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27 Gennaio 2019James Joyce
27 Gennaio 2019
Gabriele D’Annunzio
Libro Quarto delle LAUDI DEL CIELO DEL MARE DELLA TERRA E DEGLI EROI
La canzone dei Dardanelli
- Taranto, sol per àncore ed ormeggi
- assicurar nel ben difeso specchio,
- di tanta fresca porpora rosseggi?
- A che, fra San Cataldo e il tuo più vecchio
- muro che sa Bisanzio ed Aragona,
- che sa Svevia ed Angiò, tendi l’orecchio?
- Non balena sul Mar Grande né tuona.
- Ma sul ferrato cardine il tuo Ponte
- gira, e del ferro il tuo Canal rintrona.
- Passan così le belle navi pronte,
- per entrar nella darsena sicura,
- volta la poppa al ionico orizzonte.
- Sembran sazie di corsa e di presura,
- mentre nel Mar di Marmara e nel Corno
- d’oro imbozzate l’ansia e la paura
- sognano fumi al Tènedo ogni giorno
- apparsi e invocan l’altro Macometto
- che scenda in acqua col cavallo storno
- come quando alla Blanca un vascelletto
- greco e tre saettìe di Genovesi
- con lor pietre manesche e fuochi a getto,
- conficcate le prue sino ai provesi,
- nell’arrembaggio, presero battaglia
- contra il soldano e i suoi visiri obesi
- e contra una ciurmaglia e soldataglia
- innumerabile in dugento buoni
- legni; e vinsero; e con la vettovaglia
- sotto Costantinopoli, tra suoni
- e cantici, a rimurchio in salvamento
- li ricondusse Zaccaria Grioni.
- Eran tre saettìe contra dugento
- sàiche fuste e galèe! Taranto, Alfieri
- d’Alò, quel tuo figliuol che ti fu spento
- su la duna a Bengasi ove tu eri
- mista al suo sangue allor che cadde eletto
- dalla gloria tra i bianchi cannonieri,
- ben si mostrò di quella tempra; e il petto,
- come quando le navi avean di legno
- il fasciame, fu ben di ferro schietto.
- Ma non pur anco il giovincello Regno,
- fior di modestia, escito è di tutela.
- I pedagoghi suoi stanno a convegno.
- Adoprano con trepida cautela
- la bilancia dell’orafo in pesare
- il buon consiglio; e, se il timor trapela,
- appoggiandosi al muro famigliare
- stranutano e tossiscono. O Senato
- veneto! O prisca Libertà del Mare!
- Il sobrio Talassòcrate dentato,
- il pudico pastor dai cinque pasti
- che si monda con l’acqua di Pilato,
- immemore dei fasti e dei nefasti
- suoi dì vermigli, cigola e s’indigna
- a tanto scempio, e torce gli occhi casti!
- E quei che verso il Reno ora digrigna
- ed or sorride livido di bile
- col ceffo nella sua birra sanguigna,
- l’invasor che sconobbe ogni gentile
- virtù, l’atroce lanzo che percosse
- vecchi e donne col calcio del fucile,
- il saccardo che mai non si commosse
- al dolore dei vinti e lordò tutto
- del fango appreso alle sue suola grosse,
- l’Ussero della Morte vela a lutto
- Stinchi e Teschio per la pietà fraterna
- di tanto musulman fiore distrutto!
- Ma uno più d’ogni altro si costerna.
- Egli è l’angelicato impiccatore,
- l’Angelo della forca sempiterna.
- Mantova fosca, spalti di Belfiore,
- fosse di Lombardia, curva Trieste,
- si vide mai miracolo maggiore?
- La schifiltà dell’Aquila a due teste,
- che rivomisce, come l’avvoltoio,
- le carni dei cadaveri indigeste!
- Altro portento. Il canapo scorsoio
- che si muta in cordiglio intemerato
- a cingere il carnefice squarquoio
- mentre ogni notte in sogno è schiaffeggiato
- da quella mozza man piena d’anelli
- che insanguinò la tasca del Croato!
- Son questi i cristianissimi fratelli
- del protettor d’Armenia, ond’è rifatta
- pia la verginità dei Dardanelli.
- La vecchia Europa avara e mentecatta
- che lasciò solo il triste Costantino,
- solo a cavallo nella sua disfatta
- ultimo imperatore bisantino
- combattere alla Porta Carsia e spento
- dar la porpora e l’aquile al bottino,
- dessa or soccorre del suo pio fomento
- lo smisurato canchero che pute
- tra Mar Ionio e Propontide nel vento.
- Oh Alleanza mistica, salute!
- Cantar voglio le tre sotto il posticcio
- turbante auguste Podestà chercute
- e d’austriaco sevo unto il molliccio
- soldan che ascolta il suo martirologio
- col bianco pelo irto per raccapriccio.
- Alla Consulta attendono l’elogio
- tutorio i pedagoghi del pupillo
- demente; e spiano il tempo ch’è balogio
- su la piazza ove ride lo zampillo
- romano tra gli equestri Eroi gemelli
- palpitando qual limpido vessillo.
- Come sul fulvo mare dei camelli
- sta la Sfinge, una intorta Pitonessa
- senza tripode guarda i Dardanelli.
- La licenza è concessa e non concessa,
- se guarentita sia la libertà
- al sapone di Caffa e al gran d’Odessa.
- Ahi cieca ambage! Ed ei non sono già
- discepoli di Mosca de’ Lamberti
- che disse: «Cosa fatta capo ha».
- Vanno librando i pesatori esperti
- la bilancia dell’orafo sì vana
- con once dramme scrupoli malcerti.
- Meglio rozza stadera di dogana
- ove per dar tracollo il ferreo Cagni
- gitti la spada di Bu-Meliana.
- La nave, col desìo che il sangue bagni
- le torri e il ponte per ribattezzarsi,
- richiama a sé gli intrepidi compagni
- che troppo a lungo per le dune sparsi
- e nelle fosse tennero la guerra
- dediti a superare e a superarsi
- come quando l’eroe, che di sotterra
- ancor gli incìta, disse oltre la morte:
- «Io con mille di voi prendo la terra».
- Stefano Testa, l’òmero tuo forte
- è rotto; e il braccio tuo, Vincenzo Origlio;
- o Montella, e il tuo femore. E la sorte,
- o Gaudino, t’amò quando un vermiglio
- fiore ti pose presso il cor tra costa
- e costa. E tu, Vito de Tullio, figlio
- di Bari vecchia ove una santa esposta
- al popolo si chiama Serafina,
- e il popol tutto innanzi a lei fa sosta;
- o Carmineo, di un’umile eroina
- anche tu primo nato tra il Leone
- di San Marco e la Chiesa palatina;
- o fratel mio d’Abruzzo, e tu, Marone,
- che in sogno ancor la piaga del tuo piede
- strascichi per servire il tuo cannone;
- voi tutti, ardenti della vostra fede
- e della vostra febbre nella lunga
- corsìa triste, con l’anima che crede
- e vede or ascoltate se non giunga
- un grande annunzio, sussultando al cupo
- urlo che nella notte si prolunga.
- Dante de Lutti forse in un dirupo
- giace coi prodi a Derna, e la vendetta
- ride ne’ denti suoi di giovin lupo
- come quando a Tobrucca su la vetta
- della ruina issava il tricolore,
- più agile che mozzo alla veletta.
- E la notte par piena di clamore.
- E la corsìa d’occhi sbarrati e fissi
- riarde, e ucciso è il sonno dall’orrore.
- Taluno i suoi compagni crocifissi
- rivede, là, nella moschea di Giuma,
- i corpi come ciocchi aperti e scissi
- con la scure, conversi in nera gruma
- senza forma, sgorgando le ventraie
- per gli squarci; e le bocche ove la schiuma
- dell’agonia tersero l’anguinaie
- recise, intruse fra le due mascelle;
- e i viventi infunati alle steccaie,
- alle travi dei pozzi, con la pelle
- del petto per grembiul rosso, con trite
- le braccia penzolanti dalle ascelle
- dirotte, con le pàlpebre cucite
- ad ago e spago, o fitti sino al collo
- nel sabbione che fascia le ferite,
- le vene stagna. Odio, che sei midollo
- della vendetta e lièvito del sangue,
- ti canto. Insegna del taglion, ti scrollo.
- Tal’un disse: «Spargete poco sangue.
- Deh non vogliate esser micidiali!
- Quasi pace è la guerra, quando langue».
- O dolci eroi sognanti su i guanciali
- penosi, udiste l’ordine di guerra?
- «Le navi scorreranno gli ospedali
- I marinai combatteranno a terra.»
- Sognando, andiamo incontro all’Ombre sole
- mentre il ponte di Taranto si serra.
- La notte sembra viva d’una prole
- terribile. La grande Orsa declina.
- Infaticabilmente il mar si duole.
- Un vento di dominio e di rapina
- squassa il vasto Arcipelago schienuto.
- Chi vien da Scio con la galèa latina?
- Chi da Nasso? e d’Amorgo? Ti saluto,
- a capo del naviglio tuo di corsa,
- o duca dell’Egeo Marco Sanuto.
- Sul tuo coppo di ferro splende l’Orsa.
- Dietro i pavesi sta la compagnia
- pronta allo sforzo: la minaccia è corsa.
- Eri una via calpesta, eri la via
- dei Barbari che andavano alla guerra
- in Occidente, allora, o Austria pia.
- E l’onta di Giovanni Senzaterra
- stava su te, la crudeltà del basso
- vassallo d’Innocenzo, o Inghilterra,
- quando al libero Doge dava il passo
- l’Imperatore sul diviso Impero,
- e la Morea dal Tènaro a Patrasso
- e Salamina con il suo cimiero
- di gloria non immemore d’Aiace,
- e il Sunio col suo tempio roso e il nero
- Acroceraunio, Ocri, Arta, il Golfo ambrace,
- le Cicladi fulgenti, tutto il lido
- curvo dal Mar dalmatico al Mar trace
- erano un sol dominio sotto il grido
- di San Marco; e Gallipoli, Eraclea,
- Gano, Rodosto anco, tra Sesto e Abido
- il Doge tutto l’Ellesponto avea;
- quasi mezza Bisanzio, e gli arsenali
- quivi, e le darsene e le ròcche aveano
- i Veneti; lanciavan dagli scali
- nel Corno d’oro le galèe costrutte,
- al Leone ogni dì crescendo l’ali.
- Ecco, o Mediterraneo, su tutte
- l’isole, ecco i tuoi dèspoti. Rischiaro
- col mio cuore le impronte non distrutte.
- Ecco un Sagredo principe di Paro,
- a Sèrifo un Michiel, ad Andro un Dandolo,
- a Candia un Tiepolo. Ogni nome è un faro.
- Presso Blacherne publica il suo bando
- Ranieri Zeno, e quasi Imperatore
- ha tutta Romania nel suo comando.
- Il genovese Enrico Pescatore
- conte di Malta usurpa il fio di Creta.
- In regia potestà l’Asia Minore
- ha Martin Zaccaria, batte moneta,
- leva milizie e navi, si travaglia
- a Focea per allume, a Chio per seta,
- a traffico imperversa e a rappresaglia,
- stermina Catalani e Musulmani,
- tutt’armato da re muore in battaglia.
- O dura schiatta dei Giustiniani,
- nova sovranità della Maona
- libera, dinastia di popolani
- magnifici, di re senza corona,
- che profuman di mastice la bianca
- scìa o la segnan d’una rossa zona,
- quando nell’isola Andriolo Banca
- orna templi, deduce carmi, venera
- Omero, èduca lauri, schiavi affranca!
- Navi d’Italia, ecco l’Egeo. Chi viene
- da Lesbo? chi da Coo? Navi d’Italia,
- l’Ombre cantano come le sirene.
- Un Querini è signore di Stampàlia,
- di Nanfio un Foscolo, un Navigaioso
- di Lemno. Ecco l’Egeo, navi d’Italia,
- ecco il mare operoso e sanguinoso
- di noi, le rive con le nostre impronte,
- le mura impresse del Leon corroso.
- Un Barozzi è signore a Negroponte,
- un Ghisi a Sciro ed un Pisani a Nio.
- Navarca è un Longo ed un Adorno è arconte.
- Fendo i secoli, lacero l’oblìo,
- ritrovo le correnti della gloria
- nell’acqua ove portammo il nostro Dio.
- Levo sul mar l’onda della memoria
- e col soffio dell’anima la incalzo,
- che ferva sotto il piè della Vittoria,
- che schiumi e fumi sotto il piede scalzo
- volante in sommo come quando accorse
- precipitosa dal marmoreo balzo
- a te, Cànari. O Grecia, o Grecia, forse
- anche i tuoi fari pendono. E lo scotto
- sarà pagato. Chiedi l’ora all’Orse
- come l’uomo d’Ipsara e l’Hydriotto
- quando muti ridean nel cuor selvaggio,
- acquattato ciascun nel suo brulotto,
- con alla mano i raffii d’arrembaggio,
- con alle coste il demone del fuoco,
- messo fra i denti il fegato per gaggio.
- Anche nel nostro cuore arde quel fuoco,
- sorella. Vien d’Ipsara Costantino
- Cànari, arsiccio, ancor più pronto al gioco.
- Andrea Miàuli vien sul brigantino
- ch’ebbe a Patrasso a Spezzia ed a Modóne.
- Ma chi è mai quel grande suo vicino?
- Riconosco la chioma del leone
- e l’affilato viso dell’audacia
- e l’occhio inesorabile. O Canzone,
- piègati sotto l’ala acuta e bacia
- per tutti i marinai la fronte fessa
- del Capitan che vien dal mar di Tracia.
- Viene dai Dardanelli su la stessa
- galèa cui non restò se non l’orrore
- dell’annerito arsile, su la stessa
- galèa che vide volgere le prore
- e orzare a terra Mehemet codardo,
- viene dai Dardanelli il vincitore
- Lazaro Mocenigo. E lo stendardo
- del calcese, che gli spezzò con l’asta
- il cranio, or croscia al maestral gagliardo
- su l’erto capo cinto della vasta
- piaga, su la criniera leonina
- che per corona nautica gli basta.
- Chiuso è il destr’occhio che nella marina
- di Scio barattò egli contro vénti
- navi di Kenaàn tratte a rapina.
- Ma il freddo astro di tutti gli ardimenti
- è l’occhio manco, specchio dei perigli.
- Lazaro Mocenigo ha le sue genti?
- Guardalo, Cagni, tu che gli somigli.