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27 Gennaio 2019Materiali per una riflessione sulla conquista delle Americhe
di Roberto Persico
La distruzione degli indiani nel XVI secolo va esaminata da due diversi punti di vista, quantitativo e qualitativo. A quell’epoca, in mancanza di statistiche, il problema del numero degli indiani uccisi poteva essere oggetto di semplici supposizioni, che davano luogo alle risposte più contraddittorie. […] Le cose sono tuttavia completamente cambiate da quando alcuni storici odierni sono riusciti, con metodi ingegnosi, a stimare con notevole verosimiglianza la popolazione del continente americano alla vigilia della conquista, per confrontarla con quella che vi si trovava cinquanta o cento anni più tardi, secondo i censimenti spagnoli. Nessuna seria contestazione ha potuto essere mossa contro queste cifre, e coloro che ancor oggi continuano a rifiutarle, lo fanno semplicemente perché, se la cosa fosse vera, sarebbe molto urtante. Senza entrar troppo nei particolari, e per dare soltanto un’idea globale del fenomeno, si può ritenere che nel 1500 la popolazione del globo fosse dell’ordine di 400 milioni di abitanti, 80 dei quali residenti in America. Verso la metà del XVI secolo, di questi 80 milioni ne restano 10. Limitando il discorso al Messico, alla vigilia della conquista la popolazione era circa di 25 milioni di abitanti; nel 1600 era ridotta a un milione.
Se c’è un caso in cui si può parlare, senza tema di smentite, di genocidio, è proprio questo. […]
Si potrebbe obiettare che non ha senso cercare delle responsabilità, o anche parlare di genocidio anziché di catastrofe naturale. Gli spagnoli non procedettero a uno sterminio diretto di quei milioni di indiani, né sarebbero stati in grado di farlo. Se si guarda alle forme assunte dalla diminuzione della popolazione, si constata che esse furono tre, e che la responsabilità degli spagnoli fu inversamente proporzionale al numero delle vittime attribuibile a ciascuna di esse:
per uccisione diretta, durante le guerre o al di fuori di esse (numero elevato, ma relativamente esiguo): responsabilità diretta;
in seguito a maltrattamenti (numero più elevato): responsabilità (un po’) meno diretta;
per malattie, per «choc microbico» (la maggior parte della popolazione): responsabilità diffusa e indiretta. […]
Il più antico [documento] è un rapporto steso nel 1516 da un gruppo di domenicani per M. de Chievres, ministro di Carlo I (futuro Carlo V); esso concerne fatti avvenuti nelle isole caraibiche.
Sul modo in cui venivano trattati i bambini: «Alcuni cristiani incontrarono un’indiana, che teneva in braccio un bambino a cui dava il latte; e poiché il cane che li accompagnava aveva fame, strapparono il bambino dalle braccia della madre e lo gettarono vivo in pasto al cane, che lo fece a pezzi sotto gli occhi della donna. (…) Quando fra i prigionieri c’erano delle donne che avevano da oco partorito, se i neonati si mettevano a piangere, li prendevano per le gambe e li sbattevano contro le rocce o li gettavano fra gli sterpi perché finissero di morire».
Sui rapporti con gli operai delle miniere: «Ognuno di loro [i capomastri delle miniere] aveva preso l’abitudine di andare a letto con le indiane che dipendevano da lui, se gli piacevano, fossero ragazze o maritate. Mentre il capomastro se ne stava con l’indiana nella capanna, il marito veniva mandato a estrarre l’oro nelle miniere; la sera, quando il malcapitato tornava a casa, non solo il capomastro lo caricava di botte o lo frustava perché non aveva raccolto abbastanza oro, ma, di solito, lo legava anche mani e piedi e lo gettava sotto il letto come un cane, mentre lui si sdraiava sopra il letto con la moglie».[…]
Quali sono le motivazioni immediate di questo comportamento degli spagnoli? Uno è incontestabilmente il desiderio di arricchirsi presto e subito, senza curarsi del benessere e della stessa vita altrui. Si torturano gli indiani per strappar loro il segreto sui nascondigli dei tesori; si sfruttano gli indigeni per ricavarne dei profitti.
Il desiderio di arricchirsi non è certo una novità; la passione per l’oro non ha nulla di specificamente moderno. Lo è invece, almeno in parte, questa subordinazione ad essa di ogni altro valore. Il conquistador non ha cessato di aspirare ai valori aristocratici, ai titoli nobiliari, agli onori e alla stima; ma ha capito perfettamente che tutto può essere ottenuto con il denaro, che questo non è soltanto l’equivalente universale di tutti i valori materiali, ma rende possibile anche l’acquisto di tutti i valori spirituali. Questa omogeneizzazione dei valori per mezzo del denaro è un fatto nuovo, che preannuncia la mentalità moderna, egualitaria e attenta all’economia.
Tzvetan Todorov, La conquista dell’America, Einaudi, Torino 1984, pp. 161-163; 169-170; 173-174
Della protezione legale degli indiani – prolungamento di quella che veniva assicurata ai contadini di Spagna – e dell’affetto che gli indiani nutrivano per i religiosi, esistono numerose testimonianze. Citiamo una di queste testimonianze, tanto più incontestabile in quanto ci proviene da un visitatore straniero in Messico – e per di più protestante -, il mercante inglese Henry Hawks, il quale trascorse cinque anni nella Nuova Spagna, e non era molto disposto ad incensare gli spagnoli, essendovi stato condannato al bando, nel 157, dall’Inquisizione.
Nella sua Relazione scritta su richiesta del signor Richard Hakluyt, redatta al suo ritorno in Inghilterra nel 1572, si legge:
«Gli indiani hanno molta reverenza per i religiosi, poiché grazie a loro e alla loro influenza si vedono liberi dalla schiavitù […] Gli indiani sono favoritissimi anche dai tribunali, che li chiamano i loro orfani. Se qualche spagnolo arreca loro offesa o danno, spogliandoli di qualche cosa (come solitamente avviene), e se ciò capita in un luogo dove c’è un tribunale, l’aggressore viene punito come se avesse offeso un altro Spagnolo.
Quando uno Spagnolo si trova lontano da Città del Messico o da altro luogo dove esista un tribunale, pensa che potrà fare al povero indiano quello che gli aggrada, considerata che è ben lontana l’istanza che potrebbe riparare al malfatto. E così obbliga l’Indiano a fare ciò che gli comanda; se l’Indiano rifiuta, lo batte e lo maltratta a suo piacimento. L’Indiano dissimula il proprio risentimento fino a che si presenta l’occasione di manifestarlo. Allora, prendendo con sé uno dei suoi vicini, se ne va a Città del Messico a presentare la propria querela, anche se fino alla capitale ci sono venti leghe di cammino.
La querela è ammessa all’istante. Anche se lo Spagnolo è un nobile o un potente caballero gli viene ordinato di comparire immediatamente, e viene punito nei suoi beni o nella sua persona, con l’imprigionamento, come al tribunale sembra opportuno.
Questa è la ragione per cui gli indiani sono sudditi così docili: se essi non fossero così favoriti, gli spagnoli l’avrebbero presto fatta finita con loro, oppure loro stessi massacrerebbero gli Spagnoli.» […]
Il Patronato regio non cessò infatti di prendere molto sul serio i doveri del suo Vicariato cattolico, fino a cadere nell’eccesso di scrupolo. Il che non impedisce, certamente, le angherie particolari e limitate a cui abbiamo fatto precedentemente cenno. Ma che rende assolutamente ingiusto parlare di genocidio indiano” perpetrato dagli spagnoli; ingiusto e aberrante. Perché, se genocidio vuol dire massacro di una razza, l’America spagnola è proprio la sola delle Americhe dove, ancora oggi, la razza indiana e i suoi meticci costituiscono l’immensa maggioranza della popolazione.
Si è avuta, si dirà, regressione generale e massiccia della popolazione indigena in seguito alla conquista, prima che la stessa popolazione conosca una nuova crescita. Ma quella regressione è la conseguenza di un fenomeno puramente naturale: il contagio microbico apportato dagli europei, che colpì brutalmente popolazioni non immunizzate. Lo stesso fenomeno è stato constatato in questi ultimi decenni in molti territori indigeni d’America, fino ad allora preservati dall’insediamento europeo. […]
Contrariamente alle visioni semplicistiche, l’insediamento spagnolo non fu affatto ricevuto come una aggressione” da un gran numero di popoli indigeni. E quali che siano stati l’energia, il valore militare – talora brutale -, l’intelligenza politica dei conquistadores, mai, se ci fosse stata veramente aggressione”, le loro scheletriche truppe di poche centinaia di uomini avrebbero potuto vincervi durevolmente dei potenti imperi.
E’ evidente, al contrario, che i conquistadores furono accolti da molti popoli indigeni come l’aiuto decisivo che permise loro di liberarsi dall’oppressione che fino ad allora avevano subito da parte di quei tirannici imperi. Un’oppressione tanto religiosa quanto politica: in Messico erano frequenti le cosiddette guerre sacre”, che procacciavano agli oppressori aztechi le folle di uomini necessari ai continui sacrifici umani della loro mitologia, anch’essa tirannica.
Quando Cortés sbarca con la sua ridottissima truppa sulle coste di Vera Cruz, viene presto accolto come un alleato dai Cempoaltechi, appartenenti alla grande civiltà totonachi, creatori dell’arte più pura e più moderna dell’antico Messico. I guerrieri cempoaltechi costituiscono la maggioranza dell’esercito che si addentra poi verso il cuore del Messico, e combattono al fianco degli Spagnoli contro i Tlaxcaltechi.
Questi ultimi costituivano un’importante popolazione che, unica nel Messico centrale, era riuscita a conservare la propria indipendenza, a dispetto delle incessanti aggressioni degli Aztechi. Il tempo di riflettere sulla nuova situazione creata dall’arrivo degli spagnoli, ed anche i Tlaxcaltechi si schierano dalla parte di Cortés e della sua fede. Saranno d’ora innanzi i suoi fedeli alleati[i] e, per la loro massa ancora più numerosa così come per le loro iniziative militari e politiche, i veri vincitori dell’impero azteco. […]
Tant’è vero che tutta una scuola di storici messicani, sebbene di ispirazione fortemente laica ed ispanofoba, la scuola indigenista”, afferma, non senza buone ragioni, che la conquista fu opera «meno di Cortés che non dei gruppi indigeni, stanchi della tirannia azteca e desiderosi di scuotersela di dosso, i quali si gettarono nelle braccia degli spagnoli».
Jean Dumont, Il Vangelo nelle Americhe, Effedieffe, Milano 1992; pp. 40-42; 60-61; 65-68
L’idea che tutti i popoli del mondo formino una sola umanità non è, in realtà, consustanziale al genere umano. Ciò che ha per lungo tempo distinto gli esseri umani dalla maggior parte delle altre specie animali è precisamente il fatto che essi non si riconoscono tra loro. Per un gatto, un altro gatto è sempre un gatto. Un uomo, viceversa, deve adempiere a certe draconiane condizioni per non essere radiato, senza possibilità diu appello, dal mondo degli uomini. In origine, era caratteristica dell’uomo riservare gelosamente alla sua sola comunità il titolo di umana.
In una conferenza dell’UNESCO, Claude Lévi-Strauss ricordava che «la nozione di umanità che include, senza distinzione di razza o di civiltà, tutte le forme della specie umana, è di apparizione assai tardiva e di espansione limitata. Per vaste frazioni della specie umana e per decine di millenni, questa nozione sembra essere totalmente assente. L’umanità cessa alle frontiere della tribù, del gruppo linguistico, talvolta perfino del villaggio; a tal punto che molte popolazioni cosiddette primitive si autodesignano con un nome che significa ‘uomini (o talvolta – con maggiore discrezione, diremmo – i ‘buoni, gli ‘eccellenti, i ‘completi), sottintendendo così che le altre tribù, gli altri gruppi o villaggi, non partecipano delle virtù – o magari della natura – umane, ma siano tutt’al più composte di ‘cattivi, di ‘malvagi, di ‘scimmie terrestri, o di ‘pidocchi. Si arriva spesso al punto di privare lo straniero anche di quest’ultimo grado di realtà facendone un’fantasma o una ‘apparizione.» […]
La nostra civiltà deve alla Bibbia e alla filosofia il ripudio di questa evidenza e la contestazione di questa separazione. Al popolo con il quale entra in alleanza e che copre d’invettive come nessun’altra divinità ha mai fatto nei confronti della nazione prediletta, il Dio della Bibbia proclama: ‘Voi e lo straniero sarete uguali davanti all’Eterno. Il Dio unico rivela agli uomini l’unità del genere umano. […]
Nata da questa semplice domanda, immensa e sacrilega, «che cos’è?», la filosofia porta alla stessa rivelazione, ma per la via del tutto diversa dello stupore puramente umano. Provare, secondo le parole di Goethe, «un senso di timor panico davanti alla prodigiosa realtà» sulla quale nulla potrebbe ormai intervenire; resistere alle risposte trasmesse dagli avi per chiedersi con una sicurezza per la prima volta raggiunta: «Che cos’è il Vero? Che cos’è il Giusto? Che cos’è il Bello?»; non dire più: «Questo è buono, perché così noi lo consideriamo», ma: «Dov’è il Bene, perché noi possiamo servirlo?», tutto ciò significa far posto dentro di sé a uno sguardo che va fuori di sé. I costumi, che dalla notte dei tempi erano giudici, si vedono improvvisamente citati in giudizio e giudicati. Anziché essere percepita come verità, la tradizione è pensata come tale e la straordinaria nozione che ne emerge, o che si lascia indovinare per effetto di questa presa di distanze, è quella di una umanità-una. […]
Siamo nel 1550. Da oltre mezzo secolo la Spagna ha messo piede in America e i suoi grandi esploratori si sono trovati davanti popolazioni sconosciute e bizzarre, con le quali non erano stati preparati a confrontarsi né dal racconto biblico della Creazione, né dalle diverse esperienze di alterità che l’Europa aveva potuto fare. Chi sono queste creature impiumate? Meritano il nome di uomini? Hanno almeno un’anima? Sono accessibili alla ragione? Malgrado il loro esotismo, possono essere considerati prossimo? Come trattarli? Bisogna, e secondo quali modalità, dar loro una istruzione cristiana? Dato che li si evangelizza, si ha diritto di appropriarsene?
Il 16 aprile 1550, ossessionato da queste domande (che certamente non hanno impedito alla Spagna di mettere a ferro e fuoco il Nuovo continente), Carlo V ordina di sospendere tutte le esplorazioni e convoca una Giunta per una grande discussione teologica, al fine di «prendere le misure atte a soddisfare la ragione e la giustizia nelle future conquiste».
Nel mese di agosto dello stesso anno, Ginés de Sepúlveda e Bartolomeo. de las Casas, «il grande collettore delle lacrime degli indiani», si affrontano così nella cappella del convento di San Gregorio a Valladolid davanti a una commissione composta di giuristi e di teologi. L’uno dopo l’altro, i due avversari devono rispondere a questa domanda: «è lecito a Sua Maestà far guerra agli indiani prima di predicare loro la fede.?». Secondo Sepúlveda, quattro ragioni giustificano la guerra e la rendono non solo lecita, ma raccomandabile: «1°, la gravità dei delitti degli indiani, soprattutto la loro idolatria e i loro peccati contro natura; 2°, la grossolanità della loro intelligenza, che ne fa una nazione ‘servile, ‘barbara, destinata ad essere sottomessa all’obbedienza da parte di uomini più avanzati, quali gli spagnoli; 3°, le esigenze della fede, poiché il loro assoggettamento renderà più facile e rapida la predicazione che verrà fatta loro; 4°, il male che si fanno fra loro, uccidendo degli uomini innocenti per offrirli in sacrificio».
Ellenista notevole, Sepúlveda ha appena tradotto la Politica di Aristotele. E, proprio ponendosi molto logicamente sotto l’autorità suprema del filosofo presenta la relazione fra i conquistatori e gli indigeni come «il dominio della perfezione sull’imperfezione, della forza sulla debolezza, della virtù eminente sul vizio». […]
Las Casas, per rispondere, si pone apparentemente sullo stesso terreno filosofico di Sepúlveda. All’idea che sia legittimo e necessario asservire questi popoli senza fede né legge, il vescovo di Chiapas oppone i costumi ben consolidati degli indiani e la loro vita civilizzata. E poiché il riferimento è ad Aristotele, rivolta Aristotele contro il proprio avversario, dimostrando, a forza di descrizioni, che le genti del Nuovo Mondo danno prova di prudenza, cioè di attitudine a governare, nella loro condotta individuale, nella loro organizzazione familiare e anche nelle loro comunità, città e reami.
Ma questa dimostrazione di ortodossia aristotelica è un procedimento retorico e non una vera dichiarazione di fedeltà. Las Casas e Sepúlveda, infatti, non parlano la stessa lingua. L’uno abita ancora il cosmo, mentre per l’altro non ci sono più nell’universo elementi ontologicamente differenziati. La natura, secondo l’apologeta della conquista, si fonda su un principio di disuguaglianza e conosce ranghi, gradi, livelli gerarchici e ordini distinti. Agli occhi del difensore degli indiani, la stessa legge governa uno spazio unificato e una realtà omogenea. In altri termini, nella maniera di vedere e di pensare il mondo che è già quella di Las Casas, è l’idea stessa di schiavo per natura ad apparire inaccettabile: la natura è ciò che unisce gli uomini, non ciò che li separa. […]
Due lingue, dunque, e due mondi tra i quali i giudici di Valladolid si rifiutarono di scegliere. Alla fine dell’interminabile disputa non fu presa alcuna decisione. Il conflitto dottrinale fra il campione dei conquistadores e il loro avversario dichiarato rimase senza conclusione. Sepúlveda scrisse a un amico che i giudici, con l’eccezione di un solo teologo, avevano considerato legittima la dominazione dei cristiani sui barbari del Nuovo Mondo. Quanto a Las Casas, sostenne che l’assemblea si era schierata a sua favore, ma che «sfortunatamente per gli indiani» le sue «decisioni non erano state realizzate bene».
A chi credere? Si sa che la Corona non dette mai il suo imprimatur agli scritti bellicosi di Sepúlveda, ma si sa anche che il consiglio municipale di Mexico gli offrì in regalo, come testimonianza di stima e di gratitudine, abiti e gioielli.
Ma ciò nonostante Las Casas ha cambiato il senso della parola ‘barbarie e le ha aperto, all’ombra della sua definizione ufficiale, una carriera sovversiva, che è ben lungi dall’essere conclusa. […] Lévi-Strauss, ultimo in ordine di tempo dei grandi eredi di questa bella tradizione, le dà anche la sua formulazione più tagliente: «il barbaro è anzitutto l’uomo che crede nella barbarie».
Alain Finkielkraut, L’umanità perduta, Liberal, Roma 1997; p. 9-12; 17-25
I viaggi oceanici degli esploratori europei che hanno circumnavigato l’Africa e sono arrivati fino in Asia, attraversando l’Atlantico fino a raggiungere le Americhe, hanno creato per la prima volta nella storia una unità di tutti i continenti, portandoli tutti a contatto e preparando la via di uno scambio globale di alimenti e merci, di piante e di animali domestici, di sapere e di idee.
Ma c’era anche un lato negativo. Quelle nuove linee di comunicazione intercontinentale permisero anche lo scambio delle malattie fra i due emisferi e questo a sua volta portò alla comparsa di nuovi ceppi virulenti che richiesero nuove diagnosi e nuove terapie. E poteva trattarsi di fenomeni strettamente medici come di fenomeni sociali; il nuovo ceppo dello schiavismo per esempio si andò ad aggiungere alle già numerose e diffuse istituzioni basate sulla schiavitù nel Vecchio e nel Nuovo Mondo.
Anche se era conosciuta nell’Europa medievale, la schiavitù era meno importante in quel contesto, molto meno significativa per la vita sociale ed economica dell’Europa di quanto non lo fosse nell’America precolombiana o nell’Africa musulmana e non musulmana. L’incontro di tutte quelle culture diede vita a una sua variante nuova, nota come lo schiavismo coloniale. Le fertili terre dell’America in questo senso offrivano sia l’opportunità che lo stimolo. La fantasia creativa e la cupidigia dell’Europa , che imparò subito e attinse al sistema delle piantagioni e del commercio degli schiavi dell’Africa e del mondo islamico, trovò immediatamente la soluzione. E così lo schiavismo e il mercato marinaro degli schiavi importati divenne un fattore determinante degli scambi. incrociati tra le quattro sponde dell’Atlantico, Europa occidentale, Africa occidentale, Nordamerica e Sudamerica.
Ma l’Europa fu anche la prima a decidere di concedere la libertà agli schiavi: prima nella stessa Europa e poi nelle colonie e alla fine in tutto il mondo. La tecnologia occidentale aveva reso inutile la schiavitù; le idee occidentali la resero intollerabile. Ci sono state tante forme di schiavitù, ma una sola abolizione della schiavitù, che alla fine è riuscita a scardinare perfino sistemi schiavistici radicati e ramificati come quelli del Vecchio Mondo. […]
Ma allora perché i popoli europei si imbarcarono in quella grande espansione e, attraverso la conquista, la conversione e la colonizzazione cercarono di creare un mondo eurocentrico? Era forse, come credono alcuni, per via di un qualche vizio profondo, forse per una qualche tara ereditaria? E’ una domanda che non può avere risposta perché non è posta nei termini giusti. Nella decisione di conquistare, soggiogare e saccheggiare altri popoli, gli europei non facevano altro che seguire l’esempio avuto dai loro predecessori e di fatto conformarsi alla pratica comune a tutta l’umanità. In particolare, il loro attacco alle vicine terre islamiche dell’Africa e dell’Asia era chiaramente un caso di «fai agli altri quello che hanno fatto a te». Non è tanto interessante capire perché ci provarono, ma perché ci riuscirono, e perché, essendoci riusciti, si pentirono del loro successo come di un peccato. Il successo fu l’unico dell’era moderna; il pentimento lo fu addirittura di tutta la storia. […]
Tutte le culture hanno le loro qualità – la loro arte e musica, filosofia e scienza, letteratura e modi di vita, tutte hanno contribuito al progresso dell’umanità – e non c’è dubbio che conoscere tutto ciò non può che farci bene e arricchire le nostre vite. Il riconoscimento di questa infinita varietà umana e il bisogno di studiarla e imparare da essa è forse una delle massime e più creative novità introdotte dall’Occidente. Perché è stato solo l’Occidente a sviluppare una tale curiosità nei confronti delle altre culture, questo desiderio di impararne le lingue e studiarne le vite, di apprezzarne e rispettarne i risultati. Le altre grandi civiltà della storia si sono tutte – senza eccezione – viste come autosufficienti e hanno guardato agli outsider, o anche alla sottocultura interna dei loro componenti più poveri, con disprezzo, considerandoli barbari, gentili, intoccabili, infedeli, diavoli stranieri e utilizzando altre, più familiari e meno formali, espressioni di disprezzo. Solo sotto la pressione della conquista e della dominazione hanno fatto uno sforzo per imparare la lingua di altre civiltà e, per autodifesa, cercato di capire le idee e i costumi dei loro dominatori. In altre parole, imparavano da quelli che erano costretti a riconoscere come loro governanti o maestri. La speciale combinazione della curiosità spontanea relativa all’Altro e del rispetto per la sua alterità rimane un tratto distintivo delle culture occidentali e occidentalizzate ed è ancora guardata con stupore e rabbia da coloro che non la condividono né la concepiscono. […]
Imperialismo e sessismo sono parole di conio occidentale, non perché l’Occidente abbia inventato quelle piaghe, ma perché le ha riconosciute, ha dato loro un nome e le ha condannate come mali e perché le ha combattute con forza – e non del tutto invano – per ridurne la presa ed aiutarne le vittime. Se, ripetendo uno slogan, la cultura occidentale davvero dovesse «finire», imperialismo, razzismo e sessismo non finirebbero con lei. A morire sarebbero più probabilmente la libertà di denunciarli e gli sforzi per mettere loro fine.
Bernard Lewis, Culture in conflitto, Donzelli, Roma 1997; pp. 83-85; 89-91
Particolarmente da elogiare sono i risultati (prima d’ora spesso misconosciuti e calunniati) dell’amministrazione coloniale spagnola, che seppe, dopo la confusione dei primi tempi di conquista, frenare con sorprendente energia la violenza dei conquistatori, porre le basi del normale governo di quei vastissimi imperi e dello sviluppo in senso civile e pacifico della loro economia, impedire l’eccessivo sfruttamento privato e costruire un sistema di economia e di produzione di monopolio diretta dallo Stato che era veramente un capolavoro. Soprattutto, al contrario del metodo più tardi seguito nelle colonie di popolamento inglese e francese dell’America del Nord, gli Indiani non furono cacciati o sterminati, bensì salvati dalla distruzione, grazie a un ben ponderato sistema di leggi protettive quale non fu mai raggiunto da alcun altro popolo colonizzatore, furono da nomadi resi sedentari ed educati a un lavoro regolare. Lo zelo missionario degli ordini religiosi cattolici ebbe in questa legislazione una efficacia benefica. Una volta finita l’orrenda orgia di violenza dell’epoca dei conquistatori, i re cattolici hanno fatto in complesso ottima prova – nonostante molti sbagli isolati – come provvidi sovrani cristiani dei loro popoli coloniali.[ii]
Gerhard Ritter, La formazione dell’europa moderna, Laterza,; Roma-Bari 1985, p.375
Note:
[i] Questa fedeltà sarà pienamente onorata dagli spagnoli. I Tlaxcaltechi riceveranno dal re di Spagna la dichiarazione della loro libertà di autogoverno, della loro universale hidalguìa (nobiltà) e della loro esenzione fiscale, versando alla Spagna solo un simbolico tributo (una manciata di grano a persona), e vivendo liberi con i propri tribunali, controllati unicamente, per le cause di rilevante importanza, da un alcalde mayor, giudice superiore spagnolo, facente funzione di governatore.
[ii] Il giudizio di Ritter ci sembra tanto più significativo in quanto espresso da uno storico protestante, che non avrebbe perciò alcuna ragione di difendere, per motivi ideologici, l’operato della Corona di Spagna o dei missionari cattolici.