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27 Gennaio 2019James Joyce
27 Gennaio 2019
Gabriele D’Annunzio
Libro Quarto delle LAUDI DEL CIELO DEL MARE DELLA TERRA E DEGLI EROI
L’ultima canzone
- Ah, non dieci canzoni, dieci navi
- d’acciaio martellate con l’istessa
- forza d’amore, o Patria, dimandavi,
- e non sillaba a sillaba commessa
- ma piastra a piastra ancor calda del maglio
- e in ciascuna impernata una promessa,
- e già pronte su gli unti scali, al taglio
- delle trinche, le dieci in armamento
- com’è già pronto il tuo Contrammiraglio.
- Ahimè, non ho se non il mio tormento
- e il mio canto. L’oblìo breve è finito,
- e nell’oscuro cuore io mi sgomento;
- ché oggi sono simile al ferito
- lontano che si sveglia al limitare
- del gran Deserto e vede l’infinito
- silenzio sul suo sangue palpitare
- di stelle e in lui remoto come il cielo
- il vólto delle sue cose più care
- e tutta la sua vita senza velo,
- quasi nel vetro della notte inscritta,
- e l’anima chiarita nel suo gelo
- come una gemma rigida ed invitta
- che più non muta forma né s’arrende,
- e la vittoria pari alla sconfitta.
- Non apprese negli anni ciò che apprende
- nell’attimo. S’irraggia mentre agghiada.
- E la notte lo fascia di sue bende.
- E nel cavo degli occhi ha la rugiada,
- non le lacrime, e qualche gran d’arena
- nella man che non stringe più la spada.
- Tutto è tacito e puro. Non balena,
- non albeggia. In un sol chiarore eguale
- spazia la solitudine serena.
- Scende dal cielo e dalla terra sale
- la stessa luce: tal nel cielo Sirio
- qual nella piaga l’anima immortale.
- Mi risveglio io così, dopo il delirio
- dell’improvvisa primavera, solo
- con la mia vita, ahimè, senza martirio
- cruento, nella notte del mio duolo
- antico e nel silenzio delle stelle
- infauste, inerte su lo stranio suolo.
- E nelle vene che parean novelle
- m’incresce il vano sangue non versato
- e la febbre che aggrava il polso imbelle.
- O mie canzoni, di qual grande affiato
- piene sembraste nella prima ressa
- quando ogni mio pensier balzava armato!
- A ciascuna di voi con indefessa
- vigilia diedi vólto d’eroina,
- d’aquila penne, ugne di leonessa.
- Sì travagliosa era la mia fucina,
- era l’angoscia dell’amor sì forte,
- che più non mi dolea nel cuor la spina
- né più da sera battere alle porte
- udivo il mio carnefice sagace
- che de’ miei sonni fa torbida morte,
- ma sol ruggire udivo la fornace
- imperterrita, e come alla battaglia
- era la fronte all’opera pugnace,
- e vedevo di là dalla muraglia
- la notte costellata d’occhi ardenti,
- d’occhi fraterni. «Su, fuoco, travaglia!
- Gloria, fiammeggia! Su, cantór di genti,
- con la Vittoria a gara!» E le sorelle,
- ancor rosse, partivano nei v’ènti
- quando trascoloravano le stelle
- sul disperato Oc’èano, il selvaggio
- stridendo annunciatore di procelle
- per la deserta landa; e al gran viaggio
- l’anima tutta era seguace, e sola
- teneva l’ombra il pallido rivaggio.
- O lontananza, che dalla parola
- eri abolita come inane cura,
- or sembri nella notte di viola
- spanderti senza fine, di pianura
- in pianura, di monte in monte, d’acque
- in acque. Il mio dolor non ti misura.
- L’ululo dell’Oc’èano si tacque,
- il vento cadde. Dal silenzio strano
- il notturno carnefice rinacque.
- Nessun m’ode. Son simile al lontano
- ferito che si sveglia al limitare
- del gran Deserto e vede il ciel lontano
- sul suo gelo supino palpitare
- di stelle e ascolta sempre più remoto
- il pianto delle sue cose più care.
- Non ti cantai, o mio fratello ignoto?
- non chiesi il nome tuo perché nel mio
- canto risuoni? Solo sei, devoto
- a morte, già fasciato dall’oblìo
- perenne, profondato nello stagno
- del sangue; e non avrai tomba. Foss’io
- per te come colui che accorre al lagno
- del caduto, là dove più tremenda
- è la strage, e si carica il compagno
- su l’òmero a scamparlo dall’orrenda
- vendetta del mutilatore e arriva
- nell’altra vita all’orlo della tenda!
- Sembrami, ignoto, ch’io ti sopravviva
- per un castigo oscuro e ch’io, non ombra
- né uomo, in vano erri per questa riva.
- Il vento cadde. Nella notte ingombra
- di neri crini è il soffio di Medusa.
- A quando a quando il mio cavallo aombra,
- sosta, soffia, ricalcitra, ricusa
- come se non dai tronchi morti fosse
- la valle tra le dune alte preclusa
- ma da mucchio d’uccisi e l’orme rosse
- nella bassura dessero bagliore.
- Talvolta il passo nelle sabbie smosse
- è come un tonfo sordo. Il tetro odore
- che lascia la marea su le scoperte
- spiagge de’ naufraghi è come l’odore
- della putredine. Il bacino è inerte
- come l’Averno, sparso d’errabonde
- fiamme che or sì or no schiarano incerte
- larve dentro le barche o per le sponde,
- e pare che ogni fiamma s’incolonni
- nell’abisso. Ora tutto si confonde
- e m’illude. Latrare i cani insonni,
- presso e lontano, odo per la malvagia
- landa. Ascolto. Son forse quei di Fonni?
- Sono i mastini della mia Barbagia?
- E’ la muta di guerra? A paio a paio
- ardere vedo i loro occhi di bragia.
- Marceddu è in vermi. Murtula è più gaio:
- non ha che l’ossa del viso disfatte.
- Il buon Demurtas medica il carnaio.
- Azzanna! Azzanna! Dove si combatte?
- Muta di guerra, trovami la pesta
- nel sabbione, pe’ rovi e per le fratte.
- Ma non latrare, ché stanotte è gesta
- di silenzio, vittoria senza grida,
- gloria tacita. Il cuore me l’attesta.
- Razza del Monte Spada, siimi guida,
- innanzi al mio cavallo che paventa.
- Io cerco il fuoco o il ferro che m’uccida.
- Dove si muore? Un’anima fermenta
- nella notte, più libera dell’aria.
- Tutto è grande. La luna s’arroventa
- occidua su l’altura solitaria,
- simile a falce sopra grande incude.
- Tutto è sogno. La landa originaria
- verso il sogno propaga le sue nude
- onde, come il Deserto senza strade.
- L’asfodelo letèo vi si dischiude
- come l’ungh’essi i talami dell’Ade.
- L’asfodelo si lacera ed aulisce
- sotto lo schianto di colui che cade.
- Or più la pesta si profonda. Strisce
- di nero sangue rigano il cammino.
- Tale è il silenzio, che vi si scolpisce
- l’evento come in un rigor divino.
- Il cielo è sgombro. Solo vi s’intaglia
- l’indomito adamante del Destino.
- Non rombo, non fragore di battaglia,
- non urlo di dolore. Ma chi muove
- per la gran notte, e la gran notte eguaglia?
- E’ la schiera quadrata, che va dove
- l’Eroe la riconduce. Ha seppellito
- a Tobras i suoi morti. Ha visto nuove
- stelle sorgere a lei dall’infinito.
- Ha represso il singulto del morente,
- ha soffocato il lagno del ferito.
- Col ghiado illude la sua sete ardente.
- Il mulo che portava l’acqua, porta
- il carico di sangue. Le cruente
- some non hanno un gemito. La scorta
- è un solo ferro che respira. Il duce
- non chiama, non comanda, non esorta.
- Cavalca innanzi. Ha seco la sua luce.
- Ha seco l’alba nei deserti bui.
- Quando laggiù gridava «A me!» nel truce
- attimo, la sua gente era con lui.
- S’egli cavalchi al limite del mondo,
- la sua gente in silenzio andrà con lui.
- In sommo della duna, sul profondo
- cielo, è veduto sorgere dagli occhi
- riversi del soldato moribondo.
- E quegli a cui si piegano i ginocchi
- riprende la sua lena su per l’erta
- sinché l’arso polmone non gli sbocchi.
- Taciturna così per la deserta
- notte s’avanza la quadrata schiera,
- con i suoi segni, verso l’alba certa,
- simile al vóto d’una primavera
- sacra che salga verso un fato augusto
- con l’Eroe primogenito in cui spera.
- Così, divina Italia, sotto il giusto
- tuo sole o nelle tenebre, munita
- e cauta, col palladio su l’affusto,
- andar ti veggo verso la tua vita
- nuova, e del tuo silenzio far vigore,
- e far grandezza d’ogni tua ferita.
- Nella mia notte, sopra il mio dolore,
- questa suprema imagine si spande.
- Chiudila nella forza del tuo cuore.
- Non n’ebbe la tua guerra di più grande.