Vita di Galileo
27 Gennaio 2019ATTO QUARTO
27 Gennaio 2019di Gabriele D’Annunzio
Libro primo delle Laudi del Cielo del Mare della Terra e degli Eroi
Alle Pleiadi e ai Fati
Gloria al Latin che disse: «Navigare
è necessario; non è necessario
vivere». A lui sia gloria in tutto il Mare!
O Mare, accenderò sul solitario
monte che addenta e artiglia te (leone
sculto da qual Ciclope statuario?)
un salso rogo estrutto col timone
e la polèna della nave rotta,
che ha la tortile forma del Tritone.
Il ricurvo timon per cui condotta
fu la nave nell’ultima procella
con la barra tra l’una e l’altra scotta,
la divina figura onde fu bella
contra il flutto la prua sotto il baleno
della nube che vinto avea la Stella,
ardere voglio avverso il Mar Tirreno,
l’ornamento superbo e il rude ordegno,
le Pleiadi invocando al ciel sereno.
Crepiterà nel fuoco il salso legno,
su la cervice del leon proteso;
e tal’uno vedrà di lungi il segno
insolito e dirà: «Qual mano acceso
ha il rogo audace? Quale iddio su l’erte
rupi nel cuore della fiamma è atteso?».
Non un iddio ma il figlio di Laerte
qual dallo scoglio il peregrin d’Inferno
con le pupille di martìri esperte
vide tristo crollarsi per l’interno
della fiamma cornuta che si feo
voce d’eroe santissima in eterno.
«Né dolcezza di figlio…» O Galileo,
men vali tu che nel dantesco fuoco
il piloto re d’Itaca Odisseo.
Troppo il tuo verbo al paragone è fioco
e debile il tuo gesto. Eccita i forti
quei che forò la gola al molle proco.
L’àncora che s’affonda ne’ tuoi porti
non giova a noi. Disdegna la salute
chi mette sé nel turbo delle sorti.
Ei naviga alle terre sconosciute,
spirito insonne. Morde, àncora sola,
i gorghi del suo cor la sua virtute.
Di latin sangue sorse la parola
degna del Re pelasgo; e il sacro Dante
le diede più grand’ala, onde più vola.
Re del Mediterraneo, parlante
nel maggior corno della fiamma antica,
parlami in questo rogo fiammeggiante!
Questo vigile fuoco ti nutrica
il mio vóto, e il timone e la polèna
del vascel cui Fortuna fa nimica,
o tu che col tuo cor la tua carena
contra i perigli spignere fosti uso
dietro l’anima tua fatta Sirena,
infin che il Mar fu sopra te richiuso!
L’annunzio
Udite, udite, o figli della terra, udite il grande
annunzio ch’io vi reco sopra il vento palpitante
con la mia bocca forte!
Udite, o agricoltori, alzati nei diritti solchi,
e voi che contro la possa dei giovenchi, o bifolchi,
tendete le corde ritorte
come quelle del suono tese nelle antiche lire,
e voi, femmine possenti in oprare e partorite,
alzate su le porte,
e voi nella luce floridi, e voi nell’ombra curvi,
fanciulli loquaci, vecchi taciturni,
o vita, o morte,
uditemi! Udite l’annunziatore di lontano
che reca l’annunzio del prodigio meridiano
onde fu pieno tutto quanto
il cielo nell’ora ardente! V’empirò di meraviglia;
v’infiammerò di gioia; vi trarrò dalle ciglia
il riso e il pianto.
Salirà dai profondi cuori un grido immenso
come quel che improvviso tonò nel silenzio
del giorno santo.
Ornate di purpuree bende il giogo oneroso,
delle più fresche erbe gli alari che il fuoco ha róso
nel fervido camino;
sospendete alla trave arida la ghirlanda aulente,
coronate la fronte del toro, il vaso lucente,
la pietra del confino.
La bellezza del mondo sopita si ridesta.
Il mio canto vi chiama a una divina festa.
Nelle vostre rene rudi, ecco, il mio canto versa
un sangue divino.
Udite, udite, o figli del Mare, udite il grande
annunzio ch’io vi reco sopra il vento giubilante
con la mia bocca sonora,
nudi nell’ombra cerula delle vele mentre vibra
come nella selva il curvo legno per ogni fibra
da poppa a prora
e il pino dischiomato che per l’alto sal viaggia
pur anco geme in lunghe lacrime la selvaggia
gomma onde il cuor gli odora,
uditemi! Io vi dirò quel che da voi s’attende,
le vostre sorti auguste, la deità che in voi splende
e il Mar che è divino ancóra.
Gittate le reti su i giardini del Mare
ove rose voraci s’aprono tra il fluttuare
dell’erbe confuse;
cogliete il ramo vivo nella selva dei coralli
ove fremono eretti gli ippocampi, cavalli
esigui, e le meduse
trapassano in torme leni come in aere nube;
cogliete i fiori equorei, molli come le piume,
dolci come le ciglia chiuse;
fioritene ogni albero, fioritene ogni antenna,
il timoniere alla barra, il gabbiere alla penna,
e il piloto che sa i cieli,
e i bracci dell’àncora tenace che sa gli abissi,
e le escubie, occhi della nave aperti e fissi
verso i lontani veli
ove s’asconde l’isola felice o la tempesta!
Il mio canto vi chiama a una divina festa.
La bellezza del mondo sopita si ridesta
come ai dì sereni.
Mentì, mentì la voce dinanzi alle dentate
Echìnadi tonante nella calma d’estate
verso la nave. Il giorno
spegneasi entro quell’acque, fumido; come una pira
ardea Paxo; Achelòo, pensoso di Deianira
e del divelto corno
dalla forza d’Eràcle nell’iterata lotta,
respirava per la sua vasta bocca nel mare e sola
la sua brama era intorno.
O padre fecondatore dei piani, re violento, atroce
sposo, testimonio eterno sei tu. Mentì la voce
che gridò: «Pan è morto!».
Ma pieno era il giorno, ma era a sommo del cerchio
il Sole, il maestro dell’opre eccellenti, lo specchio
infaticabile degli umani,
l’amico delle fonti, la chiara faccia, il puro
occhio che vede tutte le cose (udite, udite!); e tutto
il silenzio dei piani
l’adorava offerendo al suo fuoco le messi
altrici delle stirpi, i mietitori genuflessi
dalle consacrate mani,
e le falci terribili, e i vasi d’argilla proni
onde l’acqua trasuda, simili alle fronti
madide nella fatica,
tramandati dai padri nella forma immortale,
e i rossi carri aspettanti il peso cereale
fermi presso la bica,
e le chiome delle femmine seguaci, e le criniere
dei cavalli furibondi sotto la sferza crudele
e la schiuma di quel furore, e le preghiere
grandi su l’opra antica.
Pieno era il giorno, o figli, era il Sole imminente;
e tutto il silenzio dei mari l’adorava offerendo
al suo fuoco l’aroma
del sale purificante, la felicità dell’onda,
della rupe immobile, dell’alga vagabonda,
della ferrea prora,
il promontorio fulvo come leone in agguato
con proteso l’artiglio, il golfo dominato
dalla città che dolora
nelle sue mura ansiosa, e i vitrei meandri
delle correnti, e i gemmei limitari degli antri
che solo il vento esplora.
Tutto era silenzio, luce, forza, desìo.
L’attesa del prodigio gonfiava questo mio
cuore come il cuor del mondo.
Era questa carne mortale impaziente
di risplendere, come se d’un sangue fulgente
l’astro ne rigasse il pondo.
La sostanza del Sole era la mia sostanza.
Erano in me i cieli infiniti, l’abondanza
dei piani, il Mar profondo.
E dal culmine dei cieli alle radici del Mare
balenò, risonò la parola solare:
«Il gran Pan non è morto!».
Tremarono le mie vene, i miei capelli, e le selve,
le messi, le acque, le rupi, i fuochi, i fiori, le belve.
«Il gran Pan non è morto!»
Tutte le creature tremarono come una sola
foglia, come una sola goccia, come una sola
favilla, sotto il lampo e il tuono della parola.
«Il gran Pan non è morto!»
E il terrore sacro si propagò ai confini
dell’Universo. Ma gli uomini non tremarono, chini
sotto le consuete onte.
Tutte le creature udirono la voce
vivente; ma non gli uomini cui l’ombra d’una croce
umiliò la fronte.
Ed io, che l’udii solo, stetti con le tremanti
creature muto. E il dio mi disse: «O tu che canti,
io son l’Eterna Fonte.
Canta le mie laudi eterne». Parvemi ch’io morissi
e ch’io rinascessi. O Morte, o Vita, o Eternità! E dissi:
«Canterò, Signore».
Dissi: «Canterò i tuoi mille nomi e le tue membra
innumerevoli, perocché la fiamma e la semenza,
l’alveare ed il gregge,
l’oceano e la luna, la montagna ed il pomo
son le tue membra, Signore; e l’opera dell’uomo
è retta dalla tua legge.
Canterò l’uomo che ara, che naviga, che combatte,
che trae dalla rupe il ferro, dalla mammella il latte,
il suono dalle avene.
Canterò la grandezza dei mari e degli eroi,
la guerra delle stirpi, la pazienza dei buoi,
l’antichità del giogo,
l’atto magnifico di colui che intride la farina
e di colui che versa nel vaso l’olio d’oliva
e di colui che accende il fuoco;
perocché i cuori umani, come per un lungo esiglio,
hanno obliato queste tue glorie, Signore, e che il giglio
dei campi è un gaudio eterno». E il dio mi disse:
«O figlio,
canta anche il tuo alloro».
LIBRO PRIMO
MAIA
Laus vitae
I.
O Vita, o Vita,
dono terribile del dio,
come una spada fedele,
come una ruggente face,
come la gorgóna,
come la centàurea veste;
o Vita, o Vita,
dono d’oblìo,
offerta agreste,
come un’acqua chiara,
come una corona,
come un fiale, come il miele
che la bocca separa
dalla cera tenace;
o Vita, o Vita,
dono dell’Immortale
alla mia sete crudele,
alla mia fame vorace,
alla mia sete e alla mia fame
d’un giorno, non dirò io
tutta la tua bellezza?
Chi t’amò su la terra
con questo furore?
Chi ti attese in ogni
attimo con ansie mai paghe?
Chi riconobbe le tue ore
sorelle de’ suoi sogni?
Chi più larghe piaghe
s’ebbe nella tua guerra?
E chi ferì con daghe
di più sottili tempre?
Chi di te gioì sempre
come s’ei fosse
per dipartirsi?
Ah, tutti i suoi tirsi
il mio desiderio scosse
verso di te, o Vita
dai mille e mille vólti,
a ogni tua apparita,
come un Tìaso di rosse
Tìadi in boschi folti,
tutti i suoi tirsi!
Nessuna cosa
mi fu aliena;
nessuna mi sarà
mai, mentre comprendo, mondo
Laudata sii, Diversità
delle creature, sirena
del mondo! Talor non elessi
perché parvemi che eleggendo
io t’escludessi,
o Diversità, meraviglia
sempiterna, e che la rosa
bianca e la vermiglia
fosser dovute entrambe
alla mia brama,
e tutte le pasture
co’ lor sapori,
tutte le cose pure e impure
ai miei amori;
però ch’io son colui che t’ama,
o Diversità, sirena
del mondo, io son colui che t’ama.
Vigile a ogni soffio,
intenta a ogni baleno,
sempre in ascolto,
sempre in attesa,
pronta a ghermire,
pronta a donare,
pregna di veleno
o di balsamo, tòrta
nelle sue spire
possenti o tesa
come un arco, dietro la porta
angusta o sul limitare
dell’immensa foresta,
ovunque, giorno e notte,
al sereno e alla tempesta,
in ogni luogo, in ogni evento,
la mia anima visse
come diecimila!
E’ curva la Mira che fila,
poi che d’oro e di ferro pesa
lo stame come quel d’Ulisse.
Tutto fu ambìto
e tutto fu tentato.
Ah perché non è infinito
come il desiderio, il potere
umano? Ogni gesto
armonioso e rude
mi fu d’esempio;
ogni arte mi piacque,
mi sedusse ogni dottrina,
m’attrasse ogni lavoro.
Invidiai l’uomo
che erige un tempio
e l’uomo che aggioga un toro,
e colui che trae dall’antica
forza dell’acque
le forze novelle,
e colui che distingue
i corsi delle stelle,
e colui che nei muti
segni ode sonar le lingue
dei regni perduti.
Tutto fu ambìto
e tutto fu tentato.
Quel che non fu fatto
io lo sognai;
e tanto era l’ardore
che il sogno eguagliò l’atto.
Laudato sii, potere
del sogno ond’io m’incorono
imperialmente
sopra le mie sorti
e ascendo il trono
della mia speranza,
io che nacqui in una stanza
di porpora e per nutrice
ebbi una grande e taciturna
donna discesa da una rupe
roggia! Laudato sii intanto,
o tu che apri il mio petto
troppo angusto pel respiro
della mia anima! E avrai
da me un altro canto.
II.
Io nacqui ogni mattina.
Ogni mio risveglio
fu come un’improvvisa
nascita nella luce:
attoniti i miei occhi
miravano la luce
e il mondo. Chiedea l’ignaro:
«Perché ti meravigli?».
Attonito io rimirava
la luce e il mondo. Quanti
furono i miei giacigli!
Giacqui su la bica flava
udendo sotto il mio peso
stridere l’aride ariste.
Giacqui su i fragranti
fieni, su le sabbie calde,
su i carri, su i navigli,
nelle logge di marmo,
sotto le pergole, sotto
le tende, sotto le querci.
Dove giacqui, rinacqui.
Mi persuase i sonni
il canto della trebbia,
il canto dei marinai,
il canto delle sartie al vento,
l’odore della pece,
l’odore degli otri,
l’odore dei rosai,
il gemitìo del siero
giù dai vimini sospesi
nella cascina, la vece
delle spole nei telai
notturna, il ruggir cupo
dei forni accesi,
il favellar leggero
dell’acque pei botri,
il battere della maciulla
nell’aia. E parvemi talora
su quei familiari
suoni farsi un alto silenzio
e riudire il lontano
canto della mia culla.
Mi destò il Sole
raggiandomi la faccia.
Vidi per le trame
delle mie palpebre il fulgore
del mio sangue. Il mozzo
pendulo dal cordame
gittò a me supino
il suo grido, il suo grido
annunziatore;
e rise il lieve lido
come un labbro su la bonaccia.
Le secchie all’alba nel pozzo
traboccanti d’acqua ghiaccia
con lor croscio argentino
suscitaron nel mio vigore
nudo il brivido salubre
del lavacro mattutino.
Le allodole gloriose
in alto in alto in alto
dalla rocca dell’Azzurro
mi chiamarono al grande assalto.
I poledri violenti
su la prateria molle,
irsuti il pel selvaggio,
coperti di rugiade
come i bruchi villosi
in fondo alle corolle,
m’annitrirono su i v’ènti
che parean recarmi il sentore
degli ippòmani favolosi
forte come un beveraggio.
Cantò: «Ben venga maggio!»
dal colle di ginestre
chiaro la teoria
coronata di canestre
votive, e per le contrade
e per l’anima mia
trionfò Prosérpina in veste
tosca obliando Ade.
Quante voci, quanti richiami,
quanti inviti nell’aurore
belle! Ma ebbi altri risvegli.
Ebbi un letto vasto,
sacro all’amor cieco
e al perspicace
odio; vasto sì che giacersi
potessero con meco
e con la mia donna
la forza e la grazia,
la crudeltà e la froda,
la voluttà e la morte.
Tra l’una e l’altra colonna
pendeva una cortina
grave che copria d’ombra
il rito infecondo
e la carne sazia,
quando la concubina
seduta su la proda
mi guatava in silenzio
con i suoi occhi instrutti
nella cui notte ingombra
io vedea passar gli antichi
mostri e gli eterni lutti.
Io t’abbandonai,
O mia carne, t’abbandonai
come un re imberbe abbandona
il suo reame alla guerriera
che s’avanza in armi
tremenda e bella,
ond’ei teme e spera.
Ella s’avanza
vittoriosa,
tra moltitudini in festa
che di tutti i lor beni
fan conviti al suo passare.
Attonito trasale
il re dolce, e la sua speranza
ride al suo timore;
ché non sapea di tanta
gioia e di tanta fame
ricchi i suoi schiavi,
non sé tanto possente
né di tanto feroci spini
pieno il suo dolce cuore.
Io ti saziai,
o mia carne, ti saziai
come l’alluvione
sazia la terra
che più non la riceve
ed è sommersa.
Fiumi perigliosi
precipitarono ruggendo
sopra di te perduta.
Fosti talora
come uva premuta
da fiammei piedi;
talora come neve
segnata di vestigia
cruente, d’impronte oscure;
talora come inerte
gleba; e parvemi ch’io sentissi
in te serpere ignote
radici e udissi l’unge
stridere su la cote
forse una scure.
Furonvi donne serene
con chiari occhi, infinite
nel lor silenzio
come le contrade
piane ove scorre un fiume;
furonvi donne per lume
d’oro emule dell’estate
e dell’incendio,
simili a biade
lussurianti
che non toccò la falce
ma che divora il fuoco
degli astri sotto un cielo immite;
furonvi donne sì lievi
che una parola
le fece schiave
come una coppa riversa
tiene prigione un’ape;
furonvi altre con mani smorte
che spensero ogni pensier forte
senza romore;
altre con mani esigue
e pieghevoli, il cui gioco
lento parea s’insinuasse
a dividere le vene
quasi fili di matasse
tinte in oltremarino;
altre, pallide e lasse,
devastate dai baci,
riarse d’amore sino
alle midolle,
perdute il cocente
viso entro le chiome,
con le nari come
inquiete alette,
con le labbra come
parole dette,
con le palpebre come
le violette.
E vi furono altre ancóra;
e meravigliosamente
io le conobbi.
Conobbi il corpo ignudo
alla voce, al riso,
al passo, al profumo. Il suono
d’un passo sconosciuto
mi fece ansioso
quasi melodìa che s’oda
giungere nella remota
stanza per chiuse porte
a quando a quando, e il cuore anela.
Risa belle, io già dissi il vostro
numero, io vi lodai diverse
come le sorgenti
della terra, come le piogge
nelle stagioni!
Io dissi la vostra essenza
invisibile, profumi,
le vostre mute effusioni
che pur vincono i torrenti
nella rapina! Ma la voce
avrà da me un canto
più glorioso.
Furonvi città soavi
su colli ermi, concluse
nel lor silenzio
come chi adora;
furonvi palagi
snelli su logge aperte
ad accoglier l’aria
come chi respira,
sacri alle Muse;
furonvi orti irrigui,
paradisi recinti
come labirinti
con una porta sola
e mille ambagi,
ove l’aura piega
ogni stelo e s’invola
come chi fa ghirlande
e non le lega;
vi furono bevande,
frutti, musiche pe’ nostri agi;
e le melancolie.
III.
O notte d’estate fra l’altre
memoranda per la bellezza
indicibile onde rifulse
nell’ombra la mia persona
mortale, quasi fosse in lei
espressa l’effigie divina
del Desiderio, sotto i muti
baleni che facean del cielo
estremo una fucina ardente!
Nessuno comprenderà mai
perché nel semplice atto umano
io mi sentissi così bello
per tutto l’esser mio: l’eguale
dei Giovini trasfigurati
nei miti eterni della grande
Ellade. Per un’ora fui
l’eguale dei trasfigurati
Giovini alle soglie dei boschi
e sul margine delle fonti:
nell’ombra calda e sotto i muti
lampi bello indicibilmente.
La luna era trascorsa;
dietro le opache cime
vanito era il suo breve incanto.
L’orrore meduséo
parve impietrare
la faccia sublime
della notte. Non canto,
non grido s’udiva. Rare
gemevan l’aure. Boote
guardava l’Orsa;
e lacrimava il coro
delle Pleiadi belle
ai ginocchi del Toro;
ed Orione in corsa
veniva armato d’oro
su le tristi sorelle;
ed Erigone pura,
in disparte e con elle,
versava anche il suo pianto.
Così viveva la gran notte,
qual la mirò dai monti Orfeo.
Viveva d’una vita
altissima taciturna
e sacra, come quando
l’apollinea prole
invocò: «M’odi, o iddia,
desiderabile, di negro
peplo vestita, cinta
di astri, inspiratrice degli inni,
madre dei sogni, urania
e terrestre, generatrice
di tutte le cose,
ricchissima, oblìo delle cure,
persuasiva, m’odi!».
Eran nel mio petto gli inni.
Ma intenti i miei occhi
erano all’orizzonte
ultimo che fervea come
se vi sfavillasse ignìto
e vivido su la vulcania
incude un cuor di titano
con un palpito immenso.
«O cuore titanico» dissi
«formidabile, palpitante
al confine del cielo,
te anche arde e torce
il desiderio onde anelo
come s’io morissi?
Per quale amante?
Per quale dominio?
Per quale morte?
Che vuoi? che vuoi?
Ovunque il tuo affanno
apre solchi d’arsura
che all’alba le rugiade
non addolciranno.
Ah che anch’io questa notte
s’aprei morir come gli eroi,
uccidere un re nel suo letto
o tra le spade,
sciogliere una cintura forte
come quella che alla Terra
cingono gli antichi mari!»
Immobile su la soglia
io guatava con occhi arsi,
sentendo in me parole alzarsi
confuse, come chi delira.
Dietro di me la casa umana,
spenta e di cure ingombra,
ove dormivano i servi,
gemeva a quando a quando vana
come una lira senza nervi.
E parve a un tratto, lontana
con la sua doglia
senza ritorno, lasciarmi
nella solitudine solo.
Il mio palpito stesso
e la rapidità dei lampi
si confusero allora;
furono una forza concorde
che lottò con la più alta ombra,
toccò Galassia e i campi,
agitò il sonno dell’Aurora,
svegliò tutte le corde.
E io dissi: «O mondo, sei mio!
Ti coglierò come un pomo,
ti spremerò alla mia sete,
alla mia sete perenne».
E d’essere un uomo
più non mi sovvenne,
poi che il mio cuor palpitava
su la terra e nel cielo
con un palpito sì grande.
E io dissi: «O figlie d’Atlante,
Atlantidi, corona ardente
delle Pleiadi, o Taigete,
o Elettra, o Celeno,
Merope fosca, e tu, Maia
dall’affocata faccia,
Asterope, Alcyone,
scendete ai miei giardini!».
E così dicea vanamente
per tendere le braccia,
per volontà di chiamare,
per amor dei nomi divini.
Il silenzio era vivo
come un’anima sparsa
che ascolti e attenda
senza respiro.
Un’ala si mosse,
una foglia cadde,
un calice si schiuse,
traboccò una fonte,
una lingua lambì l’acqua,
un’orma calcò l’erba,
un balzo ruppe uno stelo,
un foco vano rigò l’aria,
un odor si diffuse
umido nella caldura.
Tutti i miei sensi
vigilavano, nell’attesa
della gioia oscura.
Una bellezza
indicibile io sentìa
spandersi per le mie membra,
come chi trasfigura.
«Che vuoi? che vuoi?»
Immobile stetti
come i simulacri esangui;
poiché ogni cosa
attraeva il mio gesto
ma il mondo parea vanire.
«Che vuoi? che vuoi?»
Dalle mie stesse vene
pareami essere attorta
l’anima come da mille angui
con torride e gelide spire,
«Che vuoi? che vuoi?»
E un lampo discoperse
la vite meravigliosa,
gravida di grandi
grappoli, frondosa
di fosche fronde,
con le radici immerse
nelle virtù profonde.
«Morire o gioire!
Gioire o morire!»
Ah, poter di côrre
dal ciel più lontano
un pugno d’astri
pareami fosse
nella mia mano
fatta onnipossente
dal cor che in me fervea!
E il grappolo più grande
colsi avidamente,
che pesava d’ambrosia
come la mammella
ineffabile d’una dea
data all’adolescente
per gioire e morir quivi.
Gli acini eran vivi
d’inesausto calore
alle mie dita di gelo.
Sentii ne’ precordii l’odore
del pampino lacerato
come d’un velo
arcano che si fendesse.
O Vita, quel parvemi il primo
e l’ultimo tuo dono,
e che i miei giovini denti
mai polpa d’opimo
frutto avesser morso
né mai bevuto agreste
sorso le mie labbra sanguigne.
L’odore di tutte le vigne
sentii ne’ precordii capaci
e di tutti i mosti il sapore,
ebbi le vendemmie spumanti
di tutti gli autunni feraci
nel cuore, e le feste i canti
l’urto dei piè danzanti il suono
dei flauti frigi, e Lesbo
rossa di faci pel natale
del vino e l’onda corale
e il passo del lidio coturno,
o Vita, quando la mia bocca
vergine di baci
diedi al tuo grappolo notturno.
Allora, come una statua
dalla voluttà della Notte
espressa, una forma
silenziosa
biancheggiò nell’ombra
terribile; e trasalii.
Una luce fatua
sorse come una colonna
tremante nell’ombra
soffocata; e trasalii.
Non dissi: «O donna,
chi sei tu?». Non chiesi:
«D’onde venuta,
di quali iddii
messaggera?». Ma la conobbi
subitamente, muta
ed eloquente.
Per sentieri profondi
tratta me l’avea sola
dall’armonia dei mondi
il Desiderio.
Non dissi: «Parla!».
Ma mi volsi a ghermire
il suo corpo discinto,
che fresco sentii quasi fosse
balzato da polle rupestri.
Né per baciarla
la bocca detersi
dal succo del grappolo molle;
ché il divino Istinto mi volle
dei due beni diversi
comporre una gioia infinita.
O Vita, o Vita!
O notte d’estate fra l’altre
memoranda, in cui la mia carne
compì l’umano atto fugace
sotto la specie dell’Eterno!
O notte in cui viver mi parve
figurato nel violento
mito che divennemi un segno
sacro per le vie della terra
ove tolsi tutti i miei beni!
IV.
E come l’esule torna
alla cuna dei padri
su la nave leggera:
il suo cor ferve innovato
nell’onda prodiera,
la sua tristezza dilegua
nella scìa lunga virente:
io così sciolsi la vela,
coi compagni molto a me fidi,
in un’alba d’estate
ventosa, dall’àpula riva
ove ancor vidi ai cieli
erta una romana colonna;
io così navigai
alfin verso l’Ellade sculta
dal dio nella luce
sublime e nel mare profondo
qual simulacro
che fa visibili all’uomo
le leggi della Forza
perfetta. E incontrammo un Eroe.
Incontrammo colui
che i Latini chiamano Ulisse,
nelle acque di Leucade, sotto
le rogge e bianche rupi
che incombono al gorgo vorace,
presso l’isola macra
come corpo di rudi
ossa incrollabili estrutto
e sol d’argentea cintura
precinto. Lui vedemmo
su la nave incavata. E reggeva
ei nel pugno la scotta
spiando i volubili v’ènti,
silenzioso; e il pìleo
tèstile dei marinai
coprivagli il capo canuto,
la tunica breve il ginocchio
ferreo, la palpebra alquanto
l’occhio aguzzo; e vigile in ogni
muscolo era l’infaticata
possa del magnanimo cuore.
E non i tripodi massicci,
non i lebeti rotondi
sotto i banchi del legno
luceano, i bei doni
d’Alcinoo re dei Feaci,
né la veste né il manto
distesi ove colcarsi
e dormir potesse l’Eroe;
ma solo ei tolto s’avea l’arco
dell’allegra vendetta, l’arco
di vaste corna e di nervo
duro che teso stridette
come la rondine nunzia
del dì, quando ei scelse il quadrello
a fieder la strozza del proco.
Sol con quell’arco e con la nera
sua nave, lungi dalla casa
d’alto colmigno sonora
d’industri telai, proseguiva
il suo necessario travaglio
contra l’implacabile Mare.
«O Laertiade» gridammo,
e il cuor ci balzava nel petto
come ai Coribanti dell’Ida
per una virtù furibonda
e il fegato acerrimo ardeva
«o Re degli Uomini, eversore
di mura, piloto di tutte
le sirti, ove navighi? A quali
meravigliosi perigli
conduci il legno tuo nero?
Liberi uomini siamo
e come tu la tua scotta
noi la vita nostra nel pugno
tegnamo, pronti a lasciarla
in bando o a tenderla ancóra.
Ma, se un re volessimo avere,
te solo vorremmo
per re, te che sai mille vie.
Prendici nella tua nave
tuoi fedeli insino alla morte!»
Non pur degnò volgere il capo.
Come a schiamazzo di vani
fanciulli, non volse egli il capo
canuto; e l’aletta vermiglia
del pìleo gli palpitava
al vento su l’arida gota
che il tempo e il dolore
solcato aveano di solchi
venerandi. «Odimi» io gridai
sul cl’amor dei cari compagni
«odimi, o Re di tempeste!
Tra costoro io sono il più forte.
Mettimi alla prova. E, se tendo
l’arco tuo grande,
qual tuo pari prendimi teco.
Ma, s’io nol tendo, ignudo
tu configgimi alla tua prua.»
Si volse egli men disdegnoso
a quel giovine orgoglio
chiarosonante nel vento;
e il fólgore degli occhi suoi
mi ferì per mezzo alla fronte.
Poi tese la scotta allo sforzo
del vento; e la vela regale
lontanar pel Ionio raggiante
guardammo in silenzio adunati.
Ma il cuor mio dai cari compagni
partito era per sempre;
ed eglino ergevano il capo
quasi dubitando che un giogo
fosse per scender su loro
intollerabile. E io tacqui
in disparte, e fui solo;
per sempre fui solo sul Mare.
E in me solo credetti.
Uomo, io non credetti ad altra
virtù se non a quella
inesorabile d’un cuore
possente. E a me solo fedele
io fui, al mio solo disegno.
O pensieri, scintille
dell’Atto, faville del ferro
percosso, beltà dell’incude!
E contemplai, di contro
a Same dai foschi cipressi,
Itaca petrosa,
il Nérito aspro nudato,
la patria angusta
di quella incoercibile Forza.
E veder parvemi il tetto
securo, la soglia polita,
le stanze purgate dai morbi
con fumido solfo,
le fanti dai cinti vermigli
intente a forbir seggi e deschi
con le spugne lor cavernose
o a torcere i lor fusi
versatili o a scardassare
le lane, e la tarda nutrice
Euriclèa che valse già venti
tauri, e l’economa Eurinòme,
e Femio il cantore, e nell’orto
cinto di pruni Laerte
curvo a rincalzare l’arbusto.
Or la figlia d’Icario
guatava la torma dell’oche
clamose beccare dal truogo
il biondo fromento, e niuna
aquila calata dal monte
franger la cervice alle imbelli
come nel sogno antico.
Ma il talamo vasto,
tutto di legno d’olivo
lavorato di man dello sposo,
confitto con chiovi d’argento
saldamente al ceppo natìo
che abbarbicato era con ferme
stirpi alla durezza terrestre,
il talamo antico d’Ulisse
anco una volta deserto
si stava, e per sempre,
sotto la pelle bovina
cui rodean le vigili tarme.
«Deh, un qualche iddio mi rapisca,
O mi fieda Cintia d’un telo!»
Rammaricavasi acerba
la moglie incorrotta. E la casa
di strepitosi chieditori
sonante e di danze e conviti
ripensava ella nel tristo
suo petto. E improvviso a rancore
pestifero cedea
la più che ventenne costanza!
Fatta era l’alta reina
simile a femmina ancella,
poiché queste dicea parole:
«Deh, avess’io scelto a marito
il più ricco e valente
dei Proci, accolto avessi il figlio
di Polibo Eurìmaco o il figlio
d’Eupite Antinòo,
e seco passata io fossi
ad altra dimora, più tosto
che attendere l’uomo cui solo
è talamo grato la tolda
a sciogliervi il cinto dell’onda!».
E il savio Ulissìde
Telemaco dal suo seggio
coperto di velli manosi
governava i porcari.
E il pallido adipe, onde un disco
recato avea Melanzio ai Proci
con la panca e la pelle
e la brace perché si scaldasse
e ugnesse e ammollisse il nervo
dell’arco nel dì della strage,
l’adipe grave su l’epa
cresceva e pe’ lombi e nel collo
del savio Ulissìde.
E partiva il suo letto
di belle coltrici adorno
con una florida fante
ei che, ospite imberbe, mirato
avea splendere Elena a Sparta
e ricevuto il bel peplo
da Elena e bevuto il nepente
di Elena alla mensa ospitale.
«Contra i nembi, contra i fari,
contra gli iddii sempiterni,
contra tutte le Forze
che hanno e non hanno pupilla,
che hanno e non hanno parola,
combattere giovami sempre
con la fronte e col pugno
con l’asta e col remo
col governale e col dardo
per crescere e spandere immensa
l’anima mia d’uom perituro
su gli uomini che ne sien arsi
d’ardore nell’opre dei tempi.
Sol una è la palma ch’io voglio
da te, o vergine Nike:
l’Universo! Non altra.
Sol quella ricever potrebbe
da te Odisseo
che a sé prega la morte nell’atto.»
Tali volgea pensieri
il Re sul ponto oscurato.
O Itaca dura di rupi,
l’ombra che tu protendesti
nell’occaso del Sole
tal fu per l’anima mia
qual pel figlio della dogliosa
nereide lo stigio lavacro!
Caduto era ogni soffio.
Nelle anse di Same sonore
placavasi il rombo
come nelle ritorte
bùccine quando il dio cessa
d’enfiarle col labbro salino.
Simili a sarisse di bronzo
nel macigno confitte
i lacrimabili cipressi,
interrotto il gemito amaro,
parevano pronti a ferire.
Scorgeasi la glauca Zacinto
lungi, e il Cillene, e la costa
crassa cui nutre di molta
rapina il selvaggio Achelòo.
Salir vidi un placido fumo
allora, di tra gli oleastri
che coronan col segno
del buon lottator la Petrosa;
e dolsemi il cor dentro al petto,
ché pel sangue mi corse
pensier della madre lontana,
pensier delle dolci sorelle
e del mio focolare.
E m’apparve il bel fiume ove nato
fui di stirpe sabella,
Aterno di rossa corrente
cui cavalca il ponte construtto
di carene di travi
d’ormeggi, spalmato di pece,
in vista al monte nevoso
che ha forma d’ubero pieno.
E la tomba m’apparve sul poggio
chiomante di pini, ove il padre
riposa le sue grandi ossa
ond’io m’ebbi tempra sì dura.
E dissi nell’ombra: «O sorelle,
tre come le porte del tempio,
tre come il trifoglio dei paschi,
tre come le Càriti leni,
la prima dai floridi ricci
salubre qual cespo di menta
in docile rio, la seconda
a me simigliante nel vólto
ma quasi d’un velo soffusa
argenteo sì ch’io mi creda
specchiarmi in sul fare dell’alba
a un fonte di acque serene,
la terza dagli occhi bovini
robusta qual fu giovinetta
la figlia di Rea, della madre
sostegno ridente, o mie dolci
sorelle, non io vi obliai
e di me voi favellate
nel vespero forse, dal tetto
arguto di nidi guardando
verso l’Adriatico Mare.
Pur, se tal’una di voi
improvviso mirasse
l’aspetto della mia
Libertà, d’orror tremerebbe
e di spavento, perduto
credendo il fratello suo caro,
per sempre perduto;
né più oserebbe toccarmi
né dirmi parola di pace.
E bagnerebbe di pianto
le incolpabili mani
materne, alla misera donna
pregando l’oblìo del suo nato.
E lo stranier che merca
e froda al publico sole,
il falso mendico che ostenta
nel trivio l’ulcera immonda,
il marinaio rissoso
che batte il fanciullo e il vegliardo
parrebbero a quella men empii
del caro fratello perduto!
Gèniti d’un grembo, d’un sangue,
d’un atto d’amore noi siamo,
sorelle. E, se penso le vene
su la vostra tempia non cinta
più cerule e tenui dell’ombre
cui le frondi pie dell’ulivo
fan sul vello dell’agna
che pasce da presso, io sorrido
d’una tremante dolcezza
e le medesime vene
guardo ne’ miei pallidi polsi,
che battono sì violente
di desiderio implacato.
E le mie virtù, i miei vizii,
i miei delitti, i miei gaudii
letiferi, i miei operosi
tormenti, le occulte mie glorie,
i sogni indicibili, tutto
il fiume rapace del mio
essere tingemi i polsi
di quel vostro azzurro sì lieve!
O consanguinei fiori,
o pure ghirlande sospese
alla fronte del focolare,
s’io torni ove nacqui,
in tema starò sorridente
dinanzi alla vostra allegrezza
come il viandante che sosta
e parco è di chiare parole
ché agli ospiti cela il suo stato.
Ma tu, o madre mia forte,
che mi generasti con tante
grida nel mese fecondo
che da Marte si noma,
entrando il Sole nel segno
dell’Ariete durocozzante,
mentre passavan sul nostro
tetto col volubile nembo
i pòllini di primavera,
tu subitamente svelato
m’accoglierai tutto qual sono
nella luce del tuo dolore.
Qual sono, per te sarò sacro,
per te gloriosa in patire
e resistere, o madre!
E tu, che immota rimani
a costringer nelle tue braccia
come in ferrea zona la casa
fenduta dai fulmini, il soffio
dell’immenso mondo
in me sentirai vorticoso,
senza terrore, e tutto
saprai, pur quello che ignoto
mi sta nel profondo, pur quello
che sta nel Futuro, inspirata
di conoscenza celeste.
E mi dirai: «O figlio,
t’ho fatto di vita sì breve
e d’insaziabile cuore!
Giusto è che tanto t’affretti
a cercare a lottare a volere,
lontan dalla madre
che farti non seppe immortale».
Gloria al tuo capo, o madre!
Sii tu testimone sublime
di mia verità sotto il cielo.
O Solitaria,
o Dolorosa,
o Paziente,
non sono io forse il tuo grido?
Il tuo inconsapevole grido
che, riconosciuto, si spande
su gli uomini e reca ai più puri
la tua speranza divina.
O madre, sia gloria al tuo capo!».
Queste la mia tristezza
diceva parole, nell’ombra
d’Itaca aspra di rupi.
E parve dal mare profondo
salirmi al petto una forza
silente, in cui palpitavan le amiche
Pleiadi, quando a notte
supino, col vólto alle stelle,
giacqui presso l’Occhio di prua.
V.
Dal golfo corintio,
dal cuore dell’Ellade il vento
soffiò contra l’Occhio di prua,
cangiò gli oleastri
d’Itaca, piegò i cipressi
di Same, fe’ simile il mare
all’irta di fiocchi
egida cui Pallade scuote.
Ed era il meriggio,
l’ora di Pan, l’ora grande.
Il Sole era al colmo dei cieli
ignudo; e tutto era chiaro
d’intorno, presso e lontano;
e l’anima mia come l’orbe
dell’incorruttibile Etra
tutta era di cristallo
e d’oro sospesa in su l’acque.
E il grido sonò: «Sciogli! Allarga!
Su le scotte di randa! Borda
randa! Su le drizze di fiocco!
Issa fiocco!». E il legno garriva.
Il legno gemeva cricchiava
rombava; la verga bicorne
strideva alla trozza:
la forte ralinga batteva
l’aere qual furia pennata
di libertà sotto pugni
di ghermitori tenaci;
sinché contra l’albero a pioppo
ghindata fu tra fondo
e testiera, ordita la scotta
al paranco. E l’àurica vela
fu gonfia d’un alito immenso,
più bella di tutte le cose
d’intorno apparite,
più di noi che l’aprimmo
libera, più pura e innocente
del cielo, una vergine forza,
un desiderio pudìco,
un arco acceso d’amore
pel suo segno, un candido spirto
tra il duplice Azzurro tutt’ala!
Egidarmata Atena,
ben tu ci volesti avverso
il vento perché nell’approdo
alla tua terra natale
io memore fossi
che sol nella lotta è la gioia.
Parea che l’aspra
tua verginità palpitasse
presente nell’ombra
della gran randa solare
e che tu vigilassi
co’ tuoi occhi cesii l’alterna
opra dei naviganti
e tu le imprimessi in silenzio
la tua misura divina.
Obliqua la nave, inclinata
sul fianco, in un solco di spume
fervide, prueggiava
giugnendo l’altura del vento
avverso qual carro la cima
di ripido monte. «Orza! Poggia!»
E la verga biforca
passava rombando fischiando
sopra le nostre fronti
chine; e tutta la ben costrutta
compagine sotto lo sforzo
risonava come una cetra.
percossa; e l’opposto
bordo attignea quasi l’acqua
come avido labbro che sia
per bevere il sale. Era l’opra
agevole e lieve qual gioco.
Aperto era il novo
cammino alla rapida prua,
come nel coro segue
l’epòdo alla duplice strofe.
Itaca Same Zacinto
s’inazzurravano a poppa,
cangiate in elisia corona;
Oxia pareva un’ara
ancor rosea della ecatombe,
l’Àraxo un trofeo di Titani.
Oh perìstrofe gioiosa
verso la pampìnea Patre!
Ora meridiana
d’inimitabile vita!
Levità della carne,
freschezza dell’anima nova,
rinascimento argentino!
Non rugiada al solstizio
su prato di salvie e di timi
fu mai sì gemmante
come l’anima mia che il Sole
beveva inesausta. «O dio Sole,
tu la bevi ed ella rinasce,
tu l’ardi ed ella s’irrora.
Antico tu sei, ella è sempre
recente. Tu due e due volte
trasmuti la faccia del mondo,
ma la stagione che in lei
cresce è diversa: non estate
non primavera, ma una
felicità più novella.»
L’aroma dei canti
futuri parea nel respiro
alitarmi. E io dissi:
«O Ineffabile, o Ignoto,
il nome per te troveranno
i miei canti futuri,
il nome e la lode per sempre!».
E la nave era parte
di me, la vela erami ala
su l’òmero, la prua
era la cima del cuore
sagliente, il lungo proteso
bompresso era il segno
della fecondante potenza.
E come a un amplesso d’amore
io tendeva al lito ricurvo,
portato dal cielo e dal mare.
O Ellade, e io credetti
che dal tuo grembo di marmo
avuto avrei finalmente
il figlio che invoco immortale!
Torrido soffio affocante
qual fiato di mille fornaci
su l’acqua del porto oleosa
e corrotta; lezzo di tetre
cloache, di putridi frutti,
di torbidi fumi, di fecce,
di sevi, di spezie, di vini,
d’acri fermenti, d’umani
sudori; terribili pietre
consunte dal traffico immondo,
riarse da Sirio, insozzate
dall’escremento dell’ebre
ciurme, dei cavalli, dei buoi
stupiti ancor barcollanti
in lungo rullìo di tempesta;
tristi anelli di nero ferro,
ormeggi più tristi
che vincoli di prigionieri;
man tese di mendicanti,
riso ambiguo di prossenéti,
e frode e fame in agguato:
tale m’apparve all’approdo
l’antica città degli Achei
artefice di diademi
e di vestimenta soavi.
Per le vie bianche, sotto
nembi di polve una bara
misera fra roche preghiere
recava il cadavere esangue
dal vólto scoperto
simile al giallore del croco.
Alzato il teologo macro
su la piazza pulverulenta
a lenoni e vinai disvelava
con stridula voce il mistero
del dio senza muscoli. E i preti
scaltri, nelle tuniche sparse
d’untume nauseabondi,
al loquace inesperto
sorridean d’un perfido riso
pettinando con lunghie
ricurve le luride barbe.
Diana Lafria, scomparso
era il tuo tempio agile a specchio
del golfo. Correa per ladre
mani pecunia dolosa,
più vile del cencio e del timo.
Oh effigie di gloria
nel chiaro metallo battuto,
quadriga trionfale,
deità astata, spica
opima, prora invitta,
terrestre e marina potenza
nel fermo rilievo inconsunto,
propagata bellezza
di acropoli vittoriose!
Non gli Apolloniasti
su le triere dipinte,
né i mercatanti di Tiro
nel segno d’Eràcle, né i Coi,
né i Rodii, né gli Ateniesi
di belle parole eran quivi;
ma frode e fame in agguato.
E nella notte ill’une,
quando s’accesero i fari
e il libico soffio si spense
e i siderei fochi
incoronarono i monti
e s’udi lontana la voce
del mare di là dai macigni
dei moli, noi tristi ridendo
e cantando seguimmo
il prossenéta per cupi
angiporti graveolenti
in cerca di meretrici.
E disse un de’ cari compagni,
mentre un gabbier fulvo e nerbuto
receva il suo vin resinato
alla soglia del lupanare
tra afa d’amaro sudore:
«La résina geme dai pini
dell’Ida, ove Paris pascendo
i buoi sogna Elena di Sparta
che ancóra ei non vide, promessa!».
I marinai dal collo
ignudo, gli stradiotti
bracati, i battellieri
dal braccio di bronzo e dal dorso
incurvo, le flosce bagasce
dalle guance rosse di fuco
vile, i bardassoni più molli
delle femmine esperti
in muovere l’anca, la schiuma
del porto, la melma del trivio,
i nativi e i metèci
e gli stranieri approdati
da un’ora, accesi di foia,
tumultuavano al lume
fumido delle lucerne
grasse, tracannavano il vino
malvagio e la mastica arzente,
mercavano copula e lue
per mezza dramma. E gli sguardi
come i getti della saliva
lucean sul carnaio in fermento.
Quivi, al dir del buon prossenéta,
giunta era una donna di Pirgo
formosa, nel fiore degli anni.
Ma non degnava ella beare
di sua forma l’ebra ciurmaglia
nella fumosa taverna
aspra d’urli rauchi e di pugni
percossi. In penetrale
remoto, su candido letto,
ella attendea lo straniero
opulento, il navarca
magnanimo, o l’alto signore
dei latifondi patrensi.
Salimmo allora la scala
di putrido legno, varcammo
la soglia segreta; e la donna
di Pirgo ci apparve nell’ombra
del letto, piccola e pingue,
simile a gravida capra
dalle molte mammelle
olente dell’irco suo sposo.
Niuno di noi appressarsi
ardiva alla femmina elèa.
Ma uno dei cari compagni
le parlò con attico accento:
«O femmina elèa,
non nel Minyeio d’Omero,
nell’ingiocondo Anigro
che scorre tra il Minthe e il Lapitha,
bagnasti il fior di tue membra?».
Ridemmo in giovine coro.
Ella gustar l’attico sale
non seppe, e scagliò contra noi
l’ingiuria e i sandali. Allora
ci ritraemmo, con nari
occluse giù per la scala
di putrido legno. Repente
brancolò nell’acre
tenebra ver noi una mano
ignota. Qual voce d’antico
sepolcro imprecava per fame
novella? Ristemmo, perplessi.
Al breve bagliore
scorsero i nostri occhi mortali
l’eterna tartarea faccia
d’Atropo che taglia lo stame,
dell’inevitabile Mira?
Sparvero l’inganno dell’ora
presente, l’angustia del luogo,
il turpe clamore degli ebri;
e tutti i secoli muti
che avean travagliato quel vólto,
incanutito quel crine,
sfatto quella bocca vorace,
smunto quel seno infecondo,
curvato quel dorso di belva,
scarnito quell’avida branca,
sepolto nell’orbita cava
quell’occhio ancor semivivo
senza cigli ingombro di sanie
e lacrimoso di sangue,
i millennii d’onta e di lutto
oppressero il cuor mio vivente.
E l’anima mia nel mio cuore
tremò d’infinita tristezza,
come innanzi all’aspetto senile
d’una già cognita gente,
di sùbito apparsomi in fondo
al funebre specchio dei tempi.
Ma risero i cari compagni.
E nell’artiglio proteso
dalla famelica lèna
io posi ridendo una dramma.
Mormorò ella parole
buie tra le vacue gengive
con la sua voce di tomba.
La grande sua bianca criniera
si dileguò nella notte.
E noi scendemmo la scala
di putrido legno. Cedette
un de’ gradi all’urto del piede,
s’infranse con gemito. Oh dolce,
dalla soglia del lupanare,
mirar le vergini stelle!
E disse un de’ cari compagni
tornando alla nave ancorata:
«Aedo, tu désti la dramma
a Elena figlia del Cigno,
che fatta è serva millenne
d’una meretrice di Pirgo».
Vidi il pastor frigio su l’Ida
pascere col flauto l’armento
all’ombra dei pini chiomosi,
innanzi che in talamo eburno
ei s’avesse Elena di Sparta.
E disse il compagno: «L’estremo
Eroe cui ella soggiacque
nomavasi, come l’idèo
rapitor suo primo, Alessandro.
Su quella zona terrestre
che si protende arenosa
tra il Mediterraneo Mare
e il Mareotide Lago,
il giovine Eroe la premette;
e fu la lor prole Alessandria».
Alessandria! Alessandria!
La forza la gioia la gloria
del trionfatore d’imperi
e il van balbettìo faticoso
del calvo grammatico! Io dissi
meco: «Se ancóra l’impronta
dei lombi divini rimane
laggiù nella sabbia palustre,
io andrò andrò adorante».
Parlava la voce del sogno.
«Votò l’Eroe la sua vasta
coppa. Meditò taciturno.
Votare la coppa ei soleva
dopo sovrumane fatiche.
Da lui stanco il vino traeva
una onniveggente potenza.
Ei vide le Forze immortali
salir dalla terra e dal ponto.
Tra il Mediterraneo e il Lago
segnò taciturno le sorti
della Città nascitura.
I Continenti oscurati
eran sotto l’ombra degli alti
pensieri. Ei vedea la ricchezza
dei regni versarsi infinita
su l’Arcipelago azzurro,
dalla Città nascitura
come da corno inesausto.
E vennegli Elena per l’acque
dai lidi argivi incurvati
secondo la forma del labbro
ledèo; sorridendo gli venne
Elena di Sparta che Achille
bramò; venne a lui col nepente
la bianca Tindaride; venne
recando nel cinto il profumo
dell’Ellade caro al signore
dell’Asia. E il Macedone scosse
la figlia di Zeus nudata
su le fondamenta fatali.
E fu quegli l’estremo
Eroe cui ella soggiacque.
Poi fu polluta per notti
e notti, tra il sangue e l’incendio,
dai centurioni di Roma,
premuta fu sotto le squamme
delle loriche pesanti.
Punsero l’ispide barbe
la sua mammella rotonda
che dava la forma alle coppe
d’avorio pei conviti
dei re. Nel suo ventre convulso
ruggire s’udì la lussuria
come rombo in conca marina.
Da sola ella fu la suburra
aperta all’esercito in foia.
Fu manomessa dai servi,
dai ladroni, dagli omicidi,
dai profanatori di tombe,
dai mercenarii fuggiaschi.
Calpesta in polvere e in fango,
lambì con la lingua lasciva
le calcagna dei violenti.
Soffiò dovunque il suo fiato
come insanabile peste.
Accrebbe i nomi del vizio.
Fece innumerevoli i nomi
e i modi, maestra di spintrie
pei Cesari enfii di murene
e roscidi di purulenza.
Vecchia d’indicibil vecchiezza,
tentò se le mille sue rughe
servir potessero a qualche
più mostruosa lascivia;
ma, come in solchi di sabbia
sol cresce la crambe marina,
crebbevi sol la vergogna.
E fu di postriboli cencio,
nettò dai vòmiti i letti,
gittò nel rigagno del vico
le rosse urine e lo sterco,
spezzò il suo ultimo dente
per rodere gli ossi ed i tozzi
contesi alla cagna scabbiosa.
Or tu la vedesti alla porta
di quella femmina elèa,
crinita di grande canizie.
Fu sua sapienza la frode,
sudore di opere infami
ne’ secoli fu suo lavacro;
e tuttavia biancheggiare
or noi la vedemmo nell’ombra!
Come neve su volutabro
sta su lei la grande canizie:
attonito l’occhio la mira.
Ahi fior di bianchezza sublime
che alle Scee mirarono i Vegli!
Aedo, tu désti la dramma
a Elena figlia del Cigno.»
Così, questo sogno sognando
nell’amarissimo cuore,
tornammo alla nave ancorata.
E poi ci colcammo sul ponte,
il sonno invocammo dall’Orse.
Tal fu la notte di Patre.
VI.
Il fiato degli uomini vili
fuggimmo, l’odore e il clamore
degli Efimeri imbelli
che quivi apparivano come
la lebbra sul sen di Afrodite,
la stupidità su la fronte
di Pallade, negli occhi
di Febo la sanie cruenta.
O vigne immense eguali,
pascoli d’api, coi verdi
pampini illanguiditi
dall’aridità presso il mare
ceruleo dove Zacinto
ignuda natava in silenzio
come la sirena delusa
che virtù non ebbe d’attrarre
ai carmi la nave d’Ulisse!
O grappoli sparsi in su l’aie
quadrate per cuocersi al sole,
densi e violacei come
il crine sul collo di Saffo!
Cipresso, e parvemi allora
soltanto conoscer la tua
meditabonda bellezza,
commisto al palmite ricco,
sul fianco dei colli silenti,
su le correnti dell’acque,
in contro al zaffiro sublime
dei monti creati alle soglie
dell’aria dal flauto di Pan!
Oleandro, e allora t’elessi
in riva ai ruscelli fiorito
per inghirl’andar la mia Musa
che ama danzare e lottare,
che tratta l’incudine e il sistro,
che onora la grazia e la forza,
che loda il pastore e l’eroe;
t’elessi, oleandro, ti colsi
per redimir le mie tempie
di rose e d’alloro in un ramo.
Non mai parso m’eri sì bello!
E un altro da me canto avrai.
Peregrinammo da Patre
alla città santa d’Olimpia,
al tempio di Zeus Cronide
con chiusa l’offerta nel cuore.
E tacita era la via;
e il Sole inclinavasi all’onda
occidua, con riaccesa
divinità, Elio nomato
per noi, Elio d’Eurifaessa.
Ed èramo senza parola,
tacenti, ma d’una celeste
melodìa pieni il petto
mortale. E talora dai monti
aerei venivan messaggi
per l’aere; e noi rendevamo
l’orecchio, attoniti, ai suoni
di Pan. Disse un de’ cari
compagni: «Nel plenilunio
che segue il solstizio d’estate
la Festa ha principio». S’udiva
dietro a noi fragore di carri.
E d’improvviso tutta
la valle echeggiò di fragore
come d’un émpito d’acque
irrompenti da cataratte
aperte su l’Elide. E il grido
umano e il nitrito anelante
squillavano sopra il fragore.
«Per vincere vincere vincere!»
E ci volgemmo. E vedemmo
tra nembi di splendida polve
una moltitudine immensa
d’uomini, di cavalli,
di carri condotta da mille
Vittorie che armavano il cielo
d’un fremito aquìleo, nube
di penne di pepli di chiome
impetuosa volante
in aura di giovinezza.
«Per vincere vincere vincere!»
E tutto il Peloponneso
tremò come foglia di gelso.
Era su la via santa
la forza dell’Ellade, mossa
da un ramo d’ulivo selvaggio!
Era il fior della stirpe
quadruplice, la concorde
e discorde anima ellèna
protesa verso il serto
leggiere d’ulivo selvaggio!
Ionii e Dorii, Eolii ed Achei,
il sangue d’Atene di Sparta
di Tebe d’Elice d’Ege;
le genti insulari di Nasso
di Sèrifo d’Andro, di tutte
le Cicladi; e i potenti
di terra lontana, i tiranni
sicelii, i re di Cirene,
i grandi oligarchi
delle città di Tessaglia
e quei di Metaponto di Velia
di Sibari di Posidonia
ambivan l’ulivo selvaggio!
E gli alti carri dipinti
recavan le offerte votive:
le decime tolte al bottino,
le arche di cedro e d’avorio,
le tavole i tripodi i vasi
le lampade d’oro e d’argento,
i tori e i cavalli di bronzo,
i rudi colossi di pietra
avvolti in lini trapunti,
e le spugne il nitro la cera
la pece gli aròmati gli olii.
E tutti, città, re, strateghi,
atleti, sacravan le offerte
per vincere o per aver vinto
nello stadio o in pugna campale.
Gli Eretrii i Sicionii i Messenii
grondavano ancóra di sangue.
Le prede raccolte a Platèa
eran fuse in un simulacro.
La strage l’onta il servaggio
facean trionfali i metalli.
O Temistocle insonne,
del gran Laertiade alunno,
spada battuta a freddo,
noi ti vedemmo sul carro
che Atene ti diede, ben saldo
come su trireme rostrata;
e in te l’acuto sorriso
era qual tempra nel ferro.
E te, Pericle, anche vedemmo,
o artefice della saggezza,
te nato d’occulta sirena
e di colui che a Micale
fu vincitore nel nome
d’Ebe giovinetta ridente;
te anche vedemmo, che avevi
nel gesto nel passo nel verbo
nella cesarie ornata
l’ordine divino onde fulge
la pura colonna
nei Propilèi di Mnesìcle,
nel Partenone d’Ictìno.
Ma Alcibiade, lo snello
pantère versicolore
che Diòniso amico
èccita col batter del piede,
l’auriga che al carro dall’asse
d’oro agitava i cavalli
più rapidi, chiamammo
per nome. Grandissime offerte
ei seco recava, ricchezze
insigni, per dare
per dar grandemente. Io gli chiesi:
«E alla Vita che tanto
ti diede, or tu che darai?».
«Darò la mia statua scolpita
dalle mie mani.» «E qual gioia
ti parve più fiera?» «La gioia
d’abbattere il limite alzato.»
«Qual fu il tuo buon dèmone?» «Il rischio,
il rischio dagli occhi irretorti.»
«La buona virtù?» «Il piè leggero,
Ospite, il mio piè leggero!»
E gli strateghi i navarchi
gli arconti passavano in carri
dall’aureo timone, e i cantori
i sapienti gli alunni
di Cl’io gli artefici esperti
di tutte le forme, coloro
che foggiavan la sorte
d’un popolo vivo, coloro
che animavan l’umida argilla
col pollice nudo, coloro
che trasfiguravan gli aspetti
dell’Essere con l’eloquenza.
E vedemmo Erodòto
dagli occhi d’intento fanciullo,
che seco recava al consesso
dell’Ellade i rotoli gravi
di gloria come i fiari
son pregni di miele. Vedemmo
Ippia e Gorgia, vedemmo
Demòstene Isòcrate Lisia;
invocammo Pindaro invano.
Ma splendean come astri nell’etra,
come le Pleiadi e l’Orsa,
nella moltitudine immensa
quattordici atleti. Il fulgore
dei sette e sette epinicii
ardea nell’eroico sangue.
Perpetuavasi il ritmo
dell’olimpica Ode
nei polsi del pùgile. L’ala
della triade sagliente
armava i mallèoli certi
al corritore del lungo
stadio. Ecco il bello Efarmosto
d’Opunte, Ergotèle d’Imera,
Psaumida di Camarina.
Ecco Agesia Siracusano
della profetica gente
iamide, di Sòstrate prole.
Ecco Alcimedonte egineta,
d’Egina dai grandi navigli,
della blepsiade gente.
E d’improvviso apparve
fiammeo di porpora coa,
pari a inestinguibile vampa,
nella moltitudine solo,
più solo dell’aquila a sommo
del monte, il monarca degli Inni.
«Aquila, aquila» io dissi
«onde torni sì radiante?
M’odi! Rispondi! Per gli astri,
pei vulcani, pei lampi,
per le meteore, per tutto
ciò che arde, per la sete
del Deserto e il sale del Mare,
odimi, volgiti all’ansia
pedestre. Ch’io senta il tuo sguardo
e il tuo grido fendermi il petto!
Aquila, onde vieni?» «Dal Sole.
Battei l’ali su la cervice
del suo corsiere più bianco
per affrettar la sua corsa
all’ultimo Vertice azzurro.»
VII.
Non templi non are non tombe
non statue votive, non greggi
di vittime, non teorie
solenni l’ungh’esso il Pecile,
né il coro dei bronzei fanciulli
sacrato al Dio da Messana
né l’opra di Càlami offerta
da Agrigento, né il toro
degli Eretrii, né la Vittoria
di Naupatto ammirammo
giungendo ai piedi del Cronio
pinifero; ma una bellezza
virginea come un canto
partènio, diffusa
nella placida sera,
c’indusse una sùbita pace
nel cuore, e il tumulto si tacque.
E sol riudimmo vegnente
dai gioghi d’Arcadia il messaggio
di Pan che conduce
ne’ tempi il Ritorno eternale.
Arcadi monti, alpe d’Acaia,
messenie cime, o chiostra
della valle sacra,
vivere mi sembraste
voi contenendo la voce
della placida sera,
vivere come i seni
delle vergini intatte
che cantano il canto partènio!
Un melodioso respiro
parea muovere i grandi
lineamenti all’intorno
e, come per una bocca
dischiusa, il visibile suono
volgersi al ciparissio golfo
in figura di fiume
declive e l’Alfeo violento
inebriato d’amore
con Aretusa giacersi
quivi in sul medesimo letto
obliando il corso rapace.
Eternità del Canto!
Concava tutta la valle
come la testudine d’Erme,
d’innumerabili corde
fatta immensa, cantava
ancóra il callinico inno
ai Giovini vittoriosi.
La lotta dell’invide stirpi
placavasi nella bellezza.
Nell’armonia numerosa
posava la rapida forza.
L’orma dei cursori
avea la forma del plettro.
Il disco lanciato
cangiavasi in ala robusta.
Il pentatlo e il pancrazio
erano i fulcri dell’Ode,
come il tripode solido regge
lo spirto prenuncio dei fati.
«O Ellade» io dissi «il tuo Coro
è più delle stelle perenne!»
E, poi che al Cronio la notte
gemmò di stelle la fronte,
solo discesi là dove
il Clàdeo breve si mesce
all’Alfeo tortuoso,
verso le pietre infrante
che mute dormivan sul suolo
augusto, simili a torme
di atleti dalle bianche
clamidi nella vigilia
dei Giuochi sotto il plenilunio
d’ecatombeone giacenti.
Quasi un baglior d’occhi insonni
parea palpitar nelle moli
dissepolte; e d’orrore
tremavami l’anima in petto,
andando, ché toccar temea
col piede incauto la vita
eroica meditante
al conspetto degli astri
lo sforzo per l’alba ventura.
Tra le mozze colonne
del tempio di Era m’apparve
la tavola d’oro e d’avorio
opra del sottile Colòte,
ove gli Ellanodici
ponean le corone d’ulivo
selvaggio. Alle nari
mi giunse l’odor delle calde
ceneri sacrificali
che faceano un tumulo ingente.
Vestito di lino era il mio
silenzio. Giammai nei perigli
l’anima mia s’era armata
di sì vigile ardire
come in quell’ora di sogni
tra quelle notturne ruine;
ma quasi un marmoreo rigore
parea m’occupasse la carne
mortale. Guardai le mie mani
ignude e di pallido marmo
le conobbi al lume del cielo.
E l’ambiguità della morte
e della vita, fra i templi
abbattuti, fra i dubii
aliti, fra i sogni creati
e distrutti, fra le parvenze
intermesse, mi fece
immobile innanzi alle accolte
ceneri delle ecatombi
che insanguinato aveano l’ara
di Zeus nelle remore
olimpiadi e nudrito
il suo inesplebile fuoco.
«O Zeus, Tiranno più grande,
sei dunque caduto per sempre?
Te sire di tutte le voci
terribili il grido iterato
dalla scitica rupe
sconvolse? Lo scaltro ti vinse,
che il muscolo e l’adipe ascosi
avea nella pelle del toro
per sottrarre l’ostia al Potente?
Gli Efimeri onorano il càuto
Ribelle, obliosi del tuo
Ordine puro che solo
generò l’Universo!
La piaga che sanguina e pute
nell’egro fegato, sotto
il rostro del vùlture adunco,
ai lamentevoli figli
del Rimorso e della Paura
la piaga la piaga stridente
ahi più venerabile sembra
che la solitaria tua fronte
onde balzò l’unica nata
Pallade Atena dagli occhi
chiari vergine prode
artefice meditabonda
patrona dei vertici forti
nemica del cieco tumulto
lucida regolatrice
del combattimento ordinato
che reca al sicuro trionfo!
L’odor della carne corrotta,
del sudore anélo,
della febbre, dell’agonia,
della putredine ha vinto
l’ambrosia della tua chioma
su’ tuoi grandi pensieri
ondeggiante, o Generatore
incorruttibile. E i servi,
i liberati servi
inclini al sentier consueto
del fango, che ne’ lor cuori
ignavi agognan pur sempre
il servaggio, scagliano contro
a te la saliva e l’ingiuria.
E il lor fiato perverso
appesta fin l’aer montano
intorno alla scitica rupe
onde il tuo Nemico furace
nauseato vomisce
su loro. E l’Oceano lava
la graveolente lordura.
O Zeus, padre del Giorno
sereno, quanto più bello
del vincolato ululante
Giapètide parveti il monte
silenzioso, di vaste
vertebre, fresco di polle
invisibili, aulente
d’inespugnabili fiori!
Numerava il piagato
con rauca voce i tuoi molti
delitti; e tu sorridevi,
nella tua superbia, più puro
dell’aerea rugiada
però che ciascun tuo desìo
si mirasse perfetto
nell’atto e ciascuna tua stilla
di sangue fosse un’eterna
volontà protesa a un supremo
Ordine e sol d’armonia
si nudrisse la creatrice
tua gioia, d’aurora in aurora.
Zeus, se più bella ti parve
dell’Uom vincolato la rupe
alta silente nell’etra,
più bella dell’Uom crocifisso
è la croce, segno del Fuoco
primiero ch’espressero gli Arii
dal ramo duplice attrito.
Deposto il cadavere molle
fu di sul segno infamato;
ma i cinerei servi
moltiplicarono il tristo
simulacro in tutte le vie
della Terra ove i carri
falcìferi della Potenza
profondato aveano le rote
sonore e le falci corusche
nel carname dei vinti.
O Zeus, o Zeus, t’invoco.
Risvégliati, afferra il domani!
La fiamma urania ti sia
vomere a solcare la Notte.
Travaglia travaglia la Notte,
o Re folgorante! Sovverti
la tenebra! Fendi il pallore!
Tu solo mondare la Terra
dal cumulato escremento
puoi, come la noce dal mallo
se per la tua grandezza
è come la stilla di latte
espressa dal fico immaturo
Galassia che immensa biancheggia.
O Zeus, Tiranno più grande,
tu carico di delitti
e d’oltraggi, ingombro di prede,
tu solo sei l’alta Innocenza.
Risolleva l’Olimpo
e poi risorridi alla Terra.
E, come a sua donna l’amato
offre una cintura più bella,
rinnova per lei l’orizzonte
cui volgere io possa la prora
scolpita cantando il mio canto!»
Così pregai nel mio cuore
notturno, fra i dischi
delle colonne atterrate
che un dì avean chiuso il portento
fidiaco. «FIDIA FIGLIUOLO
DI CARMIDE ATENIESE
MI FECE.» E, come il tremante
artefice innanzi al compiuto
simulacro, attesi nel tuono
il consentimento divino.
Ma silenzioso fu il cenno
del dio che vivea nel mio petto
e nella olimpica notte.
E della notte remota
sovvennemi, del giovinetto
deliro che s’ebbe i due doni
da Libero e da Citerea,
il tumido grappolo e il seno
femineo, quando
laggiù su l’incude celeste
sfavillava il cuor del titano.
E dissi: «O Zeus, tu anche
tu anche mandami un segno
su le vie della Terra.
Per togliere tutti i miei beni,
per cogliere tutti i miei pomi,
improbe fatiche sopporto,
mostri multiformi combatto
che mi precludono i varchi,
ma più terribili quelli,
ahi, ch’entro me di repente
insorgono dalle profonde
oscurità dove torpe
il fango delle geniture!».
E, movendo i passi per l’Alti,
scorgere parvemi l’ombra
dell’indovino di Zeus,
il responso udire improvviso
«Combattere e vincere i mostri
non ti varrà su la Terra
se trasfigurarli non sai,
Aedo, in fanciulli divini».
E i campani d’un gregge
sonavan tra i marmi abbattuti.
Subitamente si tacque
in me l’audace tumulto,
come se la preghiera
accolta mi fosse e compiuto
il desiderio e mutato
già l’orizzonte in cintura
più bella e mondata la Terra
e disvelata la faccia
di Pan che conduce
nei tempi il Ritorno eternale.
E un fanciullo pastore
m’apparve, il pastore del gregge:
simile a riflesso di stella
in tremule acque m’apparve
il puerile sorriso.
Al lume dei cieli
biancheggiar vidi i suoi denti
puri nel saluto venusto:
sentii la rugiada cadere.
Volto avea Boote l’obliquo
timon del plaustro fra i Trioni.
Sì lucida era la notte
che gli arbori su le colline
leggere di là dall’Alfeo
segnavano l’ombre
visibili. Tanto era dolce
il lineamento dei gioghi
che parea, come il fiume,
continuamente fluire.
Giaceva sul dorico tempio
il gregge lanoso;
gli umili velli ed i marmi
augusti in tepore spirante
parean convivere. Tutto
era plenitudine e pace:
non morte, non ruina:
armonia di forme perfette,
concordia del Coro infinito.
Necessità, come l’urto
del piè nella danza tu eri!
Su l’erba colcato il pastore
poggiava il florido capo
al tronco d’un platano. E quivi
io vigile stetti al suo fianco
in silenzio. Ed èramo volti
ai monti d’Arcadia, all’indizio
del di nascituro. E il fanciullo
mordeva mentastro odoroso,
scendendogli il fiore del sonno
su’ cigli virginei. Caddegli
il ramicello selvaggio
dalla bocca aulente che al fiato
eguale si schiuse. La valle
parve tutta allora una cuna
divina per quella innocenza.
Vidi su i vertici l’Alba
avvolgere al piè della Notte
il lembo del suo primo velo.
D’amore tremai come s’ella
ver me si piegasse e dicesse:
«O tu che m’attendi, io ti cerco!».
VIII.
Alba apparita dal sacro
Cillene, il mio canto novello
salire a te non si ardisce;
ma tu risplendi per sempre
su le mie sorti guerriere
freschissima confortatrice!
Da te beve come da un fonte
l’arsura della battaglia.
Stendere tu suoli il tuo velo
su la mia febbre animosa.
Ti guardo allor che il periglio
è presente, ti guardo
allor che mi stringe il dolore,
ti guardo allor che m’accingo
a scuotere l’anima mia
come arbore troppo gravato
di frutti maturi,
e dico: «Il mio giorno incomincia»
con ineffabile gaudio
entro me udendo il respiro
lene del divino fanciullo.
Lui sotto il platano, ancóra
dormente, lasciai tra il suo gregge
nell’Alti. E come dal cavo
còrtice sgorga la copia
del miele e liquida cola
giù pel tronco insino alla ceppa:
la flava ricchezza adunata
dall’api sembra una gomma
pingue che gema dal cuore
dell’arbore, dono agli umani:
così la sua grazia facea
ricco il platano sterile
e quasi apparia stirpe d’oro
prodotta co’ i rami e le frondi
naturalmente alla luce.
Tacito partìimi, nudato
i piedi, per mezzo la bianca
strage dei marmi, scendendo
a riva. E la veste di lino
erami grave. Mi scinsi.
Palpitai nell’aere chiaro.
Con qual grido in me riconobbi
l’antica natura dell’acqua
scagliandomi nella corrente
del mitico Alfeo!
Correva quel fiume in gran letto
ghiaioso ardente consparso
di platani di tamerici
d’oleandri selvaggi;
e le cicale col canto
e col susurro le frondi
accompagnavano il croscio
robusto del rapitore.
«Io Arethusa, io Arethusa!»
Agili guizzavan nel gelo
i muscoli all’impeto avverso
resistendo; ma d’improvviso
per tutta la carne un’azzurra
fluidità mi ricorse
e i muscoli furon su l’ossa
come i fili dell’acqua
turgidi contra le selci.
E non più lottar volle il corpo
a nuoto ma cedere tutto
alla rapina sonora,
ma essere quella rapina,
ma perdere il limite umano,
espandersi fino all’alpestre
origine, correre a valle
dal monte, ritorcersi in lunghi
meandri, polire le rupi,
l’erbe inclinare, i campi
rodere, scalzar le radici,
detergere il gregge, di schiume
fervere, tingersi di cielo,
splendere di raggi, gonfiarsi
di tributi limosi,
il limo deporre, chiarirsi
com’aere gelido, in ogni
goccia crescere impeto e brama,
contro il Mar che agguaglia afforzarsi
di rapidità, fiume eterno
persistere nell’amarezza.
«O Alfeo d’Aretusa, più vaste
correnti solcan le valli
terrestri, il Tànai estremo
dirime innumere stirpi,
termine d’imperi è il profondo
Istro, il settemplice Nilo
trasmuta le arene in immense
biade e specchia ardui sepolcri.
Ma sol tu sei regnatore
nel mito, bel re cristallino!
I più grandi beve per sempre
l’inevitabile ponto.
Morte informe in pèlaghi estingue
tanta forza irrigua. Tu solo,
rena d’amore immortale
palpitante nell’amarezza,
tu solo persisti e trascorri,
puro qual nascesti dal fonte,
al segno del tuo desiderio
lontano. O Alfeo d’Aretusa,
ch’io sia come te nel mio mare!»
Mi mossi allora, temprato
dal limpido gelo, mi mossi
ai dissepolti simulacri
che il triste ricovero chiude.
Pio pellegrino, le rose
del laurigero oleandro
e il fior violetto dell’agno-
casto io colsi tra le ruine.
Tutta la valle ardeva
di fiamma cerula, e il canto
delle cicale era come
il suono del foco celeste,
talor come il crèpito chiaro
degli arbusti arsi, dei fumanti
aròmati. La magra terra
fumava ed auliva d’incensi
come il sommo dell’ara.
La cenere delle ecatombi
svegliarsi pareva in faville.
Tintinno di tetracordi
era il vento etesio nei pini.
O Ippodàmia, nel rotto
fronte del Tempio giacente,
io vidi te sola
tra Pelope e i quattro cavalli,
orrendo virgineo silenzio
chiuso nella gravezza
del dorico peplo. Constretta
nelle pieghe rigide come
nelle ferree dita del Fato
eri, o figlia d’Enomào.
Ma il pensier tuo, sotto i folti
riccioli simili alle uve
della bimare Corinto
mèta alla corsa fatale,
immobile vivea
nel fiammeo soffio dei quattro
corsieri già pronti col carro.
E non ebbe il Cillene
non il Taigeto un abisso
terribile come il tuo grembo
intatto che Pelope amava.
Perché di sùbito amore
anch’io t’amai, genitrice
d’Atreo? Perché nella memoria
mi giganteggia il tuo peplo
simile alla scorza d’un mondo?
L’imagine in te ritrovai
della perigliosa Bellezza
che di sé m’accese e m’accende,
virginea nel rigore
del suo vestimento ordinato,
urna di tutti i mali,
profondità di dolore
e di colpa, remota
cagione di lutti infiniti,
funesto silenzio ove rugge
ebro di lussuria e di strage
l’umano mostro nudrito
d’inganni pel labirinto
dei tempi. L’aspetto sublime
dell’Ombra cui l’arte m’è fisa
in te raffiguro, Ippodàmia.
Tra l’eroe preparato
e la fremente quadriga
tu stai, piena il fianco regale
di fertilità spaventosa,
guatando la via dove spenti
caddero sotto le ruote
dei carri i tuoi chieditori.
E il tuo padre in segreto ha fame
di te; e il Tantalide è certo
di premerti, al tramonto
del sole, nudata e superba
sopra le sue pelli di belve.
E tu sei vergine ancóra;
la tua cintura ti cinge
di sopra il ventre velato,
come il cerchio tacito gira
a sommo del gorgo.
Ma Tieste e Atreo nascituri
e la cruenta progenie
e il peso carnal dei delitti
già t’affaticano il grembo.
E dalla tua bianchezza
immobile, o Statua sculta
pel fronte sereno del Tempio,
erompe il furor degli Atridi,
propagansi l’odio fraterno
e la libidine incesta
e l’ebrietà dell’eccidio
e i singulti e gli ululi e i lagni
che trae dalle fauci umane
la cieca percossa del Fato.
O Ippodàmia, e lungi
alla tempesta dei mali
nella dolce luce un divino
cigno canta il suo giovenile
inno verso la Morte.
«Recate i canestri! Versate
sul fuoco l’orzo lustrale!
Conducete vittima all’ara
me trionfatrice dell’alta
Il’io! Coronatemi il capo!
All’Ellade io do la mia vita.»
Chi dunque canta? La stirpe
di Pelope, Ifigenìa,
l’Atride cara ad Achille,
ebra di gloria, futura
luce dell’Ellade, innanzi
alla moltitudine in arme,
andando pel florido prato
verso il bosco sacro
d’Artèmide. «Per la mia patria
e per tutta l’Ellade io muoio!
Ma degli Argivi alcun non mi tocchi.
Tenderò la gola in silenzio.»
Ed Achille, preso il canestro,
tolta l’acqua, circa l’altare
corre invocando la dea
per le navi e per l’aste.
Rapisce la dea, sotto il ferro
del sacrificatore,
la vergine intatta. Prodigio!
Su l’altare palpita occisa
la grande cerva montana.
In alto, per l’incolpato Etra,
per la via de’ v’ènti e degli astri,
la suora d’Apolline reca
nelle candide braccia
la nata del sangue d’Atreo,
o Ippodàmia, lei dormiente
adagia su i gradi del tempio
tàurico fatta più bella!
Tal, figlia d’Enomao, che stai
tra l’eroe preparato
e i quattro corsieri anelanti,
videro i miei occhi novelli
illuminarsi l’antico
mistero cui veste il tuo peplo.
Un’armonia inaudita
congiunse allora nel sogno
la rigidità del tuo marmo
alla flessibile forza
in me viva; e sorsero accordi
senza numero belli
tra i miei spini e i miti divini.
Ma la parola dell’uomo
è tarda in seguir dagli abissi
ai vertici l’avvolgimento
dell’anima alata.
Espressa in ardore di suoni
non ho la figura che nutro
della mia midolla più forte,
o Statua scura pel fronte
sereno del Tempio,
né detto perché la tua fredda
pietra si muti ai miei occhi
nella sostanza infiammata
cui l’arte mia teme e travaglia.
Chi mai dunque sotto il velame
scoprirà l’imagine ascosa?
Forse colui che, esperto
e vigile, ode in un soffio
del vento rivivere i morti,
rigiugnersi le parentele
obliate, sotto l’incauta
prole ansare il sen della Terra.
IX.
E l’Erme prassitelèo
sul fulcro quadrato mi parve
men virile, quasi fior molle
di grazia feminea, quasi
desiderabile amàsio,
andrògina forma venusta,
poi che saziato mi fui
di grandezza e di lutto.
Il torace il ventre ed il pube
non marmo erano ma carne
cedevole. Il nitido capo
dai riccioli corti, recline
verso Diòniso infante,
nella levità del sorriso
e dell’ombre era ambiguo
tra il sogno e la vita, siccome
quel del pastor duplice alato
che guida le anime all’Orco
e il rapito armento al suo antro.
Dai ginocchi agli òmeri in ritmi
leggeri saliva la forza.
Ma, poi che da banda mi trassi
e riguardai, la forza
si palesò nella guisa
che l’arco allentato si tende.
I lombi gagliardi, le cosce
nervose, le reni falcate
e salde, la cervice
robusta eran degni del dio
enagònio. Gravando
sul piè manco il peso del corpo
divino, ei reggeva col braccio
inflesso il pargolo ignudo.
Ei giovine assunto alla forma
perfetta portava il nascente
germe inteso a spandersi in gioia,
a sorgere nella pienezza
dell’essere e della potenza.
Così per visibili segni
raffigurata mi parve
nel Divenire Eterno
l’immortalità della Vita.
«O figlio di Maia» pregai
«figlio dell’Atlantide Maia
dall’affocata faccia,
che onoro notturna fra gli astri
Pleiade dai sandali belli
dal crin di giacinto, che invoco
fra le sue sorelle celesti,
odimi, o Criseotarso,
Amico degli uomini. Scendi
dal fulcro quadrato,
àrmati del pètaso il capo,
allaccia gli aurei talari
ai mallèoli, teco togli
la verga di tre rampolli,
la lunga clamide, l’arpe
l’unata, la borsa capace,
e vieni tra gli uomini. Sei
pur sempre il lor nume operoso,
il dio dal gran cuore, l’artiere
infallibile. Vieni!
Udrai e vedrai maraviglie.
O Agorèo, cui piacque
trattar con vólto benigno
i mercatori in piazza
solleciti intorno alle biade
dell’Attica magra, la Terra
è oggi un’àgora immensa
ove non si tendono reti
di belle parole ma guerra
si guerreggia furente
per la ricchezza e l’impero.
Duci di genti son fatti
i tuoi mercatori ingegnosi,
duci inesorabili e insonni
dal breve motto che scrolla
cumuli enormi di forza.
Sul flutto dell’oro
ondeggian le sorti dei regni.
Come l’aere l’acqua ed il fuoco,
fatto è l’oro un periglioso
elemento che ha i suoi nembi,
i suoi vortici, le sue vampe.
O Infaticabile, e sonvi
terre novelle, agitate
dall’alito aspro dell’antico
Oc’èano, dove l’umana
opera è qual rabida febbre.
Il vento è qual bronzo che squilli,
il vento è qual riso che rida
qual gioia che canti
su la magnificenza e l’onta
degli atti. Il verbo è una lama
aguzzata a duplice taglio.
La gara, che tu proteggevi
nelle fulve palestre,
divora le vie strepitose.
Gli uomini dalla mascella
belluina e dal mento
di selce màsticano l’ansia
qual foglia amara d’alloro.
La Volontà reca intrecciati
a sé il Dominio e il Piacere
come i serpi al tuo caduc’èo.
L’Istinto è un impeto sagliente,
un ariete caloroso
dalle inesauste reni,
che si precipita sopra
la vita e l’assale
e la copre e sì la feconda
reluttante o sommessa.
Passan talora su le rosse
città nuvole di speranze,
quasi tempesta di ali;
e s’empion d’un rombo gli orecchi
degli uomini maraviglioso,
ch’è il rombo degli inni futuri.
Le mammelle irrìgue
della Terra moltiplicarsi
paiono alla cresciuta
avidità della prole.
Il Destino toglie da tutti
gli spazii i suoi limiti, vinto
e respinto per sempre
dalla libertà degli eroi.
O Macchinatore, e una stirpe
di ferro, una sorta di schiavi
foggiata nella sostanza
lucente de’ clìpei dell’aste
degli schinieri, una serva
moltitudine di Giganti
impigri obbedisce ai fanciulli
e alle femmine, meglio
che su triere veloce
al celeùste la ciurma
unta di olio d’oliva.
E non il flauto né il canto
regola il moto con ritmo
eguale; ma una potenza
che non falla, simile al sano
cuore nel petto dell’uomo,
pulsa in quelle ossature
polite e circola in ogni
membro con giro iterato
accelerando il lavoro.
Gran fremito scuote le case.
M’odi. Il gesto del paziente
ilota, che trita la spelta
o il latte agita nel secchio
o scardassa le lane,
s’immilla ne’ ferrei bracci
nelle ruote dentate
ne’ lunghi cuoi serpentini
che per girevoli dischi
trascorrono propagando
l’impulso ai congegni sottili
onde l’informe sostanza
esce trasfigurata
come da industria sagace
d’innumerevoli dita.
O Erme, i telai della lidia
Aracne diurni e notturni,
ove come rondini argute
volavan le spole,
travagliano senza canzone
di vergine e senza lucerna,
soli in ordin lungo strependo.
Il sudore d’Efèsto
su la piastra imposta all’incude
profuso, è ormai vano
o Erme, ché nelle fucine,
come la man puerile
incide la tenera canna
o divide le fibre
del cortice lieve, l’ordigno
facile taglia distende
assottiglia fóra contorce
per mille guise il metallo
ammassato in solidi pani.
Odimi, o Inventore.
E i magli, i magli più vasti
delle rupi che il lacertoso
Ciclope scagliò contra Ulisse
tuo caro, invisibile pugno
solleva e precipita in ritmo
agevolmente come
il fanciullo manda e ribatte
volubile palla per gioco.
Gioco di fanciullo era a poppa
del nautico pino il chenisco,
l’anitrella scolpita
nella curva trave spalmata
perché galleggiasse in eterno.
O Erme, nave catafratta
or galleggia e naviga senza
vele né remi. Discende
pel pendìo dello scalo
nel mare compagine eccelsa
come cittadella munita,
corbame e fasciame di ferro
testudinato di piastra
a martello più salda
che orbe di settemplice scudo.
Gran torri soperchiano il vallo.
La carena ha un cuore di fuoco
onde creasi la propulsante
virtù dell’ali marine
che tùrbinan sotto la poppa
tra ruota e timone sommerse.
Atto alla guerra e alla pace,
minaccioso d’armi tonanti
o dei doni onusto che all’uomo
fa la veneranda Demetra,
il colosso equoreo solca
pèlaghi ed oc’èani, varca
gli eurìpi i bòsfori i sacri
istmi che l’uom frale recise
come tu dio con l’arpe
il collo d’Argo tutt’occhi.
Oltre le Caspie Porte,
oltre l’Atlante ove il coro
delle Esperidi per sempre
si tace, oltre la piaggia
del Cinnamomo trapassa.
Lascia l’iperbòreo lito
ove non più danza e canta
Apolline dall’equinozio
di primavera insino
al levar delle Pleiadi
re dei conviti soavi.
Di Taprobane a Ierne
di Cerne all’Oc’èano Eoo
la sua scìa grande orla i lembi
di quel mondo che t’appariva
nel volo, o Alipede, quale
macedone clamide stesa.
Ma di là dalla piaggia d’Eea,
di là dall’estremo Occidente,
ove Elio sommerge i cavalli,
trapassa ad attingere un altro
mondo che sotto altre stelle
si giace in duplice forma,
simile a un’ala d’uccello
e simile a un’orsa poggiata
le zampe nell’artico gelo.
E il certo piloto
disegna nell’acque un cammino
ben cognito a tutte le prore,
sì che traccia su traccia
persistevi qual nelle vie
frequenti il solco dei carri.
O Egemonio, m’odi.
Nel mare è il certame dei regni.
Il mare implacabile prende
e scevera, senza fallire,
le virtù delle stirpi
nel tempo. Più della terra
antico, nudrito di morti
ma di nascimenti fecondo,
più della terra è bello,
più della terra è sicuro.
I morti non rende, ma rende
l’amore a chi l’ama tenace.
La Speranza che stette
al fianco dell’uomo animoso
curva su la rate pelasga,
la selvaggia compagna
cui contra l’occhio aguzzato
la palpebra rossa
arrovesciavano i v’ènti,
or fatta è donna imperiale
Thalassia nomata su i v’ènti.
Nel trono ella sta d’Amfitrite.
Catenata sembra la Gloria
tra le sue tempie. Il suo seno
è una primavera anelante.
Il suo palpito si ripercuote
dai golfi e dai bòsfori azzurri
del Mediterraneo Mare
sino ai promontorii nimbosi
della barbarica Ierne.
Bùccine di mille Tritoni
non vincono il chiaro clangore
della sua tromba di bronzo.
L’odono i popoli forti:
cantando l’inno dei Padri,
spingon rivali nel flutto
ruggente le navi di ferro;
ché necessario è navigare,
vivere non è necessario.
Polèna a ogni prora novella
è il cuore vermiglio dell’uomo
inalzato sopra la Morte.
Odimi, o Enagonio.
Il Taigeto ha i segugi
più ardenti; ha Sciro le capre
dalle mamme irrigue di latte
più pingue; Argo, le armi;
Tebe, i carri; ma la Sicilia
ferace dà le quadrighe
magnifiche, i bene bardati
corsieri dal piè di tempesta.
Ne’ tuoi stadii l’asse tutt’oro
guizza come folgore in nube.
La Rapidità dalle nari
di fiamma par su le tue mete
lasciar vestigia d’incendio.
Ierone di Siracusa,
Senòcrate di Agrigento,
Cromio d’Etna, fior di Sicilia,
contendon la palma agli Elleni.
Pindaro diademato
offre agli eroi trionfali
la grande coppa dell’inno.
Non l’ebrietà della strofe
né fronda di quercia d’olivo
di pino s’attendono, o Erme,
i conduttori dei carri
igniti cui circo e vittoria
è l’Orbe terrestre! Nel pugno
non reggon le redini anguste,
non figgono alle cervici
dei cavalli lo sguardo.
Governano ordigni più snelli
che il tèndine equino
ma possenti più ch’epitagma
scagliato nella battaglia.
Scrutano lo spazio ventoso,
i piani i fiumi i monti
che valicheranno. Obbedisce
il pulsante metallo
al tocco infallibile. Foschi
son gli intenti vólti, notturni
come il vólto di Ade re d’Ombre
che trae Persefóne piangente.
Traggono il pianto e l’affanno
degli uomini i lor negri carri,
il male degli uomini stretti
e misti nell’alito impuro,
il dolore e tutti i suoi frutti
sopportano, o Erme, il piacere
e i suoi fiori senza radici,
e l’avida gioia
e il desiderio feroce
e gli inestricabili nodi
delle anime chiuse nei corpi
ignavi, e gli intorpiditi
crimini dallunghie rattratte,
e le volontà rilucenti
nei sogni come in guaine
diàfane, e l’opere nate
da ieri, e i messaggi dei cuori
fraterni, e la copia dei beni
giocondi trasportano, o Erme:
le rose dei liti solari
al gelo dell’Isole Scàndie.
Tonando passano, in lungo
ordin su cento e cento ruote
concordi, con nubi e faville
per traccia, passano a vespro
nei piani onde fuma sommossa
dal diurno travaglio
la fecondità delle glebe.
Sùbita s’aderge in orgoglio
la stanchezza dell’uomo
e guata la porpora immensa
del cielo, ove come in sanguigna
promessa di vita più bella
par che s’addentri col peso
la creatura dell’uomo.
Cade la notte. O perla,
o lacrima d’Espero ardente!
S’accendono i fari. Nei porti
le ciurme si scagliano all’orgia.
Le città splendono di febbri
come un astro è cinto di aloni.
Col rombo il tràino amplia la notte.
Odimi, precipite Nunzio,
alto Messaggero celeste.
L’aere notturno e diurno
palpita di umani messaggi.
Commessa al silenzio dell’Etra
la parola attinge i confini
remoti. Serpeggia silente
pei bàratri equorei, sotto
i nettunii pascoli; emerge
lungi perfetta nei segni,
narra gli eventi, conduce
le imprese, congiunge le stirpi,
infèrvora i forti alla gara.
La voce, la voce sonora,
formata dal labbro spirante,
in cavo artificio s’ingolfa,
di sillaba in sillaba vibra
tacitamente lontana,
ravvivasi come in profonda
bùccina e favellare
l’ascolta l’orecchio inclinato.
O Viale, come le vene
per entro ai marmi di Sparta
e del Tènaro folte
son le vie frequenti e insuete
ond’è variegata la Terra.
Ma la mobile fiamma,
che tu eccitavi nel petto
del viatore, divampa
e grandeggia in cuor dell’eroe
novello che vede la Gloria
accosciata come la Sfinge
nell’immensità dei deserti
o presso le occulte sorgenti
dei fiumi o su i mari di gelo.
Non di parole tebano
enigma propone la belva
ma chiede, o Erme, la chiave
sacra che vedesti nel pugno
dell’antichissima Gea!
D’ossa lùcono i milliari
degli spaventosi cammini.
O Citaredo primo,
tu il bene che supera tutti
désti all’uomo quando la cava
testudine nata nei monti
facesti sonora, le canne
trasverse inserendo nei fóri
tra l’un margine e l’altro,
poi sul graticcio spandendo
la pelle di bue, configgendo
a sommo del guscio i due bracci,
questi poi giugnendo col giogo.
Tra l’osseo giogo e l’estremo
labbro della scaglia montana,
come il nervo tra i corni
dell’arco, tendesti minuge
di agnelli bene attorte.
Sette ne tendesti, o figliuolo
di Maia, per onorare
le Pleiadi belle nell’Etra.
E la tua cheli selvaggia
fu compagna al canto dell’uomo.
Or l’uomo, emulando gli audaci
tuoi spiriti, seppe di legni
di nervi di crini di pelli
d’avorii di metalli
una multiforme crearsi
e multànime gente
canora che popola e gonfia
la profonda orchestra occultata,
ove non più la thyméle
santa òccupa il centro del cerchio
né più presso l’ara l’aulete
dalla phorbéia di cuoio
col duplice flauto accompagna
le strofe e la danza corale.
E non il cristallo del cielo
né il sinuoso velario
acceso dai raggi s’allarga
su la moltitudine intenta;
ma simile ad alto sepolcro
è il notturno teatro
concluso e in sé stesso rimbomba.
Come nei mari le prime
onde squammose all’urto
dell’euro inarcan le schiene,
s’ergono e spumano, il rugghio
e il tuono avvicendano a corsa,
di procella tumide in vasti
cumuli precipitando
con un rapimento improvviso;
come nei boschi le prime
faville accendono i coni
aridi, le morte frondi,
crescono in pallide fiamme,
serpeggian pe’ vepri, gli arbusti
mordono, il cuor selvaggio
attingono carco d’aromi,
conflagrano subitamente
fragorose verso la nube,
irraggian per tutta la valle
il fulgore e il terrore;
così dall’orchestra prorompe
l’impeto sinfoniale.
O Maestro dei Sogni,
m’odi. E i Sogni inani, i tuoi lievi
simulacri della quiete,
le tue mute imagini erranti,
giganteggiano a un tratto
con vólti di bragia,
s’armano d’una ossatura
erculea, grande hanno il fiato
e polsi hanno violenti
per stringere l’anima umana
e scuoterla dalle radici
e sv’èllerla e darla al ludibrio
dei desiderii! E l’Amore,
o Erme, il giovinetto cnidio
triste come un rogo consunto
ascolta per entro a’ capegli
che sono un unguento stillante;
languisce in un freddo sudore;
poi vuota la tazza che gli offre
la Morte, ove tutti i piaceri
spremuti fanno un sol tòsco.
Padre d’Ermafrodito,
non tu creasti l’oscuro
Andrògino al far della notte,
ebro di melodìa
in un torrente di suoni
premendo l’amata da tutti
Anadiomene d’oro?
Noi anche, ahi sì brevi, sul lito
d’Eternità sognammo
le mescolanze vietate,
sdegnando di saziarci
pur sempre con la dolcezza
dei consueti giacigli.
L’opera attendemmo diversa,
nata da un’incognita febbre,
fatta di dolore e di gioia,
pallida di ricordanze
ma di presagi animosa,
recante in sé la promessa
e il compimento, sorella
delle Stagioni divine.
O Psicagogo, se all’Ade
squallido condurre dovessi
tu l’anima mia, se condurre
dovessi tu l’Ombra del mio
canto su l’asfòdelo prato
incontro a Saffo sublime
dal crin di viola che forse
m’attende, alla riva del Lete
t’indugeresti, io penso,
vedendo in me trasparire
queste tante ignote ricchezze.
E direbbemi alate
parole la tua maraviglia:
«Ombra, per la luce soave
onde vieni, sosta, ch’io miri
da presso la tua opulenza.
Come arbore sei, che curvato
abbia lungamente i suoi rami
nel lidio Pattòlo e gravato
ne sorga e si mesca il metallo
regale alla polpa dei frutti.
Tanto adunque sopra la Terra
deserta d’iddii può la vita
anco esser ricca, Ombra d’aedo?
Parte alcuna in te riconosco
di ciò che fu nostro, se indago;
ed è la tua parte di gioia,
la tua purità sorridente.
Ma innumerevoli sono
le cose novelle che ignoro,
e le geniture dei mostri
che pur non sembran pesare
alla levità del tuo passo.
Ombra, non sarà che tu getti
questa abondanza all’oblìo.
Non varcherai la riviera.
Qui farai sosta con meco.
Proteggerti vuole il Parente
della Cetra; ché forse
talor ti sovvenne del dio
Intercessore ed alcuna
dottrina apprendesti da lui.
Di congiugnimenti maestro
fui, di concordie divine
compositore sagace,
perito d’innesti immortali,
per moltiplicar la mia forza,
aedo, e la mia conoscenza.
Penetrabile fui e fecondo.
Come nella mia dolce Arcadia,
dopo il verno, ai tepidi giorni
quando muovon le gemme,
il colono fende la scorza
dell’arbore e v’incastra la marza
acciocché in essa si alligni:
la pianta inframmessa le vene
sparge nell’altra e s’appiglia;
vigoreggia il succhio, il sapore
del frutto si fa generoso:
così, con arte inserendo
nella mia sostanza diverse
deità, m’accrebbi di varia
potenza, molteplice ed uno.
La verginità cruda e invitta
di Pallade a me collegata
mi fece più destro in trar prede,
e nella tetràgona pietra
io fui pe’ mortali Ermatena.
Al Cintio l’ungescagliante
ond’ebbi la verga trifoglia,
cui diedi la cheli soave,
mi strinsi con patto fraterno;
e quindi Ermapòlline fui.
Infondermi il sangue feroce
dell’uccisore di mostri,
dell’eroe muscoloso
dalla fronte angusta, volli io
Argicida; e fui Ermeràcle.
E con altri iddii mi confusi;
né sdegnai gli iddii bestiali,
dalla testa di cane, dal becco
di sparviere, dalle mascelle
di leone, estrani, onde fui
Ermanubi, Ermitra, Ermosiri.
Ma da due comunanze
m’ebbi più gran copia di forze
segrete e di gioie profonde
e di visioni sublimi,
Ombra d’aedo che ascolti.
M’accomunai con l’Amore,
col nume che fu nel principio,
che sarà nella fine.
Con Eros confusi il mio sangue,
col bellissimo fiore
cui era devota la schiera
sacra degli efebi tebani;
e fui pe’ mortali Ermeròte.
M’accomunai col Silenzio
io signor del discorso
ornato, dell’insidiosa
facondia. Ermarpòcrate fui,
col dito premuto sul labbro
eloquente; ma tenni
ai miei piedi il vigile gallo
che col grido annunzia l’aurora.
Così tutto attrassi e composi
in me, tutto abbracciai,
di congiugnimenti maestro,
perito d’innesti immortali.
Or io mi penso, Ombra d’aedo,
che ben conoscesti quest’arte
tra gli uomini se cumulata
hai tanta ricchezza
nell’anima tua giovenile.
Per ciò ti concedo che sosti
sul lito del fiume torpente
e d’umane cose favelli
col dio. Non bevere l’onda
obliosa, ma, se la sete
ti arda, io voglio offerirti
il pomo granato che aperse
Core, di Demetra la figlia
pura, con le chiare sue dita.
Ne prese tre soli granelli:
Aidòneo re sorridea.
Bella era la bocca di Core».
E io ti direi rispondendo:
«O Intercessore benigno,
poiché tu concedi ch’io teco
favelli alla riva del Lete
io tutte le cose dell’uomo
ti svelerò, esule dio.
Ma soffri che un’Ombra d’aedo
interroghi l’alto Parente
della Cetra! Ermerote
io ti chiamerò, Ermerote,
bel sangue commisto d’Amore.
Tu conducevi Euridice
per mano su i violetti
asfodilli, e Orfeo t’era innanzi
coronato di cipresso
e di mirto il capo suo d’oro.
E intorno era sacro silenzio
ma ad ogni passo silente
gemere s’udia la gran cetra
sospesa al fianco d’Orfeo…
Non così fu, Ermerote?
Sentisti tu tremare
la man di colei che traevi
dall’Ade su i cari vestigi?
E obliato non hai ogni altro
tremito di carne mortale
tu che i miseri uomini ignudi
avvincevi ai supplizii?
Intorno era sacro silenzio,
ma s’udia nel Tartaro lungi
rombare la ruota aspra d’angui
cui tu avvincesti Issione.
Ed ei si volse, ei si volse,
Orfeo si volse! La donna
perduta fu, dallo sguardo
perduta! Ritrarla dovevi
nelle inesorabili fauci.
Mirasti i due vólti, e quegli occhi?
Euridice! Orfeo! Notte eterna.
Ah parlami di quel dolore,
di quella bellezza, Ermerote!
E poi fa ch’io beva l’oblìo.»
X.
Tornammo alla nave ancorata.
La salutammo nel porto
con ilare grido vedendo
il candido fianco apparire.
Tra le Onerarie ventrose
più snella ci parve, leggera
come fasélo o liburna.
L’albero la verga le sàrtie
la gran randa i piccoli fiocchi
il bompresso trincato
le commessure del ponte
le boccaporte e le cùbie
e le caviglie e i bozzelli
e tutti gli attrezzi minuti,
canape legno metallo,
amammo di vigile amore
come vena per vena
e nervo per nervo le membra
viventi di fragile amica.
Più che l’odor del mentastro
ci piacque l’odor della nave.
Or un de’ cari compagni
recato avea prigioniera
in una gabbia intesta
di giunco una bella cicala
del regno di Pelope Eburno.
E cautamente sospeso
avea quella nassa terrestre
a poppa, e sópravi steso
un ramoscello di pino
reciso nell’Alti; e si stava
in ascolto avendo nel cuore
l’anacreontica lode.
Ma la regina del Canto,
l’ebra di rugiada e di luce,
su l’acqua oleosa del porto
tacevasi attonita all’ombra
dell’ingannevole fronda;
ché il suo luogo è la cima
dell’arbore o l’asta di Atena.
E noi ridevamo il deluso.
«Or téntala dunque col dito!»
Salpammo l’àncora all’alba.
Patre era avvolta di sonno
torbido; ma l’alpi d’Etolia
sorgevano in veste di croco,
quasi Grazie pronte a danzare
sul fiore del Ionio, fasciate
dalla stephàne d’oro.
«Forse, a piè del letto ove giace
la meretrice di Pirgo
invano aspettando il navarca,
Elena figlia del Cigno
s’accoscia e ronfia, nascosta
le mille sue rughe per entro
la grande sua bianca criniera»
pensava tal’uno di noi
sciogliendo la randa solare
che ben da noi stessi tramata
ci parve, col filo dei sogni.
E vidi il fanciullo nell’Alti,
in mezzo alla strage dei marmi,
ignaro di quella vecchiezza.
Il mattutino spiro
ci volse alla porta del golfo
corintio, tra i due promontorii
affrontati come molossi
che senza latrare protesi
già fossero all’impeto ostile
ma d’improvviso irretiti
in non so qual divina
ambage di rosei veli.
E un amore dei monti
indicibile era nei nostri
petti, e riconoscerne i vólti
ignudi e chiamarli per nome
desiderammo. Ogni lume
ogni ombra ogni solco ogni asprezza
ci parve il segno d’un dio,
l’orma d’un eroe, la fatica
d’un uomo, lo sforzo d’un mostro.
E dicevamo: «E’ il Coràce
forse? è l’Aracinto? il Timfresto?
o il Bomi onde sgorga l’Eveno?».
Il vento gonfiava la randa;
e tanto la vela era bella
d’armoniale virtude
che parea la scotta sua forte
dovesse, pulsata da un plettro,
rendere un suono di lira.
E ad ogni istante gli aspetti
dei monti eran nuovi, più dolci
o più aspri. E se un’argentina
conca appariva o un anfratto
ceruleo, l’anima nostra
vi si profondava per gli occhi
bramosa d’attingerne l’imo
come il natatore si scaglia
dall’alto nell’onda ch’egli ama
e sommerso tocca la sabbia
o la radice dell’alga.
Tuttavia perché, nella gioia
e nell’avidità, ci saliva
ai precordii un’ansia intermessa
piegando al cammino ritroso?
O amore, amore mai sazio
di conoscere e d’adorare!
Taluno de’ cari compagni
dicea: «Non vedremo la bocca
dell’Eveno, e non il suo guado;
non il regno di Deianira,
non in Calidóne la caccia
né la tomba ove corse
delle Meleàgridi il pianto».
Volgevansi a poppa gli sguardi
per la scìa lunga virente.
E l’odore dell’ecatombe
sentimmo, vedemmo l’Etolia
accesa di funebri roghi,
la forza di Meleagro
avvinta al tizzo dal Fato,
e Deianira nel fiume
torcersi abbrancata da Nesso,
Eràcle con la saetta
intrisa nel fiele dell’Idra
passare il polmone ferino.
E dicemmo: «O Ellade, tutto
in te vige, splende e s’eterna.
Come le barbe degli olivi
per le tue piagge e i tuoi colli,
come i filoni della pietra
ne’ tuoi monti, le geniture
dei Miti ancor tengono presa
l’antica virtù del tuo suolo.
La gente che sega le magre
tue messi, o abita le case
vili a piè delle deserte
acropoli, ti disconosce;
e t’è più strània di quella
che tolse i tuoi numi alle fronti
de’ tuoi templi in ruina
per trarli mùtili e freddi
nella sua caligine sorda.
Ma i Miti, foggiati di terra
d’aria d’acqua di fuoco
e di passione furente,
sono il tuo popolo vivo.
Vivi palpitar li sentimmo
sul nostro cuore umano
stringendoli; e ancóra in segreto
ci dissero qualche inattesa
parola e ci diedero un’arme
per meglio combattere o un ritmo
ci appresero novo
per meglio gioire. Verremo
di gleba in gleba, di selce
in selce noi pellegrini
inchinando il cuor nostro umano
su la deità che l’assempra?
Ahi, l’ora è breve e il vento
volubile, ed è necessario
compiere altri perìpli
finché la carena sia salda;
e a consumabile tizzo
la nostra sorte anco è avvinta.
Ma ad ogni approdo intera
tu sarai nel nostro fervore
qual sei nel tuo triplice mare!».
E, come già il Sole era presso
all’ultimo vertice azzurro,
scomparsa a ponente Naupatto
dei Locri, a ostro Egio achea,
ci apparve su l’acque
il promontorio Andromàche
simile a un leone sopito
nel fulvo oro della sua giuba.
Il vento languiva. Bonaccia
grande era intorno. Udivamo
a quando a quando la vela
floscia battere e trepidare
come un cuor moribondo,
il legno per tutte le fibre
alide dell’alidore
celeste risponder con lungo
gemito, guizzare i delfini
sotto la poppa, i falchi
stridere per entro i forami
della rupe aurata. E la voce
di prua mise un grido: «Il Parnasso!».
E tutti balzammo a guatare
la faccia d’Apollo apparita;
però che sul tacito specchio
il Monte Castal’io, sublime
e roseo, dominatore
d’ogni altra grandezza e pur lene
come se l’onda perenne
del canto spetrata ne avesse
la mole terrestre, assemprava
ai nostri occhi attoniti e puri
l’apparizione diurna
del dio musagète vivente
non qual nella vena del pario
marmo dagli artefici è sculto
a similitudine d’uomo
ma qual forse il videro un tempo
sul verde limite dei paschi
i primi pastori
proteggere i tauri e i cavalli
misteriosa bellezza
levata in sostanza serena.
Cadde il vento. Noi tutti
èramo senza parola
fissi alla gran maraviglia.
Sospeso era il Giorno sul nostro
capo. Tutte le cose
tacevano con un aspetto
di eternità. L’occhio solo
era vivo e veggente.
O tregua apollinea, Meriggio!
Qual coro avea chiuso il suo canto
remoto negli echi del mare?
Qual coro traeva il respiro
per dare principio al suo canto?
Coro di Sirene o di Parche?
di Tiadi o di Muse? Il silenzio
era come il silenzio
che segue o precede le voci
delle volontà sovrumane.
Tutta la vita era a noi
quasi tempio lieve senz’ombra,
ch’entrammo non più morituri.
O soffio etèsio, respiro
meridiano del grande
Mediterraneo contra
il violento Cane,
sùbito bàttito chioccante
della vela, balzi d’un cuore
che un flutto di sangue riempia,
arco teso un’altra volta
verso inarcati seni,
alacrità delle forze,
fame e sete carnali,
sapore del pane e del vino,
allegrezza dei corpi,
dopo la pausa infinita!
Oltrepassammo Andromàche,
volgendoci al seno criséo.
Come dietro la negra
nave dei Cretesi di Gnosso
eletti dal Pitio al suo culto,
un delfino agile balzava
nel nostro solco veloce.
Disse il Pitio l’ungescagliante
ai navigatori cretesi:
«Non prèndevi brama del cibo
i precordii, come agli stanchi
uomini suole avvenire
quando negra nave s’ormeggi?».
Seduti a poppa in corona
noi avemmo ulive addolcite,
pesci pescati col giacchio
spiranti salsedine, caci
molli che serbavano ancóra
l’impronta dei vimini, fichi
degni d’aver patria in Egina
con l’ombelico melato
di gomma, bionde uve sugose,
vini chiari aulenti di pino
rinfrescati in vasi d’argilla
appesi alle sàrtie, e la calda
màstica che dentro una goccia
ha tutte le estati di Chio
ricca in dolci donne e in lentischi.
All’ombra della gran randa
giocondamente mangiammo
e bevemmo, in conspetto
del gèmino Monte che il muto
splendor del meriggio velava.
Non era visibile a noi
l’altra cima: quella ch’è sacra
al Semelèio effrenato,
alla deità delirante:
Nisa, la cima notturna.
Ma l’allegrezza nel sangue
fervere sentimmo sì forte
che per le nostre membra
pieghevoli corse improvvisa
inquietudine, quasi
desiderio di danza
furente e d’insano clamore.
E due dei cari compagni
sorsero e balzaron sul bordo
co’ piedi nudi a gara
di destrezza in giochi rischiosi.
Ed io pensai nel mio cuore
gli antichi portenti appariti
ai corsali tirreni
quando per la còncava nave
gorgogliò vino odorato
e per la vela si sparse
alta racemìfera vite
e l’edera l’albero avvolse
di corimbi e s’ebbe corona
ogni scalmo. «O Cirra, o Nisa,
vertici dell’anima umana,
sommità del canto sereno,
culmine dell’acre delirio,
in breve ora noi v’attingemmo!
Il chiaro silenzio adorammo
ove l’ultima nota
tremava del coro febèo.
L’impeto selvaggio, che rende
immemori l’Evie nell’orgia,
or ecco sentiamo in confuso
rompere dal torbido sangue.»
E, la mia frenesia
nel petto profondo constretta,
io stava pensoso dell’uno
e dell’altro mistero;
quando udii stridor lieve l’aria
fendere. Tesi l’orecchio
in ascolto; e vennemi al labbro
il sorriso, ché noto il suono
m’era. «O Apollo, nel giorno
tu vinci!» E la stridula voce
oscillò qual canna fenduta
nel vento; poi prese più forza,
palpitò, si fece canora,
da poppa a prua chiaramente
s’udì sopra il croscio dell’acque.
«La cicala! Udite, compagni,
la cicala che canta!»
gridai divenuto fanciullo
nell’allegrezza. E tutti
accorsero i cari compagni
intorno alla gabbia di giunco.
E, senza strepito, quivi
stemmo intenti come dinanzi
a famoso aedo; sì nova
ci parve sul mare la voce
agreste e sì novo l’aspetto
della creatura vocale
che non ha carne e non sangue
e ignora i mali e il dolore,
simigliante quasi ai Superni.
Negra ma d’una cinerina
lanugine ell’era coperta,
che lucea qual serica veste;
e grand’occhi avea due, protesi,
ma tre più piccoli, rossi
come le bacche cruente
d’autunno, in esiguo corimbo
a sommo del capo; e lunghe ali
di tenue vetro nervute
di foschi rilievi, il torace
sparso di màcule, fatto
di anella il mirabile addòme.
Ognuno guatar la silvana
ospite della nave
parendo com’àugure incerto,
facea più fraterni
più giovani e vividi i vólti
l’ingenuità del sorriso
inclinato. Io l’àugure finsi.
«Compiremo il periplo
nel segno e nel nome d’Apollo;
e guiderà la Cicala
sacra, dal golfo criséo
insino alle acque di Delo,
gli Apolloniasti d’Italia.
Si nutrirà di glauca
salsedine, appesa alla prora,
in cella di giunco marino.»
E sul lido ricurvo
la Fòcide piena del nume
era vaporata d’olivi
come di tripodi mille,
dinanzi alla nostra allegrezza.
XI.
Con un alberetto volante
e sue sartiette arridate
a mano, il palischermo
attrezzammo a vela latina.
Ciascun de’ compagni a vicenda
governò la scotta o il timone.
Le baie le conche i recessi
del parnassio mare esplorammo,
or chini su l’acqua ove l’ombra
nostra era un miracolo verde,
or sottovento seduti
fuori banda sopra gli scalmi
coi piedi immersi nel sale,
or tratti per la gomenetta
dell’àncora dietro la poppa
nella scìa che ci levigava
la carne con una carezza
innumerevole, or al fondo
sopra le stuoie supini
in un sonno ch’era ogni volta
una voluttà sconosciuta.
Acqua marina, mollezza
di cinti insolubili, sguardo
venereo della segreta
profondità, riso d’abisso,
lasciva sorella dell’aria,
madre della nuvola, come
ti loderò? Ogni baia
ogni conca ogni recesso
ci parve più bello. Dicemmo:
«Ah chi mai vide ne’ giorni
una maraviglia più lieta?».
E desiderammo ancorare
per quivi obliar nostri amori
scrutando le mille figure
dell’acqua. Ma l’ancoraggio
contiguo ebbe più dilettose
figure, colori più novi,
odori più freschi. Dicemmo:
«Ecco il limite. I sensi
non gioiranno più oltre».
E il limite fu superato.
Arene gemmee come
tritume di gemme, ceppaie
d’alghe, chiari coralli,
fuchi di porpora, negre
ulve, tra fango e sabbia
flessibili intrichi di lunghe
erbe ove abbonda la greggia
dei pesci, io compresi quel nome
che i pescatori tirreni
usan per lode alla valle
del mare onde traggono prede
più ricche: Armonia!
Noi non gittammo le reti,
non adoprammo le nasse;
non prendemmo il grongo di carne
soave, né lo scombro
tondo di cerula pelle
sospendemmo con le sue branchie
al vimine, pei delicati
sacerdoti di Delfo.
Ma di voi gioimmo, Armonie!
Chi mi consolerà, mentre
vivo sotto cieli pur dolci,
chi mi consolerà dei soli
spenti, dei giorni caduti?
Poggi di Fiesole, chiari
sono i vostri ulivi e foschi
i vostri cipressi, e i ciriegi
i mandorli i meli son bianchi
son rosei negli orti di Verde-
spina e di Laudòmia murati,
oggi che la Primavera
improvvisa coglie alle spalle
il lanoso Febbraio
e con la sua tepida forza
riv’èrsagli il capo e gli chiude
le palpebre con le sue dita
che auliscono di rosmarino,
per baciarlo in bocca e fuggire.
Bellosguardo, io certo dimane
verrò ne’ rosai che tu porti
carichi di rose ancor chiuse.
Ben so che i bocciuoli saranno
come i capézzoli gonfii
della pubescente. Ma forse
bianca sarà la tua prima
rosa fiorita su pel ferro
onde pende nel pozzo
la secchia loquace. O collina
dell’Incontro, per la finestra
ti veggo tutta rosata
non come le rose ma come
i fiori dell’erica, tanto
sono leggere le selve
de’ tuoi querciuoli vestite
ancor della fronda autunnale
che un poco rosseggia e per entro
vi si scorge il tenero verde!
O Poggio Gherardo, le vecchie
tue mura gialleggiano come
su i nodi delle viti
il lichene. E sta Vincigliata
morta in un negrore di lance.
Odo i colpi iterati
dei ronchetti, odo le cesoie
dei potatori. Uomini veggo
poggiar le scale ai tronchi,
salire, attendere all’opra.
Tanta è la bontà della terra
che forse i sermenti recisi
a piè degli arbori mondi
non periranno ma forse
faranno radici. Pur fende
la terra ancor qualche aratro,
e splendono i buoi tra gli olivi
e tra gli oppi: chiuse han le froge
nelle gabbie di giunco
perché ghiotti son di germogli
e cimare osano i rametti
se passan rasente, bramosi
fors’anco di quelle vermene
che sorgon per nesto in corona
dalle piaghe dei tronchi
spalmate di màstice roggio.
Il bifolco gli incìta;
e certo egli è roco, già vecchio.
Ma oggi la voce dell’uomo
è d’una dolcezza infinita
in questo silenzio: ogni suono
ha una risonanza infinita
quasi che non tanto nell’aere
vibri ma e nelle glebe
e in tutte le specie dei corpi.
Odo talor stridore
come di lima sottile
che ferro morda. E’ colei
dai piedi azzurrigni? colei
che su ciascuna sua tempia
ha un candido segno, una nera
zona a mezzo il petto pugnace?
la cingallegra selvaggia?
Nel cavo dell’arbore aduna
già le lanugini molli
ma par che in aerea fucina
l’amor suo duri aspro travaglio.
San Miniato, ora il Sole
si piega verso la tua faccia
graziosa e abbaglia il dolente
tuo dio che non l’ama. Si leva
dall’Arno un vapore di perla
e si diffonde pe’ campi
ove rilucono i fossi
colmi dell’acqua piovana;
ma il fumo dei tetti campestri
ceruleo par tuttavia.
L’Incontro s’indora e invermiglia:
cangia le sue querci in coralli;
ma la Vallombrosa remota
è tutta di violette
divina, apparita in un valco
che tra due colli s’insena
ah sì dolce alla vista
che tepido pare e segreto
come l’inguine della Donna
terrestra qui forse dormente,
onde quest’anelito esala.
E odo, se ascolto, venire
di Rovezzano il rombo
delle mulina che il vecchio
fromento convertono in fresca
farina, ma pe’ solchi
tremano i fili del novo
fromento e con lor treman l’ombre,
e non si distingue il fil verde
dall’ombra sua cerula, e tutto
è un tremolio verd’azzurro
che parmi aver quasi ai precordii.
E certo la noce bronzina
che nel cipressetto riluce
m’è cara, e l’orma essiccata
nella redola verde
che ieri fu molle di pioggia,
e la pendula chiave
che più non mi chiude il verziere
dal dì che nel suo rugginoso
cannello mellificò l’ape
come in celletta di bugno.
Molto al mio cuore son care
le cose che odo, che veggo;
e forse tutti i roseti
tralascerò per quel solo
anémone aperto sul ciglio
del campo! E le campane
della preghiera servile,
il suono che vien di Rimaggio
di Candeli di Monteloro,
anche amerò per una nova
imagine, o Primavera,
che or mi nasce guardando
te sopra le file degli oppi.
Simili a concave mani
di nodose dita son gli oppi,
che reggono tenui sfere
cristalline; e tu vi trascorri
sopra e le tocchi traendo
da ciascuna fila un accordo
sì dolce che dal ciel sgorgar fa
Espero, la lacrima prima.
O Primavera, o Poesia,
in questa dolcezza m’indugio
per consolarmi e sorrido.
E certo laggiù, nella casa
che biancheggia a mezzo del colle,
gli infermi sorridono anch’elli
beati con povere vene
al davanzale che il Sole
riscalda, e dietro hanno i letti
ove si giacquero in doglia
e l’odor dei farmachi amari.
Ma la ricordanza immortale
d’una bellezza più maschia,
d’una voluttà più possente,
mi brucia, mi crucia. E il rinato
pane che trema ne’ retti
solchi non mi vale quel lembo
di suol rossastro fra crudi
sassi, ove struggemmo col fuoco
la stoppia e gli aròmati forti
per profumar nostra sera.
Biancheggiano gli escrementi
dei falchi su pe’ macigni
di quella caverna montana
ricovero ai greggi e agli uccelli
rapaci, dove sitibondi
scoprimmo la vena dell’acqua?
Sì chiara che n’ebbi certezza
sol quando v’immersi le mani,
si fredda che quando la bevvi
mi dolse la nuca pel gelo.
O Fedriadi ardenti
come due scaglie cadute
da Sirio, la vostra sublime
aridità nel meriggio
m’accecò gli occhi del vólto
ma tutti i miei spirti agitati,
come sul vaporante
spiracolo i capri dell’ansio
Coreta, balzarono in fiero
tumulto e qual sangue d’aurore
videro il vermiglio avvenire.
Fumano ancor sul Cirfi
i roghi? La sfinge di Nasso
decapitata ma alata
protende le branche sul sacro
cammino? Le tre danzatrici
dalle mammelle corrose
danzano ancóra intorno
alla colonna fogliuta
di acanti? Filano ancóra
sotto i due platani vasti
le donne focesi, dinanzi
al Fonte Castal’io, vestite
d’azzurro? Non la pietra
umbilicale dell’Orbe
ma invano cercai nella polve
la tomba del figlio d’Achille!
E non volli altro letto
per la mia delfica notte
se non la terra presàga
tra i due platani vasti
chiomati di fronde e di stelle.
Vedute io le avea, nella sera
purpurea, silenziose
emergere dalla durezza
dell’antro. Miste alla roccia,
come le imagini sculte
nelle metòpi dei templi,
si tacevano in cerchio
le Castàlidi; e gli occhi
lor grandi eran fisi, il Passato
il Presente il Futuro
con un solo sguardo abbracciando.
Prigioni del sasso per sempre
eran elle? I piedi leggeri
che tessuto aveano in figure
di danza la fresca bellezza
del mondo, i bei piedi leggeri
di Terpsicòre constretti
eran nell’inerzia rupestre?
Dal nudo macigno agguagliate
mi sparvero. Ma le rividi
libere nel sogno ch’io m’ebbi.
Venivan per le vie de’ v’ènti
com’aquile senza nido
nell’alba a volo, nell’alba
crepitante di mille
e mille fiaccole accese
che i Distruttori e i Creatori
squassavano in pugno gridando
di gioia coi lordi capelli
coperti di bianca rugiada,
con le calcagna gravi
d’umida zolla e di foglie.
Come stuol d’aquile senza
nido, venivan le nove
Castàlidi a volo nell’alba,
lacere i pepli, sconvolte
le chiome, odorate di sangue
e d’incendio, ebre di risa
e di pianti, tumultuose
di forze atroci e d’amori
ineffabili, piene
i polsi di ritmi discordi.
Venivano dai porti
inferni ove tutte le lingue
umane suonan fra tutti
i gemiti e i rùgghii del ferro
domato; venivano dalle
città di lucro ove la vita
cupida senza schiuma
e senza sudore s’affretta
su le rotaie corusche,
stride su la gèmina lama
che non ha guaina né punta.
Visitato aveano le folte
moltitudini, udito
aveano i canti feroci
della fame e della vendetta,
bevuto aveano gli inni
di libertà, gli epinicii
dell’Uomo non coronato
che con salde rèdini intorno
all’Orbe conduce in trionfo
la quadriga degli Elementi.
E nella rossa fornace
ove struggevasi un fiume
di bronzo pel simulacro
d’un eroe senza clava
liberatore del Mondo,
nella fornace di gloria
gittato avea Calliòpe
le tavolette cerate
e lo stilo, Melpomène
la maschera dalla gran bocca,
Urania la sfera celeste,
Euterpe i due flauti eburni,
Terpsicòre il chiaro eptacordo,
Tàlia l’ellera, E’rato il mirto,
l’annunziatrice Cl’io
il breve infinito volume,
Polinnia una foglia d’alloro
già morduta nella sua corsa
per temprar con l’aonio
aroma il lezzo febbroso
delle moltitudini folte.
E venivano a stormo
le Vergini figlie di Zeus
com’aquile senza nido,
affaticate dal peso
delle bellezze raccolte
ne’ lor vasti seni, agitate
dalle forze novelle
che facean tremar come l’alte
colonne d’un tempio crollante
i lineamenti solenni
del Passato nel lor pensiere
verecondo. Ed erano ardenti
di fecondità, agognanti
di generare una gioia
una potenza e un amore
sovrumani per l’Uomo,
di trarre una vita divina
dalla faticosa materia
che gorgogliava nell’Orbe
come quel fiume di bronzo
in quella fornace di gloria.
E su la cima d’un’alpe,
che non era Libètro
né Parnasso né Elicona,
si posarono ansanti
nell’imminenza dell’opra.
Non intonarono l’inno.
Il Coro d’Apolline stette
silenzioso nell’alba,
fiso allo spettacolo immenso.
Passavano senz’ombre
su le inviolabili fronti
le nubi in cui la certezza
del Sol nascituro
era già luce, era già fiamma.
Pel grembo intatto dell’alpe,
che chiudea le moli profonde
del marmo, sacre ai colossi
ai templi ai teatri novelli,
crosciavan le sorgenti,
aulivano i c’èspiti, i covi
i favi i nidi parlavano.
«Euplete! Eurètria!» S’udiva
sul grido dei Portatori
di fuoco irrompere a quando
a quando un nome invocato
come il benefico nome
d’una deità imminente.
«Energèia!» Fuggito
dagli occhi umani era il sonno
bestiale della stanchezza.
Libere eran tutte le braccia
dal travaglio servile,
libere per l’ornamento
del mondo. La cieca materia,
animata dal ritmo
esatto, operava indefessa
su la cieca materia;
l’ordegno tenea su l’ordegno
la vece dell’uomo. Il supplizio
carnale era bandito
per sempre, il Dolore assumendo
l’aspetto d’un re soggiogato.
L’ebrietà della forza
chiedea di placarsi nei riti
dell’Arte, nelle preghiere
unanimi verso le Forme
perfette, nell’innocenza
del rivelato Universo,
nel giovenile fonte
dei Miti innovati. Un immenso
desiderio di festa
traeva gli uomini, franchi
dalla notte e dalle fatiche,
alle pianure ove i morti
eran sepolti, l’ungh’essi
i fiumi paterni che al mare
portano su l’onda perenne
l’immortalità delle stirpi
feraci. Tutte le braccia,
pronte a crear la bellezza,
volsero le fiaccole al suolo
spegnendole innanzi alla Luce
raggiante per tutte le cime.
E un rombo confuso di canti
inauditi sonava
nelle moltitudini asperse
di rugiada. E l’attesa
della Poesia palpitava
nelle moltitudini come
l’innumerevole riso
del desìo marino che s’alza
con le mille labbra dell’onda
verso il Sole per divenire
aere, altezza, via di luce,
luce egli stesso infinita.
E le nove antiche Sorelle
non intonarono l’inno!
Sotto le nubi infiammate
dall’aurora, non con argilla
ma con la sostanza sublime
che nata era in elle dall’urto
del conoscimento vitale,
crearon per l’uomo una Voce
più bella del Coro castal’io.
Aquile senza nido
ripresero il volo, dall’alpe
balzarono a sommo del cielo,
un attimo stettero immote
simili a costellazione
vermiglia; poi contra il fulgore
del Sol nascente, verso il Mare
virgineo come la prima
foglia del giovinetto salce
(oh soavità dell’eterna
grandezza!) si volsero avvinte
per le flessibili mani
in quell’atto lor consueto
che usavan danzando al cospetto
di Apolline. E niuno vide
se risero o piansero. Vidi
ben io ma tacere m’è caro.
Inclinate il fianco sul vento,
alte melodie non udite,
senza traccia sparvero in coro
le nove antiche Sorelle.
E la nomata nel grido
Euplete Eurètria Energèia,
la nomata nel grido
umano coi nomi divini
delle plenitudini e delle
virtù, l’invocata da tutti
nell’alba, la decima Musa
apparì, discese dal monte
in mezzo agli uomini. E da prima
non tutti la videro quivi;
ma credetter forse che il fiato
d’una primavera improvvisa
li soffocasse d’amore,
e ne tremarono. Io
la vidi. E mi parve che il sangue
m’abbandonasse e corresse
fumido sotto i piedi
della vegnente a invermigliarne
i vestigi, e che spoglia
dell’ossa quest’anima mia
s’ergesse qual candida fiamma.
Dissi: «Euplete, decima Musa,
piena come l’onda che giunge
dopo l’onda nona sul lido,
gagliarda come il flutto
decumano, o Antica, o Novella,
m’odi per i giorni e per l’opre,
m’odi per le mie notti insonni
già calde di te non creata!
Per la mia febbre, per gli astri,
pei vulcani, pei lampi,
per le meteore, per tutto
ciò che arde, per la sete
del Deserto e il sale del Mare,
odimi, Eurètria, Energèia!
Io son teco il supplice, senza
pianto e senza ramo d’ulivo.
Toccarti i ginocchi non oso.
Chiederti non oso che m’abbi
per l’aedo tuo primo
ma sol per il tuo messaggero.
Io sarò colui che t’annunzia».
E, com’ella un poco inclinava
la fronte accennando, sì forte
fu nel mio petto il sussulto
del cuore, ch’io trasalii
come quei che sente la vita
partirsi con sùbito balzo
verso il mistero dell’ombra.
E da me partito era il sogno;
ché mormorare il vento
dell’alba nei platani vasti
intesi, le pallide stelle
scorsi tramontare nel cielo
della Fòcide, dietro
le bianche Fedrìadi. Oh pronto
risveglio! M’alzai dalla terra
leggero, con limpidi occhi.
Lavai la mia fronte nell’acqua
castalia, ne bevvi nel cavo
delle mie mani; alacre e puro
salii pel cammino solenne
verso le ruine del Tempio.
E i galli cantarono. Presso
e lungi, nelle case
di Delfo e nei porti lontani,
su i pianori dei monti,
l’ungh’esse le vie lapidose,
per tutte le rive del golfo
i galli cantarono l’alba.
Oh canti, fratelli dei raggi,
ond’era accresciuta la luce
nel cielo continuamente!
Voci di virtù mattutina,
che attendevate ogni volta
le risposte ai vostri richiami
per chiamare tal’uno
ancor più distante! Fragranza
del mar taciturno! Ombra e polve
dell’arcana chiostra ove inerte
pietra è oggi l’Ònfalo santo!
Se una Volontà si sollevi
armata d’un grande disegno,
solo in essa è il centro dell’Orbe.
XII.
Chi mi consolerà, mentre
vivo sotto cieli pur dolci,
chi mi consolerà di tanto
orgoglio e di tanta allegrezza
che il vento salmastro disperse,
con la polve delle ruine
con la cenere dei sepolcri,
ne’ borri de’ monti famosi?
Certo su altre rive,
su altre alture altre pianure,
nei deserti di Libia, sul petto
dei colossi di Memfi,
nel nomo d’Arsìnoe ricco
d’antìlopi e di melagrani,
altrove, altrove, nelle acque
dell’Ànapo, nelle latòmie
di Siracusa, nelle sabbie
di Selinunte ove una vasta
di colonne dorica stirpe
vive di luce, e altrove, altrove
mi conobbi figlio del Sole.
Ma nessun cielo, nessun mare,
nessun deserto, nessuna
arsura, nessuna abondanza
moltiplicò la vitale
virtù della mia giovinezza
così fieramente. O Corinto,
bagno d’Afrodite, rocca
di Sisifo duro, feconda
di bei tiranni, che giugnesti
alle rèdini del cavallo
il morso e al frontone del tempio
la duplice aquila d’oro,
Efira, nudità di marmi,
sapienza di meretrici,
ozio armonioso, o Morente
cui il ruvido console diede
il Fuoco per ultimo drudo
onde generasti il Metallo
inimitabile, quando
rivedrò i tuoi sterpi riarsi
e la tua taverna nel tempio?
Scorre ancóra sul fianco
dell’Acrocorinto quel miele
selvaggio ch’io discopersi?
o salsero le Oceanine
al tramontar della luna,
poi ch’ebber finito il lor pianto
amaro sopra i tuoi lutti,
Amphithalassia, e ingorde
se ne saziarono? Ancóra
siede la giovinetta
sul margine della cisterna
e canta? «Papavero folto»
cantava «prestami i fior tuoi
e il tuo rossore ch’i’ mi vesta
scenda al lido e strugga d’amore!»
Siede tra le sette colonne
la madre dal nero grembiule?
«Come sono squallidi i monti!»
cantava. «O vento li combatte,
o pioggia. Né vento né pioggia.
Li passa Caronte co’ morti»
Rombava talora nel vento
su l’Acrocorinto spogliato
un’ala funebre. E io vidi
Thànatos, il fosco fanciullo
che soffiò per entro alle nari
delicate e sopra le tarde
pàlpebre de’ tuoi goditori,
o Doriese, premendo
le guaste ghirlande cadute
su’ tuoi marmi aspersi di vino.
Portato dalla tua Notte
anche lo vidi, come
nell’arca di Cìpselo; e sempre
poi l’ebbi al mio fianco, velato.
E, da poi ch’io l’ho meco, ei sembra
rendere più rosse le rose
del mio piacere, più profondo
il suon del mio riso, più forti
i miei denti. Estinta è la face
ch’ei porta, ma sotto il suo sguardo
più fervidi ardono i miei fuochi.
A te debbo questo compagno
che senza parlare m’incìta,
o ghirlandata di mirto
e di papavero Efira
che fosti vermiglia di sangue
lussurioso e di dolce
vino sentendo continuo
scendere dal vertice il fiato
della dea su te troppo ignito
onde si sciogliean gli unguenti
ne’ tuoi nerazzurri capelli
e ti colavan per le tempie
pulsanti di cupidigia
mentre le strisce del fulvo
corame, in guisa di freno
imposte alle guance de’ tuoi
auleti, nell’ansia de’ suoni
si laceravano e i nervi
degli eptacordi sotto il morso
violento dei plettri
si spezzavano sibilando.
Meco era il compagno velato
quando rinvenni tra selci
e sterpi lo specchio votivo
di Lais offerto alla dea.
«Poiché vedermi non voglio
qual sono e vedermi qual fui
non posso, a Te sacro il mio disco,
dea di non caduca bellezza.»
E sotto i venerandi
cipressi l’etèra dormiva;
le cui bianche braccia avean cinto
tutta l’Ellade amante,
come la cintura marina
che spazia dal Ionio all’Egeo.
E il sepolcro auliva pur sempre,
quasi nave giunta dai porti
sirii di aròmati carca.
«Bel fanciullo» dissi «a Te solo
sacrerò l’acciaio polito
ove miro l’anima mia,
se mai sarà ch’ella s’incurvi.»
E penetrammo con lieve
passo nell’adito occulto
che al fonte di Pirene
conduce e su l’ombra mia lieve
era l’ombra del fratricida
Ipponòo recando la briglia.
Sostammo, in ascolto. Il cavallo
s’abbeverava al fonte.
Sìbilo s’udiva di lunghi
sorsi, fremito di froge,
e l’ondeggiar della coda
lento; e talora il sussulto
delle grandi penne, che molto
aere movea sino a noi
celati nell’adito. Osammo
appressarci, senza respiro.
E vedemmo un fuoco argentino,
un’alacrità palpitante,
non so qual serico ardore
diffuso intorno a una possa
indomita: Pègaso, il volo!
Arte, Arte mia bella, nudrita
con l’ima midolla e col sangue
più puro, guarda il nepote
di Sisifo come s’accosta
alla fiera alata stringendo
cauto nella mano il fren d’oro
e subitamente la imbriglia
con fulminea destrezza
e serra le rèdini in pugno
senza lentarle e resiste:
s’impenna, recalcitra, batte
l’ali ventose il cavallo
magnifico: la vergine bocca
offesa dal valido ordegno
sbuffa schiumeggia annitrisce:
l’uomo imperterrito balza,
inforca la schiena tremenda
fra l’una e l’altra ala, conduce
l’Impeto nel libero cielo.
Così, Arte, accòstati ai grandi
pensieri che son presso i fonti.
Pur dato mi fosse oggi, mentre
la primavera m’affanna,
dato mi fosse varcare
l’aere e su l’Acrocorinto
fermare il volo (forse oggi
tutta la roccia si veste
di fiori efimeri, come
Lais della tunica tiria
brevemente, sapendo
che la nudità è più bella)
quivi fermare il volo
e in uno sguardo abbracciare
i due golfi, la sitibonda
Argolide, gli arcadi gioghi,
i vertici sacri alla Danza
e al Canto, l’isole guerriere
e agresti, il Monte dell’api
e il Sunio e il Laurio e quella,
anima mia, ch’è la tua sposa
diletta, che non canterai
perché troppo a dentro ne tremi.
O Tebe, di te mi sovviene,
grande oplite del Teumesso,
fàuce della Strage latrante
da sette bocche nel piano,
di te mi sovviene, Cadmèa;
non per Tìdeo che giace
squarciato il fegato, alla porta
Proètide, e rode le tempie
a Melanippo; non pel grido
di Capanéo contra il Cielo
che l’ode, né pel duolo
d’Antìgone eretta nel Coro
come il cipresso tra i salci;
ma per le tue belle fonti,
o d’acque abondante e di sangue
Cadmèa, per la fonte di Dirce
che sparsa è ne’ dolci verzieri
come fu nelle rupi
la dilacerata bellezza,
onde bevemmo il sapore
del supplizio all’ombra dei meli.
Vario sapore hanno l’acque
che corrono d’oriente
o corron di settentrione,
e quale è più grave e quale
più lieve se passi per limo,
per vene d’alcuno metallo,
per rossa creta, per pietre
nette o per sabbia, e più o meno
di terrestritade è in ciascuna
secondo il suo nascimento.
Sapide di fati son l’acque
tebane. Baciammo le donne
alla fonte di Ares, ove Cadmo
si lavò pria ch’ei seminasse
i denti onde nacque la stirpe
furibonda. All’Edipodèia
alternammo i sorsi col suco
delle persiche molli,
ove l’uccisore di Laio
si purificò poi che morta
fu la sua madre polluta.
E il Citerone, senza
strepito di Mènadi, senza
faci di pino, lungamente
sul cielo australe stendea
con leggerezza e pallore
di linfe e silenzii
delle sue cime. E tu eri
nascosta a oriente, o Tanagra
dal collo di cigno, dal crine
intesto come canestro
di vimine, all’ombra del largo
cappello tessalico, chiusa
nelle innumerevoli pieghe
dell’imàtio come in un fiore
di mille pètali. O forse
con un gesto di grazia or discopri
la mammella piccola come
cotogna, i mallèoli sv’èlti
inanellati d’elettro,
e mordi un anémone, china
al combattimento dei galli?
S’aprono gli anémoni al vento
e gli asfodèli nel piano
d’Argo tra la cittadella
di Palamede e lo stagno
di Lerna, in vista alle bianche
vette del Partènio? Tirinto,
città di rupi adunate,
ventosa del soffio d’Eràcle
che triturava co’ vasti
molari i tuoi bovi ancor lordi
di bragia e crudigni, se mai
io torni, cercar voglio quelle
tue pietre che soffregate
dai dorsi lanosi di tante
pecore nei secoli lenti
si polirono come l’avorio
dell’else consunto nel pugno
dei tuoi re! Poi per la profonda
feritoia guardar voglio il mare
più cerulo del fenicio
vetro che t’ornava il palagio.
Ma te, o Micene, s’io torni,
guarderò di lontano.
Ahi troppo vivesti tu meco
nel sogno coi truci tesori
de’ tuoi sepolcri e agitasti
le mie vigilie, quando
al fulvo usignuolo nomato
Cassandra io diedi una pura
sorella; che forse nomarsi
dovea col tenue nome
di Ebe giovinetta celeste!
Spoglia tu sei del metallo
funebre, ma io ti profusi
la sua grande chioma tutt’oro.
Ella ne ammanta e irraggia
la Fonte Perseia ove bevve
la morte: vi tremola e piange
la polla per entro in eterno.
Così la vede il mio sogno.
Giova, o Atride, che ne sien certe
queste mie pupille mortali?
Tu sei netta e cruda nell’aere
arido, ma io ti ricopro
d’un velo. A Mègara bianca,
a Mègara vestita
di lino, che sferza i cavalli
su l’aia abbagliante di spiche,
a Mègara voglio tornare
con una sete più forte
e bevere all’orcio di Egina,
all’orcio di terra eginéta
che appeso per l’ansa a un ulivo
refrigera l’acqua nel vento.
Egina tricoste, delizia
del golfo, pe’ tuoi freschi orciuoli
ti loderò, pe’ tuoi fichi
densi, pe’ tuoi mandorli ch’io
non vedo fiorire? o pel bronzo
che Onàta fondeva sì ricco?
o pel marmoreo sorriso
che incurva le labbra agli oplìti
morenti in fronte al tuo tempio?
Salamina, isola di Aiace
Telamonio, falce di l’una
petrosa che mai non tramonta
sul mare né mai nel ricordo
degli uomini, gloria di rostri,
vittoria volante con triplo
remeggio sul sangue salmastro,
penso alla tua ora divina
quando i trierèti in silenzio
poggiarono i remi agli scalmi
assicurati col cappio
di corda e ciascuno credette
udire Pallade armata
scendere sopra la prua,
e Serse era in trono sul monte,
e di repente dai petti
ellèni proruppe il peàna,
squillarono tutte le trombe,
rimbombò per tutte le rupi
il grido dell’Ellade: «Questo
è il combattimento supremo!».
Luoghi di luce, le rose
fluttuanti al vento del mare
bianche e fino agli orli ricolme
non di rugiada ma di caldo
mosto, son le Cicladi belle.
Simile allo strepito primo
della pioggia sopra la fronda,
quando la campagna si tace
soffocata guatando la nube,
m’è il suon de’ lor nomi divini
sopra l’anima ardente:
Sifno, Citno, Sèrifo, Nasso!
A Ceo, che imita in sua forma
l’ovo della colomba,
a Ceo dalle leggi eccellenti
come gli inni delle sue lire,
l’ombra di Simonide ancóra
insegna la musica ai figli
dei marinai pileati
sul càrabo curvo che porta
la scorza e la ghianda del cerro.
A Paro vagammo per vie
chiare sotto pergole verdi.
E tanto leggere eran l’ombre
che vi si parevano i nervi
dei pampini con una traccia
più cupa, e i raggi per entro
vi piovevano in guisa
di torqui di anelli di armille;
sì che vestiti d’azzurro
e di monili vagammo
quivi ascoltando i cantari
delle donne ionie che nude
le braccia lavavano i lini
in trògoli tutti di marmo.
Vedendo bagnare un bel velo,
non dell’irto euforbio archilòchio
noi ricordammo i cruenti
aculei ma l’unico fiore
nato di due pètali soli:
«Alcibìe dopo le nozze
offre a Era il velo crinale».
Andro ci apparve su l’acque
tutt’avvolta dal repentino
scroscio della nube d’agosto,
come tessitrice odorata
dietro telaio d’antica
foggia intenta a tessere argento
pur con alcun filo commisto
di porpora forse venuta
a lei dalle pésche di Giaro:
spirava per quell’erte trame
olezzo d’aranci e di cedri.
Ma l’odore di Siro
fu più forte. Siro, nutrice
di cordari e di calafati,
tra pescatori di spugne
e conciatori di pelli
artiera di vele e d’ormeggi,
bianca a piè di fulve montagne,
odor di fasciame unto a caldo
con pégola sevo e cerussa,
cara ai marinai dell’Egeo!
Ah belle da presso le Cicladi
intorno a Delo corona
gemmante, scolpite con arte
come calcedònie e iacinti.
Belle più anco di lungi;
ché di lungi assemprano un coro
d’aulètridi alto su l’acque,
un coro d’aulètridi ionie
dai lunghi chitóni cadenti
su lunghia del pollice, nude
però le gole venate
di cìano, dorate dal sole
attraverso la pelle e le vene
insino ai precordii, dorate
insino alla conca segreta
del pube. E il miel delle vigne
famose indolcisce ogni punta
delle lor mammelle protese.
E la melodìa de’ lor flauti
rallenta il venir della Notte,
trattiene l’Estate su i mari.
Voluttà, voluttà
d’Ariadne e di Dionìso
commisti sul carro che aggioga
la maculosa pantera
cui l’Amore diè per sorella
una nudità constellata
dai segni del bacio crudele!
Tra il Cretico Mare e il Mirtòo
mollizie insulare, lascivo
sale che ancor bolle e schiumeggia
della sua figlia Afrodite,
amaritudine d’ulve
e di veneficii e di pianti,
ove Pasifàe morta ondeggia
riversa con le sue palme
calde tuttavia del sudore
malvagio, non spenta per anche
la carne che giunta fu all’ossa
come il fuoco al legno del pino!
Ah belle da presso e di lungi
le Cicladi, e molto a me dolci.
Ma a te tornerò col mio cuore,
isola di Aiace, a te forza
delle triere rostrate,
potenza adunca del ràffio,
gloria delle glorie navali,
per compier con soli i miei remi
il perìplo delle tue rupi
sante, poiché non potei
combattere nelle tue acque
com’Eschilo al fianco d’Aminia
che diè primo il colpo di rostro,
né come il giovinetto
Sofocle condurre la danza
degli efebi intorno al trofeo,
né com’Euripide (l’immenso
cl’amor del peana copriva
gli urli della partoriente)
nascere nel dì della pugna.
A te tornerò pel mio vóto.
Dal colle d’Elèusi deserto
non mi saziai di guardarti.
I monti di Mègara, i cupi
Gerànei folti di pini,
il Coridallo ondulato,
le gole di File, il notturno
Citerone, gli aridi gioghi
elicònii, tutte le vette
lontane cui l’aria e la luce
intessono vesti più belle
che la veste del croco
dello smìlace e del narcisso,
impallidivano incontro
all’aspro tuo lineamento
ch’era come il guatare
di Pallade quando ella indaga
di sotto al suo casco corintio
le schiere ordinate nel campo
e pesa il coraggio dei petti,
sì che al vile trema lo stinco
nello schiniere di bronzo
ma la virtù si rischiara
nel forte che pugna con arte.
XIII.
Papaveri, sangue fulgente
qual sangue d’eroi e d’amanti
innanzi a periglio mortale,
soli ardevate con meco
nella mistica chiostra
poi che giammai riaccese
vedrà il pellegrino le faci
del Dadùco nel tempio
d’Ecàte. Ma i grandi triglifi
dorici splendevano bianchi
là dove Demètra si assise
crucciosa, il cor piena d’angoscia,
e isterilì la terra.
Tutto era doglia e mistero
su le fondamenta solenni.
L’ombra d’una nube curvata
era sul Callicoro, come
l’ombra del mietitore
indicibile che innanzi
agli epopti mieteva
la spiga di grano in silenzio.
«Vivi della Vita universa!»
mi significò la grandezza
della solitudine sacra.
Ma l’anima umana non vive
se non del suo sforzo incessante
per effigiarsi su tutte
le cose come sigillo
imperiale. «O Uomo,
aduna tutte le cose
sotto l’adamàntina mola
della tua volontà pura,
e della sostanza premura
fa pe’ tuoi giorni il tuo pane.»
Guardai le pietre come glebe,
le colonne come covoni.
Poi gli occhi pregni di luce
chiusi e la dea, ch’era informe
per entro alla massa terrestre,
sorgere perfetta nel peplo
cerulo vidi, chiomata
nella corona murale.
E fra le sue braccia divine
tenea, sul suo seno odoroso
Demofoonte, il figlio
mortale di C’èleo, nato
più tardi. E nudrirlo volea
d’una terribile forza
perché crescesse oltre l’umana
misura e non più ritenesse
nel petto cresciuto il respiro
misero, l’ansia faticosa
del gregge. Per ciò nottetempo
ella l’occultava nel fuoco,
nelle stridule fasce del fuoco
stringevalo senza timore;
ed or lo volgeva sul fianco
or su l’altro in quella vermiglia
cuna, ora internavagli il capo
là dov’era più vorace
la verginità della fiamma,
come il fabro fa d’una spranga
che battere debba all’incude.
Ma Metanira spiava
con l’occhio obliquo. Spiava
la femminetta regina
dalla fronte bassa quell’opra
d’amor duro; e non comprendeva,
la stolta! Con cruccio e spavento
si percosse ella ambo le cosce;
gridò, schiamazzò come l’oca
dei pantani. «Figlio» ululava
«figlio Demofoonte,
ti occulta nel foco vorace
la straniera e a me ti sottrae!»
E subitamente la gioia
ignìta di Demofoonte
cessò, come torcia riversa
che spengasi in putrido fango.
La dea lo rimosse dal fuoco
e lo depose a terra;
con disdegno uscì dalle case.
E la femminetta al fanciullo
piangente diè tepida pappa.
Ah, Metanira, Metanira,
imbóccalo, ingózzalo dunque
col tuo buon cucchiaio di bosso,
gónfialo d’orzo e di siero
finché vomiti. Se d’ambrosia
l’ungea la straniera, tu stilla
per lui la sanie succulenta
dalle più crasse carogne.
E pàlpalo con le tue mani
sudaticce, fiutalo quando
il suo ventre fluisce,
lecca la sua pallida pelle
con la tua lingua viscosa
di gozzoviglia indigesta.
Ben ti conosco. Quando
spingesti tu contro la dea
la bocca imbavata di bile
e d’ingiuria, ti precedette
l’ignobilità del tuo mento.
Regina, conosco l’antico
tuo ceffo e il tuo nome novello.
Gli occhi riapersi alla luce,
come l’Iniziato
reduce dal tenebrore
profondo ov’eragli apparsa,
in una pausa infinita
tra i gridi del lutto materno
e il rombo dei bronzi percossi,
la spiga mietuta in silenzio.
E le innumerevoli vampe
dei fiori, che Persefoneia
non avea cinti al suo capo
notturno, ondeggiavano al vento
di contro al zaffìro marino,
sì forte che di tal’uno
sparivano i petali come
estinti dal soffio e appariva
la regia corona sul gambo
solinga. «O bei fiori paràlii,
dominazioni letèe»
dissi «io so dov’ardono i vostri
èmuli in foco ed in sangue!»
E del laziale deserto
mi sovvenne, dell’Agro
cavalcato dagli acquedotti
roggi e dai centauri villosi
che guidano il gregge con l’asta;
della Latina Via
sovvennemi e della Flaminia
e dell’Appia grave di tombe.
E mi levai, al conspetto
di Salamina, pensoso
del Crèmera. E tra la muraglia
del perìbolo santo
e il portico dorico io, pieno
dell’altra mia patria, cercai
sul suolo il vestigio dell’ampia
base onde sorgeva la statua
del Tempo, che Quinto Pompeio
figlio d’Aulo e i suoi due fratelli
consacrarono quivi
alla Potenza di Roma
e all’Eternità dei Misteri.
XIV.
Poi scendemmo verso i due laghi
salsi ove i novizii giungendo
si purificavano. Ed oltre
passammo, l’ungh’essa la riva
del golfo bianca di ghiaie.
Pel valico dell’Egalèo,
tra i pini i leandri i mentastri
i mirti i ginepri i lentischi,
pellegrinammo a un’altura
più del Callìcoro santa
per noi pellegrini già ebri
di tanta vita sublime.
E suscitava ogni nostro
passo una nube di aromi
che ci empieva il petto ansioso
d’una voluttà troppo ardente.
E più d’una volta l’angoscia
dell’amore mi vinse;
e mi soffermai senza forza,
credendo che il velo degli occhi
fosse un albeggiare d’olivi.
«Figlia del cieco vegliardo,
Anfigone, dove siam giunti?
in quale città di mortali?»
L’Ombra di Edìpo, dall’atre
occhiaie per entro a’ capegli
cui le piogge i v’ènti le arsure
dato aveano un tristo lucore
come alle paglie marine,
parlò. La sua faccia rugosa
era come clamide attorta
da man che la lavi sul sasso.
«Padre miserabile Edìpo,
torri di città sono lungi,
quanto veggo.» La voce
virginale, nudrita
di amare radici, parea
che pel veglio in sé ritenuta
avesse la sola dolcezza
della fonte, omai già lontana,
dal dio conceduta alla sosta
del mattino sotto grand’elce.
E tutta la mia forza
fu pallida, tutta la vita
dell’anima mia fu vissuta
perché quell’ora splendesse.
Grido la mia bocca non ebbe.
Non fu nominato quel nome.
Il coro di Sofocle puro
s’alzò dagli olivi pallàdii.
«All’ottima delle contrade
terrestri, Ospite, sei giunto,
di bei cavalli feconda,
al biancheggiante Colòno
ove plora in conche virenti
il melodioso usignuolo
piacendosi della vinata
edera e della sacra selva
molto fruttifera, immune
dal sole e dai v’ènti iemali,
che Dionìso effrenato
ama trascorrere, e intorno
gli sono le iddie sue nutrici.»
Modi della strofe perfetta
apparvero i culmini i lidi
i templi gli arbori. Il velo
delle Càriti effuso
era in cerchio a guisa di benda
lieve sul crinale dei monti.
E come l’Imetto che guarda
il Parnéte fu l’antistròfe.
«Sotto l’urania rugiada
quivi continuo fiorisce
di bei corimbi il narcisso,
delle Magne Dee molto antica
ghirlanda, e il croco aureo splendente;
né mai languono le insonni
fonti del Cefìso errabonde,
ma continue rigano l’acque
limpide fecondatrici
la terra dal sen spazioso;
né mai si dipartono i cori
delle Muse, e non Afrodite
che tratta le rèdini d’oro.»
Nell’inviolabile selva
sacra alle Eumènidi entrammo,
come supplici. «Arbore è quivi
cui non pose man d’uomo, germe
da sé medesimo nato,
che grandemente fiorisce,
di glauca fronda l’Olivo…»
Anima mia, non tremare.
La nostra gioia più fiera
la nostra conquista più grande
noi non le canteremo.
Quel che ci disse colei
che coronata è di viole
non ridiremo ai v’ènti.
Serberemo il miel dell’Imetto
e il vin del Parnete, odorato
con la bionda ragia del pino
pentèlico, per i conviti
occulti ove sia nostro lume
e nostra allegrezza lo sguardo
di quelli occhi cesii che sai.
Lascia la sua fronte nell’alto
Etere, e inclìnati su i lembi
della sua tunica ornati
di belle ghirlande marine.
Forse non sapremo giammai
il nome del fiore paràl’io
che vedemmo sopra le sabbie
di Fàlero, e coglierlo noi
non ci ardimmo, ah di sì lieve
bellezza che parveci entrasse
in noi non pel varco dei sensi
ma com’entra un puro pensiero.
Fàlero, tutto l’azzurro
dell’Attica scende alla tua
baia, si versa in te come
in un lebète d’argento
e ci fa sitibondi
del tuo sale! Anche Munichia
ha la sua coppa rotonda
scavata nell’ònice schietto;
anche Zea, nel fianco dell’Acte.
Ma tu fosti fatto di mano
d’inimitabile artiere.
In contro al faro di Psittàlia
il mare si frange in ruine
di sepolcri; e forse colui
che in pugno alla dea Poliàde
pose il remo in vece dell’asta,
forse Temistocle quivi
dormì su lo scoglio rugoso
finché l’acque di Salamina
non si ripresero l’ossa
dell’eroe che tinte le avea
col sangue dell’Asia. Pur quanto
è più dolce al piloto
in calde arene colcarsi!
«A Fàlero voglio approdare.
All’àncora mia date fondo.
E poi seppellitemi all’orlo
del lido, nella rena giù.
Quivi marinai sbarcheranno,
ch’i’ oda lor voci da giù.»
Canta tuttavia le canzoni
sue roche quel pescatore,
che non si nomava Fintìlo
e non Ermonàce, nerigno
come il guscio della carruba
grata ai giumenti, ma grigio
intorno al collo la barba
come intorno a scalmo consunto
sfilaccia di stroppo? Pensammo
che offerto egli avesse al dio
dei promontorii gli avanzi
della rete i sugheri e i piombi,
o le nasse e l’amo ricurvo
legato al suo crin di cavallo
con la lunga canna, o una triglia
pavonazza, la squamma
d’un gambero, un fin laberinto.
Ma forse veduto egli avea
sul Mare Mirtòo Saffo morta
e virato in prua paventando
la fosca sirena dormente.
O Cefìsia, delle tue polle
che aveano il colore dell’ombra
mi sovviene, e de’ tuoi bianchi
sarcòfaghi e del clamore
delle tue rondini. O Spata,
mi sovviene delle me tombe
venerande. Padre di templi
fulvi come il grano maturo,
Pentèlico, de’ tuoi pastori
mi sovviene selvaggi
ne’ chiusi di creta e di giunchi
o sotto le tende di cupa
cànape simili a quelle
che vidi nel muto Deserto.
Nel tuo teatro, o Torìco,
dinanzi all’isola lunga
cui diè la Tindaride il nome,
tra moltitudini d’erbe
vedemmo l’Aurora inclinata
a rapire il bel cacciatore
e udimmo il lamento di Procri.
Laurio, lungi a’ tuoi pozzi oscuri,
alle tue fornaci, alle scorie
del tuo metallo, scoprimmo
una roccia rosea come
il corpo d’un’Evia bagnato
di mosto; ed era sì bella
che per toccarla scendemmo
tra gli scogli ardui del lido
perdendo il cammino; ma, quando
ritrovammo il cammino
e ci volgemmo a guardarla,
di lungi ell’era anche più bella;
e ne favellammo nel vespro,
tornati alla nave, colcati
sul ponte, prima che il sonno
ci prendesse, parlammo
di lei come d’una divina
carne che fosse vivente
laggiù senza letto d’amore.
E viveano tutte le coste,
dal Sunio al Pirèo, nella sera.
Sunio, un mercatore fenicio
fui guardandoti, un montanaro
d’Ircania portato alla guerra
su nave di Medi, un Bitinio
della Propòntide in commercio
d’acònito, un frumentiere
del Chersoneso, un vinaio
di Chio fui guardandoti, ed ebbi
tant’occhi per istupirmi
di te con sempre nuove
pupille; e per venerarti
piloto di Fàlero fui
reduce da Panticapèo,
rivarcato alfin l’Ellesponto
e alfine il Geresto d’Eubea
dopo traffico lungo;
ed anche l’oplìte devoto
fui della Republica, a guardia
dell’argentifero lido,
del metallo sacro all’impresso
conio dell’epònima dea.
Promontorio fra tutti
venerando, altèra cervice
della Paràlia rupestra,
il tuo tempio par che si sciolga
come lentissima neve
alle primavere del mare.
Il sale mordace cancella
dalla colonna il solco
dorico, nel masso fenduto
dell’architrave consuma
le groppe ai Centauri e le corna
al maratonio Toro
domato dall’attica forza.
Maratona, Maratona,
aquila precipitosa
dall’ali irsute di lance,
ben ti venne Tèseo sul fronte
degli opliti a fianco d’Echètlo,
dell’eroe rurale che uccise
gran turbe di Medi col suo
mànico d’aratro e poi sparve.
Io sul tuo tumulo grande
colsi una rama d’alloro
che dure avea foglie di bronzo
ma bacche tra nere e azzurrigne
rilucenti come la testa
della rondinella cecròpia.
Poi, su la spiaggia arenosa
quasi palestra solenne,
raccolsi una selce che avea
forma di man chiusa. Ed allora
vidi Cinegìro figliuolo
d’Euforione aggrapparsi
alla protome della prua
barbarica, sotto la scure
del Medo; il combattimento
maraviglioso dell’Uomo
e della Nave, nel sangue
nell’incendio e nell’oro
di Serse, vidi anelando;
e chinarsi Eschilo armato
sopra il rosso tronco fraterno.
XV.
«Borda randa! Issa flocco!
Sciogliamo le vele del triste
ritorno, miei dolci compagni.
Il nostro perìplo è compiuto.»
E Delo fu l’ultimo approdo;
ma la cicala d’Apollo
nella sua gabbia di giunco
marino era muta, era morta.
«Salve, fondamento d’iddii,
ramoscel soave alla prole
di Leto dal fulgido crine,
figlia del ponto, prodigio
immobile dell’ampia
terra; cui chiamano Delo
i mortali, ma nell’Olimpo
i beati astro della cupa
terra lungi apparito!»
L’infranta strofe dell’ode
tebana, come un’altra
ruina sublime, era innanzi
alla nostra tristezza.
Nell’inno dell’Omerìde,
come in lontananza insulare,
sonavan gli ululi di Leto
per nove giorni e per nove
notti travagliata dal parto
del dio (gittò ella le braccia
intorno alla palma, i ginocchi
sul prato pontò nello sforzo:
alfine Apolline irruppe
dal lacerato grembo
alla luce: intorno le dee
confortatrici, anche Ilifìa
la tardi venuta d’Olimpo,
conclamarono); e i canti
e le danze e i giochi e le gare
de’ Ionii dai lunghi chitóni
adunati a’ piedi del Cinto
sonavano. E stava seduto
quivi incontro al Sole oriente
il cieco Omerìde, in un cerchio
di vergini dèlie ascoltanti.
Io dissi: «Adoriamo nel sasso
sterile angusto e doglioso
la fecondità degli Ellèni».
Morta era Delo su l’acque,
deserta, nuda, affocata
dal meridiano furore.
Ogni sua pietra ardeva
come già nei forni i frammenti
delle sue statue divine
incotti dai mercatanti
di calce a murare le case
degli uomini immondi. La vetta
del Cinto nel cielo era come
la sommità di una mitra
disadorna. Bolliva
il mare tra Delo e Micòno
più cupo, come allor quando
gittovvi Aristide il Giusto
le masse roventi del ferro
poi che giurato ebbero il patto
federale i capi de’ Ionii.
Non diversa apparve nell’alba
dei tempi l’isola al nàuta
pelasgo che senza approdare
veleggiava in vista del Cinto.
«Niuno giammai le tue rive
toccherà, niuno giammai
t’onorerà; né credo
che tu sii per esser feconda
di pecore molte o di buoi
né di vendemmie ricca
né d’arbori verde» le disse
Leto affaticata dal peso
del nascituro. Deserta
e nuda l’isola ardeva,
come oggi, al meriggio d’estate.
E venne l’Ellèno e le disse:
«Perché tu sei sterile, o figlia
del ponto, io t’eleggo e ti sposo.
Trarre saprà dal tuo grembo
aspro le abondanze e le gioie
il fecondatore di rupi».
E, intorno all’ara construtta
coi corni dei capri abbattuti
dagli strali del Lungescagliante,
sorsero i templi le stoe
le esedre i granai le apotèche.
Santuario ed emporio
dell’Ellade, l’isola ortìgia
attrasse da tutte le rive
del Mediterraneo Mare
le teorie dei devoti,
le compagnie dei mercanti,
la triere adorna di fiori
con uomini liberi ai remi,
la strongile onusta di grano
con ciurma di schiavi oleosi.
Da Alessandria a Bisanzio,
da Rodi a Creta, da Ostia
a Làmpsaco, da Siracusa
a Laodic’èa, da Mileto
a Sìbari tutte le genti
recavano l’inno e il tributo.
Nella vicenda sanguigna
dell’armi, ogni Egèmone armato
del Mediterraneo Mare
alzar volle quivi, tra il Cinto
e l’occidental lido, in gloria
il monumento superbo
alla sua potenza navale.
Da Ulisse ad Antioco Epifàne,
i re v’approdarono. Il quinto
Filippo Mac’èdone v’ebbe
la stoa tetràgona, insigne
di seggi e di statue. Nicia
v’entrò sopra un ponte splendente
di ori, con un popolo bianco
di musici. I Tolomei
dall’immensità sepolcrale
vennero, offerte recando
ismisurate. La rosa
della Republica ròdia
vi fiorì di porpora. In pace
vi stette la Lupa di Roma.
E nessuno vi nacque
da utero umano, e nessuno
vi morì in carne corrotta.
L’isola mondata fu d’ogni
putredine. Il dio luminoso
vi diffondea col respiro
un’armonia sempre eguale.
Le sue corone i suoi vasi
le sue vesti eran di tanto
lume che il perìbolo sacro
mai non conobbe la notte.
Il disco del lago specchiava
la faccia indicibile. Intorno
all’ara dei Corni la danza
fingea con ambagi infinite
il Laberinto cretese.
L’efebo e la vergine i ricci
recisi avvolgeano ai virgulti
e ai fusi per quelli deporre
sopra le tombe nel tempio
d’Artèmide nata gemella.
«Delo» io pregai nel mio cuore
«sterilità più bella
che tutta la fronda di Tempe,
la forza dell’anima ellèna
in ogni tua pietra m’appare
chiusa qual seme in gleba,
sì che alcuna delle perfette
forme contemplate con gioia
ne’ luoghi famosi, o febèa,
non mi ammaestra come
la tua solitudine inulta.
Deh fa che sempre io ti veda,
con gli occhi dell’anima invitta,
fa che io ti veda qual sei,
immobile ignuda e fatale
su le quattro ardue colonne
sorte dagli abissi del ponto
per sostenerti, e ch’io veda
Leto abbracciare la palma
pontare i ginocchi sul prato
per partorirti il bel dio!
Ecco, noi sciogliamo le vele
a dipartirci. Il periplo
è compiuto. Navigheremo
verso Messàna falcata,
verso la vorace Caribdi.
Da questa patria a un’altra
patria ch’è pur sacra agli iddii
veleggeremo, colmi
di vita i precordii, spumanti
e traboccanti d’ebrezza,
pronti a combattere, certi
di vincere, poi che apprendemmo
a cantare il peana
nelle acque di Salamina,
nei piani di Maratona,
e a correre dando l’assalto.
Vivemmo, divinamente
vivemmo! All’antica mammella
ci abbeverammo, ancor piena.
La bestia inferma uccidemmo
nel nostro fango penoso.
Come per osservare
l’oracolo gli Ateniesi
purgarono tutto il tuo suolo,
noi anche disseppellimmo
i nostri cadaveri informi
e li scagliammo all’abisso,
e dietro di loro gittammo
pietre pesanti ed obbrobrio
per consegnarli all’abisso.
Or tu, nella mia dipartita,
o Rupe, da tutta la tua
nudità cui più non fa velo
il fumo delle ecatombi,
ripeti a me l’unica legge
cui voglio obbedire: SII PURO.
T’obbedirò nella luce
t’obbedirò nell’ombra,
Delìaca Legge, che splendi
su l’Ellade come il suo cielo
pudico. In segreto e in palese,
per sempre sarò tuo fedele.
Vertice del Cinto, e sovente
io ti manderò sacri doni.
Narravano i Delii che a quando
a quando sacri doni,
involti in paglia di grano,
giungessero dal paese
degli Iperborei in Iscizia;
e che dalla Scizia, trasmessi
di popolo in popolo, verso
occidente, fosser recati
sul Golfo Adriatico e poi
ad austro, primieramente
raccolti in Dodona da Ellèni,
scendessero nell’Eubea
e quindi sino a Caristo;
e che dai Caristii, lasciata
da banda l’isola di Andro,
recati fossero a Teno
e ultimamente dai Tenii
consegnati fossero a Delo,
involti in paglia di grano.
Ovunque io mi sia, nelle terre
distanti, in liete sorti o in dure,
in guerra o in pace, miei doni
ti manderò similmente
involti in paglia di grano,
ché non so custodia più monda.
Ma il mio primo dono
ti verrà forse dal luogo
che ti successe in potenza
quando passato fu sopra
i tuoi granai e le tue stoe
il turbine di Mitridate:
da Ostia romana, ov’Enea
del sangue di Dàrdano prese
la terra (accolto l’avevi
già tu su le concave navi
construtte coi pini dell’Ida)
e sotto l’arbore assiso
col bel Iulo e coi primi duci
mangiò per fame le adòree
mense e disse: «Qui è la patria!».
Ivi trovar voglio il fascio
cereale dei culmi biondi
per chiudere il dono mio primo.
Conosco il luogo; e, s’io penso
che lo rivedrò, mi s’allevia
la tristezza del dipartire
perché già riodo il Ponente
che su la via de’ Sepolcri,
sul tempio della Magna Madre,
verso la selva laurèntia
soffia traendo la morte
e la vita, la memoria
e la speranza. Ivi un giorno,
dalla soglia d’africo marmo
dinanzi alla cella di rosso
mattone spogliata ma grande,
vidi tra gli stìpiti eretti
della Porta Marina
mirabili spiche ondeggiare
non certo nate da semi
cui sparsi avesse man d’uomo.
Non lungi era il Tevere torvo
fra deserti argini; e le negre
navi dalle cùbie dipinte
di minio, cariche di molte
botti, navigavano contro
corrente per ormeggiarsi
all’ombra del Sasso Aventino;
e venìa sul soffio il cantare
dei marinai di Sicilia
e dei garzonetti campàni
dal crin di viola, che belli
son forse come i fanciulli
danzanti il gèrano intorno
ai tuoi turìferi altari.
O Delo, forse le spiche
di sé medesime nate
tra que’ due stipiti eretti
della Porta Marina
ritroverò, per mandarti
involto in quel misterioso
frumento il mio primo dono.»
Così pregai nel mio cuore;
e ciascun dei dolci compagni
forse anche pregò nel suo cuore
segreto, perché non s’udiva
parola. Ed èramo tutti
a poppa raccolti, in silenzio.
Ed uno di noi, che taceva
con fronte ostinata, era sacro
a morte precoce, più caro
d’ogni altro agli iddii come eletto
a perir giovine e in atto
di compier l’impresa cui s’era
devoto con anima salda.
Or quegli nella memoria
più fortemente mi vive;
e lui vedo presso la ruota
del timone in quel punto,
fitto su le gambe sue snelle
e nervose di corritore
del lungo stadio, guatare
con gli occhi chiarissimi il solco.
In verità, fra i compagni
egli era il più pallido. Quasi
esangue appariva il suo vólto;
ma i suoi biondi capelli
sorgevano senza mollezza
su la robusta ossatura
della fronte nata a cozzare
contra l’impedimento;
e di virtuoso rilievo
su’ chiarissimi occhi era l’arco
dei sopraccigli, sobria
la bocca e di netto discorso,
agile il collo se bene
la nuca sì ferma paresse
ch’io le comparai la cervice
d’Eràcle che l’Etra sostiene
tra la bella Espèride e Atlante
nella metòpe d’Olimpia.
Ei ne sorrise. Ma certo
gli sovrastava continua
l’imagine immensa d’un cielo.
Veduto avea splendere nuove
stelle in un cielo incurvato
su selve più vaste che tutta
l’Ellade, su fiumi più larghi
che gli ellesponti e gli euripi,
nel Continente australe,
tra fosche incognite stirpi
dall’anima ancóra constretta
nell’inviluppo terrestre
come gli iddii primitivi
dell’Ellade erano ancor misti
agli elementi del Cosmo.
Condotto avea su le notturne
correntie la spaziosa
rate carica di tronchi
centenni e mirato il volume
infinito dell’acque
palpitar d’astri qual cielo
irriguo e l’alba levarsi
dai silenzii possente
come per un giorno eternale.
Un Ulisside egli era.
Perpetuo desìo della terra
incognita l’avido cuore
gli affaticava, desìo
d’errare in sempre più grande
spazio, di compiere nuova
esperienza di genti
e di perigli e di odori
terrestri. Come le schiave
di Bitinia o di Frigia
recavano in letto corintio
l’indelebile aroma
natale, così le sue patrie
remore nell’anima sua
voluttuosamente
odoravano. Ei sorridea
dinanzi all’olivo d’Atena
pensando la smisurata
fronda opulenta di fiori
di frutti di piume che tutti
vincono i monili di Serse.
L’Ilisso e il Cefìso ruscelli
sassosi pareangli, che varca
il salto d’un uomo; l’Imetto,
un alveare declive;
il Pentèlico, un tempio
dal lungo tìmpano, senza
intercol’unnii; tutta
l’Attica pareagli dal cinto
aureo di Afrodite conclusa.
O dolce compagno, ebro e folle
d’immensità, ti rivedo
àlacre all’alba sul ponte,
il primo ai risvegli e ai lavacri
mattutini, vigile come
il gallo, sempre operoso,
Ulissìde! Il tuo piede scalzo
rivedo sul nitido ponte,
il piè dalla pianta ampia e certa,
dal maschio e divergente
pollice, il piè corritore
del lungo stadio, o Ulissìde.
Tu eri il più sobrio e il più casto;
e, se il compagno avea sete,
perché quegli bevesse
tu non bevevi, contento.
E nei polverosi cammini,
per l’erte difficili, amavi
portare l’ingombro dei pesi,
né per ciò mutavi il tuo passo
espedito; ché il tuo bel corpo
era immune d’adipe ignavo,
come l’ottime spiche
arente sotto il mai curvo
tuo capo d’oro, Ulissìde.
Intento a disciplinarti
eri sempre, anco ne’ piaceri
fugaci, e ad apprendere molto,
ad essere industre tu solo
come uomini molti; e sapevi
apprestarti il tuo cibo
e rimendar la tua veste
come la tua vela, Ulissìde.
Compagno diletto, che mai
mi fosti grave e mai con l’ombra
tua mi togliesti il mio sole,
non più dunque presso il timone
seduto su fascio di corde
io ti leggerò l’avventura
del Re di tempeste Odisseo
che dopo le nove giornate
ventose approdò nella terra
dei mangiatori di loto,
che mangiano il fiore del loto
che fa obliare il ritorno
a chi la dolcezza ne prova?
Ahimè, ti scordasti il ritorno
tu anche, ma non per quel fiore
soave, e mai più tornerai
col tuo passo certo e leggero
verso di noi che t’attendemmo
sì lungamente e sperammo
di udir la tua limpida voce
narrar la conquista lontana!
Sotto la clava del selvaggio
predone cadesti, senza
vìndici, nell’umida ombra;
mentre tu, svelto odiatore
di salmerìe e di scorte
con silenzioso ardimento
t’addentravi nella foresta
letale, obbedendo al tuo fato
che ti spingea senza tregua
più oltre più oltre nel nuovo.
Prono cadesti, e il tuo sangue
ottimo, il sangue del capo,
bagnò l’erbe e i fiori dell’umo
di là dall’ultima orma
che stampata avevi col piede
veloce; sicché procombendo
andasti pur sempre più oltre:
il tuo corpo, ove spegneasi
il pronto vigore latino,
occupar valse anco un tratto
di terra ignota, o Ulissìde.
Gloria a te! Ricordato
sarai se non muoia il mio canto
fra l’itala gente. A te gloria!
E ti rivedo, sul Mare
Mirtòo, presso la ruota
del timone in quel punto,
ritto su le gambe tue snelle
e nervose di corritore
del lungo stadio, guatare
con gli occhi chiarissimi il solco.
E t’era non molto discosto
un altro compagno di stirpe
migrante, dei vizii umani
esperto e del valore,
e degli odii, duro in oprare
e combattere, aspro in trattare
la pelle infetta dei greggi,
occhio aguzzo, collo taurino,
fermo pugno, pensier destro
a ogni lotta come compiuto
atleta al pancrazio e al pentàtlo.
E questi avea seco, qual pegno
d’amore, la sferza untuosa
tagliata nel cuoio ferrigno
del pachidermo fiumale,
fatta untuosa dai dorsi
negri stillanti di sevo
fetido. E amava d’amore
anch’egli una terra lontana,
la terra ignìta ove la Sfinge
all’urto dell’uomo ritratta
s’è dalle sabbie del Nilo
ad altre piagge crudeli
e in silenzio attende l’audace
per farsi alla gola una torque
di candidi ossi novella.
E certo anch’egli in quel punto
travagliato era dal suo
grande amor periglioso;
ché tutti avevamo una febbre
di sogni nel sangue e donata
l’anima a grandezze lontane.
Il Sol declinando, caduto
era ogni soffio come
tra Itaca aspra di rupi
e Same irta di cipressi
là sul Ionio Mare nel giorno
memorabile. In cerchio
sorgeano dall’acque serene
le belle Cicladi, d’oro
e d’avorio come le ricche
statue foggiate col fiore
della preda di guerra.
Più d’ogni altro monte splendeva
il Marpesso, onde gli Ellèni
tratto avean la candida carne
de’ loro iddii. Lungi, l’Eubea
l’Attica il Peloponneso
tutta l’Ellade santa
era invisibile ai nostri
occhi ma presente in eterno.
Anche una volta ascoltammo
l’ora della vita sublime.
E dai campi delle battaglie
terribili, da Mantinéa
da Platèa da Cheronéa
da Potidèa da Leuctra,
da tutti i campi sacri
alle grandi stragi di genti,
sorse per entro quell’aere
melodioso un clamore
discorde: il lagno dei vinti,
lo scherno dei vincitori,
il canto amebèo della guerra.
Ebri d’antiche bellezze
e di nuove, dalle soglie
del venerabile Olimpo
ardentemente protesi
verso primavere ed estati
future, avidi di dominio
e di gloria, pel nostro amore
pronti ad ogni più disperato
combattimento, ascoltammo
con intimo fremito il canto.
Diceano i vinti: «O iddii,
o iddii, proteggete la nostra
terra se mai v’offerimmo
in sacrificio il bianco
e nero fiore dei greggi,
le primizie degli orti!
Spavento, sciagura, vergogna
si precipitano sopra
la stirpe che amaste, cui foste
per sì lungo tempo benigni.
Ah! Ah! Udite, udite
lo scalpito dei cavalli
dietro la polve messaggera
di morte, lo stridor degli assi
nei mozzi, l’urto dei clìpei
e delle gambiere di bronzo.
L’etere è tutto irto di lance.
Le catenelle dei freni
induriti col fuoco, ecco, ecco,
tintinnano nelle bocche
schiumanti. Ecco l’ultima strage!».
I vincitori: «Gli iddii
son coi vittoriosi!
Pascere Ares noi vogliamo
con la vostra carne cruenta.
Zeus non v’ode, non v’ode
l’ippico Re, non Apollo.
La spada a due tagli l’estrema
luce fa su gli occhi del vinto.
La Necessità vi tien presa
la strozza come noi l’elsa
d’argento tegnamo nel pugno
e la coróne dell’arco
e della frombola il cappio
per forarvi il cuore tremante,
per fendervi il cranio curvato,
per frangervi ambo i ginocchi.
A terra! A terra! Gli iddii
non v’odono. La città vostra,
con l’oro la porpora i vasi
di vino i bei letti e le donne,
alla nostra fame è promessa».
Diceano i vinti: «Sciagura!
Gli iddii disertano i templi!
Pur quegli che sorse dal suolo
onde noi nascemmo, ci lascia!
Ah per questo nascemmo,
per esser calpesti, premuti
come il grano sotto la mola
come nel frantoio l’oliva
come l’uva nel tino,
per esser pan d’ossa trite,
olio di midolle, vin rosso
di vene al banchetto feroce!
Gli iddii son co’ vittoriosi
anche vili. Il cielo è su noi
come clipeo nemico
che porti nell’ònfalo il capo
gorgóneo per impietrarci.
E quante ecatombi v’offrimmo,
o Zeus, o figlia di Leto,
o Cipride madre di nostra
gente, per quest’onta nefanda!».
I vincitori: «Molesto
è agli iddii l’odore fumoso
delle ecatombi offerte
da femmine imbelli. Tacete!
Vociferar contra gli iddii
non vi giova. Le lingue
loquaci vi strapperemo
noi dalle fauci per darle
in pasto alle cagne e alle scrofe.
Voliamo, voliamo, cavalli
di belle criniere, voliamo,
carri dall’aureo timone,
su i petti e su i dorsi dei vinti!
La polvere, la sitibonda
sorella del fango, ha bevuto
un fiume di sangue ed è nera.
Meglio è segnar nuovi solchi
di ruote sul tramite umano,
su i vivi e su i morti prostesi.
A terra! A terra! Voi siete
la via su cui passano i carri».
Diceano i vinti: «Eccoci a terra,
eccoci proni, prostesi
davanti allunghie dei vostri
cavalli. Se gli iddii
non odono, udite la nostra
preghiera voi, uomini, nati
dell’uman seme come noi
ne nascemmo in giorno nefasto!».
E i vincitori: «Non siete
voi uomini, sì siete cose
da noi possedute, men buone
dei vestimenti, dei vasi,
dei letti. Noi dalle vostre
viscere trarremo le corde
adatte alle frombole e agli archi;
e le serberemo pel giorno
in cui ci bisogni domare
novamente insania di schiavi
se qualche rampollo risorga
dal tronco che abbiamo reciso.
Ma non lasceremo radici».
«Ecco, ecco, siamo la via
palpitante sotto il galoppo
di ferro. Ma il cuore vi tocchi
pianto di vergini, vagito
di pargoli, ululo di madri!
Ardete le case, abbattete
le torri, struggete dall’imo
la città, le ceneri ai v’ènti
date e i nostri corpi agli uccelli
voraci, ma fate che il gregge
misero lasci le mura
e lungi nasconda il suo lutto!»
«Le vostre vergini molli
le soffocheremo nel nostro
amplesso robusto. Sul marmo
dei ginecei violati
sbatteremo i pargoli vostri
come cuccioli. Il grembo
delle madri noi scruteremo
col fuoco, e non rimarranno
germi nelle piaghe fumanti.»
«Ah, non avete sorelle
che a’ telai vi tessano vesti
soavi aspettando il ritorno?»
«Già corse il Messo. Ora annunzia
che vincemmo. Ed elle infiammate
gittano le spole e «Sien grandi»
sclàmano «la strage e le prede!»
«Non mogli avete che appeso
rèchino alla mammella un dolce
figliuolo e gli càntino il sonno?»
«Elle ne’ lor seni hanno latte
di leonessa e al figliuolo
dicono: «Se il germe rinasca
malvagio, tu crescimi forte
e schiantalo ancóra e per sempre!.»
«Non madri avete al focolare?»
«L’arme pesarono ammonendo:
«Non ti stancar mai di ferire.
Sia l’ultimo colpo il più crudo».
Voliamo voliamo, cavalli
di fuoco, sul fango dei vinti!»
XVI.
O Vita, o Vita
dono terribile del dio,
come una spada fedele,
come una ruggente face,
come la gorgóna,
come la centàurea veste,
o Vita, assai più crudele
è il canto che nella pace
delle città funeste
s’ode, quando arde il bitume
o splende la selce
sotto il Cane vorace
nelle vie diritte ove passa
il carro che non ha timone
né giogo, e non corsieri
splendenti di sangue e di schiume
cui prostesa l’onta soggiace,
ma rapidità senz’acume
che bassa scivola, immune
tra la ferrea fune sospesa
e il duplice ferro seguace.
Conosco la ferita
che nella via necessaria
fa la rotaia lucente
agli occhi della tristezza
smarrita per quell’aria atroce,
quando non ha più voce
la bocca convulsa che occlude
la cenere dei sogni
masticata nel fiele
rigurgitante, e dalle nude
mani pare avulsa
l’ugna che sapea ghermire,
e sola nel collo
la caròtide pulsa
come la sbigottita
rondine cui l’infantile
carnefice strappa le piume
di nascosto, e il cuore è frollo
come la carogna vile
che sul bitume
si matura al sole d’agosto.
Ben vi so, torridi giorni,
meriggi funerei,
incontri spaventosi
di cerei vólti disfatti,
via chiusa tra mura di forni,
tacita piazza combusta,
sordo asfalto, lastre roventi
su cui l’ombra angusta
dell’uomo è come bestia
di corte gambe laida e obliqua
che il tacco gli addenti ove il cuoio
rossigno si torce sformato
dall’ignobile passo
consueto. Ombra, ombra del vinto
si trista su le sporche mura,
trista come la menzogna
callosa ond’ei campa e lucra,
trista come il suo vizio
segreto, come il suo rimorso,
come la sua paura,
come la sua vergogna!
Manìe, Manìe silenziose,
erranti nell’inferno
della città canicolare,
col passo degli sciacalli
famelici, tra le bucce
lùbriche dei frutti e lo sterco
dei cavalli coperto
d’insetti che hanno il lucore
dell’acciaio azzurrato,
io vi guardai nelle pupille
contratte dal dolore
della luce, vi guardai
negli occhi gialli di sanie
e di cruore vermigli,
su cui palpitavano i cigli
col palpito disperato
che non ha tregua nel sonno
poi che il sonno fu ucciso;
vi guardai fiso aspettando
che vi scagliaste come doghi
a mordermi i pugni e la gola.
Imagini del delitto
mostruose intravidi,
torcimenti d’angosce
inumane ma senza gridi,
anime come sacchi flosce,
altre come logori letti
di puttane marce di lue,
altre come piaghe orrende,
fatte informi e nane
dal gran taglio diritto,
simili al combattente
ch’ebbe le due cosce
recise fino all’anguinaia
e tuttavia rimane
mezz’uomo sul suo tronco e cerca
con le dita ancor vive
tra il rosso flutto la radice
di virilità ricacciata
in fondo al ventre, là dov’era
prima ch’egli escisse compiuto
maschio dalla matrice.
Ma quelle miserie e quei morbi
e quelle follie,
insanabili, al mio male
non eran fraterni
se non per il silenzio
e per la sete,
perché taceano e avean le labbra
della sete mortale.
E cessai di guardare.
Tenni gli occhi inclinati
al riverbero bianco
delle selci, solo
con la mia febbre errabonda.
E quando il ginocchio stanco
sentii flettere e pesarmi
il cuore così che mi parve
quasi dolce cader senz’armi
su l’immonda via qual giumento
che più non vuol trarre le some,
mi fermai nel trivio deserto
e dissi al mio cuore il mio nome.
E, in quella guisa che il rude
cacciator nella selva
sonora col sibilo chiama
la muta dei veltri dispersa,
radunai con lo squillo
dell’orgoglio tutte le forze
e le vendette del gentile
mio sangue sul trivio deserto.
E nel vólto febrile
lo sguardo mi ridivenne
gelido e chiaro; l’osso
della mascella fu saldo
e armato per mordere; in tutti
i tèndini il certo vigore
si contrasse, pronto all’assalto.
Guardai il nemico Dolore
con stridor di denti
per scagliarmigli addosso
e stampargli segni cruenti
su la gota pallida. Il cuore
sonò come bronzo percosso.
O lastrico accecante,
spigoli crudi dei muri
coperti di rabida lebbra;
consunta pietra di scale,
innanzi le porte sacre
al dio della cenere, dove
il mendicante ostenta
l’ulcera e la man tesa;
cupa finestra ove in attesa
di preda sta la bagascia
spandendo sul davanzale
le sue mammelle come
pasta che lièviti; lenta
discesa dell’ombra
giù dalla statua deforme
che glorifica il demagogo
brutale; o lastrico senz’orme,
oscenità del luogo
publico, lordume del trivio,
per voi conobbi un’ebrezza
amara che non ha l’eguale.
Sentii l’odore d’un abisso
invisibile e onnipresente,
il pestifero fiato
d’un gran mare torpente
ma pieno di occulta
ferocia, di vita vorace,
ove la tristezza dell’uomo
era come la nave
dalla prua bene sculta
che con l’elica guasta
è perduta nel polipaio
immenso, nell’immenso
tedio dell’Oceano ardente
sotto il Tropico, e non cammina
ma sussulta, ancor pulsando
l’infermo suo cuore d’acciaio
nella vasta carena,
sinché lentamente
muore nel fetore
della sua sentina
tetro che l’avvelena.
Vesperi di primavera,
crepuscoli d’estate,
prime piogge d’autunno
croscianti su l’immondizia
polverosa che nera
fermenta sotto le suola
fendute onde si mostra
il miserevole piede
umano come tòrta
radice di dolore
divelta; rigùrgito crasso
delle cloache nell’ombra
della divina Sera,
tumulto della strada ingombra
ove tutte le fami
e le seti irrompono a gara
d’avidità belluina
per la forza che impera
e partisce i beni col ferro,
da voi sorgere io vidi
non so quale orrida gloria.
Gloria delle città
terribili, quando a vespro
s’arrestano le miriadi
possenti dei cavalli
che per tutto il giorno
fremettero nelle vaste
macchine mai stanchi,
e s’accendono i bianchi
globi come pendule l’une
tra le attonite file
dei platani l’ungh’esse
le case mostruose
dalle cento e cento occhiaie,
e i carri su le rotaie
stridono carichi di scòria
umana scintillando
d’una luce più bella
che la luce degli astri,
e ne’ cieli rossastri
grandeggiano solitarie
le cupole e le torri!
Orrore delle città
terribili, quando su le vie
arse cadono i larghi lembi
violacei della Sera
con un odor molle di morte,
e s’accendono su le porte
delle taverne i fanali
rossi che versano il sangue
luminoso al limitare
ove scoppierà la furente
rissa dopo l’ingiuria,
e i fuochi della lussuria
brillano negli occhi senili
della grigia larva che insegue
per l’ombra la vergine impube
con nel passo malfermo
l’indizio del morbo dorsale,
e il bardassa trae per le scale
già buie il soldato che ride,
e la libidine incide
l’enorme priàpo sul muro!
Febbre delle città
terribili, quando il Sole
come un mostro colpito
dal tridente marino
palpita ai limiti delle acque
in una immensità di sangue
e di bile moribondo,
e nel duolo del ciel profondo
la gran piaga persiste
livida di cancrena,
e s’ode la sirena
del vascello che giunge
caldo di più caldi mari,
e s’accendono i fari
su l’alte scogliere,
e le ciurme straniere
si precipitano all’orgia
frenetiche come baccanti,
e il porto suona di canti
di schemi di sfide di colpi
di crapula e d’oro!
Sonno delle città
terribili, quando dal fiume
accidioso (ove si stempra
tra la melma e il pattume
la polpa dei suicidi
fosforescente come
su i salsi lidi il viscidume
delle meduse morte)
sorgono le larve diffuse
della caligine tacente
con mille tentacoli molli
che sfiorano tutte le porte
e palpano i miseri e i folli,
il ladro e la venere vaga,
l’ebro dalla bocca amara
l’orfano dall’ossa contorte
assopiti sopra la fogna,
mentre s’amplia e s’arrossa
nei fumi la chiara finestra
del sapiente che indaga
e del poeta che sogna!
Alba delle città
terribili, aurora che squilla
con mille trombe di rame
sul silenzio opaco dei tetti
chiamando i dormenti a battaglia,
primo dardo che il Sole scaglia
a fiedere le sfere d’oro
su le cupole ancor notturne
e le cime ardue dei camini
emuli delle torri e le bianche
statue degli archi trionfali,
Speranza volante su ali
recenti come i fiori nati
sotto le rugiade celesti,
passo degli artefici dèsti
all’opere sonoro come
scalpitìo d’esercito grande,
rombo che si spande dai mossi
congegni pel vitreo duomo,
oh Alba, oh risveglio dell’Uomo
eletto al dominio del Mondo!
XVII.
Chi fu che mangiò gli escrementi
su la piazza publica, in pani?
Ezechiele, il profeta
belluino, figliuol d’uomo,
il vate dei carmi ruggenti.
E dalle sue labbra immani
irte di pél selvaggio e lorde
proruppe un divino
fiume di poesia
che scrosciò su le nazioni
sorde, travolse i re vani,
sommerse i popoli spenti.
O città di sangue e di lucro,
di magnificenze e d’obbrobrio,
di sacrificii e d’amore,
mangerà gli escrementi
su le vostre piazze sonore
colui che vorrà far giudicii
per esaltarvi nell’inno,
per abominarvi nell’ira,
per stringervi in patto di pace?
Egli sarà segnato
della profonda ruga,
ma avrà nella carne un cuor novo.
Foggerà egli il fango?
Smoverà il letame?
Metterà in fuga i sogni
d’infermo e i delirii palustri?
Caccerà la fame
e chiamerà il frumento
e lo cernerà nel suo vaglio?
Aprirà gli antichi sepolcri
intorno a cui danzare
ai solstizii d’estate
potranno sotto lo sguardo
materno i fanciulli robusti?
Il Presente è in travaglio.
Afflitto io non dissi a me stesso:
«I giorni saran prolungati
e ogni visione è perita».
Ma sì bene: «I giorni e la fiamma
d’ogni libertà son da presso».
E non Ezechiele, il Caldeo
dal capo bendato, che stringe
il rotolo ond’ei pascer deve
il suo ventre e le interiora
sue riempire, e si volge
impetuosamente
nel fuoco dell’alito eterno
col petto già gonfio di canto;
né la Sibilla di Persia,
decrepita in suo chiuso manto,
che leva le mani rugose
e china la fronte longeva
a deciferare con gli occhi
velati da secolo tanto
l’angusto quaderno ov’è stretta
la somma di tutte le cose;
non quegli non questa rispose
a me dalla volta profonda
nell’ora mia quando supino
sul pavimento mi giacqui
con l’anima mia furibonda.
Ma ritrovai vénti fratelli,
m’ebbi uno stuolo gagliardo
di vénti fratelli nell’alto,
che mi risposero in coro
e in disparte, col grido
e col silenzio, con lo sguardo
e col gesto, nel grande
sacrario sonoro. O Sistina,
rifugio più solitario
che le vette eccelse dei monti
ove l’aquile hanno lor nido,
altitudine senza fonti
per la sete di chi sale,
dominio di violenza
e di dolore immortale,
sublimità del Male,
rapimento carnale
degli spiriti verso novelli
cieli di potenza e di gloria,
in te ritrovai miei fratelli
disperato della vittoria.
Per venire a te primamente,
passai sopra il sangue ferino.
Persiste ancor nella selce
dell’Aurelia Via la vermiglia
macchia e al sole è splendente
come nella mia rimembranza?
Oh meriggio di primavera!
Le taverne eran piene
di carradori feroci,
di rauche voci, di bestemmie
crude, di oscene canzoni.
E un odor maligno di vino,
di timo, d’ànace, d’aglio,
di sudori, d’olio fortigno
occupava la via romana.
Ma dalla campagna lontana
venìa sul vento a quando a quando
il profumo dell’asfodèlo
e l’aroma del pino.
In un silenzio anélo
dolorava il cielo latino.
Aurelia Via, l’erma è bifronte,
mistica e bestiale,
che ti guarda e a me t’apre.
La tua selce rintrona
alle ruote e s’assorda
allo scalpiccìo delle capre.
Fra la turpe caupona
e la mole papale,
fra crete e fornaci, urli e taci
lorda di lordure e di sangue.
Gialla tu sei sotto il sole
e lucida di festuche,
or bianca or cerula a l’una
che cresce o che langue;
mentre il carrador nello strame
de’ suoi giumenti, ne’ velli
de’ suoi castrati ronfia o canta
d’amor canto infame
e l’urto del carro sciaborda
il vin nei barili cerchiati,
il latte nei vasi di rame.
Stanco dei sorridenti
uomini vestiti di frode
con labbra dipinte su falsi
denti, mellìflui e grassi
come le meretrici,
stanco di scoprir ne’ lor passi
l’ernie nascoste e le varici
e le inconfessabili piaghe
e le v’èrtebre fiacche,
stanco di lor colpi bassi
e di lor ferite vigliacche,
io cercai nell’antica
via la stirpe sanguinaria
che maneggia il coltello
dal mànico di corno
e dalla lama fissa.
Vagai d’intorno aspettando
il primo cl’amor della rissa,
l’ingiuria arrochita dal vino.
Fiutai negli odori dell’aria
l’odore del sangue ferino.
Una forza selvaggia e sacra,
come quella che indura
la fronte ed affoca la coglia
dell’arìete pugnace,
pareva addensarsi nei torvi
bovari, nei bùtteri armati
d’un’asta ch’è un tirso cui tolta
fu la bassarica foglia.
Sì fulva ebber certo la barba,
sì ebber villoso il torace
gli antichi predoni del Lazio.
E le lor femmine (Roma
ne impresse l’effigie nell’oro
imperiale) dal collo
pesante, dal ventre mai sazio,
dalla chioma lucida e folta
come la lana dei neri
capretti, le femmine belle
e lente ai copiosi pasti
infuriavano i maschi
col fortore delle ascelle.
Quivi l’animale umano
amai, che divora, s’accoppia,
urla, combatte, uccide,
inconsapevole e vero.
Quivi divinai la divina
bestialità che facea
sì resistente la forza
di Roma dal tardo pensiero.
Meglio che tra gli spadoni
e le spìntrie, il mio dolore
e il mio desiderio inespressi
quivi respirarono, fatti
più forti perché più carnali.
Il pregio e il mistero del sangue
sentii mirando su le lastre,
nel solco dei carri, brillare
il fiotto vermiglio sgorgato
dalle ferite mortali.
O selva d’arbori eguali,
pronao d’un tempio senz’inni,
teco all’ombra io vidi l’Erinni.
Tutti eguali in ordine i pini,
quasi eletti a un rito solenne,
sorgevan dall’erba infinita.
Ogni traccia era disparita
della belva e dell’uomo:
sol v’era il silenzio del cielo.
E vi fiorìa l’asfodèlo
a piè dei tronchi scagliosi,
e l’anémone violetto
ch’è il rapido fiore del vento.
E come un palagio d’argento
di là dai tronchi, multiforme
e tacito, era il Vaticano;
un ermo candore lontano
era il Soratte solitario;
i cipressi del Monte Mario
erano un funebre serto
per non so qual lutto sereno.
E un profumo di fieno
e di libertà, quasi un fiato
pànico, venia dal deserto.
O selva d’arbori eguali,
tra l’Urbe e l’Agro ordinata,
ove dormii sonni veggenti
e meditai le mie sorti
e favellai con l’Erinni,
tu m’appari nella memoria
come il vestibolo vivo
della formidabile cella;
perché pieno de’ tuoi fatali
murmuri l’anima, gli occhi
pieno dei movimenti
fieri che su l’antica via
agitavan gli uomini forti,
ebro dell’amore di Roma
e sitibondo di gloria,
io v’entrai seguendo mia stella.
E, come su l’erba novella
che inazzurravano l’ombre
de’ tuoi colonnati, io vi giacqui
supino per contemplare.
E là dove giacqui, rinacqui.
Che son mai le ambasce supreme
del combattente caduto
nella vertigine immensa
della morte, col viso
rivolto al ciel muto ed eterno,
quand’ei più non sente il nemico
che senza riscatto gli preme
con le ginocchia lo sterno
ma sol sente l’anima forte
che l’abbandona e nell’atto
di partirsi infinita
col peso di tutta la vita
gli pesa e di tutta la morte?
Che è mai la sua visione
solitaria in mezzo al deserto
ruggente della guerra,
quand’ei non sa la cagione
ma vede che certo è soltanto
il dolore e giusta è la terra
poiché foglie e pianto e ogni carne
più sanguinosa raccoglie?
Le grida le risa gli oltraggi
umani duravano in me;
e i dardi della luce
ancor mi dolevano; e i raggi
e il tumulto erano in me
una sola vertigine truce;
e parevami esser demente
e ardere fino alla midolla
come tra vampe di fenile
che ribolla in afa di nembo
imminente; e nel tenebrore
febrile scintille io vedeva
come di selci percosse,
ché gli occhi m’eran nelle fosse
dell’orbite veracemente
come a urto di focile
selci nell’ordigno d’acciaio
che le attanaglia. E io era
come colui che muore
di sùbita morte solare,
al limite della battaglia.
O ruota d’Issione!
Rivolgeasi tutta la volta
come ruota sopra di me,
e il dolor mio n’era l’asse
stridente e risfavillante.
Tutto quel ciel disperato
di bellezza sopra di me
era come ruota di ferro
trattata da un’ira gigante.
E come le festuche e le scorze
e il timo e la polve e la melma
d’intorno alle ruote dei plàustri
là nella carraia romana,
così d’intorno a quell’una
amore odio eccidio spavento
sacrifizio supplizio
delirio dell’anima umana
tutti i mali e tutte le colpe
e tutte le cieche speranze
trascinati erano e franti
nell’inesorabile giro.
E io dissi morendo:
«Anima mia, vedo te?
vedo le tue speranze
le tue colpe i tuoi mali
nell’inesorabile giro?
Anima mia, vedo in te
le larve delle parole,
i sogni pulverulenti,
le credenze inferme o morte,
i giorni senza bellezza,
le tracce dei crudi flagelli,
le reliquie del mio martìro?».
Supino giacente il mio corpo
non avea più ombra nel mondo.
L’immobilità del dolore
era la mia sola grandezza.
Come in nero marmo, sepolto
nell’orrore de’ miei pensieri,
io sentii venire di l’unge,
sorgere sentii dal profondo
il pianto che agli occhi non giunge.
E quel pianto era pianto,
entro di me, sopra di me,
da creature che forse
vivevano oltre la vita
ma non beverate nel Lete
né di papaveri cinte,
anzi chiuse in un vestimento
d’impenetrabile ardore
che allo stillar dell’onda
amara qual rogo alla piova
crepitava senza perire.
Ed elle cantavano un canto,
entro di me, sopra di me,
più forte che tuono di lire,
forte di sì alto lamento
che toccava le più segrete
stelle nel cuore del Cielo
e tremar facea di nova
pietade il cuor della Terra
e discolorava la faccia
dell’Oc’èano anélo.
«Luce del dolore» io dissi
«ti bevo! Luce del dolore,
a cui si precipita ignaro
dalla notte bruta l’infante
che sforza la porta sanguigna
del grembo materno col capo
proteso, con chiuse le pugna;
Luce del dolore,
a cui si volge l’estremo
battito della palpèbra
senile priva di cigli
ove all’acredine del sale
la pupilla s’è fatta
più opaca e dura dell’ugna;
Luce del dolore, ti bevo
a gran sorsi come bevvi
dalla mammella il latte,
la voluttà dalla bocca
amata, la melodìa
dalla sera d’aprile,
l’odio dalla ferrea pugna.
Di te m’inebrio. Tu m’inondi.
Non v’è ombra in me se non quanta
può coprirne con agio
il calice riverso
d’un giglio! E di questa io farò
un solitario zaffìro;
con quest’ombra che resta
una gemma io sublimerò
più cerula che il cielo
d’Agrigento, per la fronte
della mia compagna diletta.»
E la ruota s’arrestò
di sùbito nel suo giro,
come il supplizio s’arresta
per il comandamento
del tiranno malvagio
cui tediano i gridi
delle vittime attorte
infrante nelle sue pressure.
E io vidi le creature
tra la vita e la morte.
Vidi i fanciulli i giovinetti
i vegliardi le madri
le vergini i guerrieri
i sacerdoti i patriarchi
gli utensìli e gli armenti,
tutte le carni dolenti
e tutti gli strumenti
della colpa e del castigo,
i letti i libri i roghi le are,
e l’inerzia della terra
e la furia delle acque
e l’impeto dei v’ènti
e l’ingombro delle nubi,
la spada la mensa il fardello,
il teschio dell’arìete,
il festone di quercia,
la medaglia superba;
e quegli sguardi e quei gesti,
anima mia, quelle pupille
che ti guatavano dal fondo
dell’infinito terrore!
E quivi tutto era più grande
e più grave, e senza patria,
e d’immemorabile etade,
e sotto il flagello
d’inconoscibili numi.
Colei che avea generato
stanca era d’una immensa
maternità, come
se dal suo ventre escito fosse
il peso delle nazioni
maledette, con un travaglio
orrendo; e le sue mammelle
eran come l’urne dei fiumi.
Profondato nell’oscuro
sonno era il dormiente,
come un monte sotto i silenzii
dei mari primordiali
onde sorgerà in un giorno
del più remoto Futuro,
come nessun corpo giammai
profondato fu nella morte.
E tutta la gioia feroce
degli uccisori nati
di donna, da che il primo sangue
umano abbeverò la terra
ancor del diluvio melmosa,
tutta gravava nel pugno
di colui ch’era in atto
di recidere il capo
al vinto nemico; e quel ferro
tagliente pareva levato
dall’eterna minaccia
d’un dio su l’orizzonte
immobile della paura
terrena; e in quell’abbattuto,
che invano pontava la palma
il cùbito e il ginocchio
sul suolo ch’ei dovea
di sé far vermiglio, penava
il lamentabile sforzo
di tutti gli uomini vinti
da che l’uomo è lupo per l’uomo.
E fatalità spaventose
si propagavano pel mondo,
mosse da un gesto, dal lampo
d’uno sguardo, dal reclinare
d’un vólto, dal lembo agitato
d’un manto, dal volgersi ratto
d’un pargolo verso la poppa,
dal ripiegarsi d’un corpo
senile nell’ultima sosta.
E sventure senza nome,
desolazioni senza voce
e senza pianto, lutti
accecati dall’amarore
delle lacrime esauste,
tormenti non conosciuti
dagli antichi tiranni
né dagli esuli iddii,
enormità di doglia
e di follìa smisurate
pesavano nella stanchezza
d’una pallida mano.
E tutte le membra, come
la mano, erano carche
di patimento mortale
e s’accasciavano al suolo
con ossature di piombo;
o, risvegliate dal rombo
della morte improvviso,
balzavano nel terrore
protese verso lo scampo,
erette contra il periglio,
contratte sotto la minaccia;
e i muscoli nelle braccia
le v’èrtebre nelle schiene
le còstole nel torace
le arterie nel collo
i tendini alle calcagna
erano come le bestemmie
le implorazioni e le grida
opposte ai fati avversi,
eran come le bocche urlanti,
gli irti crini, gli occhi riversi.
E, come su mare notturno
s’ode talor clamore
di naufragio lontano,
venìa dallo spazio incurvo
da quel gorgo soprano
la voce di tanto dolore
confusamente, e fioca e forte.
E talor si facea
di repente un silenzio
più crudo che tutte le grida;
ma durava nel vano,
come il bronzo che vibra,
il rombo eternal della morte.
E alcuna delle creature
accosciate nell’ombra,
sotto l’invisibile mola
ond’era premuta
continuamente, con voce
rimasta per secoli muta
disse l’antica parola:
«Perché siamo nati?».
E io sussultai di paura
sul pavimento che freddo
era come pietra di tomba,
sentendomi l’ossa corrose.
Con pallidi occhi, vacillanti
nell’orbite fatte più larghe,
cercai per la volta profonda
gli eroi fra le genti dogliose.
Dominavano la sventura
e la colpa, chiarosonanti
come squilli di tromba,
le Volontà meravigliose.
«Perché siamo nati?» dicea
la creatura del fango
con la bocca sua piena d’ombra
come la fàuce del bove
è piena di strame.
«Simile al bove che rumina,
simile al capro che copula
è l’uomo, con la lussuria
la strage il servaggio e la fame.»
E una Volontà risplendente
«Taci» gridò «taci, bestia
da macello e da soma!
Porta su le tue schiene il peso
di colui che ti doma
e poi senza gemito spira
sotto il coltello tagliente.
Silenzio! Silenzio! Sol degno
è che parli innanzi alla notte
chi sforza il Mondo
a esistere e magnificato
l’afferma nelle sue lotte
e l’esalta su la sua lira.
Taci tu, cosa da mercato,
ingombro gemebondo!»
E ogni lagno si tacque,
ogni vil bocca ebbe il bavaglio.
E come croscio d’acque
possenti era la forza
dei Giovini, grave
di bellezze in travaglio.
E, dalla fronte nuda
al pollice del piè contratto,
fremito di sùbiti canti
mi corse. Correre sentii
nelle mie vene i corsieri
anelanti dell’Atto,
scosso dai miei spiriti il peso
delle ore infruttuose.
E, ridivenuti guerrieri,
gli spiriti verso gli eroi
gridarono: «O nostri fratelli,
soli fra le genti dogliose
ricchi d’opre per la dimane
come gli arbori novelli
di gemme, noi su la terra
mescere vorremmo la vostra
immortalità con la nostra
morte per vincere il Fato!».
E il coro inerme ed armato
«Sursum corda!» rispose,
traendoli all’alta sua guerra.
E allora io cercai le Sibille
per desìo d’un’alta compagna.
E dissi alla Libica: «I piedi
tuoi son come le ali
della colomba, poggiàti
sul pollice fiero, e tu sei
per chiudere il vasto volume
e per librarti a volo uscendo
dal tuo vestimento, o Sibilla,
come da un vincolo duro
affinché l’oro e l’azzurro
soli ti cingano come
l’orbita cinge la pupilla
umida di visioni
infinite e la tua bellezza
fatidica pàlpiti
di libertà sopra il vento.
Ignuda le spalle e le braccia
e la nuca, luoghi di gaudio,
ecco, dalla tua cintura
t’involi e dal tuo vestimento.
Ma il tuo seno, che tu mi celi,
non è forse profondo
come un fior numeroso?
E la treccia che sfugge
alla benda delle tue tempie
non ha forse il misterioso
potere del corno sul fronte
di Pan che conduce nei cieli
le melodìe del Mondo?
E il tuo fianco fecondo
non è fatto pel seme
del vincitore? Ah chi mai
saprà il colore degli occhi
tuoi sotto le pàlpebre chine?
Quando mi guarderai?
Orfeo sono, senza ghirlande,
che più non attende alle porte
dell’Ade quella che due volte
perdette! E tu sei troppo grande,
o Libica: sul cor tuo forte
soffocar puoi anche la Morte».
All’Eritrèa dissi: «Non m’odi,
se parlo. Sei anche più grande!
La Saggezza e la Forza
l’avarono i tuoi piedi scalzi.
Tu sdegni i troni. Se t’alzi,
tu mi sembri una torre munita.
Signora della Vita
tu sdegni le chiuse corone.
Pallade ha l’elmo corintio
col duplice occhio e il nasale.
Intorno al tuo capo regale
tu serri il pìleo dei nàuti
con treccia che gira due volte
simile a ceràste divelta
dalla chioma della Gorgóne.
Pallade ha il suono dei flauti
e il canto delle mille teste
pei giuochi della nazione.
Tu nelle tue vaste orchestre
hai tutte le voci, dal rombo
dell’ape al fragor del ciclone.
Che mai raccoglie il tuo braccio
con la man cava (che resse
forse per una notte i chiostri
del Cielo tolti al sostegno
d’Atlante e forse la clava
brandì ad uccidere mostri)
che mai raccoglie il tuo braccio
dall’ombra di quella gran piega
che ti fa nel manto il ginocchio
sovrapposto all’altro in riposo?
Le pieghe del tuo spazioso
vestimento son piene
d’invisibili tesori
e di mistero infinito.
E, se tu volgi col dito
il foglio del libro verace
or che il Genio con la sua face
t’accende la lucerna,
qual tirannide crolla,
nasce qual novo mito,
qual puro eroe s’eterna?».
Ma dissi alla Delfica: «Te
amerò, tra due v’ènti avversi
nata dall’onda marina
esule Oceànide, te
che i lombi non anche detersi
hai dall’amarezza salina.
Chiusa nella tunica grave
or sei, nella lana cui morde
la fibula sotto l’ascella;
ma ti gonfia il vento del mare
dall’òmero al pòplite il manto
ampio quasi trevo in procella.
Tu svolgi dalla sinistra
mano il tuo ròtolo santo
che come vela quadra
s’inarca alla banda contraria;
e così vigile assisa
mi pari su cassero forte
di nave che navighi i tempi,
sicura tra i due v’ènti avversi,
fresca Virtù solitaria.
Io ben so che l’onda natale
crea questa tua giovinezza
e il cristallo de’ tuoi grandi occhi.
Tuo latte fu il fiore del sale,
e il cerulo gorgo tua cuna.
Fra le mammelle e i ginocchi,
a traverso il tuo vestimento,
io vedo raggiar la bianchezza
del grembo tuo, virginale
come la più labile spuma.
E sento, a traverso la benda
che dalla fronte alla nuca
ti copre, l’odore dell’ulva
e dell’alga, l’odore
d’un vascello che porti
nardo e mirra nella sua stiva,
l’odore d’un’isola australe.
O bendata, e ben ti so fulva
come il fuco tratto alla riva.
So che nella destra ti dura
il segno del tuo governale.
Navigatrice sei,
Thalassia nomata per me!
I rematori adusti
dalle cinture di sparto
e dai lanuti galèri,
curvi su gli scalmi nel canto
disteso che gonfie facea
le vene dei colli robusti,
disser le tue lodi con me.
Sul litorale i trevieri
misurando e tagliando
le vele in canape aspra,
le lor donne i lunghi aghi acuti
nell’ordito spignendo
con la palma armata di piastra,
per giugner vivagni di ferzi
acconciar guaine a ralinghe
e rinforzi e ritrosi e suppunti
ben saldi contro fortuna,
via via di costura in costura
disser le tue lodi con me.
I costruttori di navi
segnando a rigore di frasca
i garbi dei fianchi e dei ponti
per vincer con lor misurate
armonie la cieca burrasca,
i mastri d’ascia segando
a fil di sinopia il legname
squadrando chiodando impernando
dallo scafo alla tuga il fasciame,
i calafati la scussa
carena con maglio e scalpello
stoppando per l’ugner di pece
e di sevo a fuoco di stipa
e spalmar di bianca cerussa,
i cordai filando dai mazzi
la canape splendida ai soli
novi o torcendo nei trasti
i fili e alla pigna i legnuoli,
tutte in alterno cantare
le maestranze del mare
disser le tue lodi con me.
O Thalassia, Sibilla
di grandi oceaniche sorti,
divinatrice serena
di turbini e di naufragi,
Euploia, esulata in ambagi
ove impera il dio molle
che dalla bellissima argilla
separò gli spirti e li volle
infermi di nera vergogna,
odimi. Io ti chiedo: Che guardi?
L’occhio tuo fisso non sogna
né pensa, ma vede
come nessun altro mai vide.
Non lacrima né sorride:
vede meravigliosamente.
Che guardi? Una cosa fuggente,
o una che giunge dai mari
onde tu stessa venisti?
Scendere su i popoli tristi
le ceneri crepuscolari,
o sorgere l’albe cruente?
Che guardi? Un Liberatore
inchiodato a una quercia
alta mille volte cinquanta
cùbiti, come l’Agageo
Haman figliuol di Hammedata
che laggiù grandeggia in aspetto
di Titano più grande
del Galileo crocifisso?
Una gente nata del suolo
sacro all’Olivo e a Minerva,
che alfin ritrovò la sua gioia
perduta e goder sa nei giorni
la beltà senza fasto
il piacere senza mollezza
e comporre sa le sue feste
divine con lievi corone?
Ma forse l’occhio tuo fisso
contempla l’Ombra di Roma
che regge l’antico timone,
quale effigiata ancor regna
nella medaglia di Nerva.
Andiamo, andiamo! Se ancóra
sonvi nel mondo azioni
da compiere belle
come le più belle promesse
dei sogni virili, se ancora
sonvi da vincere mostri,
da sciogliere enigmi,
da purificare carnai,
da costringere petti
umani a gridi d’amore
e d’orgoglio verso la Vita,
andiamo, andiamo! Se ancóra
sonvi giardini profondi
ove favellare si possa
co’ i saggi e gli aedi, se fonti
vi sono per tergersi dopo
le lotte, colline silenti
che sostengano anfiteatri
di marmo sacri ai tragèdi,
se inni, se musiche pure,
se ancor vi son lauri, andiamo!
Per udire il grido d’un maschio,
per vedere un braccio levato
a percuoter forte il rivale,
per sentir l’odore del sangue
sparso e dell’ebrezza brutale,
per ingannar la mia sete
di vivere in atti ed in opre,
o fresca Oceànide, innanzi
ch’io venissi a te, disperato
vagai per l’antica
via strepitosa di carri
lorda d’escrementi e d’avanzi
accecante di luce dura.
E su quella lordura
l’anima mia ne’ miei sensi
crudeli perdutamente
aspirò il divino fiato
che venìa dagli immensi
deserti dell’Agro fiorente
d’anémoni e d’asfodèli;
trascorse al confino de’ cieli.
Cammino senza impedimento,
fatto dai balzi impetuosi,
quello cui l’anima mia
è pronta se tu l’accompagni!
Disgusto dei rigagni
putridi la tiene; disgusto
dei lascivi amori mendaci
che non sanno che sia
l’innocenza nel desiderio,
la profonda innocenza
cui non giova altro guanciale
pel sonno d’un’alba ignota
se non il sopposto alla gota
suo braccio robusto.
La tiene disgusto mortale
dei giacigli acri ove il sudore
del combattimento carnale
fa insana la cóltrice come
la materia libidinosa
che serpentina s’ammassa
e luccica, e attossica l’ombra.
Una venefica polpa
fu data ai miei denti per pane.
Assaporai una schiuma
più salsa che quella del mare.
Congiunto fui alla colpa
come la v’èrtebra è congiunta
alla v’èrtebra nella schiena
che rabbrividisce di gelo
funebre alla carezza acuta.
Non lasciai la bocca morduta
sinché la saliva
non ebbe il sapor della vena.
Bevvi a una a una le stille
su la bianchezza del petto
che i rovi avean flagellato.
Vidi nelle aperte pupille
uno sguardo più fiso
che il ferreo sguardo del Fato.
E le labbra nel mio viso
non potean più ridere e gli occhi
non potean più piangere, o Amore!
E conobbi l’attesa
nella stanza che s’oscura
al giorno che declina;
quando la lama tagliente,
tratta dalla guaina
silenziosamente,
è posta nella piega
impura del lenzuolo,
per la vana vendetta;
e sul cuor solo che aspetta
sfacendosi in ascolto,
e su le mani e sul vólto,
su tutte le misere carni,
passan gli uomini e i carri,
scroscia l’onta della via;
e la melancolìa
delle cose ha l’odore
della veglia notturna
tra il cadavere e i ceri;
e quel che fu ieri
non sarà più, per sempre.
Ahimè, non la bianca pruina,
non la rugiada tremante,
né la scaturigine chiara,
né il bosco con l’umido sguardo
dell’ombra sotto le verdi
sue pàlpebre, né il giovinetto
vento con gli anémoni in bocca,
né il fiato dei gelsomini
quando a vespro piove su gli orti,
né alcuna gelida cosa
poteva guarire il mio male;
perché maculato io era
più profondamente che il nato
della pantera. E la fredda
e santa corona, ond’io cinto
aveva il mio spino
promettendolo alla Bellezza,
inaridita s’era a foglia
a foglia. E l’oscuro giacinto
del mio desiderio fioriva
ai piedi del Crimine irto.
Ma un dio nudrito di fuoco
e d’amarezza era in me,
che divinamente sentiva
i preludii della Notte,
e il dolore delle l’une
in travaglio, e il pianto
delle Pleiadi, e il pianto
delle Iadi, e il lutto figliale
d’Erigone, e in dune deserte
la disperanza del mare;
e tutte le cose di fiamma
in travaglio, ch’erran pei cieli
del silenzio dolentemente,
e quelle che sono già spente
e sembran arder tuttavia;
e la melancolìa
delle fiumane tortuose
ove scorre l’acqua che stilla
dalle clessidre del Tempo,
cui venenò l’Amore
e appesantì la Morte.
Ahimè, tra due v’ènti avversi
nata dall’onda marina
esule Oceànide, fresca
Virtù solitaria, che sai
tu del mio male? Non m’odi,
se chiamo. Non torci lo sguardo
dalla visione che vedi,
e ch’io non veggo né mai
vedrò. La tua bocca socchiusa
è da me più lontana
che la perlìfera conca
in fondo all’Oceano australe.
Eterna sei là, simulando
col rotolo tuo dispiegato
l’imagine nautica, Euploia,
per acerbare la pena
del naufrago che ti si volge,
per eccitare l’ardore
del buon piloto che t’ama;
ché necessario è navigare,
vivere non è necessario».
E stetti quivi giacente
ne’ miei pensieri a guatarla,
in me medesmo sepolto.
E più e più biancheggiare
il teschio d’arìete vidi,
risplendere più di quel vólto.
E vidi lì presso nell’ombra
la madre affannata col figlio
stretto al seno, e l’uomo abbattuto
in un sonno cupo d’angoscia;
e dall’altra banda lì presso
l’ucciso guerriero sul letto,
levato ancor la gran coscia
nel violento sussulto;
e carca del crimine occulto
e ancor bagnata dal seme
del maschio la femmina in atto
di ricuoprire il mozzo
capo, sanguinante nel piatto
con tal pondo di alto valore
che l’ancella èrane curva.
E, come il mio sguardo sgomento
salì a cercare la coppia
degli eroi pùberi, scorsi
che l’effigie dell’uno
era distrutta dal Tempo
irreparabile e l’altro
bello era e triste di bellezza
e di tristezza gorgónee
quasi nato fosse del sangue
di Medusa anguicrinita
per un destino funesto.
Ma tutte quelle errònee
forze tra la Morte e la Vita
penanti per entro quel turbo,
tutte parean cieche al confronto
del gesto con cui quell’eroe
pensoso reggeva la zona
a sostener la medaglia
di conio titanico, pronto
per conquistar la corona
a scagliarsi nella battaglia.
E io gli dissi: «Fra tutti
i tuoi fratelli sei solo,
sei senza il compagno a riscontro,
o figlio di Medusa
che forse porti per sempre
nel centro dell’anima chiusa
come in un’ègida ardente
il fatale vólto materno.
E, se pure discerno
l’ombra del tuo pari, ell’è infusa
di leteo làtice e oblìa
le sue fiere speranze
che avean già rostro ed artiglio
come aquilette bienni.
Ond’io, che divenni
solo come te presso un’ombra
ferale, vorrei ne’ giorni
e nell’opre averti compagno;
ché troppo è talor cosa dura
non poter la man fida porre
su l’òmero dell’eguale».
E così parlò la paura
della solitudine in me
per la mia fiacchezza. L’eroe
fisso era in ben altra rancura.
«Sii solo» rispose egli a me
«sii solo della tua specie,
e nel tuo cammino sii solo,
sii solo nell’ultima altura.
Il cuore è il compagno più forte.
Tre volte i guerrieri son pari:
liberi davanti al dolore,
liberi davanti al periglio,
liberi davanti alla morte.
E ciascuno è pronto a sé stesso,
ciascuno a sé stesso è fedele:
un arco che ama il suo dardo,
un dardo che brama il suo segno,
un segno che è sempre lontano.
E la libertà è lo squillo
d’oro, il clangore che incendia
il cielo antelucano.»
«Ben so, ben so questo che insegni»,
io dissi. «Udii già tal sentenza
fendermi come spada
gli orecchi, nel vento del mare;
e il cuor mi balzava nel petto
come ai Coribanti dell’Ida
per una virtù furibonda
e il fegato acerrimo ardeva.
Ma oggi il cuore m’aggreva
fattura di Circe omicida,
di Circe dalle molt’erbe
che inganna con voce soave.
Battermi tentò con la verga
ella e spogliato dell’armi
nel solido stabbio serrarmi.
Tu l’erba salùbre mi dài,
ed eccomi sano alla lotta.»
Rividi la concava nave
nelle acque di Leucade, il grande
piloto eversore di mura
tenére nel pugno la scotta.
E, in verità, fu quella
l’ultima volta che il cuore
mi vacillò di fiacchezza
e d’ebrezza torbida; quello
fu l’ultimo mio smarrimento,
e l’ultimo affanno
della solitudine verso
l’amore; e fu l’ultimo indugio,
e l’insegnamento supremo.
Onde il mio poter, fatto scemo
dalla frode dal dubbio
e dal disgusto, risorse
in plenitudine nova
su l’orlo dei baratri cupi.
Oleastri d’Itaca, rupi
di Delo divina,
cielo della Sistina,
luci della mia conoscenza,
da voi mi venne sentenza
dura per vivere in terra
e voi siete i miei luoghi santi.
Tutte le colpe e i castighi
e le minacce e i vaticinii
si oscurarono allora
ai miei occhi; e la immane
latèbra si fece sonora
di quel peane che udito
avea nell’isola d’Aiace.
E vidi in carne verace
le gioventù sovrumane
(non tale era Achille sul punto
di partirsi da Sciro
e Patroclo Actòride prima
che agli òmeri suoi rivestisse
l’armi funeste?) irraggiare
lo spazio con lo splendore
d’una nudità che, construtta
di ossa di nervi di vene
di muscoli e di tutta
la potenza carnale,
splendeva su l’anima come
spirital bellezza grande.
Tra la luce d’Omero
e l’ombra di Dante
pareano vivere e sognare
in concordia discorde
quei giovini eroi del Pensiero,
fra la certezza e il mistero
librati, fra l’atto presente
e la parola futura.
Ciascuno la sua ossatura
creato avea dall’interno
del suo spirto, artefice ardente
del suo simulacro vitale;
e dal tarso allo sterno,
dal cùbito al ginocchio,
dall’occìpite al tallone,
dalle v’èrtebre alle falangi
la compagine era eloquente
come uno spirto che parli
di sé con un fremito d’ale;
sì che il triste pondo animale
in verbo mutavasi eterno.
Quale fra tutti il migliore?
Poggiato la palma sul dado
marmoreo, l’uno era assorto
in un pensiero sì bello
che volgevagli in suso i capegli
a guisa di diadema
per occupar solo la fronte
e farne a sé luogo di luce.
Inclito come Polluce,
l’altro piegavasi in dietro
gridando, quasi a lanciare
di là da ogni fine raggiunto
un disco di ferro in cui fosse
inciso un decreto del Fato.
In fiera allegrezza, agitato
pareva da pirrica danza
l’altro; e col levar delle braccia
con l’alterno urto dei piedi
con la brevità degli accenti
segnava i ritmi veementi
dell’anima sua predatrice.
E chi, flesso il pòplite, lieve
sedea su la gamba sopposta;
e chi raccolto, in una sosta
dell’ardore, co’ piè giunti,
con la zona sul capo
a guisa di benda, sognava
un suo sogno severo;
e chi reclinavasi altiero
a trar con la destra la zona
che fermata area col calcagno
mentre incoronarsi del lembo
estremo parea con la manca;
e chi, piegato su l’anca,
col capo riverso nel triplo
avvolgimento d’un drappo
fremebondo, avea la sembianza
del vento Vulturno;
e chi, quasi genio notturno,
nascosto le mani profuse
di soporiferi semi,
tenera le pàlpebre chiuse.
Ed altri guatava diritto
all’ombra del braccio levato
in atto d’opporre difesa
a erculeo colpo di clava;
altri dall’alto guatava
obliquo con crude pupille
come avverso ricca rapina,
contratto i muscoli al balzo,
quasi leopardo che sia
per frangere tergo di toro.
E tutto pareva sonoro
dell’alto peane lo spazio,
però che in ogni atto dei corpi
si rivelasse una fiamma
di volontà e d’ardire
qual sola proruppe, toccando
a sommo dell’etra gli dèi,
dalle battaglie sacre
ch’eran primavere cruente
d’un popolo nato a fiorire
il fiore de’ suoi Propilèi.
Ma qual fra gli eroi fu l’eletto
della tua speranza, o rinata
anima mia? Qual più ti piacque?
Qual tu volesti assemprare
nel vittorioso avvenire?
Quello che ti parve fra tutti
il più libero, cinto
di libertà come d’un serto
diàfano, per aver vinto.
Quello che ti parve fra tutti
il più sereno, sospeso
in serenità d’oro, certo
qual dio, per avere compreso.
Instrutto ma non leso
dalla vita, bello e gagliardo,
poggiato il cùbito destro
sul festone silvestro
e sul ginocchio la mano,
ei guarda con limpido sguardo
il compagno oppresso dal peso,
il forte che ancor non s’affranca.
Sotto di lui sta, quasi mole
di granito e d’umo fecondo,
con le gambe conserte
assiso il titanico veglio
che sembra l’antico parente
di quella forza novella.
Quali comprime parole
nella vasta mascella
barbata il veglio con essa
la sua mano venata
di duro aratore che seppe
entrar profondo col dente
nel grembo d’una terra inerte
e strapparle sacra promessa
d’abondanza per la sua prole?
E le due donne sole,
che stannogli quivi alle spalle,
perché sono tristi? Rimpianto
le tiene dell’esule prole
che nudrirono alternamente
nella cuna della sua valle?
Io vidi in quel veglio lo spirto
del mio suolo natale,
il generator venerando
della mia sostanza più forte,
il testimone solenne
della mia fatica vitale,
il giudice e il custode
futuro della mia morte.
«Uomo» dissi a me «la melode
che ti pregò buona la sorte
nella cuna di rovere
tu non obliare giammai;
ché in ella è un indomito nerbo.
Forse su quelle povere
note un giorno tu comporrai
l’inno tuo più superbo;
quando, sopra il vinto dolore
assiso come il sereno
eroe che nell’alto contempli,
cantar tu potrai dal tuo pieno
petto i tuoi dii ne’ tuoi templi.»
XVIII.
Or giunto è quel giorno per l’uomo
audace e paziente,
che vinse il dolore e il disgusto
e la stanchezza e sé stesso.
E’ giunto il giorno promesso.
O solstizio d’estate!
La man ritrovò, come nido
nel cavo del tronco vetusto,
le ricchezze della sua gente;
e come le uova lasciate
si raccolgono, ella raccolse
il retaggio della sua gente;
e non s’udì muovere ala
né pigolare nel nido
ma tutto era luce calore
odor di glebe odor d’erbe
fragranza di miele selvaggio
e fremito di biade
già fulvide nella pianura.
O solstizio d’estate,
annunzio della mietitura!
Per vincere il dolore,
io lo cercai dovunque,
senza tregua; e spezzato
me l’ebbi a frusto a frusto.
Per vincere il disgusto,
respirai l’aria infetta,
il fetore del fiato
plebeo, l’afa della carogna,
il lezzo della fogna,
la peste della cloaca,
il rutto della mala ebrezza.
Per vincere la stanchezza,
volli cose più pesanti
da portare in sentieri
più difficili e costrinsi
le mie pàlpebre e i miei pensieri
a più lunga vigilia.
Per esser solo a me davanti,
come chi sogna o s’esilia,
camminai nel deserto
delle moltitudini ansanti.
Camminai per entro la folta
materia delle agonie
e delle resurrezioni,
misurandola in silenzio
col battito del mio sangue
aumentato come nell’estro
furiale dei ditirambi.
Credetti vedere tra lampi
l’aspetto terrestro
di Dionìso effrenato,
la mostruosa faccia
d’un dio pandèmio agitato
da una innumerevole danza
per un rito impuro e cruento.
Sentii tornare nel vento
l’antico delirio d’Astarte
nel dì d’Adonài germogliante
quando i quadrivii e le piazze
sanguinavan di stupri
sacri e la città era tutta
una prostituta schiumante.
O Strada, adito orrendo
ove apparir deve il dio
Ignoto, ampia sì che con quattro
quadrighe di fronte
vi possa procedere un novo
Trionfo latino,
angusta tòrtile e sozza
come budello bovino,
ardente qual fiume di lava,
umida qual catacomba,
frequente qual molo d’approdo,
deserta qual vacua tomba,
piena di silenzii e di gridi,
tetra e folle, funebre e vana,
non mai così bella io ti vidi
come allor che udendo la voce
della rivolta lontana
guardai fiso il tuo sbocco
irto di baionette,
l’occlusa tua tragica foce
all’émpito delle vendette.
Io ho portati i tuoi furori,
caricato mi sono
delle tue doglie, ingombrato
dei tuoi lutti e dei tuoi misfatti.
Intera nel cor tu mi fosti
con le moltitudini cieche
con l’enormità dei cl’amori
con la veemenza degli atti.
Lo spirito del tumulto
passava sferzando la faccia
come la raffica pregna
di fortore salino.
Occhi bianchi in teste riverse
e dentature mordaci
brillavano come le schiume
nascenti del maricino.
Un che d’aspro, un che di ferino
e di primaverile
e di volubile era nell’aria.
D’acuto lucea riso ostile
l’ilarità sanguinaria.
Con òmero pugno e ginocchio
innanzi spignea la carcassa
della sua fame allegra,
più forte, sempre più forte,
come la ciurma che vara
la barca giù per la sabbia
del lido e spignendo la negra
carena dà grido concorde.
Dalie gole rauche un selvaggio
canto rompea tra i palagi
senZa echi, e le ingiurie
gli eran compagnia di strumenti
con sibilo di rotte corde,
gli eran segnal di ripresa
il precipitar dei cristalli
argentino al colpo del sasso,
il rimbombar dei battenti
urtati su le chiuse porte;
e il canto avea fatto lega
col sepolcro, avea fatto patto
di fèlicità con la morte.
E io vidi allor sul crocicchio
l’edificator di bordelli,
figliuolo di non marzia lupa,
satollo di vituperio,
che s’era estrutto alto luogo
quivi a tener sue concioni;
vidi il gran demagogo,
nomato con nomi di gloria
Prevaricator sin dal ventre
e Sacco di saggezza
escrementizia e Frogia
mocciosa della vacca Onta,
sedare il clamore col gesto
per iscagliar suo verbo
contro a chiunque s’inalzi
e contro a tutti gli alti monti
e contro a tutti i colli ingenti
e contro a ogni torre eccelsa
e contro a ogni muro forte
e contro a tutti i bei disegni
e contro a tutti i buoni odori.
Ed errava nelle parole
come l’ubriaco di notte
va nel suo vomito errando.
In luogo di buoni odori
vi sarà la sanie concreta,
e in luogo di bella cintura
cordella di sparto,
e vittuaglia spartita
in luogo di vana bellezza.
E una ventrosa menzogna
sarà posta in luogo di queste
vesciche che abbiamo fendute,
per nostro ricetto.
E tu, sterile Plebe
che non partorivi,
concepirai pula
e partorirai loppa.
E i cieli si ripiegheranno
come non più letto volume
su la terra beata
di fecondità strapossente.
O quanto era bello
su la bigoncia il torace
del bertone, angelo di bene
e messagger di salute,
che dicea: «La Canaglia
succede all’Uomo per sempre
e in pace amministra le grasce!».
O quanto era bella
intorno all’imperatoria
pinguedine del suo collo
stillante incliti sudori
la porpora della corvatta!
Egli era la sanie coatta
in forma di vafro macaco
nascosto nei panni il verdiccio
pelo e le chiappe callute.
E le vociatrici boccute
l’adoravano. Dal capo
alle piante con gli avidi occhi
elle parean tutto succiarlo
quasi ei fosse tutto priàpo.
Ma, quando l’umano
ingombro riprese il cammino
verso la muraglia equestre
irta di lame e di lance
che laggiù l’attendea,
(la pioggia recente avea sparso
per le vie l’odore terrestre,
calando il sole accecato
tra nuvole e cupole d’atro
piombo gonfio ed immoto)
un che di sacro e d’ignoto
sorse da quell’immenso
miserabile corpo
in balìa del delirio
vespertino, le cui mille
e mille facce divampate
parean da una fumida gloria.
E pietà mi prese di lui
che camminava ignaro
nell’eterna sua debolezza
come nella vittoria.
Uomini fetidi e robusti,
altri smorti e scarni
e curvi, combusti
dal calore dei forni
e delle caldaie infernali,
inverditi dai sali
del rame, inazzurrati
dall’indaco, arrossati
dalle conce delle pelli,
inviscati dai grumi
e dai carnicci dei macelli,
corrosi dagli acidi, morsi
dal fosforo, fatti ciechi
dalle polveri e dai fumi,
fatti sordi dai fischi
del vapore dilaceranti
o dai tuoni iterati
dei martelli giganti,
dai fragori e dagli stridori
di tutto il ferro attrito,
venian del lavoro fornito.
Foschi di carboni,
bianchi di farine,
con lorde le mani
d’argille o d’inchiostri
di sevi o di nitri,
con pregne le vesti
di tabacchi o di droghe
di farmachi o di tòschi,
venian delle fucine,
venian degli opificii,
venian delle fabbriche in opra,
dei fondachi, delle fornaci,
di tutti i supplicii e i servaggi,
con su i vólti selvaggi
impresse le impronte tenaci
della materia bruta
cui li asserviva il travaglio.
Ed ecco era divenuta
la lor pena diversa
una sola rabbia, conversa
a sollevare un sol maglio.
E la volontà di morte
cessò dal grido e dal canto:
subitamente si fece
taciturna e compatta
dinanzi alla muraglia
equestre che l’attendea.
S’udiva tintinnire
l’acciaro nella bocca
degli inquieti cavalli,
ansar nei petti inermi
s’udiva la forza plebea.
Gli squilli, gli urli, il galoppo,
il turbine duro che passa,
la vendemmia sotto l’ugne
ferrate, le carni calpeste,
i cranii fenduti, i cervelli
sgorganti, l’orror consueto
della rivolta disfatta
e rotta su le pietre grige;
ma tra il sangue un’ala ch’è intatta,
una fiamma che vige l’idea.
Quale? L’antica, l’eterna,
ch’ebbe nei crepuscoli fulvi
dei secoli tante ecatombi
di ribelli invano rinati
dal carnaio delle lor fosse.
Quella che disse: «Vesti i lombi
degli schiavi, o sacra Giustizia,
perché i prigioni del prode
sien tolti e le prede
del possente sieno riscosse».
Nel crepuscolo fulvo
nasceva il delirio. La cieca
demenza guidò la cresciuta
miriade non più inerme
agli abbattimenti e agli incendii,
sott’esso il chiarore sublime
che ferìa le pile dei ponti,
gli archi di trionfo, le fronti
dei templi su le colonne
superstiti, gli anfiteatri
titanii, l’erculee terme.
Le fauci belluine
della Folla s’erano aperte
dismisuratamente
per divorar la possa
della Città trionfale,
della tirannica madre
con tutte le sue opulenze
ed abominazioni.
Come il fiume contra i piloni
di granito, fra la distretta
degli argini, sotto la bassa
nuvola melmoso, la massa
carnale rigurgitava
schiumava in capo d’ogni strada,
e alla libidine atroce
ogni strada era suburra.
Valanghe d’ombra azzurra
si precipitavan dal cielo,
ché l’ombra parea più veloce
nel vespero violento.
Le torce ruggirono al vento.
E da presso e da lungi
io udiva il clamore,
io udiva gli ululi e i lagni
orribili della gran doglia
nella Città millenaria.
E il clamore era come
di femmina partoriente
che si torca in spasimo grande
e morda la verde sua bava
e dia del capo e dei pugni
nelle mura e invochi soccorso
alla doglia sua, vanamente,
negli orrori suoi solitaria.
E dissi: «Ah quanto ti torci,
misera, e quanta fai bava
di vituperii e d’ire
nelle tue mascelle di ferro!
Ma dato non t’è partorire
se non l’aborto cionco e monco,
l’ac’èfalo mostro che ha il tronco
di ciuco e la coda di verro.
Ah chi almeno un giorno
saprà sollevar la tua fronte
chiomata di crin leonino
verso la bellezza
d’una vita semplice e grande?
Chi ti trarrà dalle lande
della morte verso il bel monte
delle sorgenti ove il destino
delle stirpi s’immerge
e si rinnovella? Un eroe
forse ti verrà che ferrare
saprà de’ suoi duri pensieri
la rapidità de’ tuoi atti,
come s’inchiodano i ferri
all’ugne degli acri corsieri,
di là dagli antichi riscatti».
Afflitto io non dissi a me stesso:
«I giorni saran prolungati
e ogni visione è perita».
Ma sì bene: «I giorni e la fiamma
d’ogni libertà son da presso».
E dal giorno di poi
l’ora santa d’Eleusi
fu pallida nella memoria
dinanzi all’ora del pane.
La spica mietuta in silenzio
nella mistica ombra mi parve
men pura che il pane addentato
dall’avidità della fame.
O mattino di primavera
su la via lavata dall’acqua
del cielo! Garrire e brillare
di rondini nell’umidore
argentino! Odor dell’eterno
frumento, dell’aurea crosta
rotonda, della mollica
soffice occhiuta e leggera!
Selvaggio sguardo materno
verso il divino alimento!
Strida del pargolo fioche
per l’aderir della lingua
al palato nell’alidore!
Le turbe assalivano i forni
con l’avidità della fame.
Abbattevan le porte,
abbrancavano il pane
ancor caldo gonfio cricchiante.
Traevan sul lastrico i sacchi
della bianca farina,
del biondo cruschello; e le donne
se n’empievano il grembo
prendendone col cavo
delle palme fatto capace
dalla bramosia come staio.
E subitamente un gaio
fervore invase le turbe.
E gli uomini forti, i fanciulli,
le madri, le vergini, i vecchi,
tutti ridean con umidi occhi;
e tutti i denti parean puri
nelle bocche affamate
che masticavano il dono
della Terra nato nei solchi.
E un sapor religioso
era certo in quel pane
che tal sacra ebrezza recava,
come nel primissimo pane
che intriso fu, cotto e mangiato
dal colono poi che Demetra
di cerulo peplo gli diede
l’ammaestramento immortale.
E io dissi: «L’uomo è l’eguale
dell’uomo dinanzi alla spica
mietuta in silenzio o con canti.
E questa è la sola eguaglianza,
questo il gran diritto terrestre
che inscritto sta nella zolla».
E parvemi, sopra la folla
sazia di pane recente
carica di pura farina,
intraveder la divina
benignità sorridente
della Dea che è cittadina
per la sua corona murale.
E un’altra ora fu larga
alla mia speranza; e fu l’ora
notturna della mia Musa
quando apparve in veste sanguigna
alla moltitudine chiusa
nell’anfiteatro profondo
che fremea di fremito immane.
Quivi rotto fu l’altro pane:
fu dato all’unanime cuore
il bene che supera tutti,
il cibo più dolce dei frutti
nati di radice terrena,
il rapido oblìo della pena
assidua e del duro bisogno,
il nepente del sogno
che svela nel lume d’un astro
novello il prodigio del mondo:
quando il buono Eroe biondo,
che tenne la spada e il timone
l’ascia la marra e il vincastro,
rivisse nell’alta canzone.
Anima mia, tu provasti
l’avversità d’ogni vento
e d’ogni vento la gioia,
tutte le figure segrete
conoscesti tu dell’abisso
marino da poppa e da prora.
Ma quale dei soffii più vasti
ti sollevò come quello
spirante dal vólto in te fisso?
e quale figura d’abisso
ti parve misteriosa
come quella che ti guatava
e parea farsi cava
alla voce tua ripercossa?
Entrar sentimmo una possa
ignota in noi, crescere un’ala
terribile al nostro ardimento,
un’ansia d’interno titano
sforzare l’angustia nostra,
distruggere l’impedimento
della corporea chiostra.
E la materia sacra
della stirpe, l’imperitura
sostanza progenitrice
dei sangui, l’originaria
virtù della gente era innanzi
a noi affocata
come il masso del ferro
che posto sarà su l’incude.
E noi con le man nude
l’afferrammo delirando
come chi è pieno del dio
e travede nel fuoco informe
l’imagine che trarre
ei deve alla vista di tutti.
L’afferrammo e, instrutti
dal dio, la foggiammo rovente,
e traemmo il gran simulacro
dell’Eroe disparito.
E tu vedesti dal sacro
tuo fuoco, o italica gente,
nascere il novello tuo mito.
Bellezza dei miti novelli
non anche nata! Divine
trasfigurazioni
delle forze operanti
nella profondità segreta
della stirpe dominatrice!
Fiammei fiori della radice
innumerevole che abbraccia
la sua terra con fibre
inespugnabili! Supreme
testimonianze d’un sangue
animoso! Gli olivi
che fioriscono a specchio
del Mediterraneo Mare
ancor vedranno fumare
i roghi accesi ai numi
indìgeti e udranno il peana,
quando restituita
su l’acque sarà la più grande
cosa che mai videro gli occhi
del Sole: la Pace Romana.
XIX.
Certo, una inattesa bellezza
balenar talora mi parve
nella chimerosa figura
del popolo unanime intenta;
e l’ingluvie sua flatulenta
e il vociar suo forsennato
e l’enormità del suo dosso,
la caudale giuntura
delle sue mille e mille
vertebre che traversa, come
fólgore, l’insano sussulto;
e il Pànico, l’occulto
suo dio che gli schiaccia la coglia;
e la sua furia e la sua doglia
e la sua miseria infinita,
tra le inesorabili mura,
mi diedero fremiti avversi.
E talor discopersi
in alcun vólto infoscato
dalla filiggine o adusto
l’armonia del bronzo vetusto.
Ma, dopo, il Deserto di sabbia
inospite fu la mia gioia
sublime, fu il mio rapimento.
E tedio mi prese del verde
albero, e il solco del novo
grano mi fu a noia
per la memoria dell’uomo;
e ogni vestigio di piede
umano mi parve lordura.
E l’immensa aridità pura
del Deserto senza vie
e senza òasi, il suo fiore
ineffabile che illude
la sete nudrito di brace,
le sue mammelle nude
e sterili che fanno
di bassura in bassura
ombre d’inganno, il muto
tremar del suo vento focace
quasi battito di febbre,
furono il mio rapimento.
E la luce m’entrò pei pori
della pelle, m’impregnò d’oro
le vene le ossa e le midolle,
mi fece il cuore lucente
come il quarzo e lo schisto.
E ogni umor tristo
fu inaridito, riarsa
ogni sovrabbondanza molle,
ogni pesantezza alleggiata,
ogni ingombro distrutto.
E nel mio corpo asciutto
la felicità del mio spirto
fu più agile che fiamma
appresa ad arbusto di mirto.
E tutti i miei pensieri
furon come corde di cetra
aridi; e le volontà belle
sonarono in me constrette
come le aguzze asticelle
dei dardi a quattro alette
suonano nella faretra.
E la mia coscia nervosa
aderì così forte
al fianco del mio caval sauro
ch’io divenni il mostro biforme,
lo snello centauro
d’ugne senza ferro,
di levità senza orme.
E ne’ miei occhi umani
sentii la bellezza dei grandi
ardenti umidi occhi inumani
del corsiere d’Arabia
che parea sangue di pardo.
Ed ebbi così nel mio sguardo
l’inconsapevolezza
della purità bestiale,
in me ebbi tutto il Deserto.
E, scendendo in corsa le dune
verso la bassura fallace
d’aereo incantamento,
correre credetti alla Nube
materna vestito di vento.
Delirio dei profeti
saziàti di locuste
e beveràti con l’acqua
lotosa dell’otre sozzo,
visione di dolore
e d’orrore innanzi alla Morte,
il mio delirio fu più forte,
la mia visione più bella.
Dov’era il dio di procella
che seccò il mare, le acque
del grande abisso? che ridusse
le profondità del mare
in un cammino di fuoco
per i dromedarii di Efa
e per i cammelli di Seba
carichi del suo incenso?
Quivi, nel fuoco immenso,
non era alcun che gridasse
per la giustizia né alcuno
che per la verità facesse
lite e contesa e digiuno.
Fin l’ossa dei dromedarii
su la sabbia eran più monde
di tal giustizia e più pure
di tal verità, sotto il Sole.
E non v’eran parole
se non quelle del vento
incorruttibile, che è il Messo
della Libertà per i prodi
e per i solitarii, quivi.
E il vento dicea: «Tu che vivi,
guarda il mio palpito incessante
d’amore su i corpi che foggio!
Il Mar glauco, il Deserto roggio
io li travaglio d’amore
indefesso e li trasfiguro
in bellezza infinita
che una pare e sempre disvaria.
O Vita! Non odi nell’aria
clangor delle mie mille trombe?
Or ora laggiù seppellita
ho la Sfinge presso le tombe».
Seppellita ho anch’io la mia Sfinge
co’ suoi enigmi nodosi,
e seppelliti anco gli avelli
con la lor putredine inclusa.
Risa di fanciulli, effusa
gioia puerile, croscianti
risa d’innocenza selvaggia
furono l’inno funerale
alla covatrice di tombe,
risa volubili come
avvolgimenti d’aura, roche
di troppa allegrezza talora
come i canti delle colombe,
come i murmuri dei ruscelli.
Volontà, Vittoria senz’ale
in me ferma sempre! Nudrita
di rai, Voluttà, calda e ascosa
come sotto il pampino l’uva!
Orgoglio, uccisor dispietato!
Istinto, fratello del Fato,
dio certo nel tempio carnale!
Volontà, Voluttà,
Orgoglio, Istinto, quadriga
imperiale mi foste,
quattro falerati corsieri,
prima di trasfigurarvi
in deità operose
come le Stagioni, che fanno
le danze lor circolari
e compagne son delle Grazie
e delle Parche in ricondurre
Prosérpina ai giorni sereni:
quadriga che con freni
difficili resse l’auriga,
con rèdini tese nei pugni
ove serpeggiava la fiamma
del sangue sagliente pei fermi
cùbiti ai bicìpiti duri:
quadriga negli Atti più puri
coniata come l’antica
nel rovescio del tetradramma,
segno di potenza ai futuri.
Con quanto ardimento
trapassammo i termini d’ogni
saggezza e corremmo su l’orlo
dei precipizii, l’ungh’essi
gli alti argini delle fiumane
vorticose, in vista
del duplice abisso
pel crinale aguzzo dei monti
ove la vertigine afferra
subitamente colui
che crede al pericolo, e senza
scampo lo sbatte sul sasso,
gli spezza la nuca e la schiena!
O ebrietà d’ogni vena,
occhio gelido e chiaro
nella faccia ardente!
A levante, a ponente,
per ovunque guardai
quell’adamàntina cima
del rischio, e sempre mi chiesi:
«Ove debbo ancóra salire?».
Ma il meridiano delirio
nel Deserto l’oblìo
d’ogni cima più perigliosa
mi diede e d’ogni demenza
più lucida e d’ogni divieto
abbattuto. E l’alta quadriga
e lo sforzo dei freni
e la chiara audacia e la lunga
esperienza dei mali
e la gioia immite del rischio,
tutta l’opra d’odio e d’amore
dietro di me sparve, fu come
sabbia ventosa, fu nulla.
E l’anima mia dalla culla
dell’eternità parve alzata
in quell’ora, con l’innocenza
dell’elemento, nova
e pur compiuta da un’arte
più fiera che qualsìa nostr’arte.
E corsero a lei d’ogni parte
moltitudini di bellezze.
Ed ella taceva, profonda
del suo più profondo silenzio.
Ma parole erano dette
in lei, alla gran luce
del mezzodì, chiare parole
che non pur nel già fatto
vespero furon mormorate
mai dal timor delle labbra
né mai nel mistero notturno.
E il suo coraggio taciturno
le suggeva cupidamente
come il fanciullo vorace
che sugge gli acini gonfii
di miel solare e inghiotte
la pelle che il sol fece d’oro
e trita i fiòcini e il raspo,
ché tutto gli piace.
E quel ch’è angoscia spavento
miseria tra gli uomini, quello
le si trasmutò pel Deserto
in felicità senza nome.
Felicità, non ti cercai;
ché soltanto cercai me stesso,
me stesso e la terra lontana.
Ma nell’ora meridiana
tu venisti a me d’improvviso,
coi piedi scalzi e col viso
velato d’un velo tessuto
di quei fili che talora
brillano impalpabili all’aere
opere d’aeree fusa.
Ed ecco tu torni! E la Musa
t’ode mentre tu t’avvicini,
se bene i tuoi piedi
sien più delicati
del guaime che nasce
nei prati dopo la falce,
più tenui delle prime
foglie che spuntan nel salce,
e più lievi sieno i tuoi passi
che scorrer di talpa sotterra
o di lucertola in sassi.
Tu torni e tu tornerai,
come l’aura intermessa
che manca perché va più lungi,
forse sopra un letto di musco,
forse in una tremula stanza
di capelvenere, forse
dietro una cortina rosata
di madreselva, a vestirsi
di freschezza novella
da recare a colui che l’ama.
Il mio cor non ti chiama
né ti attende. Tu repentina
entri e mi guardi con occhi
negri d’un negrore velluto
come quel degli occhi onde occhiuto
è il fior della fava nel mese
di marzo tra pioggia e chiarìa.
E tu m’assempri l’iddia
parrasia, Carmenta dai lunghi
riccioli, che portava
ghirlande di foglie di fava.
Tu sei visibile, tu hai
la specie divina e selvaggia,
il primo odore del campo
di marzo, i denti di brina.
Ti guardo; e la prima peluria
della mandorla nova
è men dolce della tua guancia.
Ti guardo; e le tue dita chiuse
son come lo spicanardo
che chiuso è in mazzi pei forzieri
colmi di nivei lenzuoli;
e i petali dei giaggiuoli
nel piegarsi non han la grazia
de’ tuoi capelli che piega
su le tue tempie il favonio;
e come il nido alcionio
che palpita a fiore del sale
col palpito lento e infinito
di tutto il mare placato,
e il tuo sen verginale
mosso dal profondo tuo fiato.
Di cose fugaci e segrete
sei fatta, di silenzii
e di murmuri, lieve
come i frutti piumosi
della viorna, come
le lane del cardo argentino,
o Felicità del cor prode.
Ed ecco tu torni a me! T’ode
la Musa; e il suo vólto divino
nel volgersi ti rassomiglia,
se non che tra le ciglia
sembra ell’abbia il fiore del lino
ma in vero è il colore marino
che rimasto è per sempre
nel suo sguardo amico dei flutti.
Che ci porti? Quali bei frutti
di paradiso insulare
per invogliarci a largare
novamente le vele
umide ancor di tempesta?
Che ascondi nella tua vesta?
Noi abbiamo un canto novello
perché tu l’oda, questo grande
Inno che edificar ci piacque
a simiglianza d’un tempio
quadrato cui demmo per ogni
lato cento argute colonne
tutto aperto ai v’ènti salmastri.
Ai raggi del sole e degli astri
notturni l’artefice insonne
operò con puro fervore,
quasi fosse questa l’estrema
opera di sé morituro,
il monumento al suo spirto
liberato e liberatore.
Ei le materie sonore
con ìmpari numero, oscuro
e inimitabile, vinse.
Le sette Pleiadi ardenti
e le tre Càriti leni,
le stelle dell’Orsa e le Parche,
in rapido giro costrinse.
Tre volte sette: la strofe
qual triplicata sampogna
di canne ineguali risuona
con l’arte di Pan meriggiante.
Io tagliai le canne l’ungh’essi
i fiumi, sovr’esse le fonti
frigide, nel loto febbroso
delle paludi, sul ciglio
dei botri, nelle ruine
delle città venerande.
Per giugnerle insieme, la cera
separai dal nettare flavo
con la mia bocca ingorda
ma non sì che non rimanesse
nella masticata sostanza
l’odor del cefisio narcisso.
Trassi il refe da una sagena
logora per lungo esplorare
i fondi pescosi, ancor lorda
di scaglie, pregna di salso,
esperta del tacito abisso.
Il Dèmone dai mille nomi,
il vagabondo Orgiaste,
il Dio circolare, il Maestro
delle visioni, l’Amico
dei suoni, Colui che conduce
la melodìa del Tutto,
m’insegnò quest’arte nascosta.
Ebbi acuto l’orecchio
al rombo del ponto remoto,
allo sciame lene strepente,
al vado pulsare del sangue,
ai movimenti segreti
dell’anima vigile, a ogni
dimanda, a ogni risposta.
Il suono si fece acque foglie
glebe rupi nuvole marmi,
scroscio di doglienza, sorriso
di pace, grido di brama,
combattimento ordinato,
danza revoluta, solenne
coro, sicìnnide incomposta.
Ah, che mai sanno gli schiavi
faticosi intenti a mestare
con lor mestole ed assi
ne’ vecchi truoghi di pietra
consunta lor polte ed imbratti,
come i ciechi servi di Scizia
posti in buon ordine ai vasi
della mungitura, or che sanno
eglino della potenza
e dello splendore dei suoni?
O parole, mitica forza
della stirpe fertile in opre
e acerrima in armi, per entro
alle fortune degli evi
fermata in sillabe eterne;
parole, corrotte da labbra
pestilenti d’ulceri tetre,
ammollite dalla balbuzie
senile, o italici segni,
rivendicarvi io seppi
nella vostra vergine gloria!
Io vi trassi con mano
casta e robusta dal gorgo
della prima origine, fresche
come le corolle del mare
contràttili che il novo lume
indicibilmente colora.
Io vi disposi nei modi
dell’arte così che la vita
vostra rivelò le segrete
radici, le innùmere fibre
che legano tutta la stirpe
alla Natura sonora.
Io feci apparire tra l’una
e l’altra sillaba i mille
vólti del Passato tremendi
come sembianze di morti
che un’anima sùbita inondi.
Io dal vostro cozzo faville
sprigionai, baleni d’amore
che illuminarono l’ombra
del Futuro pregna di mondi.
Splendete e sonate, o parole,
in questo Inno che è il vasto
preludio del mio novo canto.
Converse io v’ho novamente
in sostanza umana, in viva
polpa, in carne della mia carne,
in vene di sangue e di pianto.
Splendete come l’aurora
su l’alpe nutrice di fiumi,
onde scese al suo messaggero
Euretria la Decima Musa.
Risonate come le trombe
del vento che avea seppellito
laggiù nelle sabbie di fuoco
l’ancìpite Sfinge camusa.
Ma, prima che l’ora sia chiusa,
io voglio al Maestro sublime
alzare il saluto figliale;
poi, colcato sopra la terra
munifica, gli ultimi vóti
volgere alla Madre immortale.
XX.
Enotrio, in memoria dell’ora
santa che versò d’improvviso
il fuoco pugnace de’ tuoi
spirti su la mia puerizia
imbelle, alle tue prime cune
io peregrinai santamente.
E purificai le mie mani
nelle acque alpestri che, irose
contra macigni superbi
più che marmi di simulacri,
schiumeggiano presso la casa
umile dove nascesti,
sorelle della corrente
Strophia dinanzi la porta
del re d’inni Pindaro in Tebe.
Duro è il Teumesso, e il suo sprone
è come ginocchio proteso
d’oplìte in resistere all’urto.
Ma il tuo Monte Gàbberi è duro
più del Teumesso, o mio padre;
è come un elmetto d’eroe.
Ha forma d’aulòpide, cara
a Pallade e a Pericle, il monte,
con la visiera e il nasale.
E l’aspra virtude apuana
sembra guatar per i fóri
le navi sul mar di Liguria
e noverare le forze
dell’arsenà che travaglia
il patrio ferro dell’Elba
dietro il promontorio l’unense.
Certo nell’infanzia selvaggia
ei t’apprese il crudo cipiglio
onde tu guatasti i Bonturi
e i Fucci e i ladruncoli immondi
e l’altra genìa per le terre
che il vicin tuo grande esulato
stampò di suoi fiammei vestigi.
Ma l’alpe di Mommio ha una vesta
di glauco pallore, e la Culla
sta con Montéggioli bianca
sopra un dolce golfo d’ulivi.
Sicché nel cor mi sovvenne
della sacra Fòcide, e il Plisto
nel lapidoso Motrone
riveder mi parve, e spirare
sentii per le alture e le valli
il soffio dell’Ellade, il nume
di Pan nei vocali canneti
presente, che ancóra conduce
pe’ tempi il Ritorno eternale.
Sostai nella selva palladia
attonito, e il ciel tra le frondi
era come il vergine sguardo
dell’occhic’èrula Atena.
E quivi sedetti su l’erba
a meditare, o Maestro,
il fato del tuo nascimento.
E tu eri meco placato
nella tua divina vecchiezza;
e la santità degli ulivi
ti coronava d’immensa
corona la fronte sublime:
E io dissi: «Padre, il tuo grande
aspetto è come la terra
natale, tra l’Alpe di Luni
ove il Buonarroto ancor rugge
e il Tirreno Mar navigato
dalle prue dei Mille in eterno.
Prometèa materia è quest’alpe,
insonne altitudine alata,
carne delle statue chiare,
forza delle colonne, gloria
dei templi, inno senza favella,
sculta rupe che s’infutura.
L’aquila batte le penne
sul vertice aguzzo, il torrente
precipita al piè con fragore.
Da tutte le vene profonde
una volontà di bellezza
eroica s’agita e soffre
per sorgere in luce di forme.
O padre, qui son le tue cune
che Michelangelo seppe.
Degna è quest’alpe che gli occhi
tuoi di fanciul torvo guardata
l’abbiano quando la dolce
tua madre era ignara del tanto
peso ch’ella avea sostenuto
e non ascoltava il torrente
sonoro annunciar le tue sorti,
onde l’umil casa ancor trema.
Degna è che tu la contempli
nella tua sera solenne,
o eroe che tanto pugnasti
e tanta sementa spargesti
nei campi di guerra fenduti
dall’unco tuo vomere fatto
con l’acciaio delle me scuri.
Se un luogo v’è dove tu possa
grandemente spandere il fiato
del tuo coraggio ancor caldo
dalla titanica impresa,
ben questo è, che un dio formò quando
tutti gli iddii erano ellèni.
Qui forse tagliasti la prima
canna pel sufolo vano
e v’apristi i sette suoi fóri,
tu che sai perché Pan facesse
obliqui i calami eterni
e diritti Pallade Atena.
Or, se tu spiri il tuo vasto
soffio nella bùccina forte
che tra l’ignavia dei servi
chiamò i guerrieri festanti
alla suprema tua giostra,
da tutti gli echi dei monti
che il castigatore grifagno
vide fiammeggiare nel cielo
dell’ire sue conflagrato
vermigli come se di foco
usciti fossero e fece
d’essi le meschite infernali
da tutti gli echi dei monti
sola ti sarà ripercossa
voce di vittoria e di gloria».
Questo dal cor m’ebbi fervore
nel puro silenzio dell’alpe.
E dal ferreo Gàbberi al Ronco
roseo di grecchia, dai boschi
di Mommio argentei di pace
ai rugginosi gironi
della Ceràgiola ardente,
il tuo spirto ovunque diffuso
era nell’etrusca Versilia;
e conveniva con Dante
in Val di Magra, con Guido
a Sarzana, con l’Ariosto
di là dalla Pania su l’aspra
Turrite, più lungi. E per tua
virtude risorsero quivi
gli antichi iddii della patria,
risorsero su le ruine
delle città disparite
i popoli spenti a cantare
le divine origini e i culti
degli avi e la forza dell’armi.
E come Erme, come Vergil’io,
come il vicino tuo grande,
eri mediator fra due mondi.
Enotrio, ora e sempre laudato
sii tu fra gli uomini in terra,
perché veruna dell’alte
opere che tu operasti
eguaglia in altezza il tuo spirto,
presente ovunque un servaggio
si scuota, un’augusta memoria
risorga, una giusta potenza
si vendichi, un sogno lampeggi,
un desìo s’armi e combatta.
Enotrio, ora e sempre laudato
sii tu fra la gente latina,
perché tu superstite regio
del gentil sangue, tu vate
solare contra il nubiloso
barbarico ingombro esaltasti
le marmoree fronti degli Archi
di Trionfo sacre all’Azzurro.
Enotrio, ora e sempre laudato
sii tu fra l’italica gente,
e col lauro gianicolense
col cipresso del Palatino
col gattice d’Arno col salce
lombardo con le viole
liguri con le pestàne
rose con le sicule palme,
con tutte le nobili frondi
e con tutti i fiori soavi
dei campi espèrii ghirlande
di gloria ti sieno tessute
dalla giovinezza robusta,
perché tu solo, mentre in ogni
capo di strada era alzato
letto fornicario o pur banco
di baratto o pur falso altare
ad officii di vituperio,
tu sol ci serbasti nell’ampio
tuo petto il fuoco di Roma
per la terza vita d’Italia.
O padre, verrà quel gran giorno
che ci promise il tuo canto!
Ad ogni alba gli Archi dell’Urbe
sembrano vomire la notte
accidiosa che rempie
i loro vani come le bocche
delle cave maschere inerti
cui sospese il vecchio tragedo
per vóto a Diòniso muto.
Subitamente per entro
i loro vani sembra che parli
la magnificenza del giorno
geniale, con la concisa
forza delle inscritte parole
più fiera su i cuori virili
che getto di bronzo, più acre
che punta di stilo rovente.
E gli Archi, ecco, aspettano i nuovi
trionfi, perché tu cantasti:
«O Italia, o Roma! quel giorno
tonerà il cielo sul Fòro».
Tonerà il cielo sul Fòro
liberato d’ogni congerie
vile, d’ogni cenere e polve,
restituito per sempre
nella maestà de’ suoi segni;
e dal fonte pio di Giuturna
scoppieranno le acque lustrali,
e da ogni luogo arido vene
di acque, e torrenti di vita
nelle solitudini prone
dell’Agro, nell’imperiale
deserto, da tutte le tombe;
e tutte le v’èrtebre fosche
degli acquedotti saranno
Archi di Trionfo per mille
Volontà erette su carri;
e la croce del Galileo
di rosse chiome gittata
sarà nelle oscure favisse
del Campidoglio, e finito
nel mondo il suo regno per sempre.
E quella sua vergine madre,
vestita di cupa doglianza,
solcata di lacrime il vólto,
trafitta il cuore da spade
immote con l’else deserte,
si dissolverà come nube
innanzi alla Dea ritornante
dal florido mare onde nacque
pura come il fiore salino
portata dai zèfiri carchi
di pòlline e di melodìa
là dove l’antico suo figlio
approdò coi fati di Roma
e disse: «Qui è la patria».
Tonerà il cielo sul Fòro.
I grandi Pensieri e le grandi
Opere saran coronati,
deità novelle, nell’Urbe.
Ed anche tu, vate solare,
assunto sarai nel concilio
dei numi indìgeti, o Enotrio.
XXI.
Ecco, il mio carme si chiude.
Si placa l’ebrezza dei suoni,
come la sonora dei flutti
danza innumerabile quando
è senza bava di vento
il mare che lento s’imbianca
e per tutto è placida albàsia.
Ecco, venir veggo pel prato
dell’erba il selvaggio silenzio,
a me venire qual cauto
satiro su piede caprino
con occhi sì chiari che sembra
lùcergli tra i cigli tremore
qual di linfe tra colocasia.
Ei fece pur ieri il suo flauto
secondo la norma del dio
tegèo, ma del pollice soffre
per una scheggetta di canna
che vi s’infisse… Ah, mi manda
Teocrito questo silenzio!
O forse la ninfa parrasia?
E’ il solstizio d’oro su i campi
esperii, è il solstizio d’estate.
Si càstrino i bianchi vitelli.
Si tóndano i greggi lanuti.
Si mietano gli orzi e i legumi.
S’apparecchi l’aia e, conciata
con pula e con morchia, si rasi.
Non più pe’ forami de’ fiari
s’ode rimbombevole coro
ma a pena sottil mormorio,
segno che l’arnie son piene,
colme son di nettare biondo.
Noi le voteremo domani
all’alba, in mondissimi vasi.
Piedi due fa l’ombra dell’uomo
nell’ora sesta. Oh lunghezza
del dì per oprare e oziare!
Fa ventidue nella prima
ora e nell’undecima. Oh grandi
opere tra l’albe e i meriggi,
ozii tra i meriggi e gli occasi!
Natura, mia Madre immortale
che anche tu mi dài vita breve
e immensi disegni mi poni
nel cuore, tu nata la prima,
di te medesima nata,
a tutti comune ma sola
incomunicabile, m’odi.
Io sì grave di sapienza
e di esperienza, di gioia
e di dolore, di amore
e di odio, se in te mi distenda,
ritorno leggero ed ignaro,
mi sento pieghevole e verde
quasi arbusto privo di nodi.
Eccomi su l’erba supino,
col braccio sotto la testa,
col vólto nell’ombra, coi piedi
nel sole. Così mi riposo.
Un sangue infantile m’inonda.
Sento un fresco sonno venire.
Tu proteggi il sonno dei prodi.
Io vidi Zagrèo, che i Titani
co’ vólti coperti d’argilla
entrati nell’antro segreto
sgozzarono e poi crudelmente
dilacerarono, io vidi
su l’erba il rinato Zagrèo
al soglio del bosco dormire.
Non vidi mai sonno più dolce
né più profondo, o Nutrice.
La sua barba d’oro era fatta
d’ali d’uno sciame splendente
che gli pendea dalla bocca
aperta qual d’arnie forame.
In miel converso era il patire!
Così, così dormir voglio
in te che mi dài signoria
a pacificar mia discordia,
o Persuasiva. Ancor novo
eccomi, ancóra immaturo
e pieno d’occulte potenze,
ancóra nel mio divenire.
Ciò che per me fu compiuto,
in verità, lieve cosa
parmi al paragone dell’opra
che dentro mi nasce e si nutre
del misterioso licore.
O mia Madre, in tutte le vene
accresci il mio sangue e l’affina!
E, s’io fossi in crudo supplizio
ed ogni aumento di sangue
mi fosse aumento di pena,
io ti griderei: «Madre, Madre,
moltiplica questo mio sangue
doglioso, perché più mi ferva
l’anima e mi sia più divina!».
Sano mi facesti nel ventre
della incorruttibile donna
che mi portò. Eccomi sano
su l’erba, con muscoli snelli
cuore saldo e fronte capace.
Più ragione v’è nel mio corpo
valido che in ogni dottrina.
Tu proteggi il sonno dei prodi.
Ecco, al favor tuo m’abbandono.
Odo il brulichìo del tuo lento
guaime, il tuo fulvo pineto
con gli aghi e le pine far vaghi
accordi, e sonar come sistri
il grande oro tuo frumentario.
Ma odo anche un rombo lontano
che dice: «Son qua, Ulissìde».
Madre, Madre, fa che più forte
e lieto io sia, quando la voce
del dèspota ch’io ben conosco,
che udii tante volte, la maschia
voce nel mio cor solitario
griderà: «Su, svegliati! E’ l’ora.
Sorgi. Assai dormisti. L’amico
divenuto sei della terra?
Odi il vento. Su! Sciogli! Allarga!
Riprendi il timone e la scotta;
ché necessario è navigare,
vivere non è necessario».
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[…] Maya […]