Giovane-giovanissima, esile, nasconde dietro i lineamenti delicati ed ingenui un carattere determinato, energie ideali dirompenti e – soprattutto – risorse teatrali strabiliantemente mature. Con il suo primo lavoro autonomo E’ bello vivere liberi!, Marta conferisce nuovo, brillante smalto ad una forma teatrale ormai consunta qual è il monologo e dimostra una versatilità invidiabile in qualità sia di interprete, sia di autrice, sia, infine, di regista. Ispirandosi alla biografia della prima staffetta partigiana d’Italia deportata ad Auschwitz, la Cuscunà ha saputo realizzare il suo «progetto di teatro civile», preservandolo da qualsiasi retorica o sviluppo prevedibile. La vicenda prescelta si presta di per sé ad una varietà di episodi avvincente; oltre a ciò, l’intreccio valorizza motivi secondari, ai margini della vulgata storicistica, con modalità teatrali articolate ed un risultato complessivamente originale. Il racconto in terza persona prende le mosse dall’infanzia di Ondina Petteani, cresciuta in un ambiente familiare atipico, nell’epoca fascista, ben presto esposta a fermenti di ribellismo. Rapidi salti e bozzetti figurativi conducono con lievità narrativa alla soglia dei 18 anni, quando Ondina, operaia a Monfalcone, viene “avvicinata” dai comunisti e cooptata per organizzare la Resistenza tra le schiere femminili. Nelle riunioni clandestine del partito comunista, al ritmo del klezmet la ragazza apprende l’entusiasmo dell’impegno di liberazione. Vivida è infatti la gioia con cui i personaggi coinvolti partecipano per l’affermazione della libertà e di nuovi diritti civili. Tra questi, con straordinario anticipo, e col contributo anche maschile, fioriscono i valori di emancipazione femminile e di parità tra uomo e donna. Forse per la prima volta sul palco, la Resistenza è raccontata nella sua qualità di laboratorio civile fecondo e di momento storico decisivo per l’elaborazione e la presa di coscienza dell’identità di genere.. Sullo sfondo, pure la questione slovena è tratteggiata dal punto di vista italiano e il clima di convivenza e reciproco soccorso tra le due etnie demistifica il prevalente cliché di una separatezza astiosa. [Proprio nella Venezia Giulia, difatti, i partigiani italiani si organizzarono prima che altrove, sulla scorta della collaborazione con i corrispettivi sloveni, radunatisi già nel 1941 contro l’occupazione fascista dei territori Jugoslavi]. Marta in scena non è mai sola poiché si dimostra abile nel caratterizzare e dare concretezza a figure secondarie, ben distinte dalla protagonista principale e dal profilo personale. Perciò si avvale non solo si quella versatilità interpretativa a cui sopra si accennava, ma anche di un teatrino di marionette. Il ricorso a questo tipologia popolare innesta un momento di sospensione favolistica durante il quale l’osservatore è ricondotto ad uno stupore infantile; nella cornice, delle vicende la tragicità è sdrammatizzata, mentre ne è esaltato l’aspetto picaresco, a cui giova anche il ricorso ad una koiné veneto-fiulana, ampiamente comprensibile e ricca di accenti comici. Tra un fondale e l’altro, Ondina affronta missioni impensabili e rischiose, finché viene catturata e deportata nel famigerato lager. Ecco che la sua storia offre quest’ulteriore occasione di divergere rispetto all’epidermico nozionismo divulgato, rammentando come nei campi di concentramento confluirono non solo milioni di ebrei ed altri “diversi”, ma anche quei militanti politici troppo spesso trascurati. La sequenza della prigionia si svolge su un secondo scenario laterale: un finto vagone ferroviario si schiude ad ospitare una scena di teatro di figura con pupazzi. Ondina si disincarna da Marta e assume le fattezze di un burattino disarticolato, smunto, straniato e straniante. Nel soverchiante silenzio l’attrice lo manovra instaurando un rapporto di empatia ma anche di freddezza disumanizzante propria del carnefice nei confronti della vittima. La forza eloquente della sequenza è agghiacciante, in virtù di una compostezza registica encomiabilmente calibrata e dell’architettura che oggettiva quasi brechtianamente l’orrore nazista, ormai adagiato nell’immaginario collettivo. La solidarietà tra le prigioniere, accomunate dalla loro condizione, dai loro ideali, nonché dall’appartenenza di genere, introduce note di calore, rapidamente soppresse. Nonostante l’epilogo della deportazione, a cui comunque la protagonista sopravvivrà «violentata nel fisico e nella psiche», la conclusione riafferma la leggerezza, il coraggio, l’entusiasmo propri della giovinezza, del popolino, della carica ideale. L’invito a «resistere sempre» perché «è bello vivere liberi» si appella soprattutto ai coetanei dell’attrice, ricordando come in un clima di «ideali forti» e di un «generoso altruismo», «noi giovani c’eravamo schierati». E’ in queste ultime parole che si percepisce, più incisivamente che altrove, l’alto grado di partecipazione dell’autrice rispetto ai contenuti del proprio lavoro: Marta attesta come segmenti delle giovani generazioni siano ancora attenti al rispetto della memoria storica, alla ricezione e trasmissione del valore emblematico di chi si è sacrificato per il bene collettivo, alla necessità indefessa di impegno civile.
A buon diritto, dunque, considerando anche la non comune, proteiforme formazione tecnica, Marta è stata nominata vincitrice nel 2009 della sezione Ustica del Premio Scenario, promossa dai parenti delle vittime della strage e rivolta ad emergenti portavoci di temi legati alla memoria e al civismo.