quod nostra infantia caelum
hausit Aventini baca nutrita Sabina?” (vv. 84-85), fino a tal punto non conta niente il fatto che la nostra infanzia nutrita dalle olive della Sabina? ha bevuto il cielo dell’Aventino,
Considerazioni diverse sui Sabini antichi.
Non tutti gli autori apprezzano gli antiqui mores italici.
Ovidio in scherzosa polemica libertina con gli auctores che fiancheggiano il programma di Augusto, polemica giocosa ma pagata a caro prezzo, utilizza le Sabine antiche per contrapporre la brutta rusticitas degli avi al lusso moderno:”Forsitan antiquae Tatio sub rege Sabinae/maluerint quam se rura paterna coli,/cum matrona, premens altum rubicunda sedile,/adsiduo durum pollice nebat opus,/ipsaque claudebat, quos filia paverat, agnos,/ipsa dabat virgas caesaque ligna foco ” (Medicamina faciei, vv. 11-16), forse le antiche Sabine sotto il re Tazio preferirono curare i campi paterni piuttosto che se stesse, quando la sposa, seduta arrossata sull’alto sgabello, filava con pollice instancabile il suo duro lavoro, e lei stessa chiudeva gli agnelli che la figlia aveva portato al pascolo, lei stessa metteva verghe e legna fatta a pezzi sul focolare.
Le antiche sabine per Ovidio erano delle tanghere prive di grazia.
“Sono celebri i passi, in cui è messa in ridicolo quella sorta di mania per la Roma arcaica che pervadeva la cultura augustea, come la rievocazione del ratto delle Sabine da parte di Romolo (I 101 sgg.) o il ritratto della società antica senza cultus (III 101 sgg.)”[63].
Tutt’altra posizione nei confronti dei Sabini è quella di Tito Livio che elogia l’educazione severa e rigida di quel popolo “quo genere nullum quondam incorruptius fuit” (I, 18, 4), del quale mai alcuno anticamente fu più austero.
Anche Virgilio nella Georgica II elogia la vita laboriosa e casta degli antichi rustici Sabini:”Interea dulces pendent circum oscula nati,/casta pudicitiam servat domus, ubera vaccae/lactea demittunt, pinguesque in gramine laeto/inter se adversis luctantur cornibus haediHanc olim veteres vitam coluere Sabini ” (vv. 523-526 e 532), intanto[64] i dolci figli tutti intorno gli pendono dalle labbra, la casta famiglia conserva la pudicizia, le poppe della vacca scendono piene di latte, e grassi sull’erba rigogliosa combattono i capretti con le corna puntate contro …questa vita una volta praticarono i Sabini.
Un epigramma di Marziale[65] (XI, 15) comprende entrambe le posizioni: il poeta afferma di avere scritto anche chartae austere leggibili dalla moglie di Catone e dalle Sabine qualificate come horribiles (vv. 1- 2), terribili.
Ma procediamo con l’invettiva antigreca di Giovenale:”Quid quod adulandi gens prudentissima laudat/sermonem indocti, faciem deformis amici,/et longum invalidi collum cervicibus aequat/Herculis Antaeum procul a tellure tenentis,/miratur vocem angustam, qua deterius nec/ille sonat quo mordetur gallina marito?” (III, vv. 86-91), Che dire poi del fatto che questa razza, espertissima nell’adulare, elogia la conversazione dell’ignorante, l’aspetto dell’amico deforme, e uguaglia il collo sottile dell’invalido alla cervice di Eracle che tiene lontano dalla terra Anteo, e ammira la voce meschina della quale non suona peggio neppure il verso con il quale la gallina è beccata dal marito
A proposito delladulazione (v. 86) Tacito la spiega non come vizio tipico dei Greci, importato a Roma da loro, ma come una conseguenza dell’autocrazia imperiale: lo storiografo nel primo capitolo delle Historiae racconta che dopo la battaglia di Azio fu interesse della pace che tutto il potere si riunisse nelle mani di uno solo, e aggiunge che i grandi ingegni si eclissarono e nello stesso tempo la verità risultò alterata in più modi “primum inscitia rei publicae ut alienae, mox libidine adsentandi aut rursus odio adversus dominantis“, innanzitutto per la perdita della conoscenza della vita politica come faccenda estranea, poi per la smania dell’adulazione o al contrario per l’odio verso chi comandava.
In uno dei primi capitoli degli Annales Tacito denuncia il servilismo verso Tiberio da parte di quella classe dirigente che in passato aveva avuto dignità e fierezza:”At Romae ruere in servitium consules, patres, eques ” (I, 7), ma a Roma si precipitavano a servire, consoli, senatori, cavalieri.
Giovenale prosegue affermando che i Greci sono una razza di commedianti:”natio comoeda est” (v. 100). Sempre pronti a recitare, a fingere, per l’utile.
Il grechetto moderno per giunta ha un altro contrassegno : la smania sessuale:”Praeterea sanctum nihil est neque ab inguine tutum,/non matrona laris, non filia virgo, neque ipse/sponsus levis adhuc, non filius ante pudicus;/horum si nihil est, aviam resupinat amici” (III, 109-112), inoltre non c’è niente di sacro né al sicuro dall’inguine, non la madre di famiglia, non la figlia vergine, neppure lo stesso fidanzato ancora imberbe, non il figlio prima casto; se non c’è nessuno di questi rovescia sul letto la nonna dell’amico.
I costumi sessuali caratterizzano fortemente un popolo.
Nella letteratura latina si trova anche la valutazione della cultura straniera, magari barbara, superiore a quella romana oramai decaduta.
Tacito nella Germania mette in rilievo, tra i sani costumi di quel popolo schietto, gens non astuta nec callida[66], anche il fatto che là i figli non vengono allattati per delega ma ogni madre nutra i suoi con il proprio seno:”Sua quemque mater uberibus alit, nec ancillis ac nutricibus delegantur “(20, 1), ciascun bambino viene nutrito da sua madre con le mammelle né sono affidati ad ancelle e nutrici.
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Ammirevole per lo storiografo è anche il fatto che la castità in generale, anche quella dei giovani maschi, è molto reputata presso i Germani:”Sera iuvenum venus, eoque inexhausta pubertas. Nec virgines festinantur; eadem iuventa, similis proceritas; pares validaeque miscentur, ac robora parentum liberi referunt ” ( Germania, 20, 3), viene tardi l’amore per i giovani, perciò la virilità non è indebolita. Neppure alle vergini si fa fretta; hanno lo stesso vigore giovanile, un analogo sviluppo fisico; si maritano ugualmente vigorose, e i figli rinnovano il vigore dei genitori. Questa sana società germanica descritta da Tacito non rifiuta la parità tra maschi e femmine.
Si pensi viceversa al tradizionalismo catoniano che vuole tenere soggetta la donna, vista come creatura diversa e potenzialmente pericolosa.
A questo proposito si può risalire al dibattito svoltosi nel 195 a. C. sull’abrogazione della lex Oppia. All’epoca Catone il Vecchio si opponeva al lusso e alla libertas femminile da lui intesa già come licentia. E’ la paura della donna a suggerire alcune parole sulla necessaria sottomissione della femina al fine di tenere sotto controllo una natura altrimenti riottosa. Un altro caso di scarsa comprensione e scarsa tolleranza.
Così si esprime il censore quando parla, nel 195 a. C., contro l’abrogazione della lex Oppia che, dal 215, imponeva un limite al lusso delle matrone[67] le quali erano scese in piazza proprio per manifestare a favore dell’annullamento della legge:” Maiores nostri nullam, ne privatam quidem rem agere feminas sine tutore auctore voluerunt, in manu esse parentium, fratrum, virorum…date frenos impotenti naturae et indomito animali et sperate ipsas modum licentiae facturas…omnium rerum libertatem, immo licentiam , si vere dicere volumus, desiderant Extemplo simul pares[68] esse coeperint, superiores erunt “[69], i nostri antenati non vollero che le donne trattassero alcun affare, nemmeno privato senza un tutore, e che stessero sotto il controllo dei padri, dei fratelli, dei mariti…allentate il freno a una natura così intemperante, a una creatura riottosa e sperate pure che si daranno da sole un limite alla licenza…desiderano la libertà, anzi, se, vogliamo chiamarla con il giusto nome, la licenza in tutti i campi. appena cominceranno a esserci pari, saranno superiori.
Bibliografia
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M. Yourcenar, Memorie di Adriano , trad. it. Einaudi, Torino, 1988.
Lo spazio letterario di Roma antica, Salerno Editrice, Roma, 1993.
Appendice 1
Un capitolo della mia metodologia sulla diversità
27. La diversità necessaria all’individuazione. Prometeo. Apollineo e dionisiaco: Nietzsche, Jung, Ortega y Gasset, Monica Cent’anni. La negazione della rigida identità sessuale: Penteo, Tiresia e Achille di Stazio (Achilleide).
Diversità di culture. Grillparzer e la sua Medea. Pasolini e il film Medea. Massimo Cacciari e il sogno di Atossa nei Persiani di Eschilo. Edgar Morin : diversità e democrazia. D’Annunzio: elogio della diversità. Franco Frabboni: la libertà si coniuga con la diversità.
Il primo peccato di Prometeo è stato quello antiapollineo di avere tentato di annientare il principium individuationis che deve differenziare gli uomini dagli dèi.
“Il Prometeo di Eschilo è sotto questo aspetto una maschera dionisiaca”[70].
Vediamo allora che cosa si intende con dionisiaco e con apollineo.
“Con il termine “dionisiaco” si esprime: un impulso verso l’unità, un dilagare al di fuori della persona, della vita quotidiana, della società, della realtà, come abisso dell’oblioun’estatica accettazione del carattere totale della vitala grande e panteistica partecipazione alla gioia e al dolore, che approva e santifica anche le qualità più terribili e problematiche della vitaCol termine apollineo si esprime: l’impulso verso il perfetto essere per sé, verso l'”individuo” tipico, verso tutto ciò che semplifica, pone in rilievo, rende forteLa pienezza della potenza e la moderazione, la più alta affermazione di sé in una bellezza fredda, aristocratica, ritrosaNel fondo del Greco c’è la mancanza di misura, la caoticità, l’elemento asiatico: la prodezza del Greco consiste nella lotta con il suo asiatismo: la bellezza non gli è donata, non più della logica, della naturalezza dei costumi-esse sono conquistate, volute, strappate- sono la sua vittoria”[71].
Su Apollineo e Dionisiaco torna C. G. Jung:”Esaminiamo i concetti di apollineo e dionisiaco nelle loro caratteristiche psicologiche Prendiamo in considerazione anzitutto il dionisiaco. Secondo la descrizione di Nietzsche è chiaro che esso indica un espandersi, uno zampillare e uno scaturireE’ una fiumana di sensazioni paniche di grande potenza che erompe irresistibile e inebria i sensi come un vino gagliardo. E’ ebbrezza nel significato più elevato del termineSi tratta quindi di una estroversione di sentimenti indissolubilmente legata all’elemento sensorialePer contro, l’apollineo è la percezione delle immagini interiori della bellezza, della misura e di sentimenti armonicamente disciplinati. Il paragone con il sogno chiarisce il carattere dello stato apollineo: è uno stato d’introspezione, di contemplazione rivolta verso l’interno, verso il mondo di sogno delle idee eterne, quindi uno stato d’introversione“[72].
Sentiamo anche Ortega y Gasset: Apollo è la misura, la norma rigorosa della vita, il restare in sé”, la severa condotta- la condotta conforme, l’essere in forma”. Ma è anche, beninteso, la danzaApollo è il dio danzatore per eccellenza, solo che la sua danza è un ritmo rigido e severo, e per questo il culto che gli si dedica consiste in danze moderate. Est modus in rebus, e Apollo è il modus, il logos della vita e delle cose”[73].
La luce solare, netta e definitoria del lucido Apollo, luce eccessiva che abbaglia con il suo fulgore, ci inganna e ci dice il nostro nome: dà forma e limiti, morfologici e di genere, alla nostra identità. Alla luce di Apollo siamo chiamati a dirci individuo, anziché tutto; e poi uomo anziché bestia; e poi maschio oppure femmina. Ma in Dioniso si abbassa, come accade nella bestia, nella pianta, nella pietra, l’impulso alla determinazione individuale; e ancor più, sfuma lo sforzo, fallisce l’esercizio della determinazione di specie, di razza, di genere. Barbaro è il corteo delle donne che accompagnano il dio; animali e umani i suoi satiri; femmina-maschio il dio stesso. In Dioniso è data la possibilità, per un attimo, di rinunciare allesibizione dei marchi di identità, di connotati forti. In Dioniso, per un attimo, oscilla la nettezza perspicua della vista. Dioniso mescola e confonde: Dioniso trascende e trasfigura: Che testa è questa? Quale animale ho catturato, ho sbranato con le mie mani?
Sarà davvero la testa di Penteo quella che Agave, la madre, stacca dal corpo sbranato delle sorelle menadi? E la testa mozza di Penteo questa, infilzata su una picca, che la madre porta orgogliosa in scena, come trofeo? Non sarà invece, come vede Agave nel suo delirio, la testa di un giovane leone montano?
Svanisce in Dioniso ogni rigidità della forma: suoi sono i giocattoli, lo specchio e la mascheraDioniso nega l’identità, la forma fissa e immutabile: nega anche, nel suo stesso aspetto, il primo marchio di identità:
-E nato un bambino. E maschio o femmina?
Riccioli lunghi, fragranti di ambrosia; lineamenti delicati, labbra morbide di fanciulla; fianchi alti e sinuosi; piccoli seni appena pronunciati, ma teneri e dolci: forme molli e femminee. Dioniso nega la marcatura sessuale come determinazione rigida e placata della formaFra i mortali, un essere soltanto corrisponde alla nobile indeterminatezza di Dioniso: Tiresia. Indovino nella disgraziata reggia di Tebe, cieco, su cui incombe tenebra eterna, appoggiato a un servo o alla figlia Manto, anche lei dotata del dono pericoloso della vista interiore. Ma Tiresia era stato un bambino-o forse una bambina-e in un recinto sacro aveva visto due serpenti che si accoppiavano: li aveva battuti con una verga, che sarebbe diventata, molti anni dopo, il suo bastone e il suo sostegno; li aveva calpestati. Ma per questo venne punito il piccolo Tiresia. Mutato da maschio a femmina – o forse da femmina a maschio – per ordine di Era: quel bambino aveva visto troppo.L’essere che troppo vede e sa, resta inafferrabile. Le multiple trasformazioni di Tiresia delirano la rigidità della forma “[74].
Il Tiresia di Eliot, una figura rivelatrice, è cieco, pulsante tra due vite, un vecchio con avvizzite mammelle di donna, è stato seduto presso Tebe sotto le mura e ha camminato tra i morti: insomma egli ha presofferto tutto :”and I Tiresias have foresuffered all“[75].
Pure Achille, quando viene portato dalla madre sull’isola di Sciro e partecipa ai riti bacchici riservati alle donne, quale maschio si innamora di Deidamia, eppure interpreta benissimo anche il ruolo femminile che gli ha assegnato Tetide per sottrarlo alla guerra: et sexus pariter decet et mendacia matris ” (Achilleide, I, 605), gli si addice ugualmente il suo sesso e quello simulato dalla madre. Anzi, il Pelide recita così bene la parte della baccante, quando fa scendere sul collo la nebride, stringe le pieghe della veste con rami di edera, cinge le chiome bionde con bende purpurèe e agita il tirso, che appare il più bello del tiaso, superando la stessa splendidissima Deidamia: Nec iam pulcherrima turbae/Deidamia” (Achilleide, I, 606-607).
Ma torniamo alla Cent’anni e a Penteo: Penteo vestito da donna, identico a Dioniso ora, identico a Tiresia, identico ad Agave, esce dalla città, pronto per la danza. Svanita è la rigidità di ogni forma: non c’è più maschio né femmina, non c’è più madre o figlio, non c’è bestia né dio. Dioniso è Agave, la cacciatrice avida di sangue; Dioniso è Penteo, la preda: tutti con identica maschera, identica forma. Nell’attimo della rinuncia all’identità, nellabisso dell’oblio, si festeggia il trionfo del dioAgave si risveglierà femmina: madre e assassina. E la nascita del principio di individuazione: il necessario dirci uno e altro, maschio e femmina. La luce da cui per un attimo, aoristo felice e incosciente, Dioniso il Nero aveva per noi trovato riparo”[76].
Diversità di culture.
Le culture diverse non vanno eliminate o criminalizzate: devono essere comprese. A proposito della diversità delle culture si può ricordare che Franz Grillparzer nella sua Medea[77] mette in rilievo “la storia di una terribile difficoltà o impossibilità di intendersi fra civiltà diverse, un monito tragicamente attuale su come sia difficile, per uno straniero, cessare veramente di esserlo per gli altri”[78].
In una intervista a J. Duflot Pasolini dichiara che nel suo film Medea ha voluto mettere in evidenza il contrasto tra la cultura razionale e pragmatica di Giasone e quella arcaica e ieratica della barbara:” Ho riprodotto in Medea tutti i temi dei film precedenti (…) Quanto alla pièce di Euripide, mi sono semplicemente limitato a qualche citazione (…) Medea è il confronto dell’universo arcaico, ieratico, clericale, con il mondo di Giasone, mondo invece razionale e pragmatico. Giasone è l’eroe attuale (la mens momentanea) che non solo ha perso il senso metafisico, ma neppure si pone ancora questioni del genere. E’ il “tecnico” abulico, la cui ricerca è esclusivamente intenta al successo (…) Confrontato all’altra civiltà, alla razza dello “spirito”, fa scattare una tragedia spaventosa. L’intero dramma poggia su questa reciproca contrapposizione di due “culture”, sull’irriducibilità reciproca delle due civiltà (…) potrebbe essere benissimo la storia di un popolo del Terzo Mondo, di un popolo africano, ad esempio[79]“.
Il classico aiuta a comprendere l’altro tanto per via delle analogie quanto delle diversità rispetto al nostro mondo di oggi. “Evocare l’altro-da-sé che è dentro di noi (il “classico”) può allora essere un passo essenziale per intendere le alterità che sono fuori di noi (le altre culture), se sapremo ripetere con piena consapevolezza le parole di Rimbaud.” ‘Je est un autre”Quanto più sapremo guardare al “classico” non come una morta eredità che ci appartiene senza nostro merito, ma come qualcosa di profondamente sorprendente ed estraneo, da riconquistare ogni giorno come un potente stimolo a intendere il “diverso”, tanto più da dirci esso avrà nel futuro”[80].
La conoscenza rispettosa dell’altro, della sua diversità, è necessaria per comprendere se stesso, secondo il principium individuationis :”Nel voler superare la distanza degli opposti consiste la u{bri” di Serse, quando pretende di aggiogare le due cavalle o le due rive dell’Ellesponto, e cioè terra e mare. Ma perché la differenza sia ‘salva’, dovrà essere compreso che il differire è to; Xunovn- che proprio l’assolutamente distinto abbisogna sempre, per esser ‘salvo’ in quanto tale, dell’altro e della distanza dall’altro”[81]. Con l’aggiogamento delle due cavalle Cacciari allude al sogno di Atossa dei Persiani di Eschilo: la regina madre descrive la sua visione notturna: le apparvero due donne (vv. 180 ss.), una munita pepli dorici, l’altra adorna di vesti abiti persiani, entrambe grandi, belle e sorelle di stirpe. Simboleggino la Grecia e la Persia. Tra le due scoppiò una lite: quindi il re Serse cercava di ammansirle e le aggiogava al carro con le cinghie sotto il collo. Una delle due si esaltò per questa bardatura e porgeva la bocca docile alle briglie, mentre l’altra recalcitrava (ejsfavda/ze, v. 194), con le mani spezza le redini del carro, e lo trascina a forza senza freni e rompe il giogo a metà. Allora, continua la regina, cade il figlio mio, e gli si accosta Dario e lo compiange; e Serse, come lo vede, si lacera le vesti addosso al corpo (pevplou~ rJhvgnusin ajmfi; swvmati, v. 199).
Per quanto riguarda l’Ellesponto il riferimento è ancora ai Persiani di Eschilo, quando lo spettro di Dario denuncia la temerarietà (qravso” ) del figlio il quale sperò di trattenere con delle catene il sacro Ellesponto, come fosse uno schiavo, e il Bosforo, fluida corrente sacra al dio; e mutava forma al passaggio: avvintolo con ceppi martellati, preparò una grande via a un grande esercito (vv. 744-748).
Nella Parodo il Coro rammenta che l’esercito distruttore di città è passato nella terra vicina, situata sulla riva opposta, dopo avere varcato per mezzo di zattere legate con funi lo stretto di Elle Atamantide, e avere gettato intorno al collo del mare il giogo di un sentiero dai molti chiodi ( zugo;n ajmfibalw;n aujcevni povntou, Persiani, vv. 65-72).
Ora abbiamo la pretesa di esportare la nostra democrazia che non è nemmeno sempre effettiva e che comunque non appartiene alla storia di altri popoli. Inoltre vogliamo violentare la natura incatenando i mari e forando le montagne. Si tratta di un ponte di barche descritto da Erodoto (VII, 36).
L’esperienza dei totalitarismi ha messo in rilievo un carattere fondamentale della democrazia: il suo legame con la diversità. La democrazia presuppone e nutre la diversità degli interessi così come la diversità delle idee. Il rispetto della diversità significa che la democrazia non può essere identificata con la dittatura della maggioranza sulle minoranze; la democrazia deve comportare il diritto all’esistenza e all’espressione per le minoranze e per i contestatori, e deve permettere l’espressione delle idee eretiche e devianti. Come si deve proteggere la diversità delle specie per salvaguardare la biosfera, così si deve proteggere la diversità delle idee e delle opinioni, nonché quella delle fonti dell’informazione (stampa, media) per salvaguardare la vita democratica”[82]. Laudata sii, Diversità/delle creature, sirena/del mondo! Talor non elessi/perché parvemi che eleggendo/io tescludessi,/o Diversità, meraviglia/sempiterna”[83].
Nella Festa nazionale dell’Unità, tenuta a Bologna alla fine dell’estate del 2007, Franco Frabboni ha detto che la libertà non può non coniugarsi con la diversità.
Appendice II.
Diversità delle culture ateniese e spartana messa in rilievo dai Corinzi e da Pericle nelle Storie di Tucidide. Come se Ioni e Dori fossero etnie diverse.
Uguaglianza nellAtene periclea è uguaglianza delle condizioni di partenza. Pericle nota che Atene non è uno stato militare, una universal caserma, eppure in battaglia gli Ateniesi vincono perché sono motivati a difendere la libertà. Lo Stato non interviene nella vita privata, né i cittadini sono pieni di sospetti reciproci. Essi hanno una viva sensibilità politica. Poi l’amore del bello con semplicità e della cultura senza mollezza. Atene è la scuola dell’Ellade.
Sparta voleva la completa subordinazione dell’individuo allo Stato; Atene voleva assicurare alla personalità individuale i suoi diritti.
Pericle tuttavia non vuole la libertà dallo Stato ma nello Stato e la libertà doveva tornare a vantaggio della collettività.
Pericle conta sulla volontaria dedizione dei cittadini e sul loro senso politico. La democrazia di nome era di fatto il governo del primo cittadino (II, 65, 9)
Note
[1]Un’intolleranza verso le altre culture che oggi serpeggia. In un giornale pur progressista, leggo, a proposito dei secondi Giochi Islamici , riservati alle donne:”Siamo fantasmi, per una settimana. Fantasmi che svolazzano. Rondini nere, marroni, verde scuro, nei nostri chador, nei nostri impermeabili dall’orlo lunghissimo. Fantasmi insaccati come salami…” e così via con il biasimo o l’irrisione di costumi diversi dai nostri fino all’impagabile “Si divertono, in maniera schifosa, ma si divertono”. Ho citato Emanuela Audisio dalla prima pagina de la Repubblica del 16 Dicembre 1997. In un articolo mio de la Repubblica del 27 dicembre 1997 (p. II) viceversa ho utilizzato il “relativismo” erodoteo per incoraggiare i lettori a diventare ciascuno se stesso:”Erodoto insegna il relativismo delle culture e racconta di popoli che compiangono i nati mentre si felicitano con i parenti dei morti, e di altre genti che praticano usanze ancora più strane e lontane da quelle greche. Eppure lo storico non infligge condanne, ossia riconosce a ogni nazione, e di conseguenza a ogni individuo, il diritto di usare costumi suoi. Queste storie antiche, se vengono attualizzate e personalizzate, possono diventare uno strumento critico contro l’omologazione e l’annullamento delle identità personali cui spinge la pubblicità tutta, talora perfino la scuola, con la pressione della norma che vuole negare i caratteri individuali schiacciandoli in una poltiglia informe”.
[2]Di questa idea attribuita a Protagora da varie fonti, diamo la formulazione del Cratilo (385e) di Platone:”w{sper Prwtagovra” e[legen levgwn–pavntwn crhmavtwn mevtron einai a[nqrwpon”, come diceva Protagora che l’uomo è misura di tutte le cose.
[3]p. 201 del II vol.
[4] M. Bettini, Le orecchie di Hermes, p. 246 n. 14.
[5]J. P. Vernant, Ambiguità E Rovesciamento , in Mito e tragedia nell’antica Grecia , pp. 89-90.
[6] Sei personaggi in cerca d’autore ( parte prima). Parla il personaggio del Padre. La commedia andò in scena la prima volta il 10 maggio 1921 al teatro Valle di Roma.
[7] Pubblicato a puntate sul settimanale “La fiera letteraria” nel 1926.
[8] M. Bettini, Le orecchie di Hermes, p. 246.
[9]Mito e Modernità Della Letteratura Greca , p.162.
[10] Diodoro racconta che il toro Api sopravvisse ad Alessandro e anzi quando questo morì di vecchiaia (ghvra/ ) l’uomo che se ne occupava spese tutto il molto denaro tenuto a disposizione (hJtoimasmevnhn corhgivan) per la sepoltura; inoltre ricevette da Tolemeo un prestito di cinquanta talenti d’argento (Biblioteca storica, I, 84, 8). Api venne identificato dai Greci con Epafo. Il gesto di Alessandro dunque aveva una forte carica simbolica .
[11] L’episodio è ricordato pure da Seneca che nel De Ira definisce Cambise “regem nimis deditum vino “(3, 14), re troppo dedito al vino. In questo Alessandro invero non si differenziò molto da Cambise.
[12] J. G. Droysen, Alessandro Il Grande, p. 184.
[13] Cfr. Cicerone: sunt omnes qui in populum vitae necisque potestatem habent tyranni, sed se Iovis optimi nomine mal’unt reges vocari” (De Republica, 3, 23), sono tiranni tutti quelli che hanno potere di vita e di morte sul popolo, ma preferiscono chiamarsi re con il nome di Giove ottimo.
[14]C. M. Bowra, Mito E Modernità Della Letteratura Greca , p. 170.
[15] Il tiranno è invidioso. Infatti L’Invidia personificata da Ovidio “exurit herbas et summa papavera carpit” (Metamorfosi, 2, 792), dissecca le erbe e stacca le cime dei papaveri.
[16] Un altro personaggio tragico che afferma l’insindacabilità del potere assoluto è Lady Macbeth nella scena del sonnambulismo:”What need we fear who knows it, when none can call our power to account it?” (Macbeth, V, 1), perché dovremmo temere chi lo sappia, quando nessuno può chiamare la nostra potenza a renderne conto?
[17] J. G. Droysen, Alessandro Il Grande, p. 215.
[18] il monocratismo non è greco come non lo è il monoteismo fautore di intolleranza.
[19] Attivo nella seconda metà del V secolo.
[20] Oxyrh. Pap. XI Fragmetum I
[21] Fr. 1 Sauppe.
[22] Del 348 a. C.
[23] Un caldo elogio di Atene, del 380 a. C.
[24] 384-322 a. C.
[25] Le orecchie di Hermes, p. 242.
[26] Luigi Pirandello, Op. cit., p. 173.
[27] Parte I, cap. II.
[28] Luigi Pirandello, L’umorismo, p. 174
[29] Giuseppe Giusti (1809-1850) S. Ambrogio, v. 60
[30] S. Ambrogio, vv. 65-71.
[31] S. Ambrogio, vv. 81-84.
[32] S. Ambrogio, vv. 89-90.
[33] Luigi Pirandello, L’umorismo (1908), p. 175.
[34] C. Magris, L’anello di Clarisse , p. 27.
[35] Composta tra il 18 e il 13 a. C.
[36] 1599-1600.
[37] Del 431 a. C.
[38] Marzo 1974. Vuoto di Carità, vuoto di Cultura: un linguaggio senza origini. (Scritti corsari, p. 44).
[39] Medea, 1970.
[40] quello della barbara Medea.
[41] J. Duflot, Pier Paolo Pasolini. Il sogno del centauro, Roma 1983, in Naldini, Pasolini, una vita , p. 81.
[42] “ajll ‘ wJ”, to; men; mevgiston, oijkoi’men kalw'”-kai; mh; spanizoivmeqa” (vv. 559-560).
[43] H. d. Balzac, Eugenia Grandet (del 1833), pp. 158-159.
[44] H. d. Balzac, Eugenia Grandet, p. 165.
[45] Del 409 a. C.
[46] 55 ca.-120 ca d. C.
[47] Scritti corsari , p. 49.
[48] Del 38 a. C.
[49] 39-65 d. C.
[50] Per essere tagliata.
[51]Mazzarino, op. cit., p. 459
[52] Arrivò a espellere dal Senato l’ex pretore Publio Manilio poiché aveva baciato in pubblico la moglie.
[53] Sono gli Osci del Sannio e della Campania, genti considerate particolarmente barbare.
[54] L. Canfora, L’educazione, in Storia di Roma, IV, Caratteri e morfologia, Einaudi, Torino 1989, pp. 739 sgg.
[55] 342-291 a. C. Il Duvskolo” fu presentato alle Lenee del 317 a. C.
[56] Cfr. Agamennone, 177.
[57] F. Cenerini, La donna romana, p. 13
[58] M. Yourcenar, Memorie di Adriano, p. 217.
[59] Storiografo e maestro di retorica trasferitosi a Roma nel 30 a. C.
[60] Secondo le quali l’incedio di Roma (del 64 d. C.) era stato ordinato (iussum incendium).
[61] Si pensi a Pietro Valpreda nel dicembre del ’69.
[62] Retore assiro vissuto a Roma alla fine del I sec. d. C.
[63] Alessandro Perutelli, Il testo come maestro in Lo spazio letterario di Roma antica, vol. I, p. 304.
[64] Mentre lavora tutto l’anno senza tregua (requies, v. 516)
[65] 40 ca. 104 d. C.
[66] “Gens non astuta nec callida, aperit adhuc secreta pectoris licentia ioci; ergo detecta et nuda omnium mens ” (Germania, 22) gente non astuta né scaltrita dall’esperienza, apre ancora adesso i segreti dell’animo nella libertà dello scherzo; pertanto è scoperto e messo a nudo l’animo di tutti
[67] Vietava tra l’altro di indossare vesti multicolori o di girare per Roma su un cocchio a doppio traino di cavalli.
[68] Evidentemente la parità fa paura ai maschi. Lo ripeterà Marziale (40 ca-104 d.C.) nella clausula di un suo epigramma:” Inferior matrona suo sit, Prisce, marito:/non aliter fiunt femina virque pares ” (VIII, 12, 3-4), la moglie, Prisco, stia sotto il marito: non altrimenti l’uomo e la donna diventano pari.
[69]Tito Livio, Storie , 34, 3, 2.
[70] Nietzsche, La nascita della tragedia, p. 70. Il dionisiaco è il rovescio dell’apollineo, è la negazione dellintroversione del principium individuationis, è il tuffarsi nella totalità estrovertendosi.
[71] F. Nietzsche, Frammenti postumi, Primavera 1888, 14.
[72] C. G. Jiung, Tipi psicologici, p. 156.
[73] J. Ortega y Gasset, Idea del teatro (del 1946) p. 93.
[74] Monica Cent’anni, Nemica a Ulisse, pp. 59 ss.
[75] T. S. Eliot, The Waste Land , v. 243.
[76] Monica Cent’anni, Nemica a Ulisse, pp. 76-77.
[77] Che compone e conclude la trilogia Il vello d’oro con L’ospite e Gli argonauti del 1821.
[78] C. Magris in Euripide, Grillparzer, Alvaro, Medea Variazioni sul mito a cura di M. G. Ciani, p. 17.
[79] J. Duflot, Pier Paolo Pasolini. Il sogno del centauro, Roma 1983, in Naldini, Pasolini, una vita , p. 81.
[80] S. Settis, , Futuro del “classico”, p. 11o e p. 114.
[81] M. Cacciari, Geofilosofia dell’Europa, p. 27.
[82] E. Morin, I sette saperi, p. 114.
[83] G. D’Annunzio, Laus Vitae, vv. 46-52. La Sirena del Mondo .