Canto trentatreesimo del Purgatorio
27 Gennaio 2019Accordi tra le parti sociali che finalizzino quote di riduzione di orario alla fo…
27 Gennaio 2019MERIGGIO
A mezzo il giorno
sul Mare etrusco
pallido verdicante
come il dissepolto
bronzo dagli ipogei, grava 5
la bonaccia. Non bava
di vento intorno
alita. Non trema canna
su la solitaria
spiaggia aspra di rusco, 10
di ginepri arsi. Non suona
voce, se ascolto.
Riga di vele in panna
verso Livorno
biancica. Pel chiaro 15
silenzio il Capo Corvo
l’isola del Faro
scorgo; e più lontane,
forme d’aria nell’aria,
l’isole del tuo sdegno,20
o padre Dante,
la Capraia e la Gorgona.
Marmorea corona
di minaccevoli punte,
le grandi Alpi Apuane25
regnano il regno amaro,
dal loro orgoglio assunte.
La foce è come salso
stagno. Del marin colore,
per mezzo alle capanne, 30
per entro alle reti
che pendono dalla croce
degli staggi, si tace.
Come il bronzo sepolcrale
pallida verdica in pace35
quella che sorridea.
Quasi letèa,
obliviosa, eguale,
segno non mostra
di corrente, non ruga40
d’aura. La fuga
delle due rive
si chiude come in un cerchio
di canne, che circonscrive
l’oblìo silente; e le canne 45
non han susurri. Più foschi
i boschi di San Rossore
fan di sé cupa chiostra;
ma i più lontani,
verso il Gombo, verso il Serchio,50
son quasi azzurri.
Dormono i Monti Pisani
coperti da inerti
cumuli di vapore.
Bonaccia, calura,55
per ovunque silenzio.
L’Estate si matura
sul mio capo come un pomo
che promesso mi sia,
che cogliere io debba 60
con la mia mano,
che suggere io debba
con le mie labbra solo.
Perduta è ogni traccia
dell’uomo. Voce non suona, 65
se ascolto. Ogni duolo
umano m’abbandona.
Non ho più nome.
E sento che il mio volto
s’indora dell’oro70
meridiano,
e che la mia bionda
barba riluce
come la paglia marina;
sento che il lido rigato75
con sì delicato
lavoro dall’onda
e dal vento è come
il mio palato, è come
il cavo della mia mano80
ove il tatto s’affina.
E la mia forza supina
si stampa nell’arena,
diffondesi nel mare;
e il fiume è la mia vena, 85
il monte è la mia fronte,
la selva è la mia pube,
la nube è il mio sudore.
E io sono nel fiore
della stiancia, nella scaglia 90
della pina, nella bacca
del ginepro; io son nel fuco,
nella paglia marina,
in ogni cosa esigua,
in ogni cosa immane, 95
nella sabbia contigua,
nelle vette lontane.
Ardo, riluco.
E non ho più nome.
E l’alpi e l’isole e i golfi100
e i capi e i fari e i boschi
e le foci ch’io nomai
non han più l’usato nome
che suona in labbra umane.
Non ho più nome né sorte 105
tra gli uomini; ma il mio nome
è Meriggio. In tutto io vivo
tacito come la Morte.
E la mia vita è divina.
Le madri
Su le Lame di Fuore,
nel salso strame,
nelle brune giuncaie,
nell’erbe gialle,
oziano a branchi
le saure e baie
cavalle
di San Rossore.
Altre su i banchi
di sabbia, altre nell’acqua
immerse fino al ventre,
s’ammusano; mentre
le groppe al sole
rilucono, chiare, scure,
d’oro, di rame.
Su le Lame, cui adduce
anatre il verno,
oziano nella luce
pura le feconde,
coi gravidi fianchi
immote in una massa
placida. Sole
su l’acqua bassa
le lunghe code
con moto eterno
ondeggiano. S’ode
a quando a quando
fremito delle froge
umide, sbuffare
ansare leggero,
tremulo nitrito,
nella foce silente;
cui dal lito risponde
fievole risucchio
del mare. Taluna
esce del mucchio, annusa
l’acqua, s’abbevera lenta;
poi guata verso il monte
su cui s’aduna
fumoso il nembo;
poi si rivolge e ammusa.
E ondeggiano le code
lente sul riposo
della mandra ferace.
Teco, o Luce pura,
teco attendono in pace
la genitura
le Madri.
Lunge per l’aria chiara
appar grande e soave
cerula e bianca
l’Alpe di Carrara,
cerula d’ombre
bianca di cave.
Ma ingombre del muto
nembo che si prepara
son le cime ov’hanno
con l’aquile nido
le folgori corusche.
Odor di l’unge acuto,
dalle pinete
verdi e fulve, nelle bave
rare del vento giunge
alla quiete.
Ed ecco una nave,
ecco le vele etrusche
partitesi dal lito
di Luni lunato
e niveo di marmi.
Ecco una nave in vista
tra il Serchio e il Gombo.
E’carica di marmi,
è carica di sogni
dormenti nel profondo
candore ignoti e soli.
E il mio spirito evòca
il tuo folle Evangelista,
o Buonarroti,
il figlio della Terra
e del Genio che l’affoca;
vede la gran persona
che si torce nell’angoscia
del masso che lo serra,
onde si sprigiona a guerra
l’aspro ginocchio, e la coscia
d’osso e di muscoli enorme.
Nella carena dorme
l’incarco fecondo
di forme,
tratto dall’erme cave,
rapito al grembo dell’Alpe.
Nel grembo della nave
dormono le bianche moli.
Attendon dai sogni soli
la genitura
le Madri.
Albàsia
O mattin nuziale
tra il Mar pisano
e l’Alpe lunense!
O nozze immense
e brevi!
La nube formosa
disposa
il monte che a lei sale,
l’ombra d’entrambi il piano,
la dolce acqua il sale,
la canna il tralcio,
il salcio
la florida stiancia,
l’argano la bilancia
su la foce pescosa,
la mia rima il mio giòlito,
l’algosa
arena i tuoi piè lievi,
o Ermione.
E il cielo è nivale
come su la tua guancia
ondata il velo
insolito.
Il mare è d’opale
con vene di crisòlito,
come i mari dell’Asia,
immoto albore
di gemme fuse.
Brillano le meduse
a fiore
dell’immerso banco.
E tutto è bianco,
presso e lontano.
E’grande albàsia
da lido a lido,
come allor che fa il nido
sul Mar sicano
la sposa Alcyone.
L’Alpe sublime
Svégliati, Ermione,
sorgi dal tuo letto d’ulva,
o donna dei liti.
Mira spettacolo novo,
gli Iddii appariti
su l’Alpe di Luni
sublime!
Occidue nubi, corone
caduche su cime
eterne.
Ma par che s’aduni
concilio di numi
grande e solenne
tra il Sagro e il Giovo,
tra la Pania e la Tambura,
e che l’aquila fulva
del Tonante
su le sante
sedi apra tutte le penne.
Oh silenzii tirrenii
nel destero Gombo!
Solitudine pura,
senz’orme!
Candore dei marmi lontani,
statua non nata,
la più bella!
Dormono i Monti Pisani,
grevi, di cerulo piombo,
su la pianura
che dorme.
Altra stirpe di monti.
Non han numi, non genii,
non aruspici in lor caverne,
non impeti d’ardore
verso i tramonti,
non insania, non dolore;
ma dormono su la pianura
che dorme.
Oh Alpe di Luni,
davanti alla faccia del Mare
la più bella,
rupe che s’infutura,
oh Segno che l’anima cerne,
grande anelito terrestro
verso il Maestro
che crea,
materia prometèa,
altitudine insonne,
alata,
Inno senza favella,
carne delle statue chiare,
gloria dei templi immuni,
forza delle colonne
alzata,
sostanza delle forme
eterne!
Il Gombo
L’immensità del duolo,
del lutto immedicabile senza
fine, terrestre fatta
qual Niobe nell’umida rupe,
quivi abitava sembra
nel lito deserto, nell’alpe
ardua, nella selva
che piange il suo pianto aromale.
Tutto è quivi alto e puro
e funebre come le plaghe
ove duran nel Tempo
i grandi castighi che inflisse
il rigor degli iddii
agli uomini obliosi del sacro
limite imposto all’ansia
del lor desiderio immortale.
Tre disse quivi immense
parole il Mistero del Mondo,
pel Mare pel Lito per l’Alpe,
visibile enigma divino
che inebria di spavento
e d’estasi l’anima umana
cui travagliano il peso
del corpo e lo sforzo dell’ale.
Poi che non val la possa
della Vita a comprendere tanta
bellezza, ecco la Morte
che braccia più vaste possiede
e silenzii più intenti
e rapidità più sicura;
ecco la Morte, e l’Arte
che è la sua sorella eternale:
quella che anco rapisce
la Vita e la toglie per sempre
all’inganno del Tempo
e nuda l’inalza tra l’Ombra
e la Luce, e le dona
col ritmo il novello respiro:
ecco la Morte e l’Arte
apparsemi nel cerchio fatale.
O Niobe, l’antico
tuo grido odo alzarsi repente
al cospetto del Mare,
e il tuo disperato dolore
chiamar le figlie e i figli
per l’inesorabile chiostra,
e stridere odo l’arco
forte e sibilare lo strale.
«Tera, Ftia, Cleodossa,
Astìoche, Pelòpia, Fedìmo!»
Tu chiami; e i dolci nomi,
i nomi che furono il miele
della tua bocca, o Madre,
si frangon nell’ululo crudo
come pel mìssile oro
l’incolpevole fior filiale.
Procombono sul petto
sul fianco, procombono i corpi
floridi, i giovinetti
venusti, le vergini leni;
copron la sabbia amara,
mescono le chiome alle spume
non il sangue: incruenta
è la piaga dell’oro letale.
Procombono, stanno
ai tuoi piedi, o Madre demente!
Poi tutto è marmo, immota
bellezza, effigiato silenzio.
L’immensità del duolo
è fatta terrestre e marina.
Il Mare il Lito l’Alpe
sono il tuo simulacro ferale.
O Tantalide audace,
io veggo il tuo bellissimo vólto
impietrato e il tuo pianto
nella solitudine esangue,
e il sacrilego orgoglio
che feceti chiedere altari
per la generatirce
virtù del tuo grembo mortale.
Tutto è quivi alto e puro
e funebre e ai cieli superbo,
memore dell’umane
grandezze e dei castighi divini.
Ed in nessuna plaga
con più guerra, ahi, l’anima audace
travagliarono il peso
del corpo e lo sforzo dell’ale.
Anniversario orfico
P.B.S. VIII Luglio MDCCCXXII
Udimmo in sogno sul deserto Gombo
sonar la vasta bùccina tritonia
e da Luni diffondersi il rimbombo
a Populonia.
Dalle schiume canute ai gorghi intorti
fremere udimmo tutto il Mare nostro
come quando lo v’èrberan le forti
ale dell’Ostro.
E trasalendo «Odi, sorella» io dissi
«odi l’annuncio dell’enfiata conca?
Forse per noi risale dagli abissi
la testa tronca,
la testa esangue del treicio Orfeo
che, rapita dal freddo Ebro alla furia
bassàrica, sen venne dell’Egeo
al mar d’Etruria».
Quasi fucina il vespro ardea di cupi
fuochi; gridavan l’aquile nell’alto
cielo, brillando il crine delle rupi
qual roggio smalto.
Come profusi fuor dell’urne infrante
parean ruggir nell’affocato cerchio
i fiumi, l’Arno del selvaggio Dante,
la Magra, il Serchio.
Ed ella disse: «Non l’Orfeo treicio,
non su la lira la divina testa,
ma colui che si diede in sacrificio
alla Tempesta.
Oggi è il suo giorno. Il nàufrago risale,
che venne a noi dagli Angli fuggitivo,
colui che amava Antigone immortale
e il nostro ulivo».
Dissi: «O veggente, che faremo noi
per celebrar l’approdo spaventoso?
Invocheremo il coro degli Eroi?
Tremo, non oso.
Questo naufrago ha forse gli occhi aperti
e negli occhi l’imagine d’un mondo
ineffabile. Ei vide negli incerti
gorghi profondo.
E tolto avea Promèteo dal rostro
del vùlture, nel sen della Cagione
svegliato avea l’originario mostro
Demogorgóne!»
Disse ella: «Gli versavan le melodi
i V’ènti dai lor carri di cristallo,
il silenzio gli Spiriti custodi
bui del metallo,
il miel solare nella boccha schiusa
le musiche api che nudrito aveano
Sofocle, il gelo gli occhi d’Aretusa
fiore d’Oceano».
Dissi: «Ei ghermì la nuvola negli atrii
di Giove, su l’acroceraunio giogo
la folgore. Non odi i boschi patrii
offrirgli il rogo?
Mira funebre letto che s’appresta,
estrutto rogo senza la bipenne!
Vengono i rami e i tronchi alla congesta
ara solenne.
E caduto dal ciel l’arde il divino
fuoco. Scrosciano e colano le gomme.
Spazia l’odor del limite marino
all’Alpi somme».
Ella disse: «A noi vien per aver pace
il nàufrago che il Mar di gorgo in gorgo
travolse. Altra nel cielo che si tace
anima scorgo.
Placa te stesso e l’ospite! Il mortale,
ch’evocò la gran Niobe di pietra
su dal silenzio e trarre udì lo strale
dalla faretra,
èvochi presso il nàufrago silente
la lacrimata figlia di Giocasta,
la regia virgo nelle pieghe lente
del peplo casta,
Antigone dall’anima di luce,
Antigone dagli occhi di viola,
l’Ombra che solo nell’esilio truce
egli amò sola.
Ecco il giglio per quelle morte chiome,
il fiore inespugnabile del nudo
Gombo, il tirreno fior che ha il greco nome
del doppio ludo,
ecco il pancrazio». Io dissi: «No, ‘l corremo.
Intatto sia tra l’uno e l’altro il fiore.
Vegli con noi quest’Ombre ed il supremo
lor sacro amore».
Terra, Vale!
Tutto il Cielo precipita nel Mare.
S’intenebrano i liti e si fan cavi,
talami dell’Eumenidi avernali.
Nubi opache sul limite marino
alzano in contro mura di basalte.
Solo tra le due notti il Mar risplende.
presa e constretta negli intorti gorghi,
come una preda pallida, è la luce.
La tempesta ha divelto con furore
i pascoli nettunii dalle salse
valli ove agguatano i ritrosi mostri.
Alghe livide, fuchi ferrugigni,
nere ulve di radici multiformi
fanno grande alla morta foce ingombro,
natante prato cui nessuna greggia
morderà, calcherà nessun pastore.
Virtù si cela forse nelle fibre
sterili, che trasmuta il petto umano?
O mito del mortale fatto nume
cerulo, rinnov’èllati nel mio
desiderio del flutto infaticato!
Tutto il Cielo precipita nel Mare.
Preda è la luce dei viventi gorghi,
forse immolata per l’eternità.
Ditirambo II
Io fui Glauco, fui Glauco, quel d’Antèdone.
Trepidar ne’ precordii
sentii la deità, sentii nell’intime
midolla il freddo fremito
della potenza equorea trascorrere
di repente, io terrìgena,
io mortal nato di sostanza efimera,
io prole della polvere!
Memore sono della metamorfosi.
L’anima si fa pelago
nel rimembrare, s’inazzurra ed èstua,
e le foci vi sboccano
dei mille fiumi che mi confluirono
sul capo: nel rigùrgito
immenso novamente par dissolversi
quest’ossea compagine.
O Iddii profondi, richiamate l’esule,
però ch’ei sia miserrimo
nella sua carne d’acro sangue irrigua,
lasso ne’ suoi piè debili
che per lotosi tramiti s’attardano,
dopo ch’ei fu l’indomita
forza del flutto convertita in muscoli
tòrtili per attorcere,
dopo che le correnti dell’Oceano
gli furon giogo a tessere
le divine di sé vicissitudini
come su trama vitrea.
O Iddii profondi, richiamate l’esule
triste, purificatelo
sotto i fiumi lustrali ìnferi e sùperi,
la deità rendetegli!
Memore sono. Era già fatto il vespero
su l’acque; ma i cieli ultimi
ardevano d’un foco inestinguibile,
e i golfi e i promontorii
e l’isole di contro negreggiavano
come are senza vittime
già notturni, allorché sostai nel pascolo
nettunio, presso il limite
marino. Onusto di gran preda, sùbito
votai su l’erbe i néssili
miei lini a noverar la mia dovizia.
Poi del confuso cumulo
feci schiere ordinate. E in cor godevami
tante squame rilucere
veggendo per quel bruno intrico; «I néssili
miei lini e i piombi e i sugheri
t’appenderò nel tempio, o dio propizio»
in cor disse il grato animo.
E allor vidi i pesci più risplendere,
vidi le pinne battere
e le branchie alitare e per le scaglie
lampi di forza correre.
E, come quando il nume di Diòniso
invade le Bassaridi
e si disfrena giù pe’ monti il Tìaso,
la muta gente parvemi
infuriare, cedere a un’incognita
virtù, di sacra fervere
insania. «Qual prodigio è questo? Ahi misero
me!» gridai per grandissimo
spavento; ché la preda mia fuggivasi
a gara con vipèrea
rapidità, balzando e dileguandosi.
«Me misero! Un dio fecemi
questo? e nell’erba è la possanza?» Attonito
mi rimasi. Il silenzio
era divino nella solitudine.
Era già fatto il vespero,
ma lungamente i cieli ultimi ardevano.
Udir parvemi bùccina
cupa sonar l’ungh’essi i promontorii
selvosi; udire parvemi
canti fatali spandersi dall’isole.
E quasi inconsapevole
la man correami per quell’erba strania,
meditando io nell’animo
il prodigio. Divelsi dalle radiche
gli steli foschi; e, simile
a capra di virgulti avida, mordere
incominciai, discerpere
e mordere. Rigavami le fauci
il suco, ne’ precordii
scendeami, tutto il petto conturbandomi.
«O terra!» gridai. Fumida
era la terra intorno come nuvola
che fosse per dissolversi
ne’ cieli, sotto i piedi miei fuggevole.
E un amore terribile
sorgeva in me, dell’infinito pelago,
dell’amara salsedine,
degli abissi, dei vortici e dei turbini.
La mia carne era libera
della gravezza terrestre. Nascevami
dall’imo cor l’imagine
d’un’onda ismisurata e per le pàlpebre
mi si svelava il cerulo
splendor del sangue novo, e il collo e gli òmeri
dilatarsi parevano
e le ginocchia giugnersi, le scaglie
su per la pelle crescere,
gelidi guizzi correre pei muscoli.
«Terra, vale!» Precipite
caddi nel gorgo, mi sommersi, l’infima
toccai valle oceanica,
uomo non più, non anco dio, ma immemore
della terra e degli uomini.
Fiumi correnti, odo il sublime sònito
di voi sempre nell’anima,
fiumi sgorganti d’ogni scaturigine,
leni di pace o rauchi
di violenza, caldi come l’aure
nove che v’arrecarono
l’alluvione copiosa o frigidi
come i nivali vertici
onde scendeste inviolati, d’auree
sabbie flavi o sanguinei
d’argille, pingui di limo o più limpidi
che l’etere sidereo!
Cento e cento passarono passarono
sul mio capo. La fluida
vita dell’orbe mi fluì su gli òmeri
proni, con ineffabile
melodìa. L’Acheronte, il gran tartareo
pianto, anche sentii volvere
su me nel cieco suo pallore i petali
rapiti al prato asfòdelo.
Tutte l’acque rombarono crosciarono
su me sommerso, tolsero
ogni terrestrità dal corpo immemore
della sua dura nascita.
E mi risollevai dio verso l’etere
santo; spirai grande alito
che una nave d’eroi sospinse. Io auspice
apparvi agli Argonauti!
Di su la prora chino il cantor tracio
raccolse il vaticinio.
E presso lui, d’oro chiomato, florido
della prima lanugine,
(sentendo l’immortalità, saltavagli
il cuore sotto il bàlteo
splendido) presso Orfeo figlio d’Apolline
era il fratello d’Elena.
O Iddii profondi, richiamate l’esule,
la deità rendetegli!
Io fui Glauco, fui Glauco, quel d’Antèdone.
La terra m’è supplizio.
Ecco, tutta la luce è nel Mare Infero,
e per ovunque è tenebra.
O nunzia di prodigi Alba oceanica!
Nel gorgo mi precipito.
L’oleandro
I.
Erigone, Aretusa, Berenice,
quale di voi accompagnò la notte
d’estate con più dolce melodìa
tra gli oleandri lungo il bianco mare?
Sedean con noi le donne presso il mare
e avea ciascuna la sua melodìa
entro il suo cuore per l’amica notte;
e ciascuna di lor parea contenta.
E sedevamo su la riva, esciti
dalle chiare acque, con beato il sangue
del fresco sale; e gli oleandri ambigui
intrecciavan le rose al regio alloro
su ‘l nostro capo; e il giorno di sì grandi
beni ci avea ricolmi che noi paghi
sorridevamo di riconoscenza
indicibile al suo divin morire.
«Il giorno» disse pianamente Erigone
verso la luce «non potrà morire.
Mai la sua faccia parve tanto pura,
non ebbe mai tanta soavità.»
Era la sua parola come il vento
d’estate quando ci disseta a sorsi
e nella pausa noi pensiamo i fonti
dei remoti giardini ov’egli errò.
L’udii come s’io fossi ancor sommerso
e la sua voce avesse umido velo.
Ma reclinai la gota, e d’improvviso
tiepida come sangue dalla conca
dell’udito sgorgò l’acqua marina.
Pur, profondando nella sabbia i nudi
piedi, io sentia partirsi lentamente
il buon calor del tramontato sole.
E chi recise all’oleandro un ramo?
Io non mi volsi, ma l’amarulenta
fragranza della linfa della fresca
piaga mi giunse alle narici, vinse
l’odor muschiato dei vermigli fiori.
«O Glauco» disse Berenice «ho sete.»
Ed Aretusa disse: «O Derbe, quando
fiorì di rose il lauro trionfale?»
Ella ben sapea quando, ma non Derbe
inesperto in foggiar lucidi miti.
Ed il cuore profondo mi tremò,
tremò della divina poesia.
Ond’io pregava: «O desiderii miei,
stirpe vorace e vigile, dormite!
E voi lasciate che nel vostro sonno
io mi cinga del lauro trionfale!»
Tutto allora fu grande, anche il mio cuore.
Oh poesia, divina libertà!
Ergevasi con mille cime l’Alpe
grande, quasi con volo di mille aquile,
per il salir d’impetuosa forza
dalle sue dure viscere di marmo
onde l’uom che non volle umana prole
trasse i suoi muti figli imperituri.
E le curve propaggini dell’Alpe
si protendeano ad abbracciare il mare;
ed il mare splendeva di candore
meraviglioso nel l’unato golfo
con la bellezza delle donne nostre.
E quella luce un rinascente mito
fece di voi sull’irraggiato mondo,
Erigone, Aretusa, Berenice!
Così ci parve riudire il canto
delle Sirene, dalla nave concava
di prora azzurra, fornita di ponti,
veloce, in un doloroso ritorno
spinta dal vento al frangente del mare,
né ci difese Odisseo dal periglio
con la sua cera; ma il cuore, non più
libero, novellamente anelava.
II.
«O Glauco», disse Berenice «ho sete.
Dov’è la fonte? dove sono i frutti?
Dov’è Cyane azzurra come l’aria?
Dove coglierai tu con le tue mani
l’arancia aurata nella cupa fronda?
Come ci dissetammo! E tanto era soave
il dissetarsi che desiderammo
l’ardente sete. Al par di noi chi seppe
distinguere il sapore d’ogni frutto
e la maturità dal suo colore?
distinguere d’ogni acqua la freschezza
e ritrovar la sua più fredda vena?
e regolar le labbra al vario bere
e il sorso modular come una nota?
L’imagine di me nell’acque amavi.
Dell’amore di me arsi inclinata,
sì bella nel ninfale specchio fui.
Io fui Cyane azzurra come l’aria.
Tu mi ghermisti fra natanti foglie.
L’ombra divina mi trasfigurò.
Un fiore subitaneo s’aperse
tra i miei ginocchi. Vincolata fui
da verdi intrichi, fra radici pallide
come i miei piedi, con segreto gelo.
Il sol divino mi trasfigurò.
Anelli innumerevoli alle dita
furommi i raggi, pettini ai capelli,
monili al collo, e veste tutta d’oro.
O Aretusa, perché non ho il tuo nome?
Nascesti tu nell’isola di Ortigia
come l’amor del violento fiume?
La sirena scagliosa abbeveravi,
già fatto il vespero, al tacer dei flauti.
Diedi io le canne ai flauti dei pastori.
Io fui Cyane azzurra come l’aria.
L’acqua sorgiva mi resto negli occhi;
la lenta correntìa mi levigò.
O Glauco, ti sovvien della Sicilia
bella?» Ed io più non vidi la grande Alpe,
il bianco mare. Io dissi: «Andiamo, andiamo!»
«Ti sovvien della bella Doriese
nomata Siracusa nell’effigie
d’oro co’ suoi delfini e i suoi cavalli,
serto del mare? Noi scoprimmo un giorno,
stando su l’Acradina, la triere
che recava da Ceo l’Ode novella
di Bacchilide al re vittorioso.
Udivasi nel vento il suon del flauto
che regolava l’impeto dei remi,
or sì or no s’udiva il canto roco
del celeùste; ma silenziosa
l’Ode, foggiata di parole eterne,
più lieve che corona d’oleastro,
onerava di gloria la carena.
Scendemmo al porto. Ti sovvien dell’ora?
Un rogo era l’Acropoli in Ortigia;
ardevano le nubi sul Plemmirio
belle come le statue sul fronte
dei templi; parea teso dalla forza
di Siracusa il grande arco marino.
E noi gridammo, e un sùbito clamore
corse lungo le stoe quando la nave
piena d’eternità giunse all’approdo.
Portatrice di gloria, ella vivea
magnanima, sublime. Giù pe’ trasti
anelava l’anelito servile;
s’intravedean su’ banchi sovrapposti
i remiganti ignudi unti d’oliva:
la lor fatica ansava dai portelli;
il giglione del remo ai raggi obliqui
lucea come la scapula; un ferigno
odore si spandea, quasi di belve.
E non di quell’anelito servile
era viva la nave, non del sangue
e dell’ossa pesanti ne’ suoi fianchi;
ma sì vivea divinamente d’una
cosa ch’ella recava d’oltremare,
più lieve che corona d’oleastro:
l’Ode, foggiata di parole eterne».
«E’ vero, è vero!» io dissi. «Mi sovviene».
Ed il cuore profondo mi tremò,
tremò della divina poesia.
«Mi sovviene. Era l’Ode trionfale:
“Canta Demetra che regna i feraci
campi siciliani, e la sua figlia
cinta di violette! Canto, o Cl’io,
dispensatrice della dolce fama,
la corsa dei cavalli di Ierone!
Nike ed Aglaia eran con essi quando
trasvolavano…” E l’anima invelata
di sogni andava per le lontananze
dei tempi verso i gloriosi approdi
piena d’eternità come la nave
di Ceo. Passammo gli ellesponti, i golfi,
l’isole, gli arcipelaghi, le sirti:
riverimmo le foci dei paterni
fiumi, pregammo i promontorii sacri,
salutammo le bianche cittadelle
custodite da Pallade rupestri;
varcammo l’Istmo pel diolco. Quivi
eroi vedemmo e Pindaro con loro.
Ed obliammo l’usignuol di Ceo
per l’aquila tebana. Era la tua
mitica luce sul Tirreno, o madre
Ellade, ed era bella come i tuoi
monti la nuda Alpe di Luni, o madre
Ellade, come i tuoi monti bellissima
era, onde a te discesero le stirpi
degli Immortali che incedeano al fianco
degli Efimeri sopra il dominato
dolore, e quelli e questi erano eguali,
e tutti erano Ellèni ed una lingua
parlavano divina, uomini e iddii.
In silenzio guardammo i grandi miti
come le nubi sorgere dall’Alpe
ed inclinarsi verso il bianco mare.
Io vidi allora Pègaso pontare
su gli altissimi marmi i piè di vento
e balzar nell’azzurro con aperte
le immense penne, senza cavaliere;
e per il petto e per il ventre vasti
trasparia come fiamma palpitante
la potenza del sangue gorgonéo.
Ardi gridò: “Ecco il teschio d’Orfeo,
che vien dall’Ebro!”. Ed il solenne lido
parve attendere il fato dopo il grido.
La sua bellezza s’aggrandì d’orrore.
Il flutto nell’insolito splendore
era meravigliosamente puro.
Splendea sul mondo un giorno imperituro.»
III.
Ma non sostenne il nostro cuor mortale
quel silenzio sublime. Si piegò
verso il sorriso delle donne nostre.
E Derbe disse ad Aretusa: «Quando
fiorì di rose il lauro trionfale?».
Era la donna giovinetta alzata,
mutevole onda con un viso d’oro,
tra gli oleandri; ed il reciso ramo
per la capellatura umida effusa,
che fingevale intorno al chiaro viso
l’avvolgimento dell’antica fonte,
intrecciava le rose al regio alloro.
Disse Aretusa: «Bene io te ‘l dirò»
mutevole onda con un viso d’oro.
Disse: «Inseguiva il re Apollo Dafne
l’ungh’esso il fiume, come si racconta.
La figlia di Penéo correva ansante
chiamando il padre suo dall’erma sponda.
Correva, e ad ora ad or le snelle gambe
le s’intricavan nella chioma bionda.
Ben così la poledra di Tessaglia
galoppa nella sua criniera falba
che fino a terra la corsa le ingombra.
Rapido il re Apollo più l’incalza,
infiammato desìo, per lei predare.
All’alito del dio doventa fiamma
la chioma della ninfa fluvïale.
“O padre, o padre” grida “tu mi scampa!”
Chiama ella il padre suo con grida vane.
“Padre, un veloce fuoco mi ghermisce!”
E corre, ed ansa, e le sue gambe lisce
crescon la furia del desìo predace.
“O gran padre Penéo, perduta sono,
ché mi si rompono i ginocchi. Salva-
mi dalla brama del veloce fuoco
che ora mi giunge, ecco, ecco, ora m’abbranca!”
Ma il dolce sangue suo in altro suono,
la sua bellezza in altro suono parla.
Balzale il cuor, si piegano i ginocchi.
Ed ecco ella s’arresta, chiude gli occhi
e trema e dice: “Or ecco m’abbandono”.
Una gioia s’aggiunge al suo terrore
ignota che il divin periglio affretta.
Tremante e nuda dentro la chioma ode
la vergine il tinnir della faretra,
sente la forza del perseguitore,
vede l’ardor pe’ chiusi cigli e aspetta
d’esser ghermita, e più non chiama il padre.
Ma il dio la chiama: “Dafne, Dafne, Dafne!”.
Ed ella non udì voce più bella.
Il dio la chiama: “Dafne, Dafne!” Ed osa
ella aprir gli occhi: la rutila faccia
vede da presso e la bocca bramosa
mentre il dio con le due braccia l’allaccia.
Rapita dalla forza luminosa
gitta ella un grido che per la selvaggia
sponda ultimo risuona, e l’ode il padre.
Avido il dio districa la soave
nudità dalla chioma che la fascia.
Bianca midolla in còrtice lucente,
in folti pampini uva delicata!
Tenera e nuda il dio la piega, e sente
ch’ella resiste come se combatta.
Tenera cede il seno; ma dal ventre
in giuso, quasi fosse radicata,
ella sta rigida ed immota in terra.
Attonito, l’amante la disserra.
“Ahi lassa, Dafne, ch’arbore sei fatta!”
Subitamente Dafne s’impaura:
le copre il vólto e il seno un pallor verde.
Ella sembra cader, ma la giuntura
dei ginocchi riman dura ed inerte.
S’agita invano. L’atto della fuga
invan le torce il fianco. Si disperde
il senso di sua vita nella terra.
E l’amante deluso ancor la serra.
“Ahi lassa, Dafne, chi ti trasfigura?”
Ma non il suo melodioso duolo
giova a trarre colei dalla sua sorte.
Nell’umidore del selvaggio suolo
i piedi farsi radiche contorte
ella sente e da lor sorgere un tronco
che le gambe su fino alle cosce
include e della pelle scorza fa
e dov’è il fiore di verginità
un nodo inviolabile compone.
“O Apollo” geme tal novo dolore
“prendimi! Dov’è dunque il tuo desìo?
O Febo, non sei tu figlio di Giove?
Arco-d’-argento, non sei dunque un dio?
Prendimi, strappami alla terra atroce
che mi prende e beve il sangue mio!
Tutto furente m’hai perseguitata
ed or più non mi vuoi? Me sciagurata!
Salva mio grembo per lo tuo desìo!
Salvami, Cintio, per la tua pietà !
Se i miei capelli, che m’avvinsero, ami,
de’ miei capelli corda all’arco fa!
Prendimi, Apollo!” E tendegli le mani,
che son fogliute; e il verde sale; e già
le braccia sino ai cubiti son rami;
e il verde e il bruno salgon per la pelle;
e su per l’ombelico alle mammelle
già il duro tronco arriva; e i lai son vani.
“Aita, aita! Il cuore mi si serra.
Vedi atra scorza che il petto m’opprime!
O Apollo Febo, strappami da terra!
Tanto furente, non sia più ghermire?
Nuda mi prenderai su la dolce erba,
su la dolce erba e su ‘l mio dolce crine.
Ardo di te come tu di me ardi.
O Apollo, o re Apollo, perché tardi?
Già tutta quanta sentomi inverdire.”
Il dolce crine è già novella fronda
intorno al viso che si trascolora.
La figlia di Penéo non è più bionda;
non è più ninfa e non è lauro ancora.
Sola è rossa la bocca gemebonda
che del novello aroma s’insapora.
Escon parole e lacrime odorate
dall’ultima doglianza. O fior d’estate,
prima rosa del lauro che s’infiora!
Tutto è gia verde linfa, e sola è sangue
la bocca che querelasi interrotta-
mente. In pallide fibre il cor si sface
ma il suo rossore è in sommo della bocca.
Desioso dolor preme l’amante.
Guarda ei l’arbore sua ma non la tocca;
l’ode implorare ma non ha virtù.
E chiama: “Dafne, Dafne!” Ella non più
implora, non più geme. “Dafne, Dafne!”
Ella non più risponde: è senza voce.
Pur la gola sonora è fatta legno.
Le palpebre son due tremule foglie;
li occhi gocciole son d’umor silvestro;
bruni margini inasprano le gote;
delle tenui nari è appena il segno.
Ma nell’ombra la bocca è ancora sangue,
sola nel lauro la bocca di Dafne
arde e al dio s’offre, virginal mistero.
Curvasi Apollo verso quella ardente,
la bacia con impetuosa brama.
Ne freme tutta l’arbore; s’accende
l’ombra intorno alla fronte sovrana;
ogni ramo in corona si protende,
e la fronte d’Apollo è laureata.
Pean! O gloria! Ma sotto i suoi baci
or più non sente che foglie vivaci,
amare bacche. E Dafne Dafne chiama.
“Ahi lassa, Dafne, ch’arbore sei tutta!
Ahi chi ti fece al mio desìo diversa?
In durissimo tronco e in fronda cupa
la dolce carne tua or s’è conversa.
La tua bocca vermiglia s’è distrutta,
che pareva di fiamma ardere eterna.
Come leggieri i piedi tuoi su l’erba,
or radicati nella negra terra!
M’odi tu? M’odi tu? Dafne, sei muta?
Rispondi!” Abbrividiscono le frondi
sino alla vetta. Nel silenzio un breve
murmure spira. “M’odi tu? Rispondi!”
Move la vetta un fremito più lieve.
Poi tutto tace e sta. Sotto i profondi
cieli le rive alto silenzio tiene.
Il bellissimo lauro è senza pianto;
il dolore del dio s’inalza in canto.
Odono i monti e le valli serene.
Odono i monti e le valli e le selve
e i fonti e i fiumi e l’isole del mare.
Spandesi il canto dall’anima ardente
e per tutte le cose generare.
La bellezza di Dafne ecco riveste
la terra; le sue membra delicate
son monti e valli e selve e fiumi e fonti,
il suo sguardo inzaffira gli orizzonti,
la sua chioma fa l’oro dell’estate.
O Dafne, sempre il dio e l’uom cantando
non vorranno altro onor che un ramoscello
di te! Così l’Arco-d’-argento, quando
ha placato il suo cuore nell’immenso
inno, pago si giace sotto il sacro
lauro ad attendere il suo dì novello.
Cade la notte. Sul sonno divino
l’arbore luce d’un baglior sanguigno,
qual bronzo che si vada arroventando.
Scorre la notte. Tra l’Olimpo e l’Ossa
una stella tramonta e l’altra sale.
Misteriosa l’arbore s’arrossa
ma sul suo fuoco piovon le rugiade.
Sogna il Cintio la desiata bocca
di Dafne, e balza il suo cuore immortale.
E’l’alba, è l’alba. Il dio si desta: un grido
di meraviglia irraggia tutti il lido.
Brilla di rose il lauro trionfale!»
IV.
E così della rosa e dell’alloro
parlò quell’Aretusa fiorentina,
mutevole onda con un viso d’oro.
la sua voce era come acqua argentina
che recasse lavandula o pur menta
o salvia o altra fresca erba mattutina.
Tutto rigato dalla schietta vena
«Sol d’oleandro voglio laurearmi»
io dissi. Ed Aretusa era contenta;
e recise per me altri due rami
e fe’ l’atto di cingermi le tempie
dicendomi: «Pe’ tuoi novelli carmi!
Che la cerula e fulva Estate sempre
abbia tu nel tuo cuore e in te le rime
nascano come le sue rose scempie!»
E il giorno estivo non potea morire,
ma sorrideva sopra il bianco mare
silenziosamente senza fine;
e la notte, che avea parte ineguale,
spiava il bel nemico dalle chiostre
dei monti azzurra come te, Cyane.
Ebri e tristi d’aver bevuto a troppe
fonti e incantato il cor per tutte guise,
cercammo il grembo delle donne nostre.
Ma la Melancolìa venne e s’assise
in mezzo a noi tra gli oleandri, muta
guatando noi con le pupille fise.
Ed Erigone, ch’ebbe conosciuta
la taciturna amica del pensiero,
chinò la fronte come chi saluta.
E poi disse la Notte e il suo mistero.
V.
«Il Giorno» disse «non potrà morire.
Il suo sangue non tinge il bianco mare.
Mai la sua faccia parve tanto pura,
non ebbe mai tanta soavità.
Giace supino sopra il bianco mare,
sorride al cielo ch’ei regnava, attende
ei non sa quale morte o voluttà.
Pur tanto è dolce che la Notte oscura
non già lo spegne ma di lui s’accende,
e lui aurato nelle braccia prende,
lui cela nella sua capellatura,
ma non così che quelle membra d’oro
non veggansi pel fosco trasparire
e illuminare la serenità.
Caldi soffiano i venti al bianco mare,
calde passano e lente le riviere
in cuore alle terribili città,
passano e vanno per ignoti piani,
cingono ignoti boschi: i cervi a bere
scendono ansanti nella gran caldura;
lunghi bràmiti ascoltano lontani;
bevono: in qualche tacita radura
poi fino a morte si combatterà.
O Notte, o Notte, invano tu nascondi
ne’ tuoi capelli il dolce tuo nemico!
Non sono i tuoi capelli sì profondi
che non veggasi dai nostri occhi umani
fiammeggiarvi per entro il tuo piacere.
La terra oppressa respiro non ha.
Arde l’ombra. La vigna è come il vino:
il grappolo sul tralcio si matura
poi che il raggio nell’uva è prigioniere.
La terra soffre nell’ebrietà.
Arde come una glauca vampa l’ombra.
Aduna e vita e morte il bianco mare,
immensa cuna il mare, immensa tomba.
A lui dal monte la sorgente va.
Impallidisce sotto il pianto il coro
delle Pleiadi e l’una d’elle è occulta,
l’una che seppe la felicità.
Orione si slaccia l’armatura,
e Boote si volge, e Cinosura
vacilla; e l’Orsa anche impallidirà.
Oblìa la Notte tutte le sue stelle
e il duolo antico degli amanti umani.
Che con lei piangeremo ella non sa.
O Notte, piangi tutte le tue stelle!
il grido dell’allodola domani
dall’amor nostro ci disgiungerà».
Un’altra era con noi, ma restò muta,
tra gli oleandri lungo il bianco mare.
Bocca di Serchio
ARDI: Glauco, Glauco, ove sei? Più non ti veggo.
Ho perduto il sentiere, e il mio cavallo
s’arresta. I Pini, i pini d’ogni parte
mi serrano. Agrio affonda nella massa
degli aghi, come nella sabbia, fino
ai garetti. Ove sei, Glauco? Mi vedi?
Ho le gambe che sanguinano. Folli
fummo entrando nel bosco ignudi come
nel mare. I rovi, le schegge, le scaglie
feriscono, e i ginepri aspri. Non sanguini
anche tu? Oh profumo! Sale a un tratto
come una vampa. Il vino dell’Estate!
N’ho bevuto una piena coppa, e un’altra
ne bevo, e un’altra anche più calda, e un’altra
bollente che mi brucia il cuore e fino
alla gola mi sazia, fino agli occhi.
O Glauco, Glauco, il vino dell’Estate
misto di oro di rèsina e di miele!
GLAUCO: Io ti veggo, ti veggo, Ardi. Sei bello
sul tuo cavallo bianco. Tu non puoi
portar clamide, come i cavalieri
d’Atene, ma ti giova essere ignudo.
Su, spingi Agrio! Non v’è sentiere. I fusti
sono fragili come aride canne.
Odi? Folo li rompe col suo petto.
Dunque or teme le scaglie e i rovi il marmo
delle tue gambe? E’ splendido il tuo sangue,
Ardi. Poiché ciascuna cosa in torno
le più ricche virtudi e più segrete
esprime per farti ebro, non ti dolga
di sanguinare come il pino stilla,
come il ginepro odora. Avanti, avanti
per la boscaglia che rosseggia e cede!
Vedesti mai più fulva chioma e spessa?
I bei sogni vi restano come api
prese nella criniera d’un leone.
ARDI: Preso per i capegli sono. Ah, il ramo
si rompe e gli aghi piovonmi sul collo,
su gli omeri, già coprono la groppa
d’Agrio. Vedi? A miriadi, a miriadi!
Carichi tutti i rami biforcuti.
In ogni congiuntura accumulati
a fasci gli aghi morti. Morta sembra
tutta la selva, inaridita e cieca.
Rompesi come vetro. Il verde è al sommo,
invisibile, e fa prigione i raggi
nell’intrico; ma l’ombra sua mi cuoce
la fronte e mi dissecca la narice.
Entreremo nel fiume coi cavalli!
Diguazzeremo in mezzo alla corrente!
E ancor lontano il Serchio? Tutta l’ombra
respira aridità. L’acqua è lontana.
E sento che lo zòccolo a traverso
gli aghi morti non trova se non sabbia
torrida. I coni vacui son neri
come carboni spenti, come tizzi
consunti. O Glauco, dove mi conduci?
GLAUCO: Chiudi gli occhi. Odi il vento? Navigare
ti sembra, veleggiar per il deserto
mare. Odi il vento tra le sàrtie? Odi
il gemito degli alberi allo sforzo
delle vele? Si naviga per acque
infide verso l’isola di Circe.
Negli orciuoli d’argilla non rimane
goccia di fonte. Beveremo il sale.
Apri gli occhi! Ecco l’atrio della maga
tutto riscintillante di prodigi.
Larve di stelle adornano la reggia
della donna solare, vedi?, simili
a foglie macerate dagli autunni
che serban lor sottili nervature
con la tenuità dei bissi intesti
d’aria e di lume. Fili palpitanti
le congiungono, l’iride le cangia,
indicibile tremito le muove.
Circe incantò le stelle eccelse, e l’ebbe,
e le votò di lor sostanza ignìta;
e qui raduna le lor dolci larve.
ARDI: Opre di ragni, arte divina, tele
stellari! O Glauco, io n’ho già lacerata
una col viso, e un’altra ancóra. Guarda!
Per ovunque tessute son le stelle.
Siam presi in una rete innumerevole.
Férmati! Non distruggere l’incanto.
GLAUCO: La radura è vicina. Il sole pènetra
fra i rami. Tutto tremola e scintilla.
La résina sul tronco è come l’ambra.
Di polito metallo è il mirto chiuso.
La tamerice sembra quasi azzurra
tra i rossi pini. E il tuo volto s’imperla.
ARDI: Oh com’è bello Folo che dall’ombra
trapassa, maculato di sudore,
nella banda del sole! Anche tu sànguini.
Non vedesti le vipere fuggire?
Qual nome hanno quei lunghi fili d’erba
che portano una spiga nera in cima?
GLAUCO: Il nome che le labbra ti diletta.
Abbandona le rèdini sul collo
d’Agrio. Ascolta il cavallo nel silenzio
sbuffare. Vola la sua bava e imbianca
il mentastro. Perché, Ardi, sol questo
empie il mio petto di felicità?
ARDI: Forse già fummo i figli della Nuvola.
Già l’erba calpestammo con gli zòccoli,
cogliemmo il fiore con le dita umane.
Un dì, volgendo indietro il torso ignudo,
con la concava scorza detergemmo
dal pelo della groppa calorosa
il sudore che in rivoli colava.
Lo spazio immenso era la nostra ebrezza.
Senz’ansia il nostro fianco infaticato
vinse in numero i palpiti del vento.
Tanto di terra in un sol dì varcammo
quanto varcava Pègaso di cielo.
GLAUCO: Rapidità, Rapidità, gioiosa
vittoria sopra il triste peso, aerea
febbre, sete di vento e di splendore,
moltiplicato spirito nell’òssea
mole, Rapidità, la prima nata
dall’arco teso che si chiama Vita!
Vivere noi vogliamo, Ardi, correndo:
passare tutti i fiumi, discoprirli
dalle fonti alle foci, lungo i lidi
marini l’orma imprimere nel segno
sinuoso, nell’argentina traccia
che di sé lascia il flutto più recente.
ARDI: Dato ci fosse correre senz’ansia
l’Universo! Ma troppo il nostro petto
è angusto pel respiro della nostra
anima. O Glauco, a chi t’ascolta, sei
come l’estro implacabile che incìta
i tori. E l’orizzonte è come anello
vitreo che tu spezzi per disdegno.
GLAUCO: Taci, Beviamo il vino dell’Estate,
sol dediti all’amore del bel fiume.
Verso tutte le selve della Terra
sospiro; ma, se in una solitario
viver dovessi, in questa, Ardi, vorrei
vivere, in questa calda selva australe,
in quest’aridità d’ombre estuose.
ARDI: E’ come un rogo pronto a conflagrare.
La potenza del fuoco in lei si chiude.
Soavemente mormora nell’aura,
ma la sua voce vera in lei si tace.
Parlerà con le lingue dell’incendio
quando la nube nata dal Tirreno
le scaglierà la folgore notturna.
GLAUCO: Il respiro non passa per le fauci
ma per tutte le membra, fino al pollice
del piede scalzo; e passano gli aromi
per tutti i pori. E sento respirare
il mio cavallo, e sento la ferina
sua allegrezza, come se nel duplice
corpo fervesse l’unico mio cuore.
ARDI: Ecco l’erba, ecco il verde, ecco una canna.
Ecco un sentiere erboso. Guarda, al fondo,
guarda i monti Pisani corrucciati
sotto le vaste nuvole di nembo.
GLAUCO: Ardi, non odi gracidìo di corvi
là verso il mare? Scendono alla foce
del Serchio a branchi, e tesa v’è la rete,
dissemi il cacciatore di Vecchiano.
ARDI: Il Serchio è presso? Volgiti all’indizio.
Ecco la sabbia tra i ginepri rari,
vergine d’orme come nei deserti.
Si nasconde la foce intra i canneti?
La scopriremo forse all’improvviso?
Ci parrà bella? No, non t’affrettare!
Lascia il cavallo al passo. E’ dolce l’ansia,
e viene a noi dal più remoto oblìo,
vien dall’antica santità dell’acque.
Liberi siamo nella selva, ignudi
su i corsieri pieghevoli, in attesa
che il dio ci sveli una bellezza eterna.
Non t’affrettare, poi che il cuore è colmo.
GLAUCO: Bocche delle fiumane venerande!
Lungo le pietre d’Ostia è più divino
il Tevere. Soave è nei miei modi
l’Arno. Il natale Aterno, imporporato
di vele, splende come sangue ostile.
E l’Erìdano vidi, e l’Achelòo,
e il gran Delta, e le foci senza nome
ove attardarsi volle invano il sogno
del pellegrino. Ma che questa, o Ardi,
sia la più bella mi conceda il dio;
perché non mai fu tanto armonioso
il mio petto, né mai tanto fu degno
di rispecchiare una bellezza eterna.
ARDI: Oh, mistero! La verde chiostra accoglie
i vóti, qual vestibolo di tempio
silvano. I pini alzan colonne d’ombra
intorno al sacro stagno liminare
che ha per suo letto un prato di smeraldi.
Nel silenzio l’imagine del cielo
si profonda: non ride né sorride,
ma dal profondo intentamente guarda.
GLAUCO: Odi la melodìa del Mar Tirreno?
Tra le voci dei più lontani mari,
nell’estrema vecchiezza, nell’orrore
del gelo, il sangue mio l’imiterà.
E la cerula e fulva Estate sempre
io m’avrò nel mio cuore. Odi sommesso
carme che ci accompagna per l’esiguo
istmo sembiante al giogo d’una lira.
ARDI: Tutto è divina musica e strumento
docile all’infinito soffio. Guarda
per la sabbia le rotte canne, guarda
le radici divelte, ancor frementi
di labbra curve e di leggiere dita!
I musici fuggevoli con elle
modulavano il carme fluviale.
GLAUCO: Scendi dal tuo cavallo, Ardi. Ecco il fiume,
ecco il nato dei monti. Oh meraviglia!
Ei porta in bocca l’adunata sabbia
fatta come la foglia dell’alloro.
T’offriamo questi giovani cavalli,
o Serchio, anche t’offriamo i nostri corpi
ov’è chiuso il calor meridiano.
ARDI: Anelammo d’amore per trovarti!
Sgorgar parea che tu dovessi, o fiume,
dal nostro petto come un sùbito inno.
GLAUCO: Dio tu sei, dio tu sei; noi siam mortali.
Ma fenderemo la tua forza pura.
La più gran gioia è sempre all’altra riva.
Il cervo
Non odi cupi bràmiti interrotti
di là del Serchio? Il cervo d’unghia nera
si sépara dal branco delle femmine
e si rinselva. Dormirà fra breve
nel letto verde, entro la macchia folta,
soffiando dalle crespe froge il fiato
violento che di mentastro odora.
Le vestigia ch’ei lascia hanno la forma,
sai tu?, del cor purpureo balzante.
Ei di tal forma stampa il terren grasso;
e la stampata zolla, ch’ei solleva
con ciascun piede, lascia poi cadere.
Ben questa chiama «gran sigillo» il cauto
cacciatore che lèggevi per entro
i segni; e mai giudizio non gli falla,
oh beato che capo di gran sangue
persegue al tramontare delle stelle,
e l’uccide in sul nascere del sole,
e vede palpitare il vasto corpo
azzannato dai cani e gli alti palchi
della fronte agitar l’estrema lite!
Ma invano invano udiamo i cupi bràmiti
noi tra le canne fluviali assisi.
Tu non ti scaglierai nel Serchio a nuoto
per seguitar la pesta, o Derbe; e il freddo
fiume non solcherà duplice solco
del tuo braccio e del tuo predace riso,
fieri guizzando i muscoli nel gelo.
Inermi siamo e sazii di bellezza,
chini a spiare il cuor nostro ove rugge,
più lontano che il bràmito del cervo,
l’antico desiderio delle prede.
Or lascia quello il branco e si rinselva.
Forse è d’insigni lombi, e assai ramoso.
Ei più non vessa col nascente corno
le scorze. Già la sua corona è dura;
e il suo collo s’infosca e mette barba,
e fra breve sarà gonfio del molto
bramire. Udremo a notte le sue lunghe
muglia, udremo la voce sua di toro;
sorgere il grido della sua lussuria
udremo nei silenzii della Luna.
L’ippocampo
Vimine svelto,
pieghevole Musa
furtivamente
fuggita del Coro
lasciando l’alloro
pel leandro crinale,
mutevole Aretusa
dal viso d’oro,
offri in ristoro
il tuo sal lucente
al mio cavallo Folo
dagli occhi d’elettro,
dal ventre di veltro,
ch’è solo l’eguale
del sangue di Medusa
ahi, ma senz’ale!
Offrigli il sale,
sonoro al dente,
o Aretusa,
nella palma dischiusa
e nuda, senza spavento
ché, per prendere il dono,
ha labbra più leggiere
delle sue gambe
di vento.
Appena ti lambe,
come per bere!
Del suo piacere
ti bagna; e la tua palma
appena sente, dietro
le labbra, il fresco
suo dente di puledro,
che brucar l’erba calma
può sì dolcemente
e rodere il ferro
difficile quando serro
la rapidità focace
pe’ solitarii
lidi io senza pace.
Come per te, furace
fauna dei pomarii,
un bugno
di miel redolente
non vale
simiana acerba,
così per lui biada opima
non vale un pugno
di sale mordace.
Troppo gli piace,
Aretusa. Ingordo
n’è come capra sima.
Forse ha un ricordo
marino il sangue di Folo.
Egli è forse figliuolo
degli Ippocampi
dalla coda di squamme.
Ora è fiamme e lampi,
ma prima
era forse argentino
o cerulo o verdastro
come il flutto, gagliardo
come il flutto decumano.
E nel vespero tardo,
all’apparir dell’astro
che cresce,
al levar della brezza,
tutto acquoso e salmastro
venuto in su la proda,
mansuefatto,
battendo con la coda
di pesce l’arena
per la dolcezza,
sogguardando in atto
d’amore, gocciando bava,
prono la schiena,
mangiava piano
l’aliga nella mano
cava della Sirena.
L’onda
Nella cala tranquilla
scintilla,
intesto di scaglia
come l’antica
lorica
del catafratto,
il Mare.
Sembra trascolorare.
S’argenta? s’oscura?
A un tratto
come colpo dismaglia
l’arme, la forza
del vento l’intacca.
Non dura.
Nasce l’onda fiacca,
sùbito s’ammorza.
Il vento rinforza.
Altra onda nasce,
si perde,
come agnello che pasce
pel verde:
un fiocco di spuma
che balza!
Ma il vento riviene,
rincalza, ridonda.
Altra onda s’alza,
nel suo nascimento
più lene
che ventre virginale!
Palpita, sale,
si gonfia, s’incurva,
s’alluma, propende.
Il dorso ampio splende
come cristallo;
la cima leggiera
s’arruffa
come criniera
nivea di cavallo.
Il vento la scavezza.
L’onda si spezza,
precipita nel cavo
del solco sonora;
spumeggia, biancheggia,
s’infiora, odora,
travolge la cuora,
trae l’alga e l’ulva;
s’allunga,
rotola, galoppa;
intoppa
in altra cui ‘l vento
diè tempra diversa;
l’avversa,
l’assalta, la sormonta,
vi si mesce, s’accresce.
Di spruzzi, di sprazzi,
di fiocchi, d’iridi
ferve nella risacca;
par che di crisopazzi
scintilli
e di berilli
viridi a sacca.
O sua favella!
Sciacqua, sciaborda,
scroscia, schiocca, schianta,
romba, ride, canta,
accorda, discorda,
tutte accoglie e fonde
le dissonanze acute
nelle sue volute
profonde,
libera e bella,
numerosa e folle,
possente e molle,
creatura viva
che gode
del suo mistero
fugace.
E per la riva l’ode
la sua sorella scalza
dal passo leggero
e dalle gambe lisce,
Aretusa rapace
che rapisce le frutta
ond’ha colmo suo grembo.
Subito le balza
il cor, le raggia
il viso d’oro.
Lascia ella il lembo,
s’inclina
al richiamo canoro;
e la selvaggia
rapina,
l’acerbo suo tesoro
oblìa nella melode.
E anch’ella si gode
come l’onda, l’asciutta
fura, quasi che tutta
la freschezza marina
a nembo
entro le giunga!
Musa, cantai la lode
della mia Strofe Lunga.
La corona di Glauco
MÉLITTA: Fulge, dai maculosi leopardi
vigilata, una rupe bianca e sola
onde il miele silentemente cola
quasi fontana pingue che s’attardi.
Quivi in segreto sono i miei lavacri
dove il mio corpo ignudo s’insapora
e di rosarii e di pomarii odora
e si colora come i marmi sacri.
Io son flava, dal pollice del piede
alla cervice. Inganno l’ape artefice.
Porto negli occhi mie le arene lidie.
Per entro i variati ori la lieve
anima mia sta come un fiore semplice.
Melitta è il nome della mia flavizie.
L’ACERBA: Non io del grasso fiale mi nutrico.
Lascio la cera e il miele nel lor bugno.
Ma spicco la susina afra dal prugno
semiano, e mi piace l’orichico.
E il latte agresto piacemi del fico
primaticcio che nérica nel giugno.
Ti do due labbra fresche per un pugno
di verdi fave, e il picciol cuore amico!
Vieni, monta pe’ rami. Eccoti il braccio.
Odoro come il cedro bergamotto
se tu mi strizzi un poco la cintura.
Quanto soffii! Tropp’alto? Non ti piaccio?
Ah, ah, mi sembri quel volpone ghiotto
che disse all’uva: Tu non sei matura.
NICO: I tuoi piè bianchi sono i miei trastulli
nella gracile sabbia ove t’accosci,
bianchi e piccoli come gli al’iossi
levigati dal gioco dei fanciulli.
– Ahi, ahi, misera Nico, i miei piè brulli!
Su la sabbia di foco i piè mi cossi.
Tu ridi, costassù, tu ridi a scrosci!
Ma, s’io ti giungo, vedi come frulli.
– Ingrata, ingrata, con che arte il foco
ti rilieva le vene in pelle in pelle
e il pollice t’imporpora e il tallone!
– Bada; Non al’iossi pel tuo gioco
ma ho in serbo per te, schiavo ribelle,
una sferza di cuoio paflagone.
NICARETE: Glauco di Serchio, m’odi. Io, Nicarete
le canne con le lenze e gli ami sgombri
che non preser già mai barbi né scombri
t’appendo alla tua candida parete.
E t’appendo le nasse anco, e la rete
fallace con suoi sugheri e suoi piombi
che non pescò già mai mulli né rombi
ma qualche fuco e l’alghe consuete.
Amaro e avaro è il sale. O Glauco, m’odi.
Prendimi teco. Evvi una bocca, parmi,
sinuosa nell’ombra de’ miei bùccoli.
Teco andare vorrei tra lenti biodi
e coglier teco per incoronarmi
l’ibisco che fiorisce a Massaciùccoli
A NICARETE: Nicarete dal monte di Quiesa
a Montramito i colli sono lenti
come i tuoi biodi, all’aria obbedienti,
fatti anch’elli d’un oro che non pesa.
E quella lor soavità, sospesa
tra i chiari cieli e l’acque trasparenti,
tu non la vedi quasi ma la senti
come una gioia che non si palesa.
Sorge, splendore del silenzio, il disco
lunare. O Nicarete, ecco, e s’adempie
mentre nel lago la ninfea si chiude.
Prima è rosato come il fior d’ibisco
che t’inghirlanda le tue dolci tempie
ma dopo assempra le tue spalle ignude.
GORGO: Ospite sempre memore, io son Gorgo
e l’odor delle Cicladi vien meco.
Tutte l’uve e le spezie, ecco, ti reco
in questo lino aereo d’Amorgo.
Glauco, e ti reco il vin di Chio nell’otro,
quel che bevesti un dì sul tuo fasélo,
quel che in argilla si facea di gelo
pendula a soffio di ponente o d’ostro.
E una corona d’ellera e di gàttice
ti reco, per un’ode che mi piacque
di te, che canta l’isola di Progne.
Io voglio, nuda nell’odor del màstice,
danzar per te sul limite dell’acque
l’ode fiumale al suon delle sampogne.
A GORGO: Gorgo, più nuda sei nel lin seguace.
La tua veste ti segue e non ti chiude.
Fra l’ombelico e il depilato pube
il ventre appare quasi onda che nasce.
Ombra non è su le tue membra caste:
dall’ìnguine all’ascella albeggi immune.
Polita come il ciòttolo del fiume
sei, snella come l’ode che ti piacque.
Danzami la tua molle danza ionia
mentre che l’Apuana Alpe s’inostra
e il Mar Tirreno palpita e corusca.
L’Ellade sta fra Luni e Populonia!
E il cor mi gode come se tu m’offra
il vin tuo greco in una tazza etrusca.
L’AULETRIDE: Io rinvenni la pelle dell’incauto
Frigio nomato Marsia appesa a un pino,
sul suol roggio il coltello del divino
castigatore e, presso, il doppio flauto.
Questo raccolsi trepidando, o Glauco.
E, immemore del flebile destino,
io son osa talor nel mio giardino
chiuso carmi dedurre sotto il lauro.
Rivolgomi sovente e guardo s’Egli
non apparisca a un tratto, l’Immortale.
Ma non mi trema il mio labbro fasciato.
Vivon nell’orror sacro i miei capegli
ma per l’angustia del mio petto sale
il superbo di Marsia antico afflato.
BACCHA: Ah, chi mi chiama? Ah, chi m’afferra? Un tirso
io sono, un tirso crinito di fronda,
squassato da una forza furibonda.
Mi scapiglio, mi scalzo, mi discingo.
Trascinami alla nube o nell’abisso!
Sii tu dio, sii tu mostro, eccomi pronta.
Centauro, son la tua cavalla bionda.
Fammi pregna di te. Schiumo, nitrisco.
Tritone, son la tua femmina azzurra:
salsa com’alga è la mia lingua; entrambe
le gambe squamma sonora mi serra.
Chi mi chiama? La bùccina notturna?
il nitrito del Tessalo? il tonante
Pan? Son nuda. Ardo, gelo. Ah, chi m’afferra?
Stabat nuda aestas
Primamente intravidi il suo piè stretto
scorrere su per gli aghi arsi dei pini
ove estuava l’aere con grande
tremito, quasi bianca vampa effusa.
Le cicale si tacquero. Più rochi
si fecero i ruscelli. Copiosa
la résina gemette giù pe’ fusti.
Riconobbi il colùbro dal sentore.
Nel bosco degli ulivi la raggiunsi.
Scorse l’ombre cerulee dei rami
su la schiena falcata, e i capei fulvi
nell’argento pallàdio trasvolare
senza suono. Più lungi, nella stoppia,
l’allodola balzò dal solco raso,
la chiamò, la chiamò per nome in cielo.
Allora anch’io per nome la chiamai.
Tra i leandri la vidi che si volse.
Come in bronzea messe nel falasco
entrò, che richiudeasi strepitoso.
Più lungi, verso il lido, tra la paglia
marina il piede le si torse in fallo.
Distesa cadde tra le sabbie e l’acque.
Il ponente schiumò ne’ suoi capegli.
Immensa apparve, immensa nudità.
Ditirambo III
O grande Estate, delizia grande tra l’alpe e il mare,
tra così candidi marmi ed acque così soavi
nuda le aeree membra che riga il tuo sangue d’oro
odorate di aliga di résina e di alloro,
laudata sii,
o voluttà grande nel cielo nella terra e nel mare
e nei fianchi del fauno, o Estate, e nel mio cantare,
laudata sii
tu che colmasti de’ tuoi più ricchi doni il nostro giorno
e prolunghi su gli oleandri la luce del tramonto
a miracol mostrare!
Ardevi col tuo piede le silenti erbe marine,
struggevi col tuo respiro le piogge pellegrine,
tra così candidi marmi ed acque così soavi
alzata; e grande eri, e pur delle più tenui vite
gioiva la tua gioia, e tutto vedeva la tua pupilla
grande: le frondi delle selve e i fusti delle navi,
e la ragia colare, maturarsi nelle pine
le chiuse mandorlette e la scaglia che le sigilla
pender nel fulvo, e l’orme degli uccelli nell’argilla
dei fiumi, l’ombre dei voli su le sabbie saline
vedea, le sabbie rigarsi come i palati cavi,
al vento e all’onda farsi dolci come l’inguine e il pube
amorosamente,
imitar l’opre dell’api,
disporsi a mo’ dei favi
in alveoli senza miele,
e l’osso della seppia tra le brune carrube
biancheggiar sul lido, tra le meduse morte
brillar la lisca nitida, la valva
tra il sughero ed il vimine variar la sua iri,
pallida di desiri la nube
languir di rupe in rupe
l’ungh’essi gli aspri capi
qual molle donna che si giaccia co’ suoi schiavi,
scorrere la gómena nella rossa
cùbia, sorgere la negossa
viva di palpitanti pinne, curvarsi al peso vivo
la pertica, la possa
dei muscoli, gonfiarsi nelle braccia vellute,
una man rude
tendere la scotta,
al garrir della vela forte
piegarsi il bordo, come la gota del nuotatore,
la scìa mutar colore,
tutto il Tirreno in fiore
tremolar come alti paschi al fiato di ponente.
O Estate, Estate ardente,
quanto t’amammo noi per t’assomigliare,
per gioir teco nel cielo nella terra e nel mare,
per teco ardere di gioia su la faccia del mondo,
selvaggia Estate
dal respiro profondo,
figlia di Pan diletta, amor del titan Sole,
armoniosa,
melodiosa,
che accordi il curvo golfo sonoro
come la citareda
accorda la sua cetra,
dolore di Demetra
che di te si duole
ne’ solstizii sereni
per Proserpina sua perduta primavera!
O fulva fiera,
o infiammata leonessa dell’Etra,
grande Estate selvaggia,
libidinosa,
vertiginosa,
tu che affochi le reni,
che incrudisci la sete,
che infurii gli estri,
Musa, Gorgóne,
tu che sciogli le zone,
che succingi le vesti,
che sfreni le danze,
Grazia, Baccante,
tu ch’esprimi gli aromi,
tu che afforzi i veleni,
tu che aguzzi le spine,
Esperide, Erine,
deità diversa,
innumerevole gioco dei v’ènti
dei flutti e delle sabbie,
bella nelle tue rabbie
silenziose, acre ne’ tuoi torpori,
o tutta bella ed acre in mille nomi,
fatta per me dei sogni che dalla febbre del mondo
trae Pan quando su le canne sacre
delira (delira il sogno umano),
divina nella schiuma del mare e dei cavalli,
nel sudor dei piaceri,
nel pianto aulente delle selve assetate,
o Estate, Estate,
io ti dirò divina in mille nomi,
in mille laudi
ti loderò se m’esaudi,
se soffri che un mortal ti domi,
che in carne io ti veda,
ch’io mortal ti goda sul letto dell’immensa piaggia
tra l’alpe e il mare,
nuda le fervide membra che riga il suo sangue d’oro
odorate di aliga di résina e di alloro!
Versilia
Non temere, o uomo dagli occhi
glauchi! Erompo dalla corteccia
fragile io ninfa boschereccia
Versilia, perché tu mi tocchi.
Tu mondi la persica dolce
e della sua polpa ti godi.
Passò per le scaglie e pe’ nodi
l’odore che il cuore ti molce.
Mi giunse alle nari; e la mia
lingua come tenera foglia,
bagnata di sùbita voglia,
contra i denti forti languìa.
Sapevi tu tanto sagaci
nari, o uomo, in legno sì grezzo?
Inconsapevole eri, e del rezzo
gioivi e de’ frutti spiccaci
e dell’ombre cui fànnoti gli aghi
del pino, seguendo il piacere
de’ v’ènti, su gli occhi leggiere
come ombre di voli su laghi.
Io ti spiava dal mio fusto
scaglioso; ma tu non sentivi,
o uomo, battere i miei vivi
cigli presso il tuo collo adusto.
Talora la scaglia del pino
è come una palpebra rude
che subitamente si schiude,
nell’ombra, a uno sguardo divino.
Io sono divina; e tu forse
mi piaci. Non piacquemi l’irto
Satiro sul letto di mirto,
e il panisco in van mi rincorse.
Ma tu forse mi piaci. Aulisce
d’acqua marina la tua pelle
che il Sol feceti fosca. Snelle
hai gambe come bronzo lisce.
Offrimi il canestro di giunco
ricolmo di persiche bionde!
Poiché non mi giovano monde,
riponi il tuo coltello adunco.
Io so come si morda il pomo
senza perdere stilla di suco.
Poi co’ miei labbri umidi induco
il miele nel cuore dell’uomo.
Riponi il ferro acre che attosca
ogni sapore. Tu non pregi
i tuoi frutti. I peschi, i ciriegi,
i peri, i fichi in terra tosca
son di dolcezza carchi, e i meli,
gli albricocchi, i nespoli ancora!
E tu li spogli in su l’aurora
velati dei notturni geli.
Da tempo in cuor mio non è gaudio
di tal copia. Ahimè, sono scarsi
i doni. E tu vedi curvarsi
i rami del susino claudio!
Ma io non ho se non la terra
pigna dal suggellato seme.
E a romper la scaglia che il preme
non giovami pur una pietra.
O uomo occhic’èrulo, m’odi!
Lascia che alfine io mi satolli
di queste tue persiche molli
che hai nel cesto intesto di biodi.
Ti priego! La pigna malvagia
mi vale sol per iscagliarla
contro la ghiandaia che ciarla
rauca. Non s’inghiotte la ragia.
Ma se le mastichi negli ozii,
quantunque ha sapore amarogno,
allor che il tuo cuore nel sogno
si bea lungi ai vili negozii,
certo ti piace, o uomo; ed io
te ne darò della più ricca.
Tu la persica che si spicca,
e ne cola il suco giulìo,
dammi, ch’io mi muoio di voglia
e da tempo non ebbi a provarne.
Non temere! Io sono di carne,
se ben fresca come una foglia.
Toccami. Non vello, non ugne
ricurve han le tue mani come
quelle ch’io so. Guarda: ho le chiome
violette come le prugne.
Guarda: ho i denti eguali, più bianchi
che appena sbucciati pinocchi.
Non temere, o uomo dagli occhi
glauchi! Rido, se tu m’abbranchi.
Abbrancami come il bicorne
villoso. La frasca ci copra,
i mirti sien letto, di sopra
ci pendano l’albe viorne.
Ma come, Occhiazzurro, sei cauto!
Forse amico sei di Diana?
Ora scende da Pietrapana
il lesto Settembre col flauto,
se cruenta nel corniolo
rosseggi la cornia afra e lazza.
Odo tra il gridìo della gazza
il richiamo del cavriuolo.
Sei tu cacciatore? Sei destro
ad arco, esperto a cerbottana?
Ora scende da Pietrapana
Settembre. Tu dammi il canestro.
Eh, veduto n’ho del pél baio
verso il Serchio correre il bosco!
Tu dammi il canestro. Conosco
la pesta se ben non abbaio.
Accomanda il nervo alla cocca.
Ne avrai della preda, s’io t’amo!
Imito qualunque richiamo
con un filo d’erba alla bocca.
La morte del cervo
Quasi era vespro. Atteso avea soverchio
alla posta del cervo, quatto quatto
fra le canne; e vinceami l’uggia. A un tratto
vidi l’uom che natava in mezzo al Serchio.
Un uomo egli era, e pur sentii la pelle
aggricciarmisi come a odor ferigno.
Di capegli e di barba era rossigno
come saggina, folte avea le ascelle;
ma pél diverso da quel delle gote
sotto il ventre parea che gli cominciasse,
bestial pelo, e che le parti basse
fossero enormi, cosce gambe piote,
come di mostro, tanto era il volume
dell’acqua che movea il natatore
se ben tenesse ambe le braccia fuore
con tutto il busto eretto in su le spume.
Un uomo era. A una frotta d’anitroccoli
sbigottita egli rise. Intesi il croscio.
Repente si gittò su per lo scroscio
della ripa, saltò su quattro zoccoli!
Lo conobbi tremando a foglia a foglia.
Ben era il generato dalla Nube
acro e bimembre, uom fin quasi al pube,
stallone il resto dalla grossa coglia.
Il Centauro! Di manto sagginato
era, ma nella groppa rabicano
e nella coda, di due piè balzàno,
l’equine schiene e le virili arcato.
Ritondo il capo avea, tutto di ricci
folto come la vite di racimoli;
e l’inclinava a mordicare i cimoli
dei ramicelli, i teneri viticci
con la gran bocca usa alla vettovaglia
sanguinolenta, a tritar gli ossi, a bere
d’un fiato il vin fumoso nel cratère
ampio, sopra le mense di Tessaglia.
Levava il braccio umano, dal bicipite
guizzante, a côrre il ramicel d’un pioppo.
Repente trasaltò, di gran galoppo
sparì per mezzo agli arbori precipite.
Il cor m’urtava il petto, in ogni nervo
io tremando. Ma, nella mia latèbra
umida verde, l’anima erami ebra
d’antiche forze. E udii bramire il cervo!
L’udii bramir di furia e di dolore
come s’ei fosse lacero da zanne
leonine. Balzai di tra le canne,
vincendo a un tratto il corporale orrore,
agile divenuto come un veltro
pe’ gineprai, per gli sterpeti rossi,
con silenzio veloce, quasi fossi
in sogno, quasi avessi i piè di feltro.
O Derbe, la potenza che desidero
è nei metalli che il gran fuoco ha vinto.
Eternato nel bronzo di Corinto
ti darò quel che i lucidi occhi videro?
Il Centauro afferrato avea pei palchi
delle corna il gran cervo nella zuffa,
come l’uom pe’ capei di retro acciuffa
il nemico e lo trae, finché lo calchi
a terra per dirompergli la schiena
e la cervice sotto il suo tallone,
o come nella foia lo stallone
la sua giumenta assal per farla piena.
Erto alla presa della cornea chioma,
con le due zampe attanagliava il dorso
cervino, superandolo del torso,
premendolo con tutta la sua soma.
Furente il cervo si divincolava
sotto, gli occhi riverso, il bruno collo
gonfio d’ira e di mugghio, in ogni crollo
crudo spargendo al suol fiocchi di bava.
Era del più vetusto sangue regio,
di quelli che ammansiva il suon del sufolo,
vasto e robusto il corpo come bufolo,
di vénti punte in ogni stanga egregio.
Quanti rivali, oh l’une di Settembre,
cacciati avea da’ freschi suoi ricoveri
e infissi nella scorza delle roveri,
pria d’abbattersi al Tassalo bimembre!
Si scrollò, si squassò, si svincolò.
E le muglia sonavan d’ogni intorno.
In pugno al mostro un ramo del suo corno
lasciando, corse un tratto; e si voltò.
Si voltò per combattere, le vampe
delle froge soffiando e le vendette.
Il Tassalo gittò la scheggia; e stette
guardingo, fermo su le quattro zampe.
Un fil di sangue gli colava giù
pel viril petto, giù per il pelame
cavallino il sudore. Come rame
gli brillava la groppa or meno or più
al sole obliquo che ferìa lontano
pe’ tronchi, variato dalle frondi.
S’era fatto silenzio nei profondi
boschi. Il soffio s’udìa ferino e umano.
Gli aghi dei pini ardere come bragia
parean sul campo del combattimento.
E l’aspro lezzo bestial nel vento
si mesceva all’odore della ragia.
Pontata a terra la sua forza avversa,
il cervo, come fa nel cozzo il tauro,
bassò l’arme. La coda del Centauro
tre volte battè l’aria come fersa.
Una rapidità fulva e ramosa
si scagliò con un bràmito di morte.
O Derbe, ancor ne freme per la sorte
del petto umano l’anima ansiosa.
Credetti udire il gemito dell’uomo
su l’impennarsi del caval selvaggio.
Ma il Tessalo con inuman coraggio
il cervo avea pur quella volta dómo!
Preso l’avea di fronte, alle radici
delle corna, e gli avea riverso il muso.
Entrambi inalberati, l’un confuso
con l’altro in un viluppo, i due nemici,
tra luci ed ombre, sotto il muto cielo
saettato da sprazzi porporini,
lottavano; e su i due corpi ferini,
se le zampe le punte il fitto pelo
il crino irsuto il prepotente sesso,
io vedea con angoscia il capo alzarsi
di mia specie, agitare i ricci sparsi
quel vento d’ira sul mio capo istesso.
E, gonfio il cor fraterno, d’un antico
rimorso, tesi l’arco dell’agguato.
Ma l’uom co’ pugni avea divaricato
e divelto le corna del nemico.
Udii lo schianto stridulo dell’osso
infranto, aperto sino alla mascella.
Fumide giù dal cranio le cervella
sgorgarono commiste al sangue rosso.
L’erto corpo piombò nel gran riposo
con urto sordo; sanguinò silente;
senza palpito stette; del cocente
flutto bagnò l’arsiccio suol pinoso.
Rise il Centauro come a quella frotta
lieve natante giù pel verde Serchio.
Poi levò, grande nel silvano cerchio,
il duplice trofeo della sua lotta.
Fiutò il vento. Ma prima di partirsi
colse tre rami carichi di pine;
e due n’avvolse attorno alle cervine
corna, e sì n’ebbe due notturni tirsi.
Del terzo incurvo fece un serto sacro
e se ne inghirlandò le tempie umane
ove le vene, enfiate dall’immane
sforzo, ancor cupe ardeangli di sangue acro.
Precinto, armato dei due tirsi foschi,
sollevò la gran bocca a respirare
verso il Cielo. S’udìa remoto il Mare
seguir col rombo il murmure dei boschi.
Sola una Nube era nell’alte zone
dell’Etere qual dea scinta che dorma.
Venerava il Nubìgena la forma
cui fecondò l’audacia d’Issione.
Bellissimo m’apparve. In ogni muscolo
gli fremeva una vita inimitabile.
repente s’impennò. Sparve Ombra labile
verso il Mito nell’ombre del crepuscolo.
L’asfodelo
GLAUCO: O Derbe, approda un fiore d’asfodelo!
Chi mai lo colse e chi l’offerse al mare?
Vagò sul flutto come un fior salino.
O Derbe, quanti fiori fioriranno
che non vedremo, su pe’ fulvi monti!
Quanti l’ungh’essi i curvi fiumi rochi!
Quanti per mille incognite contrade
che pur hanno lor nomi come i fiori,
selvaggi nomi ed aspri e freschi e molli
onde il cuore dell’esule s’appena
poi che il suon noto per rendergli odore
come foglia di salvia a chi la morde!
DERBE: Io so dove fiorisce l’asfodelo.
Là nel chiaro Mugello, presso il Giogo
di Scarperia, lo vidi fiorir bianco.
Anche lo vidi, o Glauco, anche lo colsi
in quell’Alpe che ha nome Catenaia
e all’Uccellina presso l’Alberese
nella Maremma pallida ove forse
ei sorride all’imagine dell’Ade
morendo sotto lunghia dei cavalli.
GLAUCO: O Derbe, anch’io errando su i vestigi
della donna letèa, vidi fiorire
tra Populonia e l’Argentaro il fiore
della viorna. Tutto le sorelle
bianche il bosco aspro nelle delicate
braccia tenean tacendo, e i negri lecci
e i sóveri nocchiuti al sol di giugno
dormivan come venerandi eroi
entro veli di spose giovinette.
DERBE: In Populonia ricca di sambuchi
io conobbi il marrubbio che rapisce
l’odor muschiato al serpe maculoso
e l’ebbio che colora il vin novello
di sue bacche e lo scirpo che riveste
il gonfio vetro dove il vin matura.
GLAUCO: La madreselva come la viorna
intenerire del suo fiato i tronchi
vidi a Tereglio lungo la Fegana,
e il giunco aggentilir la Marinella
di Luni, e su pe’ monti della Verna
l’avornio tesser ghirlandette al maggio.
DERBE: I gigli rossi e crocei ne’ monti,
alla Frattetta sotto il Sangro, io vidi;
anche alla Cisa in Lunigiana, e all’Alpe
di Mommio dove udii nel ciel remoto
gridar l’aquila. Spiriti immortali
pareano i gigli nell’eterna chiostra.
La bellezza dei luoghi era sì cruda
che come spada mi fendeva il petto.
Con un giglio toccai la grande rupe,
che non s’aperse e non tremò. Mi parve
tuttavia che un prodigio si compiesse,
o Glauco, e andando mi sentii divino.
GLAUCO: Nella Bocca del Serchio, ove la piana
sabbia vergano oscuramente l’orme
dei corvi come segni di sibille,
il narcisso marino io colsi, mentre
l’ostro premea le salse tamerici,
i cipressetti dell’amaro sale.
Lo smìlace conobbi attico; e al Gombo
anche conobbi il giglio ch’è nomato
pancrazio, nome caro ai greci efèbi;
e tanto parve ai miei pensieri ardente
di purità, che ai Mani dell’Orfeo
cerulo io lo sacrai, al Cuor dei cuori.
DERBE: O Glauco, noi facemmo della Terra
la nostra donna ed ogni più segreta
grazia n’avemmo per virtù d’amore.
Come il Sole entri nella Libra eguale,
ti condurrò sui monti della Pieve
di Camaiore, e alla Tambura, e ai fonti
del Frigido, e l’ungh’essa la Freddana
dietro Forci, e nell’Alpe di Soraggio,
ché tu veda fiorir la genzïana.
GLAUCO: Bella è la Terra o Derbe, e molto a noi
cara. Ma quanti fiori fioriranno
che non vedremo, nelle salse valli!
Le Oceanine ornavan di ghirlande
i lembi della tunica a Demetra
piangente per il colchico apparito.
Com’entri nello Scòrpio il Sole, o Derbe,
ti condurrò su i pascoli del Giovo
in mezzo ai greggi delle pingui nubi,
perché tu veda il colchico fiorire.
Madrigali dell’estate
IMPLORAZIONE
Estate, Estate mia, non declinare!
Fa che prima nel petto il cor mi scoppi
come pomo granato a troppo ardore.
Estate, Estate, indugia a maturare
i grappoli dei tralci su per gli oppi.
Fa che il colchico dia più tardo il fiore.
Forte comprimi sul tuo sen rubesto
il fin Settembre, che non sia sì lesto.
Sòffoca, Estate, fra le tue mammelle
il fabro di canestre e di tinelle.
LA SABBIA DEL TEMPO
Come scorrea la calda sabbia lieve
per entro il cavo della mano in ozio
il cor sentì che il giorno era più breve.
E un’ansia repentina il cor m’assale
per l’appressar dell’umido equinozio
che offusca l’oro delle piagge salse.
Alla sabbia del Tempo urna la mano
era, clessidra il cor mio palpitante,
l’ombra crescente di ogni stelo vano
quasi ombra d’ago in tacito quadrante.
L’ORMA
Sol calando, l’ungh’essa la marina
giunsi alla pigra foce del Motrone
e mi scalzai per trapassare a guado.
Da stuol migrante un suono di chiarina
venìa per l’aria, e il mar tenea bordone.
Nitrì di fra lo sparto un caval brado.
Ristetti. Strana era nel limo un’orma.
Però dall’alpe già scendeva l’ombra.
ALL’ALBA
All’alba ritrovai l’orma sul posto,
selvatica qual pesta di cerbiatto;
ma v’era il segno delle cinque dita.
Era il pollice alquanto più discosto
dall’altre dita e il mignolo ritratto
come ugnello di gàzzera marina.
La foce ingombra di tritume negro
odorava di sale e di ginepro.
Seguitai l’orma esigua, come bracco
che tracci e fiuti il baio capriuolo.
Giunsi al canneto e mi scontrai col riccio.
Livido si fuggì per folto il biacco.
Si levarono due tre quattro a volo
migliarini già tinti di gialliccio.
Vidi un che bianco; e un velo era dell’alba.
Per guatar l’alba dismarrii la traccia.
A MEZZODíOE
A mezzodì scopersi tra le canne
del Motrone argiglioso l’aspra ninfa
nericiglia, sorella di Siringa.
L’ebbi su’ miei ginocchi di silvano;
e nella sua saliva amarulenta
assaporai l’orìgano e la menta.
Per entro al rombo della nostra ardenza
udimmo crepitar sopra le canne
pioggia d’agosto calda come sangue.
Fremere udimmo nelle arsicce crete
le mille bocche della nostra sete.
IN SUL VESPERO
In sul vespero, scendo alla radura.
Prendo col laccio la puledra brada
che ancor tra i denti ha schiuma di pastura.
Tanaglio il dorso nudo, alle difese;
e per le ascelle afferro la naiàda,
la sollevo, la pianto sul garrese.
Schizzan di sotto all’ugne nel galoppo
gli aghi i rami le pigne le cortecce.
Di là dai fossi, ecco il triforme groppo
su per le vampe delle fulve secce!
L’INCANTO CIRCEO
Tra i due porti, tra l’uno e l’altro faro,
bonaccia senza vele e senza nubi
dolce venata come le tue tempie.
Assai lungi, di là dall’Argentaro,
assai lungi le rupi e le paludi
di Circe, dell’iddìa dalle molt’erbe.
E c’incantò con una stilla d’erbe
tutto il Tirreno, come un suo lebete!
IL VENTO SCRIVE
Su la docile sabbia il vento scrive
con le penne dell’ala; e in sua favella
parlano i segni per le bianche rive.
Ma, quando il sol declina, d’ogni nota
ombra lene si crea, d’ogni ondicella,
quasi di ciglia su soave gota.
E par che nell’immenso arido viso
della pioggia s’immilli il tuo sorriso.
LE LAMPADE MARINE
Lucono le meduse come stanche
lampade sul cammin della Sirena
sparso d’ulve e di pallide radici.
Bonaccia spira su le rive bianche
ove il nascente plenilunio appena
segna l’ombra alle amare tamerici.
Sugger di labbra fievole fa l’acqua
ch’empie l’orma del piè tuo delicata.
NELLA BELLETTA
Nella belletta i giunchi hanno l’odore
delle persiche mézze e delle rose
passe, del miele guasto e della morte.
Or tutta la palude è come un fiore
lutulento che il sol d’agosto cuoce,
con non so che dolcigna afa di morte.
Ammutisce la rana, se m’appresso.
Le bolle d’aria salgono in silenzio.
L’UVA GRECA
Or laggiù, nelle vigne dell’Acaia,
l’uva simile ai ricci di Giacinto
si cuoce; e già comincia a esser vaia.
Si cuoce al sole, e detta è passolina,
anche laggiù su l’istmo, anche a Corinto,
e nella bianca di colombe Egina.
In Onchesto il mio grappolo era azzurro
come forca di rondine che vola.
All’ombra della tomba di Nettuno
l’assaporai, guardando l’Elicona.
Feria d’agosto
Espero sgorga, e tremola sul lento
vapor che fuma dalla Val di Magra.
Un vertice laggiù, nel cielo spento
ultimo flagra.
Emulo della stella e della vetta,
arde il Faro nell’isola di Tino.
Dóppiano il Capo Corvo una goletta
e un brigantino.
Or sì or no la ragia con la cuora
si mescola nel vento diforàno.
Dell’agrore salmastro s’insapora
l’odor silvano.
Àlbica il mar, di cristalline strisce
varia, su i liti ansare odesi appena.
Ed ecco, il promontorio s’addolcisce
come l’arena.
Ogni cosa più gran dolcezza impetra.
Tutto avvolve l’immensa pace urania.
Fin, nell’aere tenue, si spetra
la cruda Pania.
O fanciullo, inghirlanda l’architrave;
salda la cera ai tuoi calami arguti;
rinfondi nella lampada il soave
olio di Buti.
Fa grido e aduna i tuoi compagni auleti,
che rechino le fìstole sonore
composte con le canne dei canneti
di Camaiore.
Sette di pino belle faci olenti
e sette di ginepro irsuto appresta,
a rischiarare gli ospiti vegnenti
per la foresta.
Fresche delizie avranno elli da scerre
bene accordate su la stoia monda:
l’uva sugosa delle Cinque Terre
e nera e bionda,
l’uva con i suoi pampani e i suoi tralci,
le pèsche e i fichi su la chiara stoia,
e le ulive dolcissime di Calci
in salamoia.
Infra l’ombrìna e il dèntice la triglia
grassa di scoglio veggan rosseggiare,
e il vino di Vernazza e di Corniglia
nelle inguistare.
Anche avremo di miele e di friscello
la focaccia che fu grata a Priapo,
e ghirlanda di cùnzia e d’alberello
per ogni capo.
O fanciulli, e per voi saremo lauti.
Io farò sì che ognun di voi ricordi
la mia feria d’agosto, ma se i flauti
non sien discordi.
Accendete le faci, e andiam nel bosco
a rischiarare l’ospite che viene.
Odo tinnire un riso ch’io conosco,
ch’io mi so bene.
E’di quella che fustiga i miei spirti,
d’una che acerba ride e dolce parla.
Accendete le faci e andiam tra i mirti
ad incontrarla.
Non vi stupite già che la crocòta
sia guisa d’oggidì tra Serchio e Magra.
Quest’ospite è d’origine beota,
vien di Tanagra.
Ma ben la grazia onde succinge il giallo
bisso e i sandali scopre è maraviglia
(porta anelli d’elettro e di cristallo
alla caviglia)
mentre il suo capo sottilmente ordito
piega, ove ferma un lungo ago l’intreccio,
fulvo come i ginepri che sul lito
morde il libeccio.
Rugge e odora il ginepro nella teda.
Or configgete in terra acceso il fusto.
Flauti silvestri, e il nume vi conceda
il tono giusto.
Fanciulli, attenti! Fate un bel concerto.
Pan vi guardi da nota roca o agra.
Quest’ospite che v’ode ha orecchio esperto;
vien di Tanagra.
(Data di composizione sconosciuta)
Il policefalo
Spezzate i flauti. Il lino che connette
le canne è quel medesmo degli astuti
lacci, e la cera troppo sa di miele.
Il suono puerile è breve oblìo
pel cor prestante che non ama il gioco
facile né cattare il sonno lieve.
Né tu sei cittadino d’Agrigento
nomato Mida, vincitore in Delfo.
Né t’insegnò la C’èsia il grande carme.
Pallade Atena dai fermi occhi chiari
prima inventò tal melodìa, nel giorno
in cui Medusa tronca fu dall’arpe.
Udì le grida e i pianti ch’Euriàle
mettea tra il sibilare dei serpenti
verso la strage; udì l’orrendo ploro.
I gemiti di Steno come dardi
fendeano l’etra, e tutti gli angui eretti
minacciavan l’eroe nato dall’oro.
Così la Melodìa di Mille Teste
nacque in giorno sanguigno; e la raccolse
Pallade Atena e modulò per l’uomo.
Le canne dei canneti d’Orcom’èno
ella guarnì con làmine di bronzo
e sì ne fece più possente il tuono.
Spezzate i flauti esigui, auleti imberbi,
poi che non han potenza al grande carme.
Cercatemi nel mare i nicchi intorti.
V’insegnerò davanti alle tempeste
dedurre dalle bùccine profonde
la melodìa delle mie mille sorti.
Il tritone
Il Tritone squammoso mi fu mastro.
S’accoscia su la sabbia ove la schiuma
bulica; e al sole la sua squamma fuma.
Giùngogli ov’è tra il pesce e il dio l’incastro.
Ha il gran torace azzurro come il glastro
ma l’argento sul dorso gli s’alluma.
Sceglie tra l’alghe la più verde, e ruma;
e gli cola il rigurgito salmastro.
Con la vasta sua man palmata afferra
la sua conca, v’insuffla ogni sua possa,
gonfio il collo le gote gli occhi istrambi.
Va il rimbombo pel mare e per la terra.
L’Alpe di Luni cròllasi percossa.
Bàlzano nel mio petto i ditirambi.
L’arca romana
Alpe di Luni, e dove son le statue?
I miei spirti desìan perpetuarsi
oggi sul cielo in grandi simulacri.
O antichi marmi in grandi orti romani!
Stan per logge e scalèe di balaustri,
con le lor verdi tuniche di muschi.
Negreggiano i cipressi i lecci i bussi
intorno alla fontana ove il Silenzio
col dito su le labbra è chino a specchio.
Vede apparire dal profondo il teschio
dell’eterna Medusa, la Gorgóne
vede sé fiso nel divino orrore.
Lamenta i fati il grido del paone.
Tutto è immobilità di pietra, vita
che fu, memoria grave, ombra infinita.
Un sarcofago eleggo, ov’è scolpita
in tre facce una pugna d’Alessandro;
pieno è di terra, e porta un oleandro.
Quivi masticherò la foglia amara
del mio lauro, seduto su quell’arca.
Quivi disfoglierò la rosa vana
dell’amor mio, seduto su quell’arca.
L’alloro oceanico
Oleandro d’Apollo, ambiguo arbusto
che d’ambra aulisci nell’ardente sera;
melagrano, e il tuo rosso balausto
quasi fiammella in calice di cera;
nautico pino, e il tuo scoglioso fusto
e i coni entro la chioma tua leggera;
olivo intorto da dolor vetusto,
e l’oliva tua dolce che s’annera;
ginepro irsuto, mirto caloroso,
lentisco, terebinto, caprifoglio,
cento corone dell’Estate ausonia;
ma te, sargasso, re del Marerboso,
vasto alloro del gorgo, anche te voglio,
che bacche fai come la fronda aonia.
Il Prigioniero
Ardi, sei triste come il Prigioniero
ignudo che il titano Buonarroto
cavò da quel che or splende àvio e rimoto
Sagro, per il pontefice guerriero.
Constretto anche tu sei del tuo mistero,
vittima consacrata al Mare Ignoto;
e la bocca tua bella grida a vòto
contra il fato che tolseti l’impero.
Tiranno fosti in Gela, trionfale
nell’ode pitia re? Traesti schiavi
da Tespe uomini e marmi alla tua Tebe?
O sul cavallo bianco eri a Micale,
presso il padre di Pericle, e pugnavi
con l’altra gioventù nel nome d’Ebe?
La vittoria navale
Se quella ch’arma di sue grandi penne
la prua della trière samotrace
venir dee verso me che senza pace
persévero lo sforzo mio ventenne,
non altrove ma fra le vive antenne
di questa selva nata dal focace
lito, in vista dell’Alpe che si tace
gloriosa di suo candor perenne,
l’attenderò dicendo: «Ben mi vieni
dalla piaggia che i Càbiri nutrica,
dall’isola che sta di contro all’Ebro.
Io son l’ultimo figlio degli Elleni:
m’abbeverai alla mammella antica;
ma d’un igneo dèmone son ebro».
Il peplo rupestre
Mutila dea, tronca le braccia e il collo,
la cima dell’Altissimo t’è ligia.
E’tua la rupe onde alla notte stigia
discese il bianco aruspice d’Apollo.
La cruda rupe che non dà mai crollo,
o Nike, il tuo ventoso peplo effigia!
La violenza delle tue vestigia
eternalmente anima il sasso brollo.
Quando sul mar di Luni arde la pompa
del vespro e la Ceràgiola è cruenta
sotto il monte maggior che la soggióga,
sembra che dispetrata a volo irrompa
tu negli ardori e sul mio capo io senta
crosciar la gioia dell’immensa foga.
Il vulture del sole
S’io pensi o sogni, se tal volta io veda
quasi vampa tremar l’aria salina,
se nel silenzio oda piombar la pina
sorda, strider la ragia nella teda,
sonar sul loto la palustre auleda,
istrepire il falasco e la saggina,
subitamente del mio cor rapina
tu fai, di me che palpito fai preda,
o Gloria, o Gloria, vulture del Sole,
che su me ti precipiti e m’artigli
sin nel focace lito ove m’ascondo!
Levo la faccia, mentre il cor mi duole,
e pel rossore de’ miei chiusi cigli
veggo del sangue mio splendere il mondo.
L’ala sul mare
Ardi, un’ala sul mare è solitaria.
Ondeggia come pallido rottame.
E le sue penne, senza più legame,
sparse tremano ad ogni soffio d’aria.
Ardi, veggo la cera! E’ l’ala icaria,
quella che il fabro della vacca infame
foggiò quando fu servo nel reame
del re gnòssio per l’opera nefaria.
Chi la raccoglierà? Chi con più forte
lega saprà rigiugnere le penne
sparse per ritentare il folle volo?
Oh del figlio di Dedalo alta sorte!
Lungi dal medio limite si tenne
il prode, e ruinò nei gorghi solo.
Altius egit iter
L’ombra d’Icaro ancor pe’ caldi seni
del Mar Mediterraneo si spazia.
Segue di nave solco che più ferva.
Ogni rapidità di v’ènti agguaglia.
Voce d’uom che comandi ama nel turbine.
Ode cl’amor di nàufraghi iterato
e n’ha disdegno, ché silenzioso
fu quel rimoto suo precipitare.
Io la vidi laggiù, verso l’occaso.
Era nel palischermo io co’ miei due
remi. A prora il mio Dèspota seduto
era, e guatava fiso la mia cura.
Tra quegli e me subitamente vidi
ignuda l’ombra d’Icaro apparire.
Quasi il color marino aveano assunto
le sue membra, ma gli occhi eran solari.
Sul petto giovenile intraversate
ancor gli stavan le due rosse zone,
già per gli òmeri vincoli dell’ale,
simili a inermi bàltei di porpora.
«O Dèspota, costui» dissi «è l’antico
fratel mio. Le sue prove amo innovare
io nell’ignoto. Indulgi, o Invitto, a questa
mia d’altezze e d’abissi avidità!».
Ditirambo IV
Icaro disse: «La figlia del Sole
a me poggiata come ad un virgulto
sul limite dei paschi
guatava il candido armento dei buoi
pascere lungo il C’èrato rupestro.
Mi si piegava il destro
òmero sotto la mano regale
umida di sudor gelido; e, dentro
me, tremavano tutte le midolle,
negli orecchi fragore
sonavami sì forte ch’io temeva
udir dal sacro Dicte i Coribanti
atroci e il rombo del bronzo percosso.
E la città di Cnosso
splendea di mura còttili e di blocchi
oltre l’irto canneto atto a far dardi.
“O Pasife, che guardi?”
chiese il Re sopraggiunto. Ed anelava
nella sua barba violetta come
l’uva cidònia; ché membruto egli era
e gravato di giallo adipe il fianco.
“Io guardo il toro bianco,
quello che tu non désti a Posidone”
la figlia di Perseide rispose.
E le vette nevose
dell’Ida biancheggiavan men del toro
niveo diniegato al dio profondo.
“Perché sì tremebondo
sei tu, figlio di Dedalo?” il Re chiese.
E allor Pasife: “Questo ateniese
giovinetto somiglia ad Androgèo
che non torna d’Atene;
e per ciò mi sostiene,
il cor triste mi folce;
per ciò tanto m’è dolce
le dita porre nel suo crin prolisso”.
Io rividi l’Ilisso,
i platani gli allori gli oleandri
che l’ad’ombrano, e il bosco degli ulivi
presso Colono caro all’usignuolo.
Rividi il patrio suolo
entro l’anima mia subitamente,
come colui ch’è presso alla sua fine;
perocché nel mio crine
ponea le dita la donna solare,
e l’ossa mie flagrare
parean nel suo sorriso accosto accosto
siccome rami cui fiamma s’appicchi
quando i legni sien ricchi
d’aroma e inariditi dall’Estate.
E le navi l’unate
coi rematori seduti agli scalmi
in fila a battere il flutto diviso,
e l’Eracleo, l’Amniso,
i due porti ricurvi, e il fiume, e i monti
e tutta quanta l’isola selvosa
con le vigne col dìttamo e col miele
ardere in quel sorriso
vidi per mezzo ai cigli miei morenti.
E il sire degli armenti
udii mugghiare in quel foco sonoro,
mugghiare il bianco toro
diniegato al gran Padre enosigèo».
Icaro disse: «Poi che l’ombra cadde
(il vertice dell’Ida solitario
nell’etra rosseggiava
come il fiore del dìttamo crinito)
nascostamente ritornai su’ paschi,
gonfio d’odio il cuor tacito; e scagliai
contra il toro le selci acuminate
dell’àlveo del C’èrato divulse
e imposte alla mia frombola cretese.
Il boaro m’intese
e mi rincorse ratto su per l’erbe
con la verga di còrilo a minaccia.
Ma perse la mia traccia
nell’ombra che cadea; né mi conobbe,
né l’erbe verdi tenner le vestigia.
L’infanda cupidigia
per ovunque era sparsa! Palpitare
parea pur anco nelle stelle vaghe!
Il vento perea piaghe
sùbite aprire nel mio corpo nudo
acerbe sì che non sarìami valso
a medicarle il dìttamo dell’Ida.
E piena era di grida
compresse la mia gola nell’arsura,
quando giunsi alle mura
del Labirinto ove il mio padre aveva
ambage innumerevole di vie
riempiuta d’error laborioso.
Quivi ristetti ascoso
perocché vidi il duro fabro alzato
su la soglia difficile in silenzio
e la figlia del Sole in gran segreto
favellare con lui senza sorriso,
marmorea nel viso,
come chi chieda all’arte del mortale
una cosa tremenda e non ne tremi».
Icaro disse: «L’officina arcana
era in un orto a vista del recurvo
porto Eracleo frequente
di ben costrutte navi dalla prora
dipinta; e gli utensìli erano acuti,
e la fronte del fabbro era contratta.
Sorgea la forma esatta
della falsa giovenca nella luce
del dì, quasi che sazia di pastura
spirasse dalle froge il fiato olente
di cìtiso, tranquilla su’ piè fessi.
Con tale arte commessi
eran gli sculti legni e ricoperti
di fresca pelle, che parean felici
d’ubertà non fallibile i bei fianchi
e le mamme in sul punto di gonfiarsi
all’affluir d’un latte repentino.
Furtiva nel giardino
venìa Pasife senza le sue donne
a rimirar l’opera fabrile
ch’ella infiammava della sua lussuria
impaziente; e seco avea l’irsuto
boaro come giudice perfetto.
Costui rise: il difetto
scorse nella giogaia. Il grande artiere
fu docile al consiglio dell’uom rude.
Pasife con le nude
braccia premette gli òmeri miei nudi,
s’abbandonò su me come su fulcro
insensibile, assorta nel suo sogno
inumano, perduta nel portento.
Saliva un violento
foco dal suolo ov’eran le radici
della mia forza, e tutto m’avvolgea,
e tutto come arbusto resinoso
parea vi crepitassi e vi splendessi.
Oh giardino di spessi
aromi, carco di cera e di miele,
carco di gomma e d’ambra,
ove s’udìa scoppiar la melagrana
come un riso che scrosci e quasi mosto
si liquefaccia in una bocca d’oro!
Recava l’Austro il coro
delle femmine ancelle dal palagio
remoto, che sedevano ai telai
o tingevan di porpora le lane
o i semplici isceglieano al beveraggio
o di carni ammannivan la vivanda
per la figlia del Sole,
ignare ch’ella fosse innanzi al Sole
preda schiumosa d’Afrodite infanda».
Icaro disse: «La figlia del Sole
amai, che per libidine soggiacque
alla bestia di nerbo più potente.
Splendea divinamente
la sua carne quand’ella penetrava
nel simulacro per imbestiarsi.
Io chiuso in me riarsi.
Io, quando vidi il callido boaro
la prima volta addurre
alla falsa giovenca il toro bianco
che si batteva il fianco
sonoro con la fersa della coda
adorno i corni brevi d’una lista
di porpora, balzai gridando: «O Sole,
a te consacrerò, sopra la rupe
inconcussa, oggi un’aquila sublime!»
E andai verso le cime
con la bipenne l’arco e le saette,
ben coturnato, a far le mie vendette».
Disse: «Da prima vidi l’ombra vasta
palpitar su la torrida petraia.
Fulvo il macigno, cerula era l’ombra.
E dopo udii la romba
delle penne per l’aer verberato.
Gridò verso il suo fato
ella repente, ferma su le penne;
la corda mia nel tendersi stridette;
il grido parve lacerare il cielo
e lo stridor fu lieve qual garrito
di rondine ma il tèlo
che si partì fu forte e fu cruento.
Sentii sul viso il vento
del volo che fece impeto a salire,
poi si fiaccò, girò come in un turbo,
piombò verso lo scrìmolo del monte.
Mi cadde su la fronte
una goccia di sangue larga e calda
come goccia di nuvolo d’agosto
quando lampeggia e tuona.
L’aquila s’abbattè sul sasso prona
il petto, aperta l’ali
crude che strepitarono sul sasso,
erta sùbito il rostro alla difesa.
La roccia discoscesa
ardeva nel meriggio come il ferro
nella fucina, sotto i miei coturni.
La fronda dei viburni
era come la scoria dei metalli
liquefatti, e la fronda degli avorni.
S’udìano i capricorni
belare in mezzo al dìttamo crinito,
e l’odore dell’erba vulneraria
mescevasi nell’aria
tremula con l’odor dell’aquilino
sangue che d’ogni sangue è più vermiglio.
Col rostro e con l’artiglio
fu pronta la satellite di Giove
a combattere contra il feditore
su la rupe inconcussa.
Allora io dissi: “Augusta,
se tu sei senza volo, io sia senz’armi”.
E disdegnai ritrarmi
qual uomo a saettarla di lontano.
Ma gittai l’arco; e mi fasciai la mano
con il corame della mia faretra,
mi fascia la man destra
a difesa degli occhi minacciati
dal becco adunco. Feci impeto, entrai
in un selvaggio fremito di penne;
in un orrendo strepito di penne
come in un nembo fulvo preso fui
dalla possa grifagna;
sentii fuggirmi sotto le calcagna
la rupe e gridai forte.
Combattemmo nel rombo della morte.
Io con la destra le afferrai la strozza
robusta come tronco di serpente,
e strinsi e strinsi; e con la manca trassi
dalla ferita fresca il dardo primo,
più volte e più nell’imo
fegato lo confissi.
Combattemmo sul ciglio degli abissi,
in cospetto del Sole, a mezzo il giorno.
Gloria d’Icaro! Intorno
alla zuffa ogni bàttito di penne
sprizzava mille stille
di sangue come porpora in faville
accesa ed isvolata via per festa.
A gloria la mia testa
pareva di faville incoronarsi.
E le piume dei tarsi
e del petto e del collo e delle ascelle
isvolavan su l’Ostro.
E un rivolo purpureo dal rostro
colava sul mio braccio imporporato
fino al cùbito. E làcera dai colpi
delle rampe la destra coscia m’era
sì che la messaggera
Nike, se mai sostò sul solitario
vertice andando verso Atene mia
a recar le corone
dell’oleastro, fece il paragone
tra l’aquilino sangue e il sangue icario.
Ah, non temetti il suo giudicio, o Sole.
Parvemi, quando apersi il pugno ostile
e la nemica ricoprì la rupe
alfine spenta, parvemi che tutta
la sua virtute aligera mi fosse
nelle braccia e negli òmeri trasfusa
e m’agitasse i fragili precordii
una immortale avidità di volo.
L’alto vertice solo
e l’esanime preda eran con meco,
e il dio della lucifera quadriga.
Pregai: “Divino auriga,
questa vittima t’offro in olocausto
perché tu mi sii fausto
se dato mi sarà tentar le vie
dove agiti le tue criniere bianche.
Il torace le viscere le branche
e il gran capo rostrato
in un fuoco di sterpi e d’erbe io t’ardo
e la canna del dardo.
Concedi, o dio magnifico, se m’odi,
concedimi che immuni dalla brace
io dell’aquila serbi l’ali forti
e con meco le porti
perché le veda entrambe il padre mio
Dedalo d’Eupalàmo
ateniese, artefice sagace,
perché due me ne foggi a simiglianza
l’uomo di molti ingegni, ma più forti,
ma con più grande numero di penne”.
E tolsi la bipenne
che al cinto appesa avea dietro le reni:
con ella diedi nelle congiunture,
di muscoli e di tendini gagliarde
così che resisteano al doppio taglio.
“Ahi che l’incudine e il maglio
e l’industria paterna non varranno
a radicarmi la virtù dell’ala
nella scapula somma” io mi pensai
considerando, come il citarista
inchino su le corde,
la tenacia del nesso tendinoso
che biancheggiava di color di perla
nel cruore. E la mente ne fu trista.
E trista fu la mozza ala, a vederla.
E, nel fuoco di sterpi fumigando
la residua carne offerta al Sole,
io mi pensai: “Si duole
il dio solingo sul suo carro ardente
e non cura l’insolito libame.
La figlia sua nel simulacro infame
ei vide, onniveggente;
e dell’arte di Dedalo si cruccia
e mi scopre nel cor la piaga acerba,
nel cor che non si lagna,
cui dìttamo né stebe non mi vale”.
Mi gravai d’ambo l’ale
congiunte con la stringa del mio cinto;
e l’alta volontà fu la compagna
della doglia fatale
quando, scorto dal dio, di sangue tinto,
scesi dal monte verso il Labirinto».
Icaro disse: «L’officina arcana
era in una caverna del dirupo,
dietro il porto d’Amniso
a levante di Cnosso, erma sul mare.
S’udiva starnazzare
e stridere d’uccelli senza tregua,
pe’ fóri dello scoglio ferrugigno.
Il suolo di macigno
consparso era d’antichi dolii rotti
e di fimo biancastro.
Rimbombavano al Giàpice salmastro
le concave pareti
come le curve targhe dei Cureti
all’urto delle picche furibonde.
Sotto, il fragor dell’onde
avea lunga eco per ambagi ignote
quando l’Apeliote
enfiava i verdazzurri otri del sale.
Quivi all’innaturale
opera intento era il mio padre, quivi
i congegni del volo
oprava senza incude e senza maglio.
Ben gli diedi travaglio
e affanno, ché pareami troppo tarda
la sua fatica per il mio desìo
e sempre poche mi parean le penne
adunate dinanzi a lui che oprava.
Per lui la cera flava,
stretta in pani, col pollice e col fiato
ammollii; dispennai la copiosa
cacciagione; sollecito le penne
separai dalle piume.
Il sangue onde imperlavasi l’acume
d’ogni fusto divulso
vertudioso parvemi; e mi piacque
a stilla a stilla suggerlo, accosciato
presso il fabro mirabile che oprava
seduto su la pietra.
Quante volte votai la mia faretra,
infaticato sagittario errante
per le rupi lontane!
I falchi gli sparvieri e le poiane
caddero, e gli avvoltoi
calvi gravati di carni lugùbri,
e gli astori co’ resti dei colùbri,
ancor ne’ becchi adunchi, e i gru strimonii
gambuti dai lunghi ossi
accòmodi al tibìcine, ogni specie
pennipotente altivolante cadde
per la forza degli archi miei cidonii
e de’ miei dardi gnossi.
E mi tornava io carico di preda
celeste alla caverna;
e pur sempre pareva al mio desìo
che fosse tarda l’opera paterna.
Era quivi l’odore della cera
e della ragia, ché l’operatore
mescolava le lacrime del pino
chiare al dono trattabile dell’ape,
acciocché questo fosse più tegnente.
Escl’uso avea dall’opera i metalli
come gravi ch’ei sono, e l’armatura
composto avea con le vergelle ferme
del còrilo e pieghevoli, congiunte
da bene intorto stame in ciechi nodi,
e sópravi disteso avea l’omento,
la grassa rete che le interiora
degli animali include, ben dissecco.
E sul congegno solido e leggero
ei disponea per ordine le penne,
dalla più breve alla più lunga elette
acutamente, come nella fistola
di Pan le avene dìspari digradano
per la natura dei diversi numeri.
E lino e cera usava a collegarle,
cera immista di ragia, come dissi.
E le sapeva inflettere con tanta
arte, per imitar la curvatura
della vita, che l’ala su la pietra
inerte parea trepida e tepente
e penetrata d’aere, ventosa
come fosse per rompere dal nido
o per posarsi dopo lungo volo».
Icaro disse: «Non veduto, vidi.
Misi gli occhi per entro ad un rosaio,
ove all’alito mio silentemente
si sfogliarono due tre rose passe.
Parve che si sfogliasse
con elle e si sfacesse il cuor mio caro.
E senza fine amaro
mi fu tutto che vidi non veduto,
in quel giardino muto
ove non più s’udìa la pingue gomma
gemere né scoppiar pomo granato
come riso puniceo che scrosci.
Fracidi i frutti, flosci
erano, grinzi come cuoi risecchi
gli arbori, crudi stecchi;
le cellette soavi, aride spugne,
senza la melodìa laboriosa.
Rotta al suolo, corrosa,
informe fatta come vil carcame
era la vacca infame
offerta dalla frode al toro bianco
perché l’inclito fianco
alla figlia del Sole
empiesse di semenza bestiale.
E la donna regale,
figlia del Sole e dell’Oceanina,
Pasife di Perseide, il cui vólto
m’era apparito come il penetrale
della luce nel tempio dell’iddio
splendido, la reina
dell’isola che fu cuna al Cronìde
ricca in dìttamo in uve in miele e in dardi,
l’adultera dei pascoli era quivi
sola col suo spavento.
Bocca anelante, nari acri, occhio intento
avea, pallido volto come l’erbe
aride, consumato dai sudori
e dalle schiume della sua lussuria.
Discinta era, e l’incuria
della sua chioma la facea selvaggia
qual femmina del Tìaso tebano
che defessa dall’orgia ansi in un botro
del Citerone, esangue
fra il tirso spoglio della fronda e l’otro
voto del vino, al gelo antelucano.
Sentiva nel suo ventre, abbrividendo,
vivere il mostro orrendo,
fremere il figlio suo bovino e umano».
Icaro disse: «Era stellato il cielo,
era pacato il mare,
nella vigilia mia meravigliosa.
La roggia stella ascosa
nel mio cor vigile era la più grande.
Le cose miserande
eran lungi da me come da un dio
beverato di néttare novello.
Parea dal corpo snello
dileguarmisi il triste peso come
dal cielo eòo si dileguava l’ombra,
e nella carne sgombra
un aereo sangue irradiarsi.
Nel cielo eòo comparsi
i pallidi crepuscoli, il messaggio
della Titània fece su per l’acque
un infinito tremito tremare.
Subitamente il giubilo del mare
si converse in desìo tumultuoso,
irto le innumerevoli sue squamme.
Allor tutte le fiamme
del giorno dal mio cor parvero nate,
per sempre tramontate
dietro di me le stelle della notte,
l’ali della mia sorte
già nel periglio glorioso aperte.
Ahi, su la pietra inerte
si giacevan gli esànimi congegni,
e le mie braccia umane erano spoglie
della virtù pennata
che la mia scure avea tronca sul monte
in giorno di vittoria.
E sùbito mi fu nella memoria
la tenacia del nesso tendinoso
che biancheggiava di color di perla
nel cruore vermiglio.
“Aquila vinta” dissi “Icaro, figlio
di Dedalo d’Atene,
ai tuoi mani consacra i ligamenti
arteficiati e fragili dell’ali
che sono opera d’uomo;
perché, come ti vinse combattendo
lungi e presso, così nel tuo dominio
vincerti vuole d’impeto e d’ardire”.
E il mio padre destai dal sonno. Dissi:
“Padre, è l’ora”. Non altro dissi. Muto
stetti mentr’ei m’accomodava l’ali
agli òmeri, mentr’ei gli ammonimenti
iterava con voce mal sicura.
“Giova nel medio limite volare;
ché, se tu voli basso, l’acqua aggreva
le penne, se alto voli, te le incende
il fuoco. Tieni sempre il giusto mezzo.
Abbimi duce, séguita il mio solco.
Deh, figliuol mio, non esser tropp’oso.
Io ti segno la via. Sii buon seguace”.
E le mani perite gli tremavano.
Il mirabile artiere ebbi in dispregio
silenziosamente. “Al primo volo
io con te lotterò, per superarti.
Fin dal battito primo, io sarò l’emulo
tuo, la mia forza intenderò per vincerti.
E la mia via sarà dovunque, ad imo,
a sommo, in acqua, in fuoco, in gorgo, in nuvola,
sarà dovunque e non nel medio limite,
non nel tuo solco, s’io pur debba perdermi”
risposegli il mio cor silenzioso.
E gli sovvenne della grande frode
(difficile all’oblìo questo mio cuore
sì che l’acqua del Lete non ci valse:
furon pur tre le tazze tracannate)
e del dolo fabrile gli sovvenne.
Fra le mani perite che tremavano
riveder seppe gli utensìli acuti
intesi a compiacer la trista voglia.
“Icaro figlio, m’odi? Io m’alzo primo.
Volerò senza foga, e tu mi segui”.
Ma con l’arte dell’aquila io spiccai
dal limitar della caverna un volo
sì veemente che diseparato
fui sùbito. Gli stormi isbigottirono
su per le rosse rupi, in fuga striduli
temendo la rapina dileguarono.
Oh libertà! Pel corpo nudo l’aere
matutino sentii crosciarmi, gelido
tutto rigarmi di chiarezza irrigua:
non i torrenti ove uso fui detergere
dopo le cacce la sanguigna polvere
m’avean rigato di sì grande giòlito.
Oh nel cor mio rapidità del palpito
ond’era impulso il volo, in egual numero!
Pareami già gli intaversati bàltei
esser conversi in vincoli tendìnei,
tutto l’azzurro entrar per gli spiracoli
del mio pulmone, il firmamento splendere
sul mio torace come sul terribile
petto di Pan. Gridava “Icaro! Icaro!”
il mio padre lontano. “Icaro! Icaro!”
Nel vento e nella romba or sì or no
mi giungeva il suo grido, or sì or no
il mio nome nomato dal timore
giungeva alla mia gioia impetuosa.
“Icaro!” E fu più fievole il richiamo.
“Icaro!” E fu l’estrema volta. Solo
fui, solo e alato nell’immensità.
Passai per entro al grembo d’una nuvola:
un tepore un odore dolce e strano
eravi, quasi l’alito di Néfele
madre d’Elle che diede nome al ponto.
Il vento del remeggio i veli tenui
sconvolse, un che di roseo svelò,
un che di biondo. Odore dolce e strano
m’illanguidiva, inumidiva l’ali.
Il vol decadde. Vidi undici navi
di prora azzurra fornite di tolda,
che flagellavano il mar con la palma
dei remi in lunga eguaglianza concordi,
andando a impresa lontana. Sul ponte
pelte l’unate luceano e di bronzo
clìpei tondi, aste lunghe. Mi giunse
l’urlo dei nàuti. Veloce volai,
oltre passai. Qual fu dunque la mente
dei nàuti rudi mirando il prodigio?
Come di me favellarono? Dissero
forse: “In un campo di strage la màscula
Nike, nell’ombra d’un cumulo grande
dai carri estrutto riversi e dirotti,
o a piè d’un grande trofeo d’armi illustri,
sul suol cruento cedette all’eroe
che l’afferrò per la chioma; e fu pregna.
E quei che rema lassù con tant’ala
è certo il figlio di lei giovinetto”.
Di queste l’alto cor mio si compiacque
imaginate parole, ché stirpe
di Nike avrebbe ei voluto infierire.
E vidi poi sotto fulgere in Paro
iscalpellata il candor del Marpesso.
E vidi poi dall’erratica Delo
salir vapore di caste ecatombi.
Poi non vidi altro più, se non il Sole.
Poi non volli altro più, se non da presso
mirarlo eretto sul suo carro ignìto,
giugnerlo, farmi ardito
di prendere pei freni il suo cavallo
sinistro, Etonte dalle rosse nari.
Il pètaso e i talari
d’Erme Cillenio avea conquisi il mio
sogno meridiano, il mio delirio.
Congiunto era con Sirio
altissimo nel medio orbe, nell’arce
somma dei cieli Elio d’Eurifaessa.
E l’altezza inaccessa
e l’ardore terribile agognai
ed offerirgli l’ali che sul monte
crètico escluse avea dall’olocausto.
Mi sembrava inesausto
il valor mio ché l’animo agitava
le morte penne, l’animo immortale
e non il braccio breve.
Ed ecco, vidi come un’ombra lieve
sotto di me nella profonda luce
ove non appariva segno alcuno
del mare cieco e dell’opaca terra;
ancóra un’ombra vidi, un’altra ancóra.
E dissi: “Icaro, è l’ora”.
Ma il cor non mi mancò. Non misi grido
verso il mio fato, come la devota
alla saetta aquila moritura;
né rimpiansi il paterno ammonimento.
Guatai senza spavento
in giuso; e l’ombre lievi eran le penne
dell’ali, che cadeano tremolando
dalla cera ammollita.
Mi sollevai con impeto di vita
verso il Titano: udii rombar le ruote
del carro sul mio capo alzato; udii
lo scàlpito quadruplice; il baleno
scorsi dell’asse d’oro, il fuoco anelo
dei cavalli. Piròe dalla criniera
sublime, Etonte dalle rosse nari.
E i cavalli solari
annitrirono. Il ventre di Flegonte
brillò come crisòlito; la bava
d’Eòo fu come il velo d’Iri effuso.
E vidi il pugno chiuso
che teneva le rèdini, la fersa
garrir sul fuoco udii. Tesi le braccia.
“O Titano!” E la faccia
indicibile, sotto la gran chioma
ambrosia, verso me si volse china;
e i raggi le cingean mille corone.
“Elio d’Iperione,
t’offre quest’ali d’uomo Icaro, t’offre
quest’ali d’uomo ignote
che seppero salire fino a Te!”
Si disperse nel rombo delle ruote
la mia voce che non chiedea mercè
al dio ma lode eterna.
E roteando per la luce eterna
precipitai nel mio profondo Mare».
Icaro, Icaro, anch’io nel profondo
Mare precipitai, anch’io v’inabissi
la mia virtù, ma in eterno in eterno
il nome mio resti al Mare profondo!
Tristezza
Tristezza, tu discendi oggi dal Sole.
La tua specie mutevole è la nube
del cielo, e son le spume
del mare gli orli del tuo lino lungo.
Sembri Ermione, sola come lei
che pel silenzio vienti incontro sola
traendo in guisa d’ala il bianco lembo.
Sì le somigli, ch’io m’ingannerei
se non vedessi ciocca di viola
su la sua gota umida ancor del nembo.
Ha tante rose in grembo
che la spina dell’ultima le punge
il mento e glie l’ingemma d’un granato.
Come fauno barbato
accosto accosto mòrdica le rose
il capricorno sordido e bisulco.
Le Ore marine
Quale delle Ore
che mi conducesti
viventi e furon larve
cinerine
quando il sole disparve
nella triste sera,
o Ermione,
quale delle Ore marine
ch’ebbero il tuo volto
e le tue mani e le tue vesti
e la tua movenza leggiera
e ciascuno de’ tuoi gesti
e ogni grazia che tu avesti,
o Ermione,
quale delle vergini Ore
che mansuefecero col solo
silenzio il mar selvaggio
quasi che accolto
se l’avessero in grembo
come un fanciullo torvo
per blandire il suo duolo
sorridendo,
o Ermione,
quale delle Ore divine,
con gli occulti beni
che tu le désti,
t’accompagna nel viaggio
di là dai fiumi sereni,
di là dalle verdi colline,
di là dai monti cilestri?
Quella che raccoglie
su la sterile sabbia
le negre foglie
della querce sacra,
o Ermione,
creature dei monti
macere dal sale amaro,
cui rapì dalla balza
il vento e diede al flutto amaro
che le travaglia
e le rifiuta?
Quella che guarda il faro
lontano su la rupe nuda
ove il flutto si frange,
o Ermione,
l’insonne occhio ardente
che già volge i suoi fochi
per il deserto specchio
infaticabilmente?
Quella che inclina
pensosa l’orecchio
su la conca marina
e ascolta la romba
della voluta
e odevi la tromba
del Tritone che chiama
la Sirena perduta,
o Ermione,
e odevi il mar che piange
la sua Sirena perduta?
Quale delle Ore,
quale delle Ore marine,
con gli occulti beni
che tu le désti,
col segreto linguaggio
che le apprendesti,
o Ermione,
t’accompagna nel viaggio
di là dai fiumi sereni,
di là dalle verdi colline,
di la dai monti cilestri,
o Ermione,
di là dalle chiare cascine,
di là dai boschi di querci,
di là da’ bei monti cilestri?
Litorea dea
Estate, bella quando primamente
nella tua bocca il mite oro portavi
come l’Arno i silenzii soavi
porta seco alla foce sua silente!
Ma più bella oggi mentre sei morente
e abbandonata ne’ tuoi cieli blavi,
che col cùbito languido t’aggravi
su la nuvola incesa all’occidente.
T’arda Ermione sul tuo letto roggio
gli àcini d’ambra dove si sublima
il pianto delle tue pinete australi.
Io della tua bellezza ultima foggio
una divinità che su la cima
del cuor mi danza: Undulna dai piè d’ali.
Undulna
Ai piedi ho quattro ali d’alc’èdine,
ne ho due per mallèolo, azzurre
e verdi, che per la salsédine
curvi sanno errori dedurre.
Pellùcide son le mie gambe
come la medusa errabonda,
che il puro pancrazio e la crambe
difforme sorvolano e l’onda.
Io l’onda in misura conduco
perché su la riva si spanda
con l’alga con l’ulva e col fuco
che fànnole amara ghirlanda.
Io règolo il segno lucente
che lascian le spume degli orli:
l’antico il men novo e il recente
io so con bell’arte comporli.
I musici umani hanno modi
lor varii, dal dorico al frigio:
divine infinite melodi
io creo nell’esiguo vestigio.
Le tempre dell’onda trascrivo
su l’umida sabbia correndo;
nel tràmite mio fuggitivo
gli accordi e le pause avvincendo.
O sabbia mia melodiosa,
non un tuo granello di sìlice
darei per la pómice ascosa
della fonte all’ombra dell’ìlice.
Brilli innumerevole e immensa
alla mia l’unata scrittura;
e l’acqua che bevi t’addensa,
lo sterile sale t’indura.
Il rilievo t’è tanto sottile,
dedotto con arte sì parca,
che men gracile in puerile
fronte sopracciglio s’inarca.
A quando a quando orma trisulca
il lineamento intercide;
pesta umana, se ti conculca,
s’impregna di luce e sorride.
Figure di néumi elle sono
in questa concordia discorde.
O c’ètera curva ch’io suono,
né dito né plettro ti morde.
Io trascorro; e il grande concento
in me taciturna s’adempie,
dallunghie de’ miei piè d’argento
alle vene delle mie tempie.
Scerno con orecchia tranquilla
i toni dell’onda che viene,
indago con chiara pupilla
più oltre ogni segno più lene;
così che la musica traccia
m’è suono, e ne’ righi leggeri,
mentre oggi odo ansar la bonaccia,
leggo la tempesta di ieri.
Che è questo insolito albore
che per le piagge si spande?
Teti offre alla madre di Core
dogliosa le salse ghirlande?
L’albàsia de’ giorni alcionii
anzi il verno giunge precoce
e dagli arcipelaghi ionii
attinge del Serchio la foce?
Il molle Settembre, il tibìcine
dei pomarii, che ha violetti
gli occhi come il fiore del glìcine
tra i riccioli suoi giovinetti,
fa tanta chiarìa con due ossi
di gru modulando un partènio
mentre sotto l’ombra dei rossi
corbézzoli indulge al suo genio.
Respira securo il mar dolce
qual pargolo in grembo materno.
La pace alcionia lo molce
quasi aureo latte, anzi il verno.
Onda non si leva; non s’ode
risucchio, non s’ode sciacquìo.
Di luce beata si gode
la riva su mare d’oblìo.
La sabbia scintilla infinita,
quasi in ogni granello gioisca.
Lùccica la valva polita,
la morta medusa, la lisca.
In ogni sostanza si tace
la luce e il silenzio risplende.
La Pania di marmi ferace
alza in gloria le arci stupende.
Tra il Serchio e la Magra, su l’ozio
del mare deserto di vele,
sospeso è l’incanto. Equinozio
d’autunno, già sento il tuo miele.
Già sento l’odore del mosto
fumar dalla vigna arenosa.
All’alba la luna d’agosto
era come una falce corrosa.
Di Vergine valica in Libra
l’amico dell’opere, il Sole;
e già le quadrella ch’ei vibra
han meno pennute asticciuole.
Silenzio di morte divina
per le chiarità solitarie!
Trapassa l’Estate, supina
nel grande oro della cesarie.
Mi soffermo, intenta al trapasso.
Onda non si leva. L’albèdine
è immota. Odo fremere in basso,
a’ miei piedi, l’ali d’alc’èdine.
Bianche si dilungan le rive,
tra l’acque e le sabbie dilegua
la zona che l’arte mia scrive
fugace. Sorrido alla tregua.
A’ miei piedi il segno d’un’onda
gravato di nero tritume
s’incurva, una màcera fronda
di rovere sta tra due piume,
un’arida pigna dischiusa
che pesò nel pino sonoro
sta tra l’orbe d’una medusa
dispersa e una bacca d’alloro.
Vengono farfalle di neve
tremolando a coppie ed a sciami:
nella luce assemprano lieve
spuma fatta alata che ami.
Azzurre son l’ombre sul mare
come sparti fiori d’acònito.
Il lor tremolìo fa tremare
l’Infinito al mio sguardo attonito.
Il tessalo
Tra i fusti ove le radiche fan groppo
e già si gonfia venenato il fungo,
odo incognito piede solidungo
come bronzo sonar contra l’intoppo.
Caval brado non è; però che troppo
forte suoni lo scàlpito ed a lungo
per la selva selvaggia ove no l’giungo
duri l’irrefrenabile galoppo.
Certo è l’ugna del Tessalo bimembre
contra i rigidi coni e l’aspre stirpi
sonante, l’ugna del Centauro illeso.
Ei vuole, mentre il giovine Settembre
circa il fragile vetro intesse scirpi
bevere il nero vino all’otre obeso.
L’otre
I.
Pelle del becco sordido e bisulco
fui, prima che mi traesser le coltella.
Deh come olente alla stagion novella
egli era e tra le capre sue petulco,
o uom che m’odi, e ben barbato e torvo
e di téttole dure ornato il gozzo
e d’aspre corna il fronte invitto al cozzo,
negli occhi sùlfure atro come corvo!
Sagliente egli era, e mogli in abbondanza
ebbe, e feroce fu nelle sue pugne;
ma al suon d’un sufoletto, erto su l’ugne
fésse, imitava il satiro che danza.
Occiso penzolò sanguinolente
dall’uncino; e squarciato fumigava,
nudi ostentando in sua ventraia cava
l’argnon focoso e il fegato possente.
Tratta gli fui di dosso umida e floscia.
Pelo e carniccio poi tolsemi il ferro.
Ghianda di gallonéa, scorza di cerro
fecermi bona concia nella troscia.
Rasciutta nelle cieche stìe, premuta
dai macigni, distesa dall’orbello,
per sorte un dì cucita fui del bello
con fil d’accia da femmina saputa.
Otre divenni e principe degli otri
obeso appresso i pozzi e le cisterne.
Acqua di cieli, acqua di fonti eterne
contenni, acqua di rivoli e di botri,
dolci acque e fresche ma di odor caprigno
sapide tuttavia, sì che talvolta
le femmine entro me chiusero molta
menta e il seme dell’ànace fortigno.
O uomo, l’otre invidia le tue seti!
Pianure arsicce, livide petraie,
pigre maremme fabbricose, ghiaie
e sabbie in foco per deserti greti,
stridor di carri, ànsito di giumenti
io conobbi, e il guatar del sitibondo.
Io valsi più che l’universo mondo
al desiderio delle fauci ardenti!
O uomo, da benigni iddii tu hai
le tue seti. Il garòfolo e il papavero
non così vividi ardere mi parvero
come la bocca tua che dissetai.
Non il capro, onde tratta fui sua spoglia,
mai si precipitò come chi volle
bere da me. Tutto lo feci molle.
Oh gaudio della gola che gorgoglia!
Mani cupide premono i miei fianchi
turgidi (sembra che gli arsi occhi bevano
prima che i labbri) mani mi sollevano
su arsi vólti, di polvere bianchi.
Va da me per le vene al cor profondo
la mia liquida gioia, al più remoto
viscere. Oh bene immenso! Eccomi vòto.
In dieci gole ho dissetato il mondo.
II.
E vòto fratel fui della bisaccia
grinzuta ch’ebbe la cipolla e il tozzo
in coniugio. E non più rempiuto al pozzo
fui, non udii crosciar la secchia diaccia,
ma dalla mamma copiosa udii
crosciare emunto il latte nel presepio
occl’uso. Per indùlgere al mio tedio
nova sorte mi fecero gli iddii.
Gonfio di latte, anch’io ubero parvi
più capace e men roseo. Notturno
pendevo nel presepio taciturno,
come gli uberi sotto i materni alvi.
Ma non mai tanto l’otre ebbesi amica
la pace come allor che, in su lo scorcio
dell’autunno, s’apparentò con l’orcio
per favore di Pallade pudica.
Pacifera è l’oliva e tarda e pingue.
da poi che gemuto ha sotto la mola,
si raddolcisce e più non fa parola;
mentre la garrula acqua ha mille lingue.
Or pieno fui di castità palladia
e di silenzio. Tacito ascoltava
pulsar la tempia fievole dell’ava
e il pane lievitare nella madia.
D’improvviso, una notte, mentre vòto
giacea sul palco fra i minori otrelli,
venne un bifolco tutto irto di velli
e seco trassemi a un officio ignoto.
Duro il suo pugno parvemi qual sasso
e l’ugna adunca qual branca di belva.
Tramontavano l’Orse. Ad una selva
orrida, in riva al fiume, arrestò il passo.
Quivi nel sangue prono era disteso
il suo nimico. Gli troncò la testa
con una falce; e quella mozza testa
prese a’ capegli, e me carcò del peso.
Subitamente mi rempiei del nero
sangue. E disse il falcato al teschio: «Avevi
tu sete? Orbè, se t’arde sete, bevi,
nell’otro che t’ho acconcio, il vin tuo mero».
E il teschio e il sangue dentro ei mi serrò.
Gonfio ero fatto, ed ei mi sollevò.
Su la riva del fiume ei mi portò.
In mezzo alla corrente ei mi scagliò.
Fervido era anco il buon licor doglioso.
O uom che m’odi, acqua di fonte, bianco
latte, olio lene, quanto ebbi nel fianco,
non vale il sangue tuo meraviglioso!
Entro di me fu breve e immensa guerra,
ismisurata e rapida tempesta.
Non parvemi serrar la tronca testa
ma contenere l’orbe della Terra.
Poi nel gel fluviale in grumo e in sanie
si converse quel peso; e la corrente
mi voltò per le ripe, oscuramente
trassemi verso le contrade estranie.
III.
Era l’aurora quando in mezzo ai salici
mi rinvenne l’Egìpane biforme.
Uom che m’odi, il tuo spirito che dorme
più non vede gli antichi numi italici!
Vivon eglino pieni di possanza:
hanno il fiato dei boschi entro le nari;
i gioghi venerandi han per altari,
e di sé fanvi testimonianza.
Più non li vedi, o uomo. Nel tuo petto
il cor si sface come frutto putre.
E la Terra materna invan ti nutre
de’ suoi beni. Tu plori al suo conspetto!
Mi rinvenne l’Egìpane divino.
Possentemente rise in suo pél falbo;
poi tolsemi per trarmi di fra gli àlbori
umidi: mi credea gonfio di vino.
Dava schiocchi la lingua sua salace
mentr’ei m’aprìa. Ma pél non gli tremò
quando scoperse il teschio e il grumo; «Tò»
disse «nell’otro il capo del gran Trace!»
E sopra l’erba mi sgravò del reo
peso, mi scosse. Poi raccolse il teschio,
lo rotò, lo scagliò forte nel Serchio
gridando: «Tu non sei capo d’Orfeo!»
Tal era il riso de’ suoi denti scabri
quale un rio lapidoso. Allor nell’acque
chiare mi terse; m’asciugò. Gli piacque
anco d’enfiarmi co’ suoi curvi labri.
Pieno fui del divino afflato, pieno
fui del selvaggio spirito terrestro!
Venne allora il Panisco, che mal destro
era nel nuoto, al bel fiume sereno.
E il nume padre a lui mi diede; ed io
tenerlo a galla seppi, io lo sorressi
nel nuoto quando i piccoli piè féssi
troppo agitava celere disìo.
Molto l’amai. Dall’ombelico in giuso
di pél biondiccio qual cavriuoletto
era ma liscio il rimanente, eretto
il codìnzolo, un po’ lusco e camuso.
Tenérmigli solea sotto l’ascella
ove appena fiorìa qualche peluzzo
rossigno; e avea del suo cornetto aguzzo
tema non mi bucasse per rovella,
sì rapido era il pueril corruccio
s’ei districava il piè dall’erba acquatica
o alzar vedeva l’anatra selvatica
o sentiva guizzar da presso il luccio.
Viride Serchio in tra due selve basse!
Mattini estivi, quando il bel Panisco
biondetto sen venìa, cinto d’ibisco
roseo, con suoi lacci e con sue nasse!
Troppo, ahimè, destro erasi fatto al nuoto.
Omai fendeva le più rapide acque;
sì che più giorni e più l’otre si giacque
solo nel limo, e alfin rimase vòto.
IV.
Ma gli alti iddii anco mi fur benigni.
Un bel pastore dalla barba d’oro
mi raccolse. Ed all’ombra d’un alloro
mi lavorò con suoi sottili ordigni.
Quattro di bosso ei fecemi cannelle
ineguali, e assai bene le polì.
La più corta alla spalla m’inserì
e strinse con cerate funicelle.
In bocca tre l’artiere me ne messe,
l’una più lunga, l’altre due minori;
nella più lunga numerosi fóri
praticò, che diverse voci desse.
Le due brevi, di largo cerchio e stretto,
aperte in giuso a mo’ di padiglione,
servir di grande e piccolo bordone
dovean come le frondi all’augelletto.
Oh meraviglia, quando per la corta
canna egli enfiò la nova cornamusa!
Tutta di pia felicità soffusa
giovine donna venne in su la porta,
nuda le belle braccia, e disse: «O caro
marito, o barbadoro, ecco che nasce
ricchezza ingente nelle nostre case;
ed i granai si rempiono di grano,
gli alveari si rempiono di miele,
d’aurei pomi si rempiono i frutteti,
di rose citerèe tutti i verzieri,
e di cervi e di damme le mie selve;
e avrò tra i muri miei variodipinti
un talamo con quattro alte colonne
e vestimenta avrò d’ogni colore
e per cignermi d’ogni sorta cinti;
e avrò e avrò nelle mie veglie ancora
per filar la mia lana mille ancelle
mariterò le mie dolci sorelle
ai satrapi dell’Asia spaziosa!».
Questo fecero grande incantamento
l’otre e il pastore con un poco d’aria,
o uom che m’odi, con un poco d’aria
e col nume di Cintio arco-d’-argento;
però che il faretrato Citaredo,
il qual pur trasse Marsia di vagina,
sia largo della sua virtù divina
all’inculto pastore e al dotto aedo,
al calamo forato e alla testudine
tricorde se lui prieghi un puro cuore.
Noi come greggi i vesperi e l’aurore
pascemmo nella verde solitudine.
Il pino irsuto diede il molle fico,
i narcissi fioriron su i ginepri,
danzò il veltro armillato con le lepri,
e l’antico fu novo e il novo antico.
Oh maraviglia! Come l’elitropio
al Sol, volgeasi al suono la soave
donna dalla sua porta. E l’architrave
parea sculto da Dedalo il Cecropio
e lo stipite rozzo una colonna
del Palagio di Pelope l’Eburno,
quando il pastor dicea: «Come l’alburno,
intorno al cuore mi biancheggi, o donna!»
Divenuta più candida nel suono
ell’era, come il lin nell’acqua infuso.
Sorridea sempre. E la conocchia e il fuso,
la spola e i licci erano in abbandono.
Pe’ capegli repente l’abbrancò,
pe’ suoi capegli come l’uva nera,
come il folto giacinto a primavera,
come dell’edera il corimbo forte,
pe’ capegli repente l’abbrancò
la Morte, l’abbattè, pel calle oscuro
la trascinò: di là dal fiume curvo,
nel regno buio la portò la Morte.
E nessuno e nessuno più la scorse.
Cupo silenzio fu dentro le case.
L’ombra lunga occupò la soglia, invase
il talamo. E l’aurora più non sorse.
Ma pianto non sonò dentro le case:
erano il cuore e gli occhi opache selci.
E fuggì la lucertola dall’embrice,
anche fuggì la rondine, anche l’ape.
Io pendea tristo, presso il focolare.
Ed infine il pastore si sovvenne
dell’otre. Mi guatò gran tratto. Venne,
mi tolse, muto, senza lacrimare.
Io mi credeva ancóra esser premuto
contra il fianco dal cubito leggero
e disciogliere in me, rivolto al nero
Ade, l’ingombro del dolore muto.
«Sposa, ch’io venga su le tue vestigia!»
E da me svelse i calami con cruda
mano, li infranse. L’anima sua nuda
e noi profferse alla gran Notte stigia.
V.
O uom che m’odi, fu laboriosa
la mia sorte. Non fecero grandi ozii
a me gli iddii. Solstizii ed equinozii
passano; passa il colchico, e la rosa.
Tutto ritorna; e la saggezza è vana.
La saggezza non val legno ficulno
né zàccaro caprino. Io voglio, alunno
di Libero, finir di fine insana.
Se bene obeso, molto vidi e udii
però che amico fui de’ viatori
insonni, esperto di molti sapori,
a servigio di efimeri e d’iddii.
Molto contenni, puro o adulterato.
Il falso e il vero son le foglie alterne
d’un ramoscello: il savio non discerne
l’una dall’altra, l’un dall’altro lato.
E la virtù si tigne come lana,
e la felicità come Vertunno
tramuta la sua specie. Io voglio, alunno
di Libero, finir di fine insana.
So nelle loro generazioni
diverse l’acqua, il latte, l’olio tacito;
so il sangue umano e so l’afflato pànico
e so le metamorfosi dei suoni.
Ma il licor rubicondo che ti rende
simile ai numi, o uom che m’odi, ignoro:
quello onde gonfio mi credette il buono
Egìpane, e il gran riso ancor mi splende!
Tu m’hai raccolto, o uomo nello speco
ove per ruzzo trassemi il lupatto.
Che valgo? Vedi tu come son fatto!
Piacciati dunque d’insanire meco.
Desìo d’altre fortune non mi tocca.
Più lungamente vivere non posso.
Ricucimi la spalla ov’ebbi il bosso
animato e ristringimi la bocca.
Tu vedi: sono vecchio e non ti giovo.
Ma è larga alla tua sete e alla tua fame
la Terra, e tu le devi il tuo libame.
Nell’otre vecchio or poni il vino nuovo!
Vendemmierai con cantici di gioia.
Farai del mosto mite il vin possente.
Della giovine forza, alla nascente
l’una, tu m’empirai queste mie cuoia,
che me le schianti almen la giovinezza
terribile! E coronami di fiori
selvaggi, ed al più folto degli allori
tuoi sospendimi. Oh ultima bellezza!
Discisso tonerò nel gran meriggio.
Lungi s’udrà nell’alta luce il tuono.
E tu dirai, la pura fronte prono:
«Bevi l’offerta, o Terra. Io son tuo figlio».
Gli indizii
Ahimè, la vigna è piena di languore
come una bella donna sul suo letto
di porpora, che attenda l’amadore.
Ahimè, di bacche il frùtice s’affoca,
la viorna s’incénera, più lieve
che la prima lanugine dell’oca.
Ahimè, già qualche canna ha la pannocchia,
nella belletta il cìpero si schiude,
fa sue querele antiche la ranocchia.
Ahimè, fiore travidi gridellino
che di gruogo salvatico mi parve,
e tinto di gialliccio il migliarino.
In uno m’abbattei lungo il canale
ove tra lente imagini di nubi
s’infràcida la dolce carne erbale.
Villoso egli era. Intento io lo guatai;
e la morte di quella che mi piacque
seppi negli occhi suoi distrambi e vai.
Sogni di terre lontane
I PASTORI
Settembre, andiamo. E’ tempo di migrare.
Ora in terra d’Abruzzi i miei pastori
lascian gli stazzi e vanno verso il mare:
scendono all’Adriatico selvaggio
che verde è come i pascoli dei monti.
Han bevuto profondamente ai fonti
alpestri, che sapor d’acqua natìa
rimanga ne’ cuori esuli a conforto,
che lungo illuda la lor sete in via.
Rinnovato hanno verga d’avellano.
E vanno pel tratturo antico al piano,
quasi per un erbal fiume silente,
su le vestigia degli antichi padri.
O voce di colui che primamente
conosce il tremolar della marina!
Ora l’ungh’esso il litoral cammina
la greggia. Senza mutamento è l’aria.
il sole imbionda sì la viva lana
che quasi dalla sabbia non divaria.
Isciacquìo, calpestìo, dolci romori.
Ah perché non son io co’ miei pastori?
LE TERME
Settembre, oggi veder vorrei l’azzurro
del tuo cielo riempiere la bocca
rotonda della maschera di pietra
in cima alla colonna che si sfalda
nei secoli, convolta dal rosaio
che si sfoglia nell’ora, entro quel chiostro
quadrato che di biondo travertino
chiarisce il cotto delle antiche Terme.
Forse d’Orfeo ragionerei con Erme
sul margine del fonte ove i delfini
reggon la tazza in su le code erette;
o forse udrei l’ammonimento grave
dei due neri superstiti cipressi
ai due lor verdi cipressetti alunni
che crescono ove caddero i maggiori
percossi dalla folgore di luglio.
O forse mi parrebbe, oltre il cespuglio
soave, udire l’ànsito del servo
alla stanga appaiato col giumento
circa la mola cònica di lava;
e più de’ nudi torsi, e più de’ busti
e più de’ cippi mi sarebbe cara
l’ombra delle farfalle su pe’ dolii
risarciti con piombo dal colono.
Settembre, là, sul fianco del bel Trono
d’Afrodite, l’aulètride dagli occhi
a mandorla e dal seno di cotogna
sta, sovrapposta l’una all’altra coscia,
adagiata sonando le due tibie
con i frammenti dell’esperte dita;
e il Re Pastore immoto nel basalte
figge all’Eternità gli occhi corrosi.
Ronzano l’api ne’ silenziosi
orti dei bianchi monaci defunti;
e nelle celle àbitano gli iddii,
làcerano le Menadi la vittima,
Anassimandro medita, dal muro
svégliasi il carme dei fratelli Arvali.
«Enos Lases iuvate». Un’ape or entra,
per la chioma di Iulia che l’illude.
Nell’àlveo d’un ricciolo si chiude.
LO STORMO E IL GREGGE
Settembre, teco io sia sul Loricino
che fece blandi gli ozii del pretore:
in sabbia quasi rosea fluisce
scabra di rughe e sparsa di negrore
come il palato del mio dolce veltro.
Sorvolano le rondini quel vetro
lieve cui godon rompere coi bianchi
petti: una piuma cade e corre al mare.
E di là dalle verdi canne i monti
di Cori son cilestri come il mare.
Forza del Lazio quanto sei soave!
Obliate città dei re vetusti,
atrii del Citaredo imperiale,
un bel fanciullo vien con le sue capre
e regna i lidi, impube re latino!
Il suo gregge è di numero divino,
nero e bianco a sembianza delle frotte
alate che sorvolano il bel rivo,
pari olocausto al Giorno ed alla Notte.
Quasi fiore l’esigua foce s’apre.
Equa ride alle rondini e alle capre.
LACUS IUTURNAE
Settembre, chiare fresche e dolci l’acque
ove il tuo delicato viso miri;
e dolce m’è nella memoria il mio
natale Aterno in letto d’erbe lente,
e l’Amaseno quando muor domato
presso l’Appia col fratel suo l’Uffente,
e la Cyane ascosa tra i papìri,
e la Vella sì cara alla vitalba.
E pien di deità dai colli d’Alba
lo specchio di Diana ancor mi luce.
Ma un’altr’acqua al mio sogno è più divina.
Quella m’attingi e ne riempi l’urna.
Sotto la roggia mole palatina
presso il Tempio di Castore e Polluce,
occhio di Roma è il Fonte di Iuturna.
Deh mio misterioso amor lontano!
Alte sul Fòro nel meridiano
silenzio stan le tre colonne parie
come d’argento cui salsezza infoschi.
Gli elci neri sul colle imperiale
sembran ruine dei primevi boschi.
Di ferrigno basalte arde la Via
Sacra tra gli oleandri giovinetti
e i sepolcreti dei Latini prisci.
Si tace il Fonte ne’ suoi marmi lisci
come quando Tarpeia la Vestale
vi discendea con l’anfora d’argilla.
Tremola il capelvenere sul tufo
e sul mattone, l’acqua è glauca, tinge
il suo letto l’unense; una lucerta
su l’ara dei Diòscuri tranquilla
gode in grembo alla dea di lunga face.
Ombre delle farfalle in quella pace!
Poc’acqua accolta, santità dell’Urbe!
Le custodi del Fuoco sempiterno
scendono alla marmorea piscina?
o i Tindàridi rossi di latina
strage, per beverare i due cavalli?
Deh lauri nuovi! Presso il puteale
crescono, nel sacrario di Iuturna.
Li veglia la Speranza taciturna.
LA LOGGIA
Settembre, il tuo minor fratello Aprile
fioriva le vestigia di San Marco
a Capodistria, quando navigammo
il patrio mare cui Trieste addenta
co’ i forti moli per tenace amore.
Capodistria, succiso adriaco fiore!
Io vidi nella l’oggia d’un palagio
nidi di balestrucci appesi a travi
fosche, tra mazzi penduli di sorbe.
Cinericcio era il tempo, umido e dolco.
Or laggiù, pel remaggio senza solco,
tu certo aduni i neribianchi stormi,
e quelli di Pirano e di Parenzo,
che si rincontreranno in alto mare
con l’altra compagnia che vien di Chioggia.
E son deserti i nidi nella l’oggia,
e dei mazzi di sorbe son rimase
forse le canne appese pel lor cappio.
S’ode nell’ombra quella parlatura
che ricorda Rialto e Cannaregio.
Una colomba tuba dal bel fregio.
LA MUTA
Settembre, ora nel pian di Lombardia
è già pronta la muta dei segugi,
de’ bei segugi falbi e maculati
dall’orecchie biondette e molli come
foglie del fiore di magnolia passe.
La muta dei segugi a volpe e a damma
or già tracciando va per scope e sterpi.
Erta ogni coda in bianca punta splende.
Presso il gran ponte sta Sesto Calende.
Corre il Ticino tra selvette rare,
verso diga di roseo granito
corre, spumeggia su la china eguale,
come labile tela su telaio
c’èlere intesta di nevosi fiori.
Chiudon le grandi conche antichi ingegni,
opere del divino Leonardo.
Il sorriso tu sei del pian lombardo,
o Ticino, il sorriso onde fu pieno
l’artefice che t’ebbe in signoria;
e il diè constretto alle sue chiuse donne.
Oh radure tra l’oro che rosseggia
dello sterpame, tiepide e soavi
come grembi di donne desiate,
sì che al calcar repugna il cavaliere!
Vanno i cani tra l’èriche leggiere
con alzate le code e i musi bassi,
davanti il capocaccia che gli allena
per mezz’ottobre ai lunghi inseguimenti.
S’ode chiaro squittire in que’ silenzii.
Il suon del corno chiama chi si sbanda
e chi s’attarda e trae la lingua ed ansa.
Già la virtù si mostra del più prode.
Il buon maestro dell’arte sua si gode:
talor gli ultimi aneliti esalare
sembra l’Estate aulenti sotto l’ugne
del palafren che nel galoppo falca.
E, fornito il lavoro, ei torna al passo
per la carraia ingombra di fascine:
con la sua muta va verso il canile,
va verso Oleggio ricca di filande.
Vapora il fiume le sterpose lande.
LE CARRUBE
Settembre, son mature le carrube.
Or tu pel caldo mare di Cilicia
conduci dalla riva cipriota
la sàica a scafo tondo e a vele quadre.
Bonaccia, e nel saffiro non è nube.
Germa con sue maggiori quattro vele,
garbo o schirazzo, legni levantini
carichi di baccelli dolci e bruni
conduci verso l’isola dei Sardi.
E vien teco un odor di tetro miele.
La siliqua, che ingrassa la muletta
dall’ambio lene e in carestìa disfama
la plebe dalla bianca dentatura,
lustra come i capelli tuoi castagni
mentre stai su la coffa alla vedetta.
Certo, d’olio di sésamo son unte
quelle tue ciocche in forma di corimbi.
Certo, ritrovi or tu nel gran dolciore
del Mar Cilicio l’obliato carme
che alla Cipride piacque in Amatunte.
Settembre, teco esser vorremmo ovunque!
Il novilunio
Novilunio di settembre!
Nell’aria lontana
il viso della creatura
celeste che ha nome
Luna, trasparente come
la medusa marina,
come la brina nell’alba,
labile come
la neve su l’acqua,
la schiuma su la sabbia,
pallido come
il piacere
su l’origliere,
pallido s’inclina
e smuore e langue
con una collana
sotto il mento sì chiara
che l’oscura:
silenzioso viso esangue
della creatura
celeste che ha nome Luna,
cui sotto il mento s’incurva
una collana
sì chiara che l’offusca,
nell’aria lontana
ov’ebbe nome Diana
tra le ninfe eterne,
ov’ebbe nome Selene
dalle bianche braccia
quando amava quel pastore
giovinetto Endimione
che tra le bianche braccia
dormiva sempre.
Novilunio di settembre!
Sotto l’ambiguo lume,
tra il giorno senza fiamme
e la notte senza ombre,
il mare, più soave
del cielo nel suo volume
lento, più molle
della nube
lattea che la montagna
esprime dalle sue mamme
delicate,
il mare accompagna
la melodìa
della terra, la melodìa
che i flauti dei grilli
fan nei campi tranquilli
roca assiduamente,
la melodìa
che le rane
fan nelle pantane
morte, nel fiume che stagna
tra i salci e le canne
lutulente,
la melodìa
che fan tra i vinchi
che fan tra i giunchi
delle ripe rimote
uomini solinghi
tessendo le vermene
in canestre,
con sì lunghi
indugi su quelle parole
che ritornano sempre.
Novilunio di settembre!
Tal chiaritate
il giorno e la notte commisti
sul letto del mare
non lieti non tristi
effondono ancora,
che tu vedi ancora
nella sabbia le onde
del vento, le orme
dei fanciulli, le conche
vacue, le alghe
argentine,
gli ossi delle seppie,
le guaine
delle carrube,
e vedi nella siepe
rosseggiar le nude
bacche delle rose canine
e nel campo la pannocchia
dalla barba d’oro
lucere, che al plenilunio
su l’aia il coro
agreste monderà con canti,
e nella vigna
il grappolo d’oro
che già fu sonoro d’api,
e nel verziere il fico
che dall’ombelico stilla
il suo miele,
e su la soglia del tugurio
biancheggiar la conocchia
dell’antica madre che fila,
che fila sempre.
Novilunio di settembre,
dolce come il viso
della creatura
terrestre che ha nome
Ermione, tiepido come
le sue chiome,
umido come il sorriso
della sua bocca
umida ancóra
della prima uva matura,
breve come la sua cintura
nel cielo verde
come la sua veste!
Ha tremato
nella sua veste
verde che odora
ad ogni passo
come un cespo ad ogni fiato,
ha tremato
al primo gelo notturno
ella che a mezzo il giorno
dormì con la guancia
sul braccio curvo
e si svegliò con le tempie
madide, con imperlato
il labbro, nella calura,
vermiglia come un’aurora
aspersa di calda rugiada
e sorridente.
E io le dico: «O Ermione,
tu hai tremato.
Anche agosto, anche agosto
andato è per sempre!
Guarda il cielo di settembre.
Nell’aria lontana
il viso della creatura
celeste che ha nome
Luna, con una collana
sotto il mento sì chiara
che l’oscura,
pallido s’inclina e muore…»
Ma dice Ermione,
non lieta non triste:
«T’inganni. Quella ch’è sì chiara
è la falce
dell’Estate, è la falce
che l’Estate abbandona
morendo, è la falce
che falciò le ariste
e il papavero e il cìano
quando fiorìano
per la mia corona
vincendo in lume il cielo e il sangue;
ed è la faccia dell’Estate
quella che langue
nell’aria lontana, che muore
nella sua chiaritate
sopra le acque
tra il giorno senza fiamme
e la notte senza ombre,
dopo che tanto l’amammo,
dopo che tanto ci piacque;
e la sua canzone
di foglie di ali di aure di ombre
di aromi di silenzii e di acque
si tace per sempre;
e la melodìa di settembre,
che fanno i flauti campestri
ed accompagna il mare
col suo lento ploro,
non s’ode lassù nell’aria
lontana ov’ella spira
solitaria
il suo spirto odorato
di alga di résina e di alloro;
e l’uomo che s’attarda
in tessere vermene
già fece del grano mannelle
ed or fa canestri
per l’uva, con un canto eguale,
e tutto è obliato;
obliato anche agosto
sarà nell’odor del mosto,
nel murmure delle api d’oro;
per tutto sarà l’oblìo,
per tutto sarà l’oblìo;
e niuno più saprà
quanto sien dolci
l’ombre dei voli
su le sabbie saline,
l’orme degli uccelli
nell’argilla dei fiumi,
se non io, se non io,
se non quella che andrà
di là dai fiumi sereni,
di là dalle verdi colline,
di là dai monti cilestri,
se non quella che andrà
che andrà lungi per sempre,
e non con le tue rondini, o Settembre!»
Il commiato
L’Alpe di Mommio un pallido velame
d’ulivi effonde al cielo di giacinto,
come un colle dell’isola di Same
o di Zacinto.
Il Monte Magno di più cupo argento
fascia la sua piramide; il Matanna
è porpora e viola come il lento
fior della canna.
O canneti lunghessi i fiumicelli
di Camaiore, appreso ho il vostro carme.
Vedess’io rosseggiare gli albatrelli
sul Monte Darme!
Dal Capo Corvo ricco di viburni
i pini vedess’io della Palmaria
che col lutto de’ marmi suoi notturni
sta solitaria!
Potess’io sostenerti nella mano,
terra di Luni, come un vaso etrusco!
In te amo il divin marmo apuano,
l’umile rusco;
amo la tua materia prometèa,
la sabbia delle tue selve aromali,
l’aquila dei tuoi picchi, la ninfea
de’ tuoi canali.
Potesse l’arte mia, da Val di Serchio
a Val di Magra e per le Pànie al Vara
e al Golfo, tutta stringerti in un cerchio
con l’alpe a gara!
Troppo è grave al mio cor la dipartenza.
Come dal corpo, l’anima si esilia
dal marmo che biancheggia tra l’Avenza
e la Versilia.
Tempo è di morte. In qualche acqua torpente
or perisce la dolce carne erbale.
Strider non s’ode falce ma si sente
odor letale.
Dìruta la Ceràgiola rosseggia,
là dove Serravezza è co’ due fiumi,
quasi che fero sangue in ogni scheggia
grondi e s’aggrumi.
Sta nella cruda nudità rupestre
il Gàbberi irto qual ferrato casco.
Ecco, e su i carri per le vie maestre
passa il falasco.
Metuto fu dalla più grande falce
nella palude all’ombra del Quiesa,
ove raggiato di vermène il salce
par chioma accesa
tra cannelle di stridulo oro secco,
tra pigro sparto di pallor bronzino.
Su l’acqua un lampo di smeraldo, e il becco
tuffa il piombino.
Deh foss’io sopra un burchio per la cuora
navigando, e di tifa e di sparganio
carico ei fosse, e fóssevi alla prora
fitto un bucranio
o un nibbio con aperte ali, e vi fosse
odore di garofalo nel mucchio
per qualche cunzia dalle barbe rosse
onde il suo succhio
sì caro all’arte dell’aromatario
stillasse fra l’erbame, e resupino
vi giacessi io mirando il solitario
ciel iacintino;
e scendessi così, tra l’acqua e il cielo
con l’alzaia la Fossa Burlamacca
albicando qual prato d’asfodèlo
la morta lacca;
e traesse il bardotto la sua fune
senza canto per l’argine; ed io, corco
sul mucchio, mi credessi andare immune
di morte all’Orco!
Ma cade il vespro, e tempo è d’esulare;
e di sogni obliosi in van mi pasco.
Su i gravi carri lungo le vie chiare
passa il falasco.
Sono sì vasti i cumuli spioventi
che il timone soperchiano dinnanzi
e il giogo c’èlano e le corna e i lenti
corpi dei manzi,
onde sembran di lungi per sé mossi
e tra la polve aspetto hanno di strani
animali dai gran lanosi dossi,
dai ventri immani.
In fila vanno verso Pietrasanta,
strame ai presepi, ai campi aridi ingrasso.
L’un carrettiere vócia e l’altro canta
a passo a passo.
E tutta la Versilia, ecco, s’indora
d’una soavità che il cor dilania.
Mai fosti bella, ahimè, come in quest’ora
ultima, o Pania!
O Tirreno, Mare Infero, s’accende
sul tuo specchio l’insonne occhio del Faro;
ti veglia e guarda con le sue tremende
navi d’acciaro
la Città Forte dietro il Caprione
sacro agli Itali come ai Greci il Sunio;
t’è scheggia della spada d’Orione
il novilunio;
come sia fatta l’ombra, alla tua pace
verseranno lor lacrime le Atlàntidi,
ti condurrà l’ignavo Artofilace
l’Orse erimàntidi;
s’udrà pe’ curvi lidi il tuo respiro
solo nell’ombra senza mutamento;
solo rispecchierai l’immenso giro
del firmamento.
O Mare, o Alpe, ed io sarò lontano
con nel mio cuor la torbida mia cura!
Splende la cima del mio cuore umano
nell’ode pura.
Ode, innanzi ch’io parta per l’esilio,
risali il Serchio, ascendi la collina
ove l’ultimo figlio di Vergil’io,
prole divina,
quei che intende i linguaggi degli alati,
strida di falchi, pianti di colombe,
ch’eguale offre il cor candido ai rinati
fiori e alle tombe,
quei che fiso guatare osò nel c’èsio
occhio e nel nero l’aquila di Pella
e udì nova cantar sul vento etèsio
Saffo la bella,
il figlio di Vergil’io ad un cipresso
tacito siede, e non t’aspetta. Vola!
Te non reca la femmina d’Eresso,
ma va pur sola;
ché ben t’accoglierà nella man larga
ei che forse era intento al suono alterno
dei licci o all’ape o all’alta ora di Barga
o al verso eterno.
Forse il libro del suo divin parente
sarà con lui, su’ suoi ginocchi (ei coglie
ora il trifoglio aruspice virente
di quattro foglie
e ne fa segno del volume intonso,
dove Tìtiro canta? o dove Enea
pe’ meati del monte ode il responso
della Cumea?).
Forse la suora dalle chiome lisce,
se i ferri ella abbandoni ora ch’è tardi
e chiuda nel forziere il lin che aulisce
di spicanardi,
sarà con lui, trista perché concilio
vide folto di rondini su gronda.
E tu gli parla: «Figlio di Vergil’io,
ecco la fronda.
Ospite immacolato, a te mi manda
il fratel tuo diletto che si parte.
Pel tuo nobile capo una ghirlanda
curvò con arte.
E chi coronerà oggi l’aedo
se non l’aedo re di solitudini?
Il crasso Scita ed il fucato Medo
la Gloria ha drudi;
e, se barbarie genera nel vento
nuovi mostri, non più contra l’orrore
discende Febo Apollo arco-d’-argento
castigatore.
Ma tu custode sei delle più pure
forme, Ospite. Col polso che non langue
il prisco vige nelle tue figure
gentile sangue.
Gli uomini il tuo pensier nutre ed irradia,
come l’ulivo placido produce
agli uomini la sua bacca palladia
ch’è cibo e luce.
Per ciò dal fratel tuo questa fraterna
ghirlanda ch’io ti reco messaggera
prendi: non pesa: ell’è di fronda eterna
ma sì leggera.
Fatta è d’un ramo tenue che crebbe
tra l’Alpe e il Mare, ov’ebbe il Cuor de’ cuori
selvaggio rogo e il Buonarroti v’ebbe
i suoi furori.
L’artefice nel flettere lo stelo
vedea sul Sagro le ferite antiche
splendere e su l’Altissimo l’anelo
peplo di Nike.
Altro è il Monte invisibile ch’ei sale
e che tu sali per l’opposta balza.
Soli e discosti, entrambi una immortale
ansia v’incalza.
Or dove i cuori prodi hanno promesso
di rincontrarsi un dì, se non in cima?
Quel dì voi canterete un inno istesso
di su la cima».
Ode, così gli parla. Ed alla suora,
che vedrai di dolcezza lacrimare,
dà l’ultimo ch’io colsi in su l’aurora
giglio del mare.