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27 Gennaio 2019James Joyce
27 Gennaio 2019
Gabriele D’Annunzio
Libro Quarto delle LAUDI DEL CIELO DEL MARE DELLA TERRA E DEGLI EROI
La canzone di Umberto Cagni
- Cagni, colui che a te negli anni eguale
- patì l’ignavia delle vane carte,
- morso il cuore dall’aquila immortale,
- e vendicò nello stridor dell’arte
- la forza che sognar faceagli il fato
- e il pallore del giovin Bonaparte
- quando credea nel suo silenzio armato
- essere il messo della nova vita
- e della nova gloria il primo nato,
- colui t’onora come la scolpita
- imagine del sogno suo più forte,
- si ch’ei disdegna l’opera fornita
- e, gittando sul vólto della sorte
- le sfrondate corone, or solo spera
- nell’ultima bellezza della morte.
- Non per la forza, o anima guerriera,
- non pel fàscino invitto onde rapivi
- ltre la forza l’èsile tua schiera
- quando fendevan quattro cuori vivi
- l’immensa ghiaccia, e più del buio trista
- la notte senza tènebra era quivi;
- non pel fertile ardire onde fu vista
- una manata d’uomini discesa
- dalle navi tenére la conquista
- della terra ed accrescersi, sospesa
- nel pericolo come nel bagliore
- d’un nume, onnipresente alla difesa;
- ma per l’amore, ma pel solo amore
- onde due volte già trasumanasti,
- eroe, t’invidio sopra il tuo valore.
- Eroe di due deserti, dei più vasti
- geli e delle più vaste sabbie, in quali
- eroiche immensità l’Italia amasti!
- Ogni altro umano amor sembra senz’ali
- e senza lena e inglorioso e impuro,
- congiunto alla viltà dei nostri mali.
- Come il fiore d’un mondo nascituro
- il tuo fu, schiuso all’orlo d’un’estrema
- Tule che dentro te, nell’uomo oscuro,
- avevi, incognita. E la man mi trema,
- quasi eternassi la mia smania ignava
- celebrandoti, eroe, nel mio poema.
- Penso la mano tua che dolorava
- cominciando a morire, il ferro atroce,
- l’anima indenne su la carne schiava;
- la volontà spietata e senza voce
- che ti facea lo sguardo come il taglio
- della piccozza; il piede più veloce
- come più duro era il cammino; il maglio
- invisibile che schiacciava i blocchi
- enormi, con un tuono ed un barbaglio
- di prodigio pel bianco Ade ove gli occhi
- seguivano i silenzii oltre i fragori;
- le dighe che rompevano i ginocchi
- e i gomiti; le slitte tratte fuori
- dalle crepe improvvise; la costretta
- man dolorosa ai ruvidi lavori;
- e la fame in attesa della fetta
- crudigna presso il cane ancor fumante
- scoiato su la neve, la galletta
- muffita per panatica, all’ansante
- sete il sorso dell’acqua fetida, ogni
- penuria, ogni miseria; e, se il sestante
- segnava il punto suo, tutti i bisogni
- conversi in riso lieve e nelle stanche
- ossa inserte le invitte ali dei sogni.
- Ti sovviene? Su le pianure bianche
- una vita recondita bruiva,
- nel gran giorno di Dio. Le dighe bianche
- s’alzavano, crollavano; la riva
- si saldava alla riva, il monte al monte.
- Tutta la solitudine era viva
- di ghiacci sino all’ultimo orizzonte,
- fulgida sotto il sol di mezza notte.
- Tra l’infinito e le tue brevi impronte
- era la prova, augusta fra le lotte
- dell’uomo. E tu dicevi a te: «Più oltre».
- L’Oceano era un bàratro di rotte
- isole. E tu dicevi a te: «Più oltre».
- Sparivano i due solchi in un tumulto
- raggiante informe immenso. E tu: «Più oltre!».
- Ché ti parea da uno scalpello occulto
- nell’eterno cristallo solitario
- quell’altro nome ovunque fosse sculto:
- lo scandinàvo. «Non è necessario
- vivere, sì scolpire oltre quel termine
- il nostro nome: questo è necessario.»
- E la virtù dei quattro uomini inermi
- fu per un’ora il vertice del mondo.
- Ti sembrò tutto fervere di germi
- immortali l’Oceano infecondo.
- Sommosso ti sembrò tutto il deserto
- artico dal tuo palpito profondo.
- Poi fu silenzio, sotto il segno certo.
- Fu la cerchia terribile del gelo
- alla tua gioia adamantino serto.
- L’anima tua su te diffuse il cielo
- d’Italia. Fosti immemore e sparente
- come l’Ombra sul prato d’asfodelo.
- Allora, come l’inno fa presente
- l’iddio, l’amor creò l’imagin vera
- della Patria. Nel gran silenzio algente
- parve con l’alito una primavera
- sublime ella diffondere. Il tuo santo
- amore volse in luce la preghiera.
- Piangesti. Ed ogni lacrima del pianto
- eroico rilucea più che il polare
- meriggio. Sol per una, ecco il mio canto.
- O messo della gesta d’oltremare,
- o precursore degli eroi rinati
- sul lido ove rosseggia il nostro altare,
- o tu che primo fosti ai primi agguati,
- l’indice tronco della man virile,
- quel che impone i comandi o addita i fati,
- non fu debole all’elsa. E il puro aprile
- della tua gloria parve ad altra ebrezza
- rifervere nel sangue tuo gentile.
- Ah, da qual sacro mare di bellezza,
- da qual divino anello d’orizzonte,
- da qual non vista aurora escì la brezza
- vigile che soffiava su la fronte
- de’ tuoi, là presso i Pozzi dove forse
- Roma avea coronata la sua fonte?
- Nella notte d’ottobre ardevan l’Orse
- alte coi sette e sette astri fatali
- su i marinai, quando la luna sorse.
- Tutta bella tra il golfo dei corsali
- e il Deserto, levava al gran ritorno
- l’Oasi le sue palme trionfali.
- Simile all’invocata alba d’un giorno
- mistico era il notturno effuso lume;
- e l’annunzio e l’attesa erano intorno.
- Parea, spirato dall’antico nume,
- intra il libico monte e l’apennino
- spander il ciel di Dante il suo volume.
- Da qual nascosto vortice marino
- la colonna rostrale era polita
- perché splendesse al novo eroe latino?
- Quali mai braccia avean diseppellita
- da secoli di sabbia e di barbarie
- Minerva, chiarità di nostra vita?
- Di sotto l’oro della sua cesarie
- spiava ella gli imberbi, dalla vetta
- cerula delle palme solitarie?
- Era forse Ebe la parola detta,
- come nella battaglia di Micale
- vinta col nome d’Ebe giovinetta?
- Tutto era senza limite, eternale
- ed imminente, nell’abisso cieco
- del tempo e in sommo della vita frale.
- Carme romano ed epinicio greco
- passavano con tuono di tempesta,
- e la canzone italica era teco.
- E la canzone italica di festa
- e di guerra, di vóto e di riscossa,
- la sua face scotea su la tua testa.
- Tu, come le midolle son nell’ossa
- eri in quel pugno d’uomini. L’odore
- del coraggio era nella sabbia smossa,
- Ferìan la notte fasci di splendore
- dalle grandi pupille delle navi
- insonni; e la potenza delle prore
- pareva entrar nei parapetti cavi
- a rendere invincibili i tuoi pochi.
- In piedi tu, come sul ponte, stavi.
- Tutta l’Oasi rossa era di fuochi
- scroscianti. I cani urlavano alla morte.
- L’assalto era un inferno d’urli rochi.
- La città senza spalti e senza porte
- avea l’inespugnabile cintura:
- te, giovinezza, amore della sorte!
- Ti canto, aurora; e la tua mano pura
- come la rosa, piena di semente.
- Ti canto, eroe, per l’anima futura;
- e la battaglia presso la sorgente.