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27 Gennaio 2019James Joyce
27 Gennaio 2019
Gabriele D’Annunzio
Libro Quarto delle LAUDI DEL CIELO DEL MARE DELLA TERRA E DEGLI EROI
NOTE AL LIBRO DI MEROPE
La canzone d’oltremare
Sono comento al primo verso i Canti della morte e della gloria, i Canti della ricordanza e dell’aspettazione, il Canto augurale per la nazione eletta, quasi tutto il secondo libro delle Laudi publicato or è dieci anni non invano.
Rumia è una corrente di Tripolitania, che passa per antichi oliveti. Lebda è la romana Leptis Magna ove nacque l’imperatore Lucio Settimio Severo; che in Egitto involò i libri sacri e fece suggellare la tomba del Macedone perché niuno dopo di lui vi discendesse. Nella terra di Bengasi, al Gioh, ove si giunge a traverso un deserto d’argilla, è la caverna che chiude la sorgente del Lete, secondo la tradizione, in vicinanza dei luoghi ove fiorirono gli orti delle Esperidi. In onore della sposa di Tolomeo Evergete, di colei che fece l’offerta della mirabile capellatura assunta tra le costellazioni, la terra s’ebbe il nome di Berenice.
In un codice già strozziano, ora magliabechiano, si trovano le Sante Parole che si dicono in galea; così cominciano:
Dienai’ e ‘l Santo Sepolcro;
Dienai’ e ‘l Santo Sepolcro;
Dienai’ e ‘l Santo Sepolcro;
Dienai’ e madonna Santa Maria e tutti li Santi e le Sante, e la santa e verace Croce del Monte Calvaro, che ne salvi e guardi in mare e in terra;
Dienai’ – e l’Agniol san Michele;
Dienai’ – e l’Agniol san Gabriello;
Dienai’ – e l’Agniol san Raffaello;
Dienai’ – e san Giovanni Batista e ‘l Vangelista;
Dienai’ – e san Piero e san Paolo;
Dienai’ – e l’Appostol san Jacomo;
con quel che segue.
La canzone del sangue
Il Cìntraco era in Genova republicana un banditore del popolo; e su l’anima del popolo giurava in parlamento. Soffiando il vento, ammoniva i cittadini perché guardassero il fuoco.
Il Catino ottagonale, creduto di smeraldo – che Guglielmo Embriaco recò a Genova dal conquisto di Cesarea (1101) – è, secondo la tradizione, quel medesimo in cui Giuseppe d’Arimatea raccolse il divin sangue, quel medesimo che sotto il nome ineffabile di Graal fu venerato dalla santa milizia dei Templari. Pareva nei secoli perduto, quando l’espugnatore genovese lo rinvenne tra le prede nella città siriaca.
Guglielmo, soprannominato Caputmallii, aveva il comando della spedizione navale partita dal porto di Genova nell’agosto del 1100. Era egli non soltanto marinaio durissimo ma costruttore eccellente di torri ossidionali e di macchine belliche. Narra Caffaro negli Annali come nell’aprile del 1101, la vigilia della Domenica delle Palme, tornassero i Genovesi a Caifa dopo avere inseguito uno stuolo di quaranta galee d’Egitto, e come da Caifa navigassero a Giaffa accolti festosamente dal re Balduino, e come, dopo aver visitato il Santo Sepolcro, movessero all’espugnazione di Arsuf e quindi di Cesarea con duplice buon successo. Dinanzi a Cesarea trassero il naviglio in secco, istrutti dall’Embrìaco armarono macchine murali, poggiarono alle mura le antenne, diedero la scalata, presero la città, tutta la misero a bottino e spartirono la ricchissima preda, tornarono in patria con la Reliquia e con la gloria.
Già quel medesimo Embrìaco, insieme con un Primo suo consanguineo, mentre Gottifrè di Buglione era all’assedio di Gerusalemme, aveva approdato a Giaffa con un paio di sue galee, queste aveva distrutte per non poter far fronte all’armata saracena d’Ascalona, indi aveva trasportato il legname sotto le sante mura e costrutto con esso formidabili macchine di percossa e di assalto.
Nell’impresa di Siria aveva egli il titolo di Console dell’esercito genovese. S’ebbe Genova la istituzion romana dei Consoli prima d’ogni altra città (1056). Entravano essi in officio il dì di Purificazione.
Dipendeva l’Embrìaco, nella detta impresa, dalla Compagna; la quale era una corporazione giurata di mercatanti e di navigatori, liberamente costituita per proteggere il traffico maritimo contro ogni sorta di pirateria e di violenza. Ogni Genovese atto alla vela o al remo, capace di governare la nave e di difenderla, dai sedici anni ai settanta, si giurava alla Compagna e contraeva l’obbligo dell’obbedienza civile e militare ai capi o consoli. Appunto intorno al 1100 la Compagna divenne un’associazione stabile e serrò l’intera cittadinanza in potentissimo cemento. Per calendimaggio, nel 1189, ricevettero nella Compagna i consoli Pietro re d’Arborea tenuto per cittadino e vassallo del Comune.
Preziosissimo sempre tenne il Comune nel Tesoro di San Lorenzo il Sacro Catino. Ed è singolare, nella storia delle antiche Compere, quell’assegnazione che fu detta la Compera del Cardinale pel recupero del Sacro Catino (Compera Cardinalis pro recuperatione sacrae Parasidis), originata da un contratto che il 16 ottobre 1319 il comunal notaro e cancelliere Enrico de Carpena stipulò fra il Comune e il Cardinal Luca Fieschi abate di Santa Maria in Via Lata. Dava il Cardinale in prestito al Comune novemila e cinquecento genovini d’oro, contro il pegno della sacra scutela. Occorreva il danaro a opere di difesa necessarie. Più tardi, nel 1327, il Comune a riscattare la divina Reliquia assegnava al Fieschi luoghi 95 con un provento per ogni luogo e v’aggiungeva un aggravio sul prezzo del sale venduto nella cerchia.
L’impresa di Filippo Doria su Tripoli è narrata dall’annalista ligure Giorgio Stella, dal fiorentino Matteo Villani e dal tunisino Ibn-Kaldun. Di recente Camillo Manfroni, con la sua solita perspicacia, ha vagliato e riassunto le tre narrazioni. Quella del Villani «come i Genovesi appostarono Tripoli, come la presero, come la venderono» è mirabile di colore e di freschezza.
Nella giornata di Curzola, Lamba Doria – ch’era per ardere sessantasei galèe venete, e Venezia doveva vedere del nautico incendio rosseggiare il suo cielo e i suoi marmi specchianti – afferrò il cadavere del figlio, lo baciò in fronte e dall’alto della poppa lo scagliò nell’Adriatico gridando: «Compagni, il mio figliuolo è morto ma ei vive in cielo. Non ci contristiamo d’una sorte sì bella. Ai prodi è degna tomba il luogo della vittoria».
Trofeo di vittoria fu da lui trasportata a Genova l’urna funebre in cui riposano le sue ossa, sotto una delle finestre di quel bianco e nero San Matteo che fondò Martino Doria in su lo scorcio del XII secolo, tempio gentilizio della schiatta.
Biagio Assereto, notaro, eletto dal volere del popolo capitano d’un’armatella di soccorso contro Alfonso d’Aragona, fu lo stupendo eroe della battaglia navale di Ponza. Nella quale, pur essendo inferiore di forze, mosse le sue poche navi e galèe con sì novo accorgimento che sconfisse l’armata regia; ed egli popolano fece prigioni Alfonso il Magnanimo, i suoi due fratelli infanti d’Aragona, il re di Navarra, il gran mastro di Calatrava, il gran mastro di Alcantara, il principe di Taranto, il duca di Sessa, il conte di Fondi e cento tra principi o signori d’Aragona e di Sicilia (5 agosto 1435).
Nella lettera da lui scritta al Comune dopo la vittoria – trascritta dal Federici sul testo conservato presso Marco Antonio Lomellino e pubblicata dal Belgrano – egli racconta: «Erano le galee dalle coste, refrescando le loro navi de homini e tirando le loro navi addosso onde ghe piaxea, però che era grandissima carina».
La canzone del Sacramento
L’argomento di questa canzone è tratto da un carme d’ignoto autore forse pisano, intitolato Carmen in victoria Pisanorum, che narra con un misto di storia e di leggenda l’impresa compiuta sopra il re zirita Temim, detto Timino, da una lega di Pisani, di Genovesi, di Amalfitani e d’altri marinai dello stesso mare: cioè da una vera e propria lega tirrena formata a muovere una guerra religiosa che fu il preludio delle Crociate. Conduceva i Pisani il console Uguccione Visconti, che aveva seco il figliuolo Ugo, bellissimo e arditissimo giovine – omnium pulcherrimus – il quale nella fazione perse la vita. Conducevano i Genovesi un Lamberto e un Gandolfo. Molto era il naviglio e bene armato. I Cristiani espugnarono Pantelleria e mossero a Mehedia – la Màdia del poeta pisano, l’Alamandia delle Istorie, la Dilmazia della Cronaca -; ed era il dì 6 d’agosto del 1088, «lo die di Santo Sisto», il giorno in cui pareva che per fato i Pisani principiassero o terminassero le loro imprese. E «per forza cavonno di mani delli Saracini Affrica e Dilmazia e più terre di Barbaria» come dice il buon Ranieri Sardo.
Era la città di Timino lontana da Tunisi novantaquattro miglia a scirocco, luogo fortissimo per natura, sopra rocce inespugnabili dentro il mare congiunte alla terra da un istmo sottile, con un porto sinuoso. Un’alta muraglia, un fosso, sette torri e un mastio la difendevano. Il re – secondo narra l’Anonimo – nutriva nei serragli gran numero di leoni.
Prima dell’assalto, il Vescovo celebrò l’ufficio divino; arringò dal cassero i combattenti, e diede l’assoluzione sacramentale.
Questo è il momento epico della canzone. Soldati e marinai, rinnovando l’usanza dei Cristiani primitivi nel tempo delle persecuzioni, si distribuirono a vicenda la sua santa Eucaristia.
Et communicant vicissim
Christi Eucharistiam.
Poi strinsero l’assedio, ebbero la città, liberarono gli schiavi cristiani, smantellarono la ròcca, fecero gran bottino, ed imposero a Temim una grossa indennità di guerra e l’esenzione delle imposte per le genti di mare.
A chiarire l’allusione di tal’un verso, giova ricordare che i Pisani da soli assalirono i Saraceni d’Africa nel 1035 e presero la città di Bona. Nel 1063, nel giorno di Santo Agapito, si presentarono dinanzi al porto di Palermo «che era pieno di Saracini», ruppero la catena e s’impadronirono di navi cariche. «E dello tezoro che vi preseno, ordinonno di fare lo Duomo Sanctae Mariae, e lo vescovado.» Non avevano essi ancor fatta la guerra balearica, ma più volte avevan certo predato navi nelle acque di Maiorca e convertito il bottino in pietre da murare. «Avendo trovate due galere vicine all’isola di Maiorica e di Minorica, cariche di mercanzia, ed una nave ricchissima dei Mori di Granata, le presero e le condussero in Pisa…»
San Pietro, venendo d’Antiochia, approdò alla bocca dell’Arno e vi edificò la basilica che oggi si chiama di San Pietro a Grado, detta ad gradus arnenses dai gradi di marmo che scendevano nel mare.
In Salerno, nella Cattedrale di San Matteo riedificata da Roberto Guiscardo, è una porta di bronzo lavorata a Costantinopoli e donata da Landolfo Butromile e dalla sua donna. Ora mancano a tutte le figure di rilievo i vólti e le mani d’argento. Quivi anche è la tomba di Sigilgaita, della maschia sorella di Gisolfo, per cui il Guiscardo ripudiò la sua prima moglie Alberada. Più d’una volta Sigilgaita combatté su le navi a fianco del Normanno contro i Greci.
Gli Amalfitani presero ad introdurre le merci d’Occidente nella Siria e nell’Egitto prima d’ogni altro popolo maritimo. Ottennero dovunque firmani che loro accordavano libertà di traffico e di transito. E dovunque stabilirono fondachi, case di commercio, chiese, ospizii. Guglielmo di Tiro nella sua Historia de Rebus gestis in partibus transmarinis narra come gli Amalfitani edificassero in Terrasanta la prima chiesa sotto il vocabolo di Santa Maria Latina. «E quivi era un ospizio di poveri, e in esso una cappella chiamata Santo Giovanni Elemosinario. E quivi Santo Giovanni fu patriarca d’Alessandria.» La chiesa fu costruita tra gli anni di Nostro Signore 1014 e 1023, per un firmano del soldan d’Egitto. Il qual firmano è oggi custodito nel convento dei Francescani di Gerusalemme. Il luogo era quel medesimo ove, più di due secoli innanzi, Carlomagno aveva fondato il suo ospizio, a un trar di pietra del Tempio del Santo Sepolcro.
Pantaleone Mauro è da molti ritenuto come il primo console della Colonia amalfitana in Costantinopoli. La cattedrale di Amalfi ebbe le sue porte di bronzo dai Mauri come Salerno dal Butromile. Una iscrizione in lettere d’argento sopra una d’esse dice: «Hoc opus fieri jussit pro redemptione animae suae Pantaleo filius Mauri de Pantaleone de Mauro de Maurone Comite».
La canzone dei trofei
Tersanaia è vecchio idiotismo pisano per Arsenale, come Arsanà, Tersanà, Tersaia. Dice la Cronaca pisana di Ranieri Sardo: «In del milleduegento anni, fue incominciata la Tersanaia di Pisa, e lo Camposanto fondato per lo arcivescovo Ubaldo, e comprato al Capitolo lo terreno assegnato. Ed è detto Camposanto, perché si recoe della terra del Camposanto d’Oltremare, quando tornonno dal passaggio preditto, e sparsesi in quello luogo». I Pisani, secondo le parole dello Storico, attendevano di continuo alle cose del mare, dove pareva a loro che consistesse ogni riputazione e onore. Perciò fu proposto nel Consiglio che si edificasse un arsenale maggiore; ed essendosi vinto il partito, vi si dette principio. Fu fatta questa fabbrica nella cittadella o fortezza vecchia dei Pisani, lungo le mura della città, volte dalla banda di ponente, con archi sessanta (come scrive Fra Lorenzo Taiuoli pistoiese); e le galere che vi si facevano, si mettevano in acqua sotto gli archi, che si vedono oggidì ancóra in quella cortina di muràglia la qual comincia dal Ponte a Mare e segue fino alla Porta.
Chìnzica e Ponte sono due quartieri di Pisa antica. Gli altri due sono Fuori di Porta e Mezzo. Chìnzica comprendeva i borghi d’Oltrarno rimasti rinchiusi nell’ultimo cerchio della città. Il cronista: «Gli Anziani mandorono bando, in sul vespero, che ogni persona dei quartieri di Chìnzica, populo e cavalieri…».
A una parete del Camposanto, dalla parte d’occidente, sono appese le catene di Portopisano che i Genovesi portarono via nel 1362 quando Perino Grimaldi era a soldo del Comune di Firenze… «Velsono le grosse catene che serravano il porto» narra Matteo Villani, «e quelle, carichi d’esse due carra, mandarono a Firenze…» Le quali furono poi restituite dai fratelli ai fratelli, quando l’Italia risorse nazione libera.
Sono conosciute da tutti le storie del Beato Rinieri, santo patrono dei Pisani, dipinte su le vaste pareti del Camposanto da Andrea di Firenze (1377), da quel medesimo che colori il Cappellone degli Spagnuoli in Santa Maria Novella.
Le galere pisane, condotte dall’arcivescovo Ubaldo dei Lanfranchi, tornarono dall’assedio di Tolemaide cariche della terra cavata sul Monte Calvario. E nel 1203, secondo la tradizione, la preziosa terra fu sparsa nel terreno a fianco della Cattedrale; dove furon sepolti i morti.
Dell’impresa dell’arcivescovo Daiberto, capitano di navi al recupero di Gerusalemme, l’antichissimo Annalista nominato Marangone scrive: «Anno Domini MXCVIII. Populus pisanus, iussu domini papae Urbani II, in navibus CXX ad liberandam Jerusalem de manibus paganorum profectus est. Quorum rector et ductor Daibertus Pisanae urbis archiepiscopus extitit…».
L’Ordine dei Cavalieri di San Stefano fu istituito dal Duca Cosimo de’ Medici. E il primo di febbraio del 1562 una bolla pontificia sanciva l’istituzione, concedendo amplissimi privilegi per coloro che «a lode e gloria di Dio, a difesa della Fede ed alla guardia del Mediterraneo» ne facessero parte. Sede dell’Ordine fu la città di Pisa. Col denaro di Cosimo e con la soprintendenza del Vasari sorsero il Convento, il Palazzo del Consiglio e la Chiesa conventuale dedicata a San Stefano, oggi adorna delle bandiere e delle fiamme conquistate su i Barbareschi.
In Salerno, nella Cattedrale di San Matteo, la cappella a destra dell’altar maggiore fu fondata da Giovanni di Procida. La cupola è di musaico e l’altare è di legno e di avorio. Nel musaico il donatore è in ginocchio dinanzi all’Apostolo, e l’iscrizione dice:
Hoc studiis magnis fecit pia cura lohannis,
De Procida, dici meruit quae gemma Salerni.
Nella stessa cappella sorge il mausoleo del grande Ildebrando, di papa Gregorio VII, dopo la cacciata accolto in Salerno da Roberto Guiscardo.
Gaeta possiede, nella Cattedrale di Sant’Erasmo, il vessillo inviato da Pio V a Don Giovanni d’Austria e issato su la galèa reale nel giorno di Lepanto. Era il vessillo della Santa Lega. Il pontefice inviandolo raccomandò che non fosse spiegato se non nell’ora della battaglia. Secondo un passo delle memorie di Onorato Gaetani, Don Giovanni dopo la vittoria passando per Gaeta depose il vessillo nel Vescovado in onore del suo patrono Sant’Erasmo, assolvendo un vóto fatto nel pericolo. Il vessillo fu posto in una custodia e divenne il più prezioso ornamento dell’altar maggiore. Anche una vecchia cronaca della Casa Gattola di Gaeta racconta come Giovanni, figliuol di Carlo re di Spagna, approdasse a Gaeta con grande pompa ricevuto in porto dal vescovo Pietro e com’egli offerisse a Sant’Erasmo protettore e martire il vessillo ch’egli aveva issato a poppa della Reale il 7 di ottobre 1571. La sera stessa, il vincitore navigava alla volta della Sardegna.
Don Giovanni nella battaglia aveva sul ponte quattrocento soldati del terzo di Sardegna; che fecero miracoli contro i trecento giannizzeri e i cento arcieri di Alì, quando le galere dei due capitani s’investirono. Il bassà, dal principio alla fine della fazione, non cessò dallo scoccare i suoi dardi. Ma le corde degli archi riscaldate si distendevano indebolendo i colpi, mentre gli infaticabili archibusieri cristiani avevano il vantaggio.
Il Capo di Teulada è la punta più meridionale della Sardegna, la più vicina all’Africa. Anche la recondita Teulada ha il suo eroe nel cannoniere Michele Meloni di Francesco, ferito nella giornata del 23 ottobre a Homs. Questo Sardo era tra quei quaranta marinai, comandati da Corrado Corradini veronese, che occuparono coi loro pezzi da sbarco l’altura del Margheb ingombra di rovine romane. Come puntava egli il suo cannone per l’ottantacinquesimo colpo, una palla araba passando per la clavicola gli traversò l’apice del polmone e gli restò sotto pelle fra le due scapole. Prima di piegarsi, lanciò contro il nemico nell’ingiuria uno sputo di sangue. Accorrendo i suoi uomini, li supplicò di attendere non a lui ma al pezzo già puntato. Insistendo gli uomini, l’ira gli dette la forza di sollevarsi. Egli vomitava sangue dal polmone, e il braccio sinistro fiaccato gli penzolava su l’anca. Nessuno osò trattenerlo né sorreggerlo. Solo egli si trascinò sino al suo cannone, col braccio valido aggiustò la mira e sparò. Si resse ancóra in piedi qualche attimo per riconoscere l’effetto del colpo, senza più colore di vita, con la bocca piena di vomito. Poi cadde a terra, di schianto.
Due altri Sardi, Salvatore Marceddu della nave Amalfi e Nicolò Grosso della Vittorio Emanuele, il primo nativo di Cagliari e il secondo di Carloforte, battellieri e pescatori, furono uccisi su la spiaggia della Giuliana. E avevano entrambi ventitré anni.
Carloforte è una città fortificata dell’isola di San Pietro, edificata in pendio su i contrafforti della Guardia dei Mori. L’isola, ricca di falchi, rimase per secoli deserta, dopo le feroci devastazioni dei Saraceni e dei Barbareschi. Era il desolato dominio d’un patrizio, duca di San Pietro; il quale pensò di trasportarvi i Genovesi dell’isola coloniale di Tabarca, che i Turchi di Tunisi molestavano senza tregua. Il genovese Agostino Tagliafico sbarcò nell’isola con i suoi popolani nel 1736 e costruì su l’altura la fortezza di Carloforte, che fu guardata da una piccola guarnigione.
La colonia per alcuni anni prosperò, industriandosi in saline, in tonnare, in pesche di coralli, in culture agrarie. Ma la mattina del 2 settembre 1798 gli abitanti, mentre dormivano ancóra senza sospetto nelle loro case, furono sorpresi da uno sbarco di predatori tunisini che misero tutta la terra a sacco crudelissimamente e spinsero alla spiaggia come mandria e condussero in schiavitù un migliaio d’infelici; ché i più animosi erano in alto mare occupati alla pesca. Dopo cinque anni di duro servaggio, per intercessione e per danaro di Pio VIII e di Vittorio Emanuele, furono riscattati. E Carloforte allora fu munita di mura, fuorché dalla parte della spiaggia dove fu piantata una batteria a fior d’acqua.
L’Arco di Settimio Severo, nel Fòro Romano, tra il Carcere Mamertino e i Rostri, tra il Lapis Niger e l’Ombelico dell’Urbe, fu eretto all’Imperatore nell’anno 203 dopo Cristo; e commemora anche tal’una delle sue vittorie su gli Arabi. Il primo restauratore della nostra marina, Simone di Saint-Bon, ha in Campo Verano la sua tomba; che oggi la riconoscenza nazionale dovrebbe ricoprire di corone. A San Giorgio di Lissa, comandando la Formidabile, penetrò nel porto angusto, s’imbozzò a breve gittata dalla più potente difesa, innanzi alla batteria della Madonna, e vi si mantenne imperterrito, con prodigi di valore, destando l’ammirazione degli stessi nemici.
Gli mentirono i Fati, d’innanzi a Lissa tonante.
Quando su la sua nave già rotta dagli obici e tutta
vermiglia di sangue, sul ponte ingombro di corpi
mùtili Egli stette impavido incolume solo
nel tragico ardore, non parve compirsi il prodigio
per un patto fatale ed Egli omai sacro alla guerra
futura, a una strage più vasta, a una gloria più vasta?
Odi navali (1892)
La canzone della Diana
La Porta di San Lorenzo, in vicinanza della Basilica e del Campo Verano, è nel luogo dell’antica Porta Tiburtina. L’arco di travertino fu costruito, come dichiarano le iscrizioni, da Augusto e restaurato da Tito e da Caracalla per sopportare gli acquedotti delle acque Giulia Tepula e Marcia.
Il soldato Pietro Ari nacque in Cuglieri, in terra arborense, in quello stesso circondario di Oristano ove nel cratere del vulcano estinto sta Santu Lussurgiu, l’ardua città posta «fra il Logudoro e l’Arborea, tra i sepolcreti giganteschi delle più antiche stirpi, tutta chiusa in una chiostra di basalto e aperta soltanto a ostro-libeccio, al soffio dell’Africa», là dove Corrado Brando trovò Rudu, homine de abbastu, e l’ebbe compagno intrepido «per seguire la vocazione d’oltremare».
Il vituperato eroe aveva «una parola romana da rendere italica: Teneo te, Africa». Egli diceva, nel suo sogno di morituro: «Io potrei forse divenire un costruttore di città su terre di conquista, ritrovare quell’architettura coloniale che i Romani piantarono nell’Africa degli Scipioni. Guarda le Terme di Cherchell, il fòro di Thimgad, il pretorio di Lambesi. Intorno a un campo trincerato per contenere i nòmadi, ecco sorgere di sùbito una città marziale, alzata dalle coorti dei veterani!» Può essere che, per assistere alla sognata rinnovazione, domani egli risorga dal suo rogo meraviglioso. «Chi narrerà al mio figlio che, nella mia morte notturna, ho tenuto sul mio petto il mio Sole simile a una mola rovente? Via, cani, alla catena! La mia cenere è semenza.»
La canzone d’Elena di Francia
Chiamano Guardie i piloti le sette stelle dell’Orsa minore, i sette trioni degli antichi; perché esse scorgono e dirigono il loro cammino nella notte.
Tragiche favole si formarono intorno alle Pleiadi. Sono esse la costellazione nautica per eccellenza; poiché gli antichi non ardivano dar principio alla navigazione prima del nascer eliaco delle Pleiadi nel mattino insieme col sole. Al lor tramonto incominciava il tempo delle tempeste, e il nocchiero schivava il mare. Sei delle Pleiadi sono visibili, la settima, Merope, quella che protegge questo libro, è oscura; e la favola narra ch’ella si nasconda per essersi congiunta, sola fra le sorelle, con un eroe mortale.
San Luigi re di Francia fece su navi genovesi il primo e il secondo passaggio d’oltremare. Quando a Damiata, dopo la disfatta dell’esercito, essendo prigioniero il Re, Margherita di Provenza si sgravò del figliuolo Gianni a cui fu in segno di cordoglio aggiunto il nome di Tristano, vennero nella stanza della regina alcuni cavalieri a dirle che le genti di Genova e di Pisa erano in punto di abbandonare il campo. Allora la puerpera animosa convocò nella sua stanza i Genovesi e i Pisani che vennero e stettero accalcati intorno al suo letto. Ella li supplicò di non partire. «Signour, pour Dieu merci, ne laissiés pas ceste ville…» La scena è ingenuamente colorita nella prosa del sire di Joinville, del Siniscalco. «Come faremo noi, Dama?» risposero gli Italiani. «Ché in questa città noi moriamo di fame. Dame, comment ferons-nous ce? Que nous mourons de fain en ceste ville.» La regina promise di comperare tutta la vettovaglia. «Car je ferai acheter toutes les viandes en ceste ville…» Genovesi e Pisani fecero consiglio, e restarono.
Nell’avanzata verso Mansura, l’esercito era stremato dalle malattie e dalle ferite. Ogni giorno s’accresceva il numero degli infermi. Le esalazioni pestilenziali del limo ingrassato dai cadaveri generavano orribili morbi. La carne delle gambe si disseccava tutta, e la pelle si maculava di nero e di color terreo come una vecchia uosa; e le gengive si gonfiavano e marcivano. «La chars de nos jambes devenoit tavelés de noir et de terre, aussi comme une vieille heuse: et à nous qui aviens tel maladie, venoit chars pourrie es gencives…» Il Siniscalco narra come l’orribile male tanto peggiorasse che bisognava i barbieri tagliassero in bocca ai malati la carne morta perché potessero inghiottire il cibo. Ed era gran pietà udire gli urli degli straziati; che urlavano come le donne partorienti. «Grans pitiés estoit d’oir braire les gens parmi l’ost ausquiex l’on copoit la char morte; car il bréoient comme femmes qui traveillent d’enfant.»
I morti rimanevano insepolti, perché ognuno temeva di toccarli e di sotterrarli. Invano il Re dava l’esempio e li portava e li seppelliva con le sue proprie mani. Il Confessore della regina Margherita racconta come, seppellendo il Re i morti, i Vescovi nell’officiare si turassero il naso pel gran fetore: ma non fu mai visto il Re imitarli.
«Ils estoupoient leur nez pour la puour; mais oncques ne fu veu an bon roy Loys estouper le sien, tant le foisoit fermement et dévotement.»
Mentre Roberto d’Artese, il fratello del Re, entrava in Mansura solo, lasciandosi indietro i Templari, e vi restava ucciso, San Luigi veniva alla riscossa con tutta la sua schiera al suono delle trombe e delle nacchere. Dice il Siniscalco che mai videsi più bel cavaliere, avanzante di tutta la spalla le genti sue, con un elmo d’oro in testa, con in pugno una spada alemanna. «Oncques si bel homme armé ne vis, car il paroissoit dessus toute sa gent des épaules en haut, un haume d’or à son chef une épée d’Allemagne en sa main.» Quando il conte d’Angiò su la via del Cairo fu assalito da due stuoli di Saraceni e oppresso dal getto dei fuochi lavorati, il Re lo salvò scagliandosi a cavallo contro gli assalitori. La criniera della sua bestia fiammeggiava, coperta di fuoco greco, nel vento della corsa.
Il Confessore racconta con quale ardore il Re desiderasse la grazia delle lagrime e come si lamentasse d’esserne privo e come non osasse nella litania implorare fontana di lacrime ma sol qualche gocciola ad irrorare l’aridità del suo cuore. «Li sainz roi disoit dévotement: O sire Dieux, je n’ose requerre fontaine de lermes: ançois me souffisissent petites goutes à arouser la secherèce de mon cuer… Lesqueles, quand il le sentoit courre par sa face, souef et entrer dans sa bouche, eles li sembloient si savoureuses et très-douces, non pas seulement au cuer, mès à la bouche.»
Durante l’agonia, dopo il secondo infelicissimo passaggio, in prossimità di Cartagine, il Re volle esser tratto dal letto e disteso su la cenere. Il suo giovine figliuolo amatissimo, Gian Tristano, era già morto sul vascello.
Carlo d’Angiò venne allora di Sicilia «con grande navil’io e con molta gente e rinfrescamento» come narra Giovanni Villani; patteggiò col soldato di Tunisi; e ripartì con le relique del fratello e del nipote. Giunto il convoglio a Trapani l’Invitta (Drepanum civitas invictissima, come fu scritto intorno al sigillo minicipale) Tibaldo di Sciampagna re di Navarra, già infermo, si spense. Con le tre bare il corteo si mise in viaggio verso Palermo, per la via di terra. Quivi fece una sosta di due settimane. Il corpo di San Luigi fu collocato nella basilica palatina di Monreale, ove operò i primi miracoli. Il cuore fu anzi lasciato nel tempio dei re normanni. Poi il re di Sicilia, il re novello di Francia Filippo l’Ardito con sua moglie Isabella d’Aragona e i superstiti della tristissima impresa continuarono il viaggio sino a Messina, passarono lo stretto e s’internarono nella Calabria. Era di gennaio. Nevicava per le gole dei monti. Non lungi da Martirano, il corteo lugubre giunse al guado di un torrente tributario del Savuto. La giovane regina, benché incinta di sei mesi, spinse arditamente il cavallo tra i sassi sdrucciolevoli («Praesunta quadam virili audacia pereundi» dice Saba Malaspina); ma la bestia inciampicò e cadde trascinando Isabella nell’acqua ghiaccia. Fu sollevata, posta in lettiga, soccorsa; ma lo schianto era mortale. «Offensa lethaliter et in ipso casu confracta, laesus fuit uterus…» Giunta a Cosenza, ella si sgravò di un bambino morto e rese l’anima. Saba Malaspina racconta come il cadavere fosse bollito, more maiorum, e come le carni fossero sepolte in gran pompa nel duomo di Cosenza e lo scheletro fosse portato in Francia a San Dionigi, con le tre altre spoglie reali. Un nobile mausoleo fu eretto nella cattedrale cosentina «perpulcra, digna memoria, materiae ac artis concertatione glorifica» presso l’altare dei Santi Apostoli Pietro e Paolo, sul luogo della sepoltura. Rimesso in luce per recenti restauri, fu rivelato dall’acume di Nicola Arnone e illustrato da uno studio eccellente di Emilio Bertaux.
Il Nasuto è chiamato da Dante Carlo d’Angiò nel canto settimo del Purgatorio.
Anche al Nasuto vanno mie parole…
E, poco innanzi:
Quel che par sì membruto e che s’accorda,
cantando, con colui dal maschio naso…
E Giovanni Villani: «Grande di persona e nerboruto, di colore ulivigno, e con grande naso…».
Il Lambello è il nostro Rastrello. Dice Vincenzio Borghini: «Alla comune arma della casa di Fois aggiunse un rastrello, o, come essi dicono, lambello d’argento». E, a proposito di Carlo, il Villani: «La sua arme era di Francia, cioè il campo azzurro e fiordaliso d’oro, e di sopra uno rastrello vermiglio: tanto si divisava da quella del re di Francia».
L’allusione al cordiglio francescano tenuto da San Luigi è giustificata dalla pittura di Giotto nella Cappella dei Bardi in Santa Croce; la quale è certo inspirata dalla leggenda francescana che fa del Re di Francia un terziario dell’Ordine. Il capitolo XXXIII dei Fioretti racconta Come sancto Lodovico andò a visitare frate Egidio e mai non s’erano veduti. Et sança parlare si cognobbono insieme. Il San Luigi giottesco tiene in una mano lo scettro e nell’altra il cordiglio dei Terziarii; e il suo manto azzurro, col collare di vaio, è cosparso di fiordalisi.
Facile è riconoscere il luogo del verso di Dante:
Così è germinato questo fiore.
L’altro verso e l’emistichio son derivati dal decimo settimo canto del Purgatorio, non perché vi sia rispondenza tra quel passo e il momento lirico della Canzone ma perché sembra che ogni alto e appropriato segno possa esser tratto per noi dalla Comedia a libro aperto come i responsi dai libri sibillini.
La canzone dei Dardanelli
Questa Canzone fu composta quando gli informatori descrivevano la ragunata delle navi nel porto di Taranto. «Sin da ieri è un continuo passaggio di torpediniere nel Canale navigabile. Hanno tutte all’albero maestro la fiamma di guerra. Il Mar Piccolo sembra un immenso lago dove galleggiano in gran numero navi di battaglia, torpediniere e cacciatorpediniere. Ve ne sono ormeggiate lungo tutte le banchine, e nell’arsenale e nello specchio d’acqua del primo bacino, ch’è nel Mar Piccolo il più vasto, riparo sicurissimo ed inespugnabile, unico in tutto il mondo (17 novembre).» Questa notizia era immediatamente seguita da quest’altra, in vistosi caratteri: «La flotta non è ai Dardanelli».
L’episodio della battaglia sostenuta dai quattro legni cristiani contro l’intera armata di Maometto II, sotto le mura di Costantinopoli, è narrato nelle Croniche di Giorgio Dolfino e di Niccolò Barbaro che ne fu testimonio, e nella Cronica di Costantinopoli del greco Giorgio Phranzes, il quale anche assistette alla fazione. I quattro legni, venendo dal Mar di Marinara, portavano viveri e munizioni all’imperatore assediato. Pei contrarii v’ènti, avevan cappeggiato a lungo nei paraggi di Chio; cosicché, favoriti alfine dall’Ostro, entravano nell’Ellesponto e s’appressavano al Bosforo quando già tutta la città era stretta. Come l’armata turca li avvistò, il sultano diede ordine all’ammiraglio di assalirli con tutte le forze e di catturarli o di colarli a picco. Suleyman bey salpò con circa duecento vascelli (a centoquarantacinque li riduce uno dei cronisti); innanzi l’ora di nona incontrò i quattro legni sotto le mura, propriamente fra le Sette-Torri e i giardini di Blanca. In quel punto il vento cadde, cosicché i Cristiani perdettero il vantaggio. Tuttavia si prepararono a combattere. Combattimento ineguale e portentoso, d’un naviglio sottilissimo contro il grosso dell’armata ottomana. Allo spettacolo accorse su le mura, dalla parte della Propontide, la moltitudine degli assediati, e lo stesso Costantino. Su la riva, fuor della cerchia, presso il promontorio di Zeitun, a breve distanza dalle Sette-Torri, accorsero i Turchi, e lo stesso sultano a cavallo per godere della prima vittoria. Il cielo era sereno su tutto il Bosforo. Prima parlarono i mortai e le bombarde; poi un de’ legni cristiani e la galeazza di Suleyman vennero all’arrembaggio per prua e rimasero conficcati per prua l’uno nell’altra. Intorno s’accalcarono le navi turche. E le tre genovesi nell’investimento persero l’uso dei remi. Allora i ponti accostati furono il campo d’una mischia feroce. Con le pietre pugnerecce e coi fuochi lavorati i nostri opposero una così fiera difesa che, dopo tre ore di combattimento, le sorti parvero volgere in lor favore. Gran numero di navi turche ardeva già; cresceva la strage. I nostri, eccitati dai cl’amori che ventavano dalle mura, parevano moltiplicarsi mentre su l’armata nemica già soffiava il panico.
Allora Maometto, furibondo, imprecando alla viltà de’ suoi come per minacciarli e ricacciarli avanti, si lanciò a cavallo nel mare e spinse la bestia sul bassofondo, con l’acqua sino al pettorale. Atterriti tornarono all’assalto coloro che l’atroce conquistatore soleva, nei momenti disperati, spingere con le spranghe di ferro e coi nerbi di bue; ma non poterono superare la resistenza dei Cristiani. Furono costretti a ritrarsi. Le navi superstiti ripresero l’ancoraggio di Bessikhtach.
Verso sera, Gabriele Trevisano e Zaccaria Grioni con due galèe rimorchiarono in trionfo i quattro legni, tra squilli di trombe e canti di vittoria; poi richiusero il porto con la catena.
Dopo la terza delle Cinque Giornate, quando cominciava a determinarsi la disfatta degli occupatori, i soldati del Radetzky si abbandonarono ad atrocità che non cedono nel paragone a quelle arabe e turche di Rebab. Dalla strage di Casa Fortis ai lattanti infissi su le baionette, giova non enumerarle. La terzina della mano mozza allude a quella mano feminile, carica d’anelli, che fu rinvenuta nella tasca d’un Croato ucciso.
Costantino Paleologo, il fratello di Giovanni, avendo accettata la corona di Bisanzio, vera corona di spine, condusse con molta intrepidezza la difesa contro il secondo Maometto che l’assaliva con uno sterminato esercito. I difensori non sorpassavano il numero di settemila. Un Giustiniani, un Cattaneo, un Minoto, un Contarini, un Mocenigo, un Corner, altri nobili veneziani e genovesi, erano alla guardia delle torri e delle porte. Quando tutto fu perduto e l’esercito del sultano implacabile irruppe nella città per dare il sacco di tre giorni promessogli, Costantino spronò il cavallo, nei pressi della Porta Càrsia, contro il folto dei nemici, volendo morire con l’Impero. «Il sangue gli colava dai piedi e dalle mani» dice Giorgio Phranres. Secondo Michele Ducas, lo storico dell’Impero d’Oriente, l’imperatore gridò: «Non un cristiano v’ha, che prenda il mio capo?» Secondo Michele Critopulo, gridò: «La città è presa, e io vivo ancóra!». In quel punto un Turco gli tagliò la faccia. Come Costantino rispondeva al colpo, un altro gli trapassò le reni. Cadde nel mucchio, non conosciuto. Più tardi, avendo Maometto ordinato di ricercarlo, riconobbero i cercatori il cadavere ai calzati di porpora che recavano trapunte in oro le aquile imperiali.
I sovrani e i principi della Chiesa in Occidente, dopo che con sì trista incuranza avevan lasciato abbattere l’ultimo segno dell’Impero bisantino, alla notizia della vittoria turca rimasero atterriti; e temettero che i giannizzeri non venissero a distruggere le imagini di Cristo nelle cappelle unghere ed alemanne e che le basiliche romane non fossero mutate in moschee come quella Santa Sofia dove Maometto aveva fatto pel primo il suo namaz su l’altar maggiore!
Il marinaio barese Vito de Tullio fu ferito a Tripoli nella battaglia del 26 ottobre. Era disceso dalla nave Sicilia con la compagnia di sbarco. Quando giunse la notizia, tutto il popolo della città vecchia passò in pellegrinaggio per la casa della madre; che si chiama Serafina Daddario. Ferito a Bengasi fu il marinaio Luigi Carmineo, tra i primi a sbarcare sotto il fuoco, in una barca gettata dalla nave Amalfi.
Nella parte occidentale della città vecchia, nella Piazza Mercantile, sta su quattro gradini il Leone veneziano, con incise nel collare le parole «Custos iustitiae».
Dopo la spartizione di Costantinopoli, Venezia per assicurarsi il possesso delle Cicladi concesse che cittadini armatori di galèe ne tentassero l’acquisto a lor rischio e pericolo. Fu allora composta per accordo una compagnia di patrizii, la quale armò una squadra di corsa e la diede in comando a Marco Sanuto. Il Sanuto non soltanto s’impadronì delle Cicladi, ma anche delle Sporadi e delle isole sparse lungo la costa dell’Asia Minore. Egli fu investito della signoria feudale di Nasso e d’Amorgo; poi, per decreto dell’Imperatore latino di Costantinopoli, ebbe il titolo di duca dell’Egeo, con autorità su tutte le isole distribuite in feudo ai suoi compagni d’armi, insuperabili marinai.
Martino Zaccaria, figlio di Niccolò, per la sua prodezza e per i suoi ardimenti si guadagnò il favore di Filippo di Taranto, imperator titolare di Costantinopoli e principe d’Acaia, a tal punto che costui lo nominò con diploma in data del 26 maggio 1315 re e despoto dell’Asia Minore e gli diede inoltre Marmara, le Enusse, Tenedo, Lesbo, Chio, Samo, Icaria e Coo, con tutti i diritti regali e con tutte le insegne della regalità. In compenso, Martino s’assumeva il carico d’aiutarlo, con cinquecento uomini, a riconquistare il trono di Costantinopoli.
Questo Zaccaria con imperterrito zelo proseguì l’alleanza disegnata contro i Turchi da Marin Sanudo nel 1329. Le sue spedizioni contro gli infedeli furon quasi sempre vittoriose. Sembra che, durante i quindici anni di suo governo in Chio, egli ne uccidesse più di diecimila.
Come re dell’Asia Minore, aveva diritto di battere moneta. Esistono ancóra monete d’argento del suo conio, con l’imagine di Santo Isidoro patrono di Chio. Dopo avventure ammirabili, liete e tristi, nel 1343 si congiunse ai Crociati che facevano oste contro Omar principe d’Aidin per impadronirsi delle Smirne; e cadde nella sanguinosissima battaglia del 15 gennaio 1345.
Egli può esser considerato come un vero eroe nazionale ligure, stupendo rampollo di quella cavalleria greco-franca che aveva già sfolgorato di gloria sul Mediterraneo. Converrebbe rinnovellare le lodi che gli inalza Uberto Foglietta nei suoi Elogia clarorum Ligurum. Erano nel XIII secolo gli Zaccaria di Castro tra le più opulenti e possenti famiglie di Genova. Traevano essi gran parte della lor ricchezza dalle miniere di allume esercitate nel territorio di Focea.
Quando il capitano popolano Simon Vignoso, partitosi di Genova col naviglio nella primavera del 1346, ebbe riconquistata Scio, il Comune dovette ben tenere il patto di rifondere agli armatori e conduttori della guerra tutte le spese rilasciando alcuna parte di certe rendite dello Stato. Ma, essendo assai smunto l’erario, il Governo stipulò con i capi della spedizione, il 26 febbraio 1347, un accordo che lor conferiva per anni ventinove il dominio utile e l’amministrazione di Scio e di Focea Vecchia e Nuova, riserbando alla Republica la ragion della spada e del sangue ed il mero e misto imperio (merum et mixtum imperium). Ogni padron di nave per tale accordo aveva facoltà di partecipare al guadagno prodotto dal commercio del mastice e dell’allume e dalle gabelle nei paesi conquistati. Così fu tra i conquistatori di Scio costituita la società chiamata Maona, la cui storia gloriosissima è da ricordareagli Italiani tutta quanta, dalla romana severità di Simon Vignoso ai diciotto giovini martiri Giustiniani.
Il nome di Giustiniani presero poi i Maonesi, come per congiungersi in una vasta famiglia e dinastia, rinunciando ciascuno al nome suo proprio. E la Maona fu detta allora dei Giustiniani di Scio. I primi dodici socii della corporazione, che fecero la rinunzia e assunsero il nuovo nome, furono: Nicolò Caneto, Giovanni Campi, Nicolò di San Teodoro, Gabriele Adorno, Paolo Banca, Tommaso Longo, Andriolo Campi, Raffaello di Fornetto, Luchino Negro, Pietro Oliverio e Francesco Garibaldo.
Il commercio più importante e più remunerativo per la Maona era quel del mastice, prodotto nei quattro distretti meridionali di Chio e raccolto da speciali agenti «officiales super recollectionem masticis».
I dinasti di Scio furono anch’essi tocchi dall’Umanesimo. Ornatissimo fra gli altri fu quell’Andriolo Banca che, in grazia al suo sapere, divenne amico di Eugenio IV. Cantò in versi italiani la guerra del 1431 contro Venezia. Le lettere di Ciriaco d’Ancona a lui dirette hanno molti curiosi particolari su le rovine del Tempio d’Apollo in Cardamyla e sul monumento d’Omero; presso il quale Andriolo aveva costrutto all’ombra dei pini e al murmure d’un fonte una casa «omerica», procul negotiis.
Nella evocazione del sublime marinaio greco Costantino Canaris, si allude alla impresa da lui compiuta contro il naviglio di Kara Alì ancorato in Cesmè, la notte del 18 giugno 1822. Egli aveva per compagno Pepinos nativo di quell’ammirabile Hydra «sì nuda che in qualche luogo manca la terra per seppellire i morti», di quell’Hydra che fu diletta ad Andrea Miaulis, all’audacissimo navarca sepolto nel Pireo presso la tomba di Temistocle.
I giovani palermitani dovrebbero in giorno di vittoria sospendere una corona votiva al monumento del Canaris nella loro Villa Giulia.
Lazaro Mocenigo, se bene inimitabile anche nel peccare, meriterebbe d’esser canonizzato e proposto al culto di tutti i marinai italiani. Forse neppure il Miaulis può essergli paragonato in audacia. Se l’arte lunga e la vita breve concedessero all’autore di questa Canzone il poter compiere tutto quel che disegna, egli vorrebbe scrivere la biografia di tanto eroe per metterla nelle mani d’ogni guardiamarina della razza di Mario Bianco. Su la stupenda battaglia dei Dardanelli convien rileggere le pagine del cronista testimonio riferite da Gerolamo Brusoni nella sua Istoria dell’ultima guerra fra i Veneziani e i Turchi. Implacabile e infaticabile il vittorioso «volle la sera stessa fare l’ultima prova; e così, seguitato da quattro o cinque altre delle sue galere più rinforzate, intraprese di nuovo come la mattina la caccia delle nemiche; dovendo intanto gli altri due generali col resto delle galere scostarsi col favor della notte a danneggiare quelle che erano fermate in terra, e se non fosse loro riuscito di tirarle fuori, incendiarle almeno. E però stavano già formando d’una tartana un brulotto per condurvelo sopra. Ma dopo un difficoltoso proveggio, arrivato il Mocenigo sotto le batterie de’ Barbieri, che non meno furiose della mattina offendevano gravemente le sue galere (avendo ammazzato sopra la Reale quindici o sedici uomini, ed altri sopra la Provveditora, atterrato l’antenna sopra alla Capitana di Golfo, e rotto il timone e parte della ruota alla Commissaria) quando già stava per abbordare i legni fuggitivi, fu da una palla fatale colpito in Santa Barbara: onde preso fuoco la munizione fece subito volare in aria la sua galera, non essendo restato intiero che l’arsile con la poppa dove stando egli a Vigilare il comando non si abbrucciò: ma cadendogli su la testa l’asta dello stendardo del calcese, lo fece cadere subito morto».
Il Mocenigo aveva perduto un occhio, il destro, alla battaglia del 26 di giugno 1656 nelle acque di Scio, ove Lorenzo Marcello perse la vita. Venti navi del bassà Kenaan caddero in mano dei Veneziani, preda fra le più insigni del mare.
La prima edizione delle Canzoni della Gesta d’Oltremare fu sequestrata il 24 gennaio 1912, a motivo di alcune terzine della Canzone dei Dardanelli, che, a detta dell’Autorità politica, suonavano «ingiuriose verso una potenza alleata e verso il suo Sovrano».
Nella seconda edizione, che fu la prima per il pubblico, le suddette terzine furono soppresse, e surrogate da puntini con la seguente postilla: «Questa Canzone della Patria delusa fu mutilata da mano poliziesca, per ordine del cavaliere Giovanni Giolitti capo del Governo d’Italia, il dì 24 gennaio 1912. G. d’A.».
La terza edizione uscita nel luglio 1915, e questa definitiva, cambiati i tempi e gli uomini, sono integrali; comprendono cioè anche le terzine che furono allora soppresse.
La canzone di Umberto Cagni
I tre compagni di Umberto Cagni nella spedizione polare partita con le slitte dalla baia di Teplitz la domenica 11 marzo 1900, rimasti con lui dopo il rinvio degli altri due gruppi, furono Giuseppe Petigax, Alessio Fenoillet, entrambi di Courmayeur, e il marinaio ligure Simone Canepa di Varazze.
Espeditissimo fu il Cagni. Superò ogni altra conosciuta celerità sul ghiaccio dell’Oceano artico. Percorse seicento sette miglia in novanta cinque giorni. Fritjof Nansen faceva nel periodo migliore cinque miglia al giorno. Il nostro ne fece dieci. Il pensiero della celerità lo assillava di continuo. «La mancanza di luce prima, il freddo intenso poi, mi hanno impedito di oltrepassare e talvolta di raggiungere le otto ore di marcia. Vedo che i miei uomini in queste marce e nel lavoro d’accampamento, con tenacia di volontà ammirevole, dànno quanto possono dare nella massima misura. Ritengo che in queste condizioni sarebbe imprudente richiedere uno sforzo maggiore da essi. Ed ora il vento che soffia violento e la neve che ci involge ergeranno nuovi ostacoli at nostro cammino. Eppure ad ogni costo bisogna che questo sia più rapido! (domenica 18 marzo).»
Il 25 marzo, costretto a far senza guanti il lavoro improbo del riattare le slitte, vide formarsi una vescica «all’estremità dell’indice della mano destra, già congelatasi due altre volte».
«L’indice della mano destra mi tormenta continuamente da alcuni giorni, ma non lo scopro mai per timore d’infettarlo, e poiché a nulla ciò servirebbe, non avendo né tempo né modo di curarlo. Lo guarderò il giorno del ritorno (mercoledì 11 aprile).»
Il lunedì 23 aprile egli doveva superare il termine raggiunto dallo Scandinavo. «Il ghiaccio cigolava da tutte le parti e si incavalcava, e rumoreggiando ergeva dighe: canali serpeggianti si aprivano e ove altri si richiudevano nuove dighe s’inalzavano. Mai avevo veduto il ghiaccio così vivo, così palpitante, così minaccioso. I cani intimoriti guaivano e si arrestavano; noi li spingevamo con la voce e affannosamente aiutavamo or una slitta, or l’altra.»
«Nei brevi riposi ci guardavamo sorridendo, ma nessuno parlava; forse ci pareva che la nostra voce dovesse rompere l’incantesimo che ci conduceva alla vittoria…»
Il dolore del dito lo tormentava sempre. Bisogna leggere nel Diario con quale atroce pazienza egli stesso operò il taglio della parte annerita. Per recidere l’ossicino sporgente, dolorosissimo, con un paio di forbici comuni, impiegò quasi due ore. «Canepa ad un certo momento non ha più resistito ed è scappato fuori della tenda nonostante il vento e la neve.»
Rinunziava a lavare la piaga col sublimato «per risparmiare tempo e petrolio». Come più crescevano gli stenti e gli impedimenti, più gli cresceva l’energia. «Mi sembra di avere una nuova grande energia fisica, conseguenza forse di quella morale potentemente eccitata dal pericolo, dalla lotta per la nostra conservazione e da un desiderio infinito che supera forse quello della vita: dal desiderio che tutte le nostre fatiche ed i nostri sacrificii non vadano perduti, che l’Italia sappia che i suoi figli dalla lotta secolare, nuova per essi, escono con onore…»
Con ancor più veloce energia la spada di Bu-Meliana fu stretta, sul limite del Deserto libico, dal pugno cui mancava la falange congelata nel Deserto artico.
La canzone di Mario Bianco
Le due prime terzine alludono alla giovanissima figlia di Bartolomeo Colleoni, a quella vergine Medea sepolta nella stupenda Cappella costrutta in Bergamo dall’arte di Giovan Antonio Amadeo, dell’architetto scultore che lavorò al fronte della Certosa di Pavia e all’interno del Duomo di Milano. Vedi nelle Città del Silenzio i tre sonetti su Bergamo.
Francesco Nullo (1826-1863) bergamasco condusse nelle Cinque Giornate la sua colonna di prodi, con prodezza senza pari. Fu, poco dopo, nel Trentino alfiere potentissimo. Militò alla difesa di Roma nella legione dei lancieri. Fu in Bergamo alcun tempo prigioniero del Governo austriaco. Dal 1859 al 1862 seguitò il generale Garibaldi, dando continue prove di valore sublime. Nel 1863, con sedici bergamaschi ed altri pochi giovani d’altre province, partì per soccorrere la Polonia insorta. Il cinque maggio, nella giornata di Krzykawka, rimase ucciso sul campo da una palla che gli forò il petto generoso.
Così egli è rappresentato a Palermo, nella Canzone di Garibaldi:
«Il maschio
Nullo a cavallo oltre la barricata
con la sua rossa torma, ferino e umano
eroe, gran torso inserto nella vasta
groppa, centàurea possa, erto su la vampa
come in un vol di criniere…».
Paràlia era detta la trireme sacra che, ornata di ghirlande, trasportava la teoria a Delo.
Mario Bianco nacque in terra d’Abruzzi, a Fossacesia, nell’antica regione frentana. Quivi, sopra un’altura querciosa che domina l’Adriatico, sorge la Basilica di San Giovanni in Venere, così detta dal ricordo di un tempio di Venere Conciliatrice che coronava il promontorio. Insigne d’architettura, la Badia fu ricca, potente e variamente mista alla storia religiosa e civile dell’Abruzzo chietino. Nel 1194 vide dalla sottoposta marina partire le galèe di quella Quarta Crociata che doveva rinnovare l’egemonia italica nel bacino orientale del Mediterraneo e fondare l’Impero latino.
Nell’immenso spazio di mare, che la vista abbraccia dall’altura sonora di querci, appariscono in lontananza le Tremiti, le isole che gli antichi chiamarono Diomedee dal nome di Diomede figlio di Tideo, socio di Ulisse; perché la tradizione recava che quivi i compagni del guerriero si fossero trasfigurati negli uccelli marini che abitavano le rupi e accoglievano con grandi cl’amori di giubilo chiunque di stirpe ellenica vi approdasse.
I marinai morti nello sbarco di Bengasi furono sei: Gianni Muzzo di Gallipoli, Alfieri d’Alò e Giuseppe Carlini di Taranto, Nicolò Grosso di Carloforte, Salvatore Marceddu di Cagliari, Giovanni de Filippis di Salerno. Il guardiamarina Mario Bianco comandava due cannoni sbarcati a viva forza e situati su le dune della Giuliana, a ostro della Punta. Egli fu sorpreso alle spalle da uno stuolo di Turchi e di Arabi che vennero all’assalto con grande impeto. Mentre dirigeva il fuoco de’ suoi uomini e rispondeva egli medesimo scaricando la sua pistola, fu colpito da una palla all’inguine. Perdeva sangue; non volle essere sorretto; continuò ad animare i suoi marinai. A ostro della Giuliana, sotto un gruppo di palme, cadde. Il suo corpo fu veduto riverso nella sabbia, con le gambe penzoloni nella fossa d’una trincera dove un colpo d’una delle nostre mitragliatrici aveva abbattuto e ridotto in orribile carname un mucchio di venti Arabi.
La terzina che reca le parole: «Ricòrdati ed aspetta» è formata con emistichii tratti dai sonetti che fanno da preludio ai Canti della morte e della gloria cominciando:
«O Verità cinta di quercia, canta
la tristezza del popolo latino…»
«La gloria fu» sono le prime parole del terzo sonetto, che finisce con questi versi qui citati ad onore:
«Alziamo gli Inni funebri, sul gregge
ignaro, alla Potenza che ci lascia,
alla Bellezza che da noi s’esilia.
Implacabile è il Canto, e la sua legge.
E però leva su, vinci l’ambascia,
Anima mia. QUESTA E’ LA TUA VIGILIA»
E così comincia l’ode piena di presagio che prelude ai Canti della ricordanza e dell’aspettazione:
«Il sole declina fra i cieli e le tombe.
Ovunque l’inane caligine incombe.
UDREMO SU L’ALBA SQUILLARE LE TROMBE?
Ricòrdati e aspetta».
LIBRO QUINTO
CANTI DELLA GUERRA LATINA
Ode pour la résurrection latine
I.
Quelle horreur et quelle mort
et quelles beautés nouvelles
sont partout éparses dans la nuit?
Quel vent prodigieux excite
toutes les flammes en travail
dans le firmament latin?
Le jour est proche! Le jour est proche!
O mes odes, filles rapides
de la fureur et du feu,
quel dieu, quel héros, quel homme
exalterons-nous au jour certain?
Je ne suis plus en terre d’exil,
je ne suis plus l’étranger à la face blême,
je ne suis plus le banni sans arme ni laurier.
Un prodige soudain me transfigure,
une vertu maternelle
me soulève et me porte.
Je suis une offrande d’amour,
je suis un cri vers l’aurore,
je suis un clairon de rescousse
aux lèvres de la race élue.
II.
Voyez, je tremble. Voyez, je chancelle,
je suis ivre d’amour et d’épouvante.
Il vient, Il vient le Seigneur invoqué.
Il enflamme la nuit; et l’on n’entend pas,
dans le vertige du sang,
le battement de sa force.
Or, Il dit: «Qui donc enverrai-je,
ô annonciateur de choses saintes?
Qui donc ira pour nous?».
Je dis: «Me voici. Envoyez-moi, Seigneur.
Avec quel signe? pour quel pacte?».
Je connais le signe, je sais le pacte.
J’obéis à son commandement
et j’accomplis le v?u de mon âme.
Je n’ai plus de chair ni d’os
autour de mon âme haletante
pour franchir les fleuves et les monts.
Déjà sur la borne milliaire,
à la clarté des Pléiades,
je lis le nom ineffable.
Et j’entends les chevaux des Dioscures hennir.
III.
J’entends sur l’antique basalte,
dans la mine d’Ostie,
résonner le pas de Celle qui seule
rompt l’incertitude du combat.
Vient elle du bois de Laurente?
Va-t-elle vers la route des Tombeaux?
Elle marche le long des môles noyés,
elle passe entre les deux pierres droites
qui désignent la Porte Marine.
N’écoute-t-elle pas si la Nef
chargée de la fortune de Rome
fend de nouveau la vase
du fleuve blond? Les lauriers,
autour de ses tempes, se hérissent
et brillent comme les fers des javelots;
car elle sait de quelle herbe,
bien plus âpre que la verveine,
faudra-t-il couronner la proue aiguë,
et de quel sang, bien plus noir
que l’égorgement de la génisse sans tache,
faudra-t-il teindre la poupe carrée.
IV.
O Victoire, sauvage comme la cavale
qui paît l’asphodèle dans le désert romain,
jeune comme Rome alors que la sombre aurore
fut traversée par le vol des douze vautours,
toi que je vis sur l’aridité sublime
bondir du roc d’Ardée
et dans le bond resplendir toute au soleil
blanche comme la poitrine du héron,
ô Désirable, si jamais seul et anxieux
j’interrogeai tes vestiges
loin du peuple vêtu d’ignominie et de paix;
si jamais à tes autels j’apportai mon offrande
tandis que sur tes palmes,
comme sur une litière pourrie,
l’astuce et la peur, vaches baveuses,
ruminaient le mensonge;
si jamais en ton nom je reprochai son opprobre
à la Reine des Royaumes
corrompue et polluée par les mains des vieillards;
si jamals je fus ivre de ton regard changeant,
ô Vierge, accompagne mon message, affermis ma voix!
V.
Car, ô Mâle, tel le fécial criait
les noms des villes s?urs et jurées
en brandissant le javelot vermeil,
tel à grande voix je crie,
par-dessus les sépulcres,
où les os de nos morts s’émeuvent
comme les racines au printemps,
je crie et j’invoque les deux noms divins,
les plus hauts de la terre,
jusqu’à ce que le ciel entier s’enflamme
de la double ardeur
et que toutes les sources taries
rejaillissent et se mêlent
en un seul torrent indomptable,
je crie et j’invoque: «O Italie! O France!».
Et j’entends, par-dessus les sépulcres fendus
et par-dessus tes lauriers hérissés
Victoire, le tonnerre des aigles
qui se précipitent vers l’Est
et de toutes leurs serres déchirent la nuit.
Le jour est proche! Voici le jour!
VI.
Voici ton jour, voici ton heure,
Italie; et, pour cette heure
des années merveilleuses,
la plénitude de tes allégresses!
L’ai-je annoncée avec les bûchers et avec les hymnes?
l’ai-je appelée dans la vigile et dans l’attente?
l’ai-je hâtée par la rancune et par l’amour?
Les pieds graves du Destin
se transmuent en ailes soudaines;
et sur son front marmoréen
s’allume la flamme à deux cornes
que portait le Libérateur
au-devant du champ couvert de rosée.
C’est le signe! c’est le signe!
Choisis d’être souveraine ou serve,
choisis de monter ou descendre,
choisis de vivre ou périr.
Je te montre le signe.
Malheur à toi si tu doutes,
malheur à toi si tu hésites,
malheur à toi si tu n’oses jeter le dé.
VII.
Vae victis! Les quatre vents du monde
soufflent la bataille,
sur la mer où les phares s’éteignent,
sur le continent qui s’éclaire
au fond des villes embrasées.
Vae victis! La force barbare nous appelle
au combat sans merci.
Comme la horde traînait
dans ses chariots couverts de peaux fraiches
les concubines innombrables
pour les rassasier de carnage
et les enivrer d’hydromel,
ainsi elle amène toutes les hontes
derrière ses hommes comptés en bétail à deux pieds,
pour qu’ils couchent avec toutes dans leur sang épais
qui est le rouge frère de la boue,
tandis que le vautour à deux têtes,
le maître puant au double cou dénudé,
pousse son cri lugubre et rejette
la charogne mal digérée.
Vae victis! Souviens-toi de Mantoue.
VIII.
N’oublie pas les potences chargées de tes martyrs,
et cette corde inusable
dont le Pendeur décrépit
ceignit ses reins, pieux
cordelier du Gibet.
N’oublie pas les mains lourdes de bagues
que l’Autrichien fuyard coupait en hâte
aux poignets de tes femmes hurlantes.
Qu’elles giflent l’Oint du Spielberg,
chaque nuit, dans ses rêves mornes,
sur l’oreiller taché,
jusqu’à l’heure du trépas!
Qu’elles se dressent contre sa prière,
chaque matin, dans la maison de Dieu,
quand il fléchit ses vieux genoux, qui craquent
comme le bois des fourches,
pour recevoir l’hostie pure
sur sa langue empâtée!
Souviens-toi. Je veux peser ma haine
dans ta balance. Je veux brûler ton c?ur, sans trêve,
avec des mots pour brandons.
IX.
Je te le dis, je ne te donnerai pas de trêve
jusqu’à tant que mon souffle
soit chaud entre mes dents.
Mon dieu m’a fait un front plus dur que leurs fronts.
Les strophes vengeresses, forgées pour l’infamie
comme pour le fer qu’on chauffe au rouge
pour flétrir la joue et l’épaule
du traître et du larron
tu les laissas mutiler, en silence,
par la main vile du châtreur;
et je bus en silence mes larmes,
qui armèrent mon âme secrète
d’une amertume immortelle.
Or, je te jure, par tes sources et tes fleuves,
par tes trois mers et tes cinq rivages,
par tes enfants non conçus encore,
par tes ancêtres non encore vengés,
je te jure que tu sculpteras
avec l’acier froid chaque syllabe
dans la pierre de Pola romaine
sur l’Adriatique reconquise au Lion.
X.
Ton jour est proche! Voici ton jour doré!
Ta s?ur se tient debout dans le soleil.
Elle a vêtu sa robe guerrière de pourpre.
Elle a mis de doubles ailes à ses pieds nus.
Lavée dans ses pleurs ardents,
lavée dans son sang amer,
fleur sublime de la discorde,
elle ne fut jamais si belle,
aux jours mêmes de ses royautés.
De toutes ses plaies qui gouttent
elle fait une rosée merveilleuse;
avec la multitude de ses maux
elle rallume l’étoile de son matin!
Sa volonté de vaincre, dans ses yeux clairs
luit comme la hache à deux tranchants.
Elle est prête à chanter, comme l’alouette,
sur tous les sommets de la mort.
Rassise, de ses mains infatigables,
elle tissera la toile du monde nouveau.
Qui est contre elle, sinon le barbare?
Et qui sera près d’elle, sinon toi?
XI.
Nous sommes les nobles, nous sommes les élus;
et nous écraserons la horde hideuse.
Nous combattrons, la face à la lumière.
Nous sourirons quand il faudra mourir.
Car, pour les Latins, c’est l’heure sainte
de la moisson et du combat. O femmes,
prenez les faucilles et moissonnez!
Apprêtez le pain nouveau
à la faim nouvelle! Vos hommes
frapperont fort, serrés comme les épis,
dans la bataille, rang contre rang,
comme les blés drus sous le vent d’est.
O Victoire, moissonneuse farouche,
je sens sur mon front, dans l’attente,
la fraicheur du matin.
Comme le prêtre de Mars aux enfants de Lanuve,
je dis: «Vous avez entendu ce qui plait au dieu.
Hâtez votre heure, obéissez, partez.
Vous êtes la semence d’un nouveau monde.
Et les aurores les plus belles
ne sont pas encor nées».
13 août 1914.
Sur une image de la France croisée
peinte par Romaine Brooks
I.
Ont-ils haussé l’éponge âcre au fer de la lance
contre sa belle bouche ivre du Corps Très-Saint?
La Croix sans Christ, qui souffre au-dessus de son sein
n’est que la double entaille acceptée en silence.
Mais son ?il est plus clair que la claire Provence,
mais son c?ur est plus doux que le printemps messin.
Elle oint de sa douleur la force qui la ceint,
elle noue à ses pieds percés la Patience.
Et le vent du combat et l’or du jeune jour
et les avrils non vus et l’amour de l’amour
et les chants non chantés vivent dans son haleine
La bandelette pure à son front est un feu
blanc qui conduit les morts. Et l’on voit sur la plaine
tomber de son manteau la grande ombre d’un dieu.
II.
O face de l’ardeur, ô pitié sans sommeil,
courage qui jamais n’écarte le calice,
force qui fais avec tes chairs ton sacrifice
et ta libation avec ton sang vermeil!
Sur quel bûcher, sous quel signe, pour quel réveil,
à quel Avent ta foi chantait dans le supplice?
Plus haut que l’alouette à l’aube du solstice,
on vit soudain ton c?ur bondir vers le soleil.
Car toute entière en toi lève la bonne race.
Là-bas, d’entre les neuf preux, sourit à ta grace
mâle, par les barreaux de l’armet, Duguesclin.
Tu as communié, dans ta sainte vêture,
sous l’espèce du sol. Mais, couronné de lin,
ton front semble souffrir d’une étoile future.
III.
France, France la douce, entre les héroïnes
bénie, amour du monde, ardente sous la croix
comme aux murs d’Antioche, alors que Godefroi
sentait sous son camail la couronne d’épines,
debout avec ton Dieu comme au pont de Bouvines,
dans ta gloire à genoux comme au champ de Rocroi,
neuve immortellement comme l’herbe qui croit
aux bords de tes tombeaux, aux creux de tes ruines,
fraiche comme le jet de ton blanc peuplier,
que demain tu sauras en guirlandes plier
pour les chants non chantés de ta jeune pléiade,
ressuscitée en Christ, qui fait de ton linceul
gonfanon de lumière et cotte de croisade,
«France, France, sans toi le monde serait seul!».
IV.
Et voici le printemps de notre amour. Exulte
dans ton sang et jubile au bout de ta douleur,
quand même tu n’aurais à cueillir d’autre fleur
que le héros jailli de la racine occulte.
«Sonnerai l’olifant», dit l’Ancêtre. O tumulte
de tes chênes! O vent de l’immense clameur!
Hauts sont tes puys, tes vaux profonds. On meurt, on meurt,
et chacun de tes morts dans ta beauté se sculpte.
Entendez le signal, combattants, combattants,
âmes prises aux corps corame aux ceps le printemps,
comme aux poignets les fers, les bannières aux hampes.
Roland le comte sonne; et tout en est fumant,
et en saigne sa bouche, en éclatent ses tempes
«Frappez, Français, frappez! C’est mon commandement!».
5 mai 1915.
Tre salmi per i nostri morti
I.
1. Or il braccio di Roma era inalzato, la destra di Roma era levata a percuotere, a rompere.
2. Ma più non vedevamo i nostri segni, né v’era con noi profeta, né con noi alcuno che sapesse fino a quando.
3. E s’udiva romore di moltitudine sopra l’alpe, simile ad ànsito di schiere che s’accalcano,
4. il gran fumo dell’incorrotto sangue salendo dalle vette e dalle valli su pe’ cieli e su pe’ secoli.
5. E, come allor che il sole balza fuori dai monti nella sua possa, una voce sonò senza carne, che diceva:
6. «Finché non sieno beati i tuoi morti, o Roma; finché non sien per te beati e santi coloro che avran parte nella prima resurrezione».
7. E, come svola il brandello del panno dal corpo dell’ucciso avvolto nella vampa dello scoppio, fuggì la mia pochezza nell’ardore.
8. E respirai il respiro dei nostri morti, oltre la vita e oltre l’orizzonte, maschia speranza alata;
9. ché la mia speranza era nell’ombra delle mie ali d’uomo, a sommo dello spazio combattuto;
10. e non la piota né il sasso era quivi, da pontarvi il calcagno, da stramazzarvi giù rovescio o prono,
11. non luogo di periglio misurato dalla statura, non fosso cupo, né abbattuta d’alberi, né sacco, né palanca, né fascina,
12. non l’acre cecità della battaglia in deserto sconvolto o su vulcano fragoroso;
13. ma tutto il firmamento m’era, come all’aquila, regno e rapina, visione e verità, ricordanza e promessa.
14. E, non più soma greve d’orgoglio ma rapida virtù senza peso, io vedeva nella battaglia immensa il figliuolo e la madre, la terra e la creatura,
15. come una sola volontà, come una sola bellezza, come una sola potenza, come un dolore solo, come una gloria sola.
16. E rinascere udii nell’aereo cuore la parola antica e santa: «Cercate la mia faccia».
17. Io cercai la tua faccia, o Patria. Con occhi mortali, con occhi immortali, con le pupille della mia fronte breve e con lo sguardo dell’infinito genere, io cercai la tua faccia, o Patria.
18. E dal ghiacciaio insino alla laguna, dalla rocca dell’alpe insino alla landa petrosa, dal pascolo ch’è presso il fiume insino alla barena su la bocca del fiume, dalla città che ingemma il monte insino alla città che addenta il mare,
19. m’apparì la tua specie, mi splendette la tua forma, mi ricorse il tuo numero.
20. E nel mio petto, più fragile che la c’èntina di pioppo entro il lino della mia ala levigato, si precipitò un turbine d’amore senza schiantarlo.
21. «Il tuo testimonio è nei vertici, o Patria, il tuo testimonio è nei luoghi sovrani; il tuo testimonio è nelle pianure, il tuo testimonio è nell’umiltà.
22. Tu signoreggerai da un mare all’altro. I campi distrutti tu li seminerai di seme eterno. Le città disfatte tu le riedificherai col granito dell’alpe liberata.
23. Tu spezzi le mascelle del nemico e gli fai gittar la preda di tra i denti. Tu rompi a una a una tutte le sue chiusure, e tu metti in ruina le sue fortezze.
24. Condotte come mandre, spartite come branchi sono le sue schiere. Le tue son come sacrificii di giustizia, son come olocausti di purità, son come offerte da ardere interamente.
25. Una corona brilla sopra esse, come sopra la chioma delle vergini. Il sorriso precede la prodezza, e riappare dopo l’agonia. La morte è chiara come una vittoria.
26. O Patria, i tuoi primogeniti han segnato il tuo patto, e i tuoi ultimi nati hanno appreso il verbo che tu hai comandato. Non nascondere mai più da loro il vólto tuo.»
27. «Cercate la mia faccia vivente» comandò nel turbine il tuo verbo. «Cercate la mia faccia di sangue e di sudore, di passione e di anelito.»
28. E i geli e le acque, e le rupi e i macigni, e le sabbie e le erbe, e le selve e le mura, e tutte le cose terrestri, sotto il vento della rapidità, si trasmutavano.
29. E io vidi la tua faccia di sangue e di sudore, di passione e di anelito. Vidi te fatta carne, fatta come la carne dei tuoi figli;
30. ché intrisa t’avea da capo col sudore e col sangue la Guerra, rimenata ti avea come pasta di frumento, ricresciuta come farina lievitata.
31. Tal donna rude sopra l’asse calca il novo pane con le pugna e co’ ginocchi a farlo più tegnente, tutta di vene enfiata come nell’ira; e dietro a lei rugge la fiamma chiusa.
32. Rimescolata area la tua sostanza con la sostanza de’ tuoi figli la Guerra; ricacciati i tuoi figli nella tua profondità. Ecco, e i tuoi morti erano i tuoi nati!
33. Ecco, e la faccia de’ tuoi morti era come la tua faccia vivente, o Patria! E quanto più si combatteva, tanto eri più bella. E quanto più si moriva, tanto eri più dritta.
34. Si combatteva anche dal cielo, sopra i luoghi eccelsi delle nuvole. Le tue stelle combattevano dai lor cerchi, o Italia? Non gli angeli versavano su la terra e sul mare le coppe ferree dell’ira di Dio, ma gli uomini armati d’ali senza penne.
35. O rombo dell’alta rapina! I fratelli di giù levavano le ciglia divampate dal fuoco e l’anima ansietata d’altezza.
36. Ma presi erano nella terra, tenuti erano dalla terra, profondati in essa, intrisi con essa, carname con zolle, ossame con selci.
37. E morivano. E come i corpi loro formavano il tuo corpo, così gli spiriti loro facevano il tuo fiato, o Patria, il tuo fiato possente.
38. E gli uomini alati, sospesi nel mezzo del cielo come in sommo d’un’anima immensa, sentirono l’ala di ferzi e di verghe vivere come se l’agitasse con l’òmero divino la datrice di quercia, la datrice di lauro.
39. E tu dicevi: «Or chi mi condurrà nella città fedele? chi mi menerà insino al mio bel colle di San Giusto? chi mi guiderà, lungo le colonne e lungo i secoli, a cogliere la palma che m’aspetta?».
40. I morti, Italia, i tuoi morti.
41. E tu dicevi: «Or chi mi reca le dolci mie città della marina come Eufrasio il martire con le mani velate offre il suo tempio di Parenzo a Dio?».
42. I morti, Italia, i tuoi morti.
43. E tu dicevi: «Con chi passerò io per la Porta Gèmina e sotto l’Arco dei Sergi e tra le sei colonne di Cesare Augusto, nella mia sacra Pola? con chi m’affaccerò sul mare, per gli ordini del bianco Anfiteatro, a noverar le navi imprigionate?».
44. Con Roma, o Italia, con Roma e con i tuoi morti.
45. E tu dicevi: «Io trionferò. Io romperò il nemico nella mia terra e io lo calcherò sopra i miei monti. Io spartirò le Giudicarie, misurerò la valle dell’Isonzo, riscolpirò le rosse Dolomiti.
46. Mia nell’alpe è la città che Dante cuopre; mia sul golfo quella dove approda, sceso dall’alpe, il giovinetto sanguinoso, vittima integra e novo pegno certo.
47. Mie tutte le città del mio linguaggio, tutte le rive delle mie vestigia. Mando segni e portenti in mezzo ad esse.
48. Ma in Zara è la forza del mio cuore; su la Porta Marina sta la mia fede, ed in Santa Anastasia arde il mio vóto. Grida, o Porta! Ruggi, o città, coi tuoi Leoni! A te darò la stella mattutina.
49. A te verrò, e di sotto alla tavola del tuo altare trarrò i tuoi stendardi. Li spiegherò nel vento di levante. O mare, non mi rendere i miei morti, né le mie navi. Rendimi la gloria».
50. E allora udita fu dall’alto una voce senza carne, che diceva: «Beati i morti». Fu intesa una voce annunziare: «Beati quelli che per te morranno».
II.
1. In qual pianura, in qual chiostra di rocce, lungo quale fiumana, tra quali torrenti, sopra quale carnaio senza croci, in vista di qual città fumante, sarà oggi celebrato il sacrificio del Corpo e del Sangue di Cristo?
2. L’obice romba sul Monte Nero, il mortaio tuona sul Pedimonte. Tutto il Carso è fragore di ruina. Nella valle del Fella si combatte, ed in Plava selvosa; si combatte al traghetto di Canale, e nella conca di Plezzo dalle quattro gole.
3. Sono scrollate le guardie di Tolmino. Gradisca croscia, gialla di foglie e d’ira; rugghia l’Isonzo alle chiuse di Sagrado; e Monfalcone dall’artiglio veneto, co’ suoi scafi di ferro su le travi nere, arde in vista di Duino folgorato, rogo navale.
4. O Vescovo castrense, i tuoi fanti hanno parato il legno dell’altare con le coperte brune ove giacquero a notte entro la fossa, ove all’alba tal’uno sanguinò. Qualche grumo è forse tra le pieghe. Ma la tovaglia è candida, come la cima della Dolomite nel cielo eterno.
5. E v’è silenzio come in quell’altezza, silenzio inviolabile.
6. O Vescovo di Dio, primate della strage, oggi la tua preghiera ha per guglie le baionette in asta, per istromenti le batterie coperte, che s’intonano in coro come il saltero e il flauto, come il cembalo e la ceteca nell’alleluia.
7. Inginocchiate sono le tue milizie, sotto l’irta selva dei ferri chine le teste floride, chine le facce imberbi. Irta ed aguzza è la preghiera, e senza canto.
8. L’Operaia terribile trascorre dal primo all’ultimo e dall’ultimo al primo. Segna gli eletti. Metà ne prende. Tutti anche li prende. La lanugine brilla su le gote come su i pioppi l’oro dell’autunno.
9. Bello è tal’uno, come un iddio del Fòro. E dice il sacerdote: «Dal profondo io ti chiamai». Dice l’antiste: «Giacciono nella polvere, addormentati sono nella polvere; perciocché il riposo di tutti egualmente sia nella polvere».
10. Chiamali, o Patria. Dove sono i tuoi morti? Sollevali dal profondo, a uno a uno, ciascuno pel suo nome, e i sepolti e gli insepolti, e quelli che non han più viso, e quelli che son caldi tuttavia, quelli che cadono mentre tu respiri, proni o riversi.
11. Dove sono? Nei valichi dello Stelvio, nella gola del Braul’io, tra le nere vette simili ai pinnacoli dei duomi, o alla soglia dei ghiacciai raggianti. Chiama, e numera.
12. Nel Tonale giacciono, sotto la punta d’Ercavallo grigia, nella malga o sul picco, là dove tagliarono la roccia come il boscaiuolo pone il conio e la scure nella rovere.
13. Dormono tra le nevi dell’Adamello e gli ulivi del Garda mel’odiosi, a Storo, ad Ampola, a Condino, ossa d’eroi su ceneri d’eroi, soavemente. Chiama, e numera.
14. Chiamali da Vai Daone, chiamali dal Ponale, e dalle rive del tuo Chiese cerulo dove si bagnarono ridendo, a modo di pastori, nel caldo giugno, quando le rupi rosee stillavano e i colli erano cinti d’allegrezza.
15. Chiama quelli che stanno su l’Altissimo, nella prim’alba della guerra preso come i leoni abbrancano la preda, con un sol balzo; e la rugiada fu la prima notte ne’ loro pugni, quando gli astri danzavano lungo gli orli del giorno e le radici del monte giubilavano.
16. Chiama quelli che caddero in Vallarsa scorgendo di lontano biancheggiare la dolce Rovereto tra i due scheggioni che parean vermigli del lor sangue fuggente;
17. e quelli tumulati sul Salubio, al limite del bosco, nel prato eguale ove fiorisce il colchico violetto come l’asfodelo, tra le baite esanimi;
18. e quelli fitti sotto l’Armentera travagliato di bolge qual monte di castighi, o stronchi sotto le rocche dei Titani, schiantati sotto le Pale rosseggianti, sotto i mastii di Lavaredo opachi, ai piedi delle Tofane crudeli, nelle ambagi di ghiaccio e di macigno,
19. essi gli assalitori senza grido, con le funi e coi ganci, coi raffii e coi ramponi, coi lor calzari taciti di corda, coi lor pugni più duri che manopole di piastra, coi lor cuori d’invitto diamante che brilla per gli squarci dei costati.
20. Chiama e numera. Quelli che gittarono incontro alle trincee fetide e cupe l’inno di giovinezza come fascio di raggi e caddero col canto puro nella gola aperta, sepolti nei tesori della neve, quelli udranno e verranno.
21. Chiama. Quelli che rimasero su la via di Vercoglia, in notte cauta, calzati d’astuzia, accanto ai loro carri cui aveano ben unto i mozzi e fasciato i cerchi d’umida paglia accanto ai fidi cavalli dagli zoccoli avvolti di lana, quelli udranno e verranno.
22. Chiama. Quelli che caddero in co dei ponti, su l’Isonzo selvaggio, che a mezzo lasciarono i ponti di fortuna costrutti nel buio col coraggio e col legno, che si persero fra le assi fendute, fra le barche sfasciate, fra le travi divelte, si voltolarono a valle, s’enfiarono d’acqua notturna, s’impigliaron ne’ vinchi o s’arrenarono presso alle foci, quelli udranno e verranno.
23. Verranno dalle balze della Val Dogna, dalla Forcella del Cianalot, dal Quaternà ripido e foggio, da tutta l’alpe indomata, gli assodatori di vie, eredi dell’arte di Roma, che per cemento diedero un sangue romano, che con le vene cementaron le selci.
24. Chiama, e numera. I frombolieri orgolesi dalle fionde di canape attorta scagliarono il fuoco e caddero, col rombo sul capo, col dito nel cappio, più belli del figlio d’Isai. Si leveranno al tuo grido, come nell’albe del Supramonte, girando la corda.
25. E il cacciator di camosci, piombato giù dal dirupo ch’egli solo calcò, rotolato col masso nel botro, si leverà di sotto alla mora.
26. E quelli che schiantò l’ala nembosa della Vittoria crosciando su la vetta di Plava, grideranno verso te ancor ebri d’assalto.
27. E colui che portò su le spalle il cadavere conteso e le prede e i trofei per entrar col fratello nel buio, tornerà col fratello alla battaglia.
28. Chiama, e numera. Lungo i recinti di Globna, lungo le trincere di Zagora, contro gli spineti di ferro, entro i ferrei forteti squarciati, al passo di Voraia, su la cresta di Vrata, sotto il Rombon tenebroso giacciono, in Saga dormono, in Oslavia sognano i tuoi morti;
29. e tal’uno ha la nuvola per sua coltre e la caligine per sue fasce; e tal’uno è covato dalla nuvola corusca, qual semidio che si rigeneri o si trasfiguri;
30. ed altri, che il nimbo irrespirabile avvolse, sta con la maschera in vólto, qual nell’occulto sepolcro il re larvato.
31. O Aquileia, donna di tristezza, sovrana di dolore, tu serbi le primizie della forza nei tumuli di zolle, all’ombra dei cipressi pensierosi.
32. Custodisci nell’erba i morti primi, una verginità di sangue sacro, e quasi un rifiorire di martirio che rinnovella in te la melodia.
33. La Madre chiama; e in te comincia il canto. Nel profondo di te comincia il canto. L’inno comincia degli imperituri quando il divino calice s’inalza. Trema a tutti i viventi il cuore in petto. Il sacrificio arde fra l’alpe e il mare.
34. Dice l’antiste: «L’acque se ne vanno via dal mare, e i fiumi si seccano e si asciugano. Così, quando l’uom giace in terra, ei non risorge. Finché non vi sien più cieli, i morti non si risveglieranno, e non si desteran dal sonno loro».
35. Risponde il canto: «O Patria, ecco, noi siamo in piè, se tu di noi ti ricordi. Se tu ci chiami ancóra, eccoci alzati. Siamo le tue ossa e la tua carne. Conta il nostro numero nel tuo numero; e ricombatteremo».
36. Dice l’antiste: «Come un monte cade e scoscende, come una rupe è divelta dal suo luogo, e l’acque rodono le pietre, così tu fai perire la speranza dell’uomo».
37. L’inno risponde: «Noi la tua speranza l’abbiamo saziata di midolla e di sangue. Ella è tremenda come belva immane. Ponila innanzi a noi, che ci conduca dove tu vai; e ricombatteremo».
38. Dice l’antiste: «O Dio, mia Rocca, perché mi hai tu dimenticato? Or io me ne vo vestito a bruno, per l’oppression del nemico, mentre mi è detto tutta notte: “Dove è il tuo Dio?”».
39. Conclamano gli eroi: «Signore Iddio delle vendette, o Iddio delle vendette, appari in gloria!
40. Quelli che stanotte hanno recato a noi buone novelle, sono stati una grande schiera e lieta. Sopra costoro e sopra noi non ha potestà la seconda morte. O Patria, eccoci alzati. Conta il nostro numero nel tuo numero; e ricombatteremo».
III.
1. Io non ti mentovai, monte dell’ira, nominato dal nome dell’Arcangelo folgorante; non gridai verso te, monte di quattro gioghi, monte di quattro teschi, calvario della nostra passione.
2. Ma sì ti tacqui sopra gli altri luoghi, sopra gli altri carnai della salvezza, perché più mi cocessi nel mio petto, perché più mi grondassi e mi crosciassi nel mio profondo.
3. Quando la Patria segni nel suo numero invincibile il numero dei morti e il suo soffio moltiplichi con l’ansia degli insepolti, quale tra le schiere più disperate varrà mai quest’una che ancor si scaglia?
4. Quando nel giorno di giustizia, contro le nazioni immonde, i liberatori s’aduneranno a giudicare l’opra d’ognuno innanzi di partire e terra e mare, quali ossa avranno un tanto peso? qual misura di sangue sarà più colma?
5. Quando sopra il tumulto e sopra il crollo, sopra i regni dirotti e sopra le stirpi sradicate, sopra i naufragi e sopra i salvamenti, apparirà di sùbito la Musa ineffabile, chi le parrà più bello?
6. «Ecco, dunque, le armi son cadute dai pugni esangui. Dinanzi alla bellezza riaccesa, ora conviene rassegnare i morti. Guarda questi, contemplali in silenzio, alta eroina.
7. Non altrimenti nella greca selva giacevano i giovinetti uccisi dalla fiera o dal dardo, prima di trasmutarsi in fiore o in astro. Si compiace pur sempre l’artefice divino in questa creta. Guarda, o Novella.»
8. Io ti guardai, chinato sopra te, o figlio mio supino nella petraia fumigante, mentre tutti i gironi del monte atroce urlavano a furore. E l’immortalità ebbe il tuo vólto.
9. E la battaglia ebbe la tua bellezza. E il furore degli uomini ebbe da un dio un culmine silente. E la polla del sangue che colava calda dal tuo costato era bevuta dal duro scoglio.
10. O monte della sete, rocca di siccità, quanto bevevi! O Carso dalle bocche insaziabili, o squallido sepolcro sitibondo, un rosso fiume ai tuoi fiumi di sotterra aggiungi, se notte e dì t’abbeveri di strage?
11. Non si mescolano i due sangui avversi; ma ristagna l’impuro nelle schegge e pei botri, s’accaglia, e solo il puro corre profondamente rifiammeggiando pei meandri cavi.
12. Lo sanno i prodi: versano il sangue a gara. Lo sanno i prodi, e vuotano le vene. L’anima invitta spreme la ferita e smunge il cuore. L’ultima goccia è quella che più splende.
13. Nel bel Timavo dalle sette fonti scese a lavare il suo cavallo bianco un de’ gèmini eroi; né l’acqua oblia. Ma quest’emulo suo sanguigno è tutto gloria che ferve, gloria impetuosa.
14. E’ una piena di gloria senza foce. E’ una piena di gloria che ti cerca per isboccare in te, mare dei figli, nel tuo silenzio, gorgo del futuro.
15. Allora i morti avranno un nuovo cantico, e il deserto sarà santificato.
2 novembre 1915.
Ode alla nazione Serba
Qual è questo grido iterato
che lacera il grembo dei monti?
Qual è questo anelito grande
che scrolla le selve selvagge,
affanna la lena dei freddi
fiumi, gonfia l’ansia dei fonti?
O Serbia di Stefano sire,
o regno di Lazaro santo,
cruore dei nove figliuoli
di Giugo, di Mìliza pianto,
lo sai: hanno ricrocifisso
il Cristo dell’imperatore
Dusciano ad ogni albero ignudo
delle tue selve, ad ogni sasso
ignudo dell’alpe tua fosca,
gli han franto i piedi e i ginocchi
a colpi di calcio, trafitto
con la baionetta il costato,
rempiuto non d’acida posca
la sacra bocca ma di bile
rappresa e di sangue accagliato.
II.
Il boia d’Asburgo, l’antico
uccisor d’infermi e d’inermi,
il mutilator di fanciulli
e di femmine, l’impudico
vecchiardo cui pascono i vermi
già entro le nari e già cola
dal ciglio e dal mento la marcia
anima in cispa ed in bava,
il traballante fuggiasco
che s’ebbe nel dosso il tuo ferro
a Pròstruga, a Vàlievo, a Guco,
e l’acqua ingozzò della Drina
fangosa cercando il suo guado
e forte spingò nella Sava,
mentre l’ardir dell’aiduco
V’èlico rideva nell’aspro
vento come contro al visire
in Negòtino e le tue squille
squillavano a Cristo e il tuo monte
di Bànovo Berdo tonava
sopra la tua bianca Belgrado;
III.
O Serbia, lo squallido boia
per far di vergogna vendetta
e per boccheggiare nel sangue
prima che la lingua s’annodi,
per comunicare nel sangue
prima che la lingua s’annodi,
per anco leccar salso sangue
prima dell’eterno digiuno,
per compiere senza rimorso
la lunga sua vita terrena,
imperator di pie frodi
e re di fedele catena,
con alfine un’ultima stretta
di laccio, con una suprema
strangol’azione, al soccorso
chiama i manigoldi bracati
contro te, cinquanta contr’uno
che in gola ti caccino il cappio
corsoio. «O Serbia di Marco,
dove son dunque i tuoi pennati
busdòvani? Non t’ode alcuno?»
IV.
Sì, gente di Marco, fa cuore!
Fa cuore di ferro, fa cuore
d’acciaro alla sorte! Spezzata
in due tu sei; sei tagliata
pel mezzo, partita in due tronchi
cruenti, come l’aiduco
V’èlico su la sua torre
percossa. Di lui ti sovviene?
Rotto fu pel mezzo del ventre,
e cadde. Il grande torace
dall’anguinaia diviso
cadde, palpitò nella pozza
fumante. Giacquero le cosce
erculee del cavaliere
a tanaglia; giacquero in terra,
si votarono. E nel fragore
della gorga grido si ruppe:
«Tieni duro!». Fiele dal fesso
fegato grondò. «Tieni duro,
Serbo!» Dalle viscere calde
tal rugghio scoppiò: «Tieni duro!».
V.
Tal rugghio la Vila raccolse.
Tutte le tue Vile di monte,
tutte le tue Vile di ripa
raccolsero il ferreo comando;
e tu ‘l riudisti pur ieri.
L’ode la terra tegnente:
non verdeggerà per tre anni.
L’ode su la nuvola il cielo:
non stillerà per tre anni
rugiada. Che monta, o guerrieri?
Il capo del Santo di Serbia,
il teschio di Lazaro splende
non nella Sìniza sola
ma in ogni fiumana. Ecco, ringhia
il grande pezzato cavallo
di Marco, e si sveglia l’eroe
squassando i capelli suoi neri.
Re Stefano vien di Prisrenda;
sorge dalla Màriza cupa
Vucàssino; s’alzano a stormo
da Còssovo i nove sparvieri.
VI.
E grida la candida Vila
dal crine del Rùdnico monte,
sopra la Iac’èniza lene;
grida e chiama in Tòpola Giorgio
che ristà poggiato all’aratro.
«Or dove sei, Pètrovic Giorgio?
Qual fumido vino ti tiene?
Qual t’occupa sogno? Non m’odi?
Dove sei, buio bifolco?
Dove sono i tuoi voivodi?
Dov’è il voivoda Milosio?
Giàcopo e il calogero Luca?
e Zìngiaco? e Chiurchia? e Milenco
della Morava? A simposio
seggono? Ucciso hanno il giovenco
e trinciano, e cantano lodi?
Beono alla gloria di Cristo
che li aiuti? beono in giro?
E sul buccellato di farro
scritto è tuttavia: Cristo vince.
Ma non v’è quartiere pei prodi.
VII.
Bulica il sangue dei prodi
al cavallo insino alla staffa,
insino alla staffa e allo sprone.
Diguazza il fante nel sangue
insino all’inguine e all’anca;
v’affoga, se v’entra carpone.
Le donne rivoltano i morti
pel bulicame, né sanno
figlio ravvisare o germano.
Son tutti un rossore, una piaga
tutti, come al campo del conte
i maschi di Giugo Bogdano.
Più corpi enfii che scerpate
radiche porta il Danubio
né sa a qual riva deporre;
rigurgita il Vàrdari ai groppi;
la Sava è una vena svenata
che gorgoglia giù per le forre;
è schiuma del Tìmaco a sera
canizie che galla; e la Drina
veloce è un carnaio che corre.
VIII.
Su, Giorgio di Pietro, bovaro
di Tòpola, su, guardiano
di porci, riscuotiti e chiama!
Prenditi al tuo fianco i tuoi fidi;
Ianco il savio e Vasso il furente.
Prenditi con teco gli aiduchi
che danzano sopra le vette
degli aceri. V’èlico, or ecco,
all’anguinaia il torace
rappicca come prima era,
e dentrovi il fegato ardente.
Su, su, porcaro di Dio!
Il turbo di Mìsara, or ecco,
pei gioghi della Sumàdia
raggira l’antica vittoria,
sparpaglia la nova semente.
Altre mandrie tu caccerai
dinanzi a te, altri branchi
più irti, altro bestiame
più tetro, altro sagginato
coiame, altra sordida gente.
IX.
Sovvienti? Diceano i padri
un tempo, sedendo a convito:
“Ve’ porco di Bulgaro nero
che tutt’oggi dietro ci tenne
pel tozzo e ‘l bicchiere di vino
e per un lacchezzo d’agnello!”.
Non per tozzo il Bulgaro nero
e né per gocciol di vino
e né per minuzzo di carne,
ma per tutto prendere alfine,
per tutto a te prendere alfine,
per tutto a te togliere alfine,
la terra il nome il soffio il bianco
degli occhi lo stampo dell’uomo,
per questo il Bulgaro nero
dietro ti venne, alle spalle
ti dà, alle reni t’agghiada.
Tre n’hai, e col Bulgaro nero:
fanno tre viltà una forza.
Ma guarditi il fegato secco
Dio, o macellatore di porci.
X.
Pigliaron Semendria la regia,
pigliarono, ed anche la bianca
città, Belgrado la regia,
in una geenna di fiamme:
dal Lìparo al Vràciaro grande,
fornace fu ogni collina.
Pigliarono Lùciza, ed anche
Sclèvene pigliarono, e l’una
e l’altra colmaron di mosto,
di lúgubre mosto, due tina.
Iplana rempieron di vegli
senz’occhi, di femmine senza
mammelle, di monchi fanciulli
carponi a leccar la farina.
E di Sòpota la meschina
ei fecero lor beccheria
trinciandovi la battezzata
carne (o Battista!), e l’altare
lor tavola fu sanguinente:
strapparono al prete la lingua
con sópravi l’ostia vivente.
XI.
Ma ben di Verciòrova scorse
il Rùmio dagli occhi di druda,
dal viso di cera dipinto,
gallare nel freddo Danubio
i Lurchi enfii, rivoltolarsi
a mille pel grigio Danubio
fra Rame Dubràviza i morti,
fra Sip e Tèchia gli uccisi
sotto la montagna di Tèchia
crosciante qual torcia di ragia,
a grappoli i corpi dei Lurchi.
Non Lipa è villata che mangi:
è mucchio che pute. Non colle
che frutti è Trivùnovo: è mucchio
che v’èrmina. Vrànovo è mensa
di corbi e Vuiàn d’avvoltoi.
O razza di Cràlievic Marco,
l’usura tu fai con la strage!
Sotto Orsova, dove il mal fiume
s’insacca, ora Bulgari e Lurchi
si giungono, stèrcora e fecce.
XII.
Sì, presero i valichi e i passi,
li presero; e noi i nostri guati
tegnamo. Sì, Uzice e Ràlia,
presero, e Strùmiza e Vrània,
e Cràlievo presero, e Lacle,
villate e città, mura e ripe;
ma dove più ossa che selci,
più teschi che ciottoli dove
lasciarono? Presero e Nissa
l’antica, vestita a gramaglia,
oité, santa Serbia, di neri
drappi vestita le case
dolenti ove suda il contagio
e l’odore vieta la porta.
Presero e Scòplia l’antica
(oité, santa Serbia, fa pianto),
la casa che in prima all’Iddio
tuo edificasti con pietre,
e quivi la rocca, la guardia
dell’imperatore Dusciano.
O Serbia, in ginocchio fa pianto.
XIII.
Poi rìzzati e balza e riprendi
la chiesa e la rocca, l’altare
e il mastio, l’impero e la sorte.
Il verde Vàrdari tingi
come la Nìssava a Vlasca,
colora il Vàrdari come
lo stagno di Vlàsina fatto
già bulgaro brago di morte.
Ma il Tìmaco, o gente di Giorgio
che scannò il suo padre con sacra
mano perché servo non fosse,
il Tìmaco tingi in eterno,
in eternità dell’infamia,
dalla sorgente alla foce
e insino alla melma profonda,
per le tue donne calcate
dallo stupro contro la sponda,
pei pargoli tuoi palleggiati
e scagliati come da fionda,
per chi teda fu, per chi arso
fu fiaccola furibonda.
XIV.
Tronco s’ebbe Lazaro il capo
nel piano di Còssovo, e perso
fu il regno, fu spenta la gloria.
Da Scòplia il Bulgaro nero
al piano di Còssovo sfanga
fiutando l’ontosa vittoria.
Tieni duro, Serbo! Odi il rugghio
di V’èlico che si rappicca
e possa rifà. Tieni duro!
Se pane non hai, odio mangia;
se vino non hai, odio bevi;
se odio sol hai, va sicuro.
Non erbe coglie nel monte
la Vila, non radiche pesta,
per le piaghe a te medicare.
Non a ferita combatti,
a morte sì, per l’altare
combatti e pel focolare.
Se caschi in ginocchio, ti levi;
se piombi riverso, e ti levi;
se prono, e ti levi a lottare.»
XV.
Così parla al sangue la Vila
dal crine del monte, la Vila
così stride e chiama a battaglia.
O Serbia, fa cuore! T’è l’odio
osso del dosso, armamento
t’è l’odio e t’è vittuaglia.
A Còciana ancor si combatte
e si combatte a Piròte;
a Tètovo è lungo macello,
e a Babuna tra le due vette.
A Ràzana i tuoi cavalieri,
al passo d’Isvòre i tuoi fanti,
a Glava le donne tue scarne
con le coltella e le accette.
Le madri combattono in frotta
col pargolo al seno e lo schioppo
alla gota, o dritte su i carri
tirati dai bufali torvi
le gravide, o in sella con due
pistole come la grande
Ljùbiza, ghiottume di corvi.
XVI.
Qual è questo riso che scoppia
come manrovescio potente?
E’ il riso di V’èlico aiduco
dalla dentatura d’alano.
Che vede egli? un Bulgaro nero
perdere i suoi trenta dinari?
un Lurco basire, calando
le brache e levando la mano?
il pennacchin tirolese
del boia longevo che crocchia
e affoga nel flusso senile?
o il tronfio Amuratte alemanno,
soldano d’eunuchi cinghiati,
trar la scimitarra scurrile?
Che vede di turpe e di vile
lo schernitore, che vede?
Ve’ ve’ bagascion di corona,
ve’ bardassa in Cesare vòlto,
di unguenti asiatici liscio
che piglia da Cesare Giulio
il letto di re Nicomede!
XVII.
Tastalo con le tue dure
mani, questo sacco di dolo
e di adipe, o V’èlico, questo
sacco di lardo e di fardo.
Cesare dei Bulgari neri,
come Simeone, è costui,
come Caloiàn di Preslavia,
è questo Coburgo bastardo?
Tu che metter suoli la lama
tra i denti, aiduco, se vuoi
aver la pistola nel pugno,
tu tagliami questo codardo
con la squarcina del fiso,
tagliuzzalo come lombata,
condiscilo poi con zibetto,
con cinnamo e con spicanardo.
Lo manderai così concio
alle meretrici di Scòplia.
E che il tuo scherno s’appigli,
che il tuo riso crepiti e scrosci
ai tuoi come un fuoco gagliardo!
XVIII.
O Serbia, che avesti regina
di grazia Anna Dandolo e desti
del ceppo regale di Orosia
a un Buondelmonte la sposa,
odi: la Vittoria è latina,
ed ella è promessa al domani.
è una pura vergine bianca
(non è la tua Vila a lei pari)
più lieve della tua Vila
selvaggia che col piè nudo,
in vista dell’oste schierata,
danzò su le lance dei bani.
Diceano intanto gli araldi
in Prìlipa a Marco: «O signore,
contendono i re, dell’impero.
A chi sia l’impero e’ non sanno.
Ti chiaman di Còssovo al piano
che tu dica a chi sia l’impero».
Un grida: «Al Latino è l’impero.
Per forza a lui viene l’impero.
Roma a lui commise l’impero».
XIX.
Lode all’uno, grazie al verace!
In Còssovo teco i Latini
combatteranno domani
sotto il gonfalone crociato,
mentre il Lurco «A me è l’impero»
grugna «ché la forza s’alterna».
Sarà coi Latini domani
la grande lor vergine bianca.
Già misto il lor sangue col tuo
ebbero a Valàndovo, sacre
primizie. Ora V’èlese è rossa
di quelle, e vermiglia è la Cerna.
Tra le corna sta di Babuna
la pertinacia non rotta
e in Prilipa avvampa la fede.
O Rumio dagli occhi di druda,
a che musi verso la steppa,
bilenco tra rischio e mercede?
E tu, vil Grecastro inlurchito
che palpi le sucide dramme,
non odi il cannone di Dede?
XX.
O falso Dace, che vanti
la gloria del nome latino
e non pur sei degno del nome
barbarico ch’era tremendo
né mondo pur sei della lebbra
d’Asia che tuttora ti squamma,
or quando entrerai nella lite?
Quando la Colonna traiana,
di pietra fattasi fiamma,
t’andrà camminando dinanzi
come la Colonna divina
in Etam dinanzi ai figliuoli
d’Israele verso il deserto
lenito e per l’acque spartite?
Ma tu, o Greculo, merca.
Da tempo son morti i tuoi clefti.
Si leva di giù Bucovalla
e sputa su te dal carnaio.
Venditi. Non già ti compriamo,
non per una sucida dramma.
Ma ti pagheremo d’acciaio.
XXI.
E’ tempo, è tempo. La notte
precipita. Sta sopra tutti
la legge di ferro e di fuoco;
e questo è il supremo cimento.
Prudenza è vergogna, disfatta
il dubbio, delitto il riposo,
viltà ogni vana parola,
e l’indugio è già perdimento.
Popolo d’Italia, sii schiera
appuntata a guisa di conio,
schiera di tre canti romana,
che cozza scinde e s’incugna.
Popolo d’Italia, sii chiusa
falange, con fronte ristretta,
fasciata d’ardore, scagliata
come un sol vivo alla pugna.
Popolo d’Italia, sii come
la forza dell’aquila regia
che batte con l’ala, col rostro
dilania, ghermisce con l’ugna.
E v’è uno Iddio: l’Iddio nostro.
16 novembre 1915.
Preghiere dell’Avvento
I.
PER I MORTI DEL MARE
Mare di Dio, che sceveri le sorti
dei combattenti nella sacra guerra,
io ti prego: non rendere i tuoi morti,
Mare, alla terra;
non rendere i cadaveri che il sale
macera, né l’ossame che tra flutto
e flutto imbianca, al lido, o Sepolcrale,
e al nostro lutto;
ma sì, nel gorgo acerbo come il pianto
funebre, tieni le profonde some
perché noi più t’amiamo e a noi più santo
duri il tuo nome;
ma sì tieni le spoglie nell’intorto
abisso pari al nostro amor rapace,
perché non sia rifugio in te né porto
in te né pace
in te né tregua né salute a noi
alcuna se la servitù non cessi
e in te Roma non chiami i glauchi eroi
al Resurressi.
Miseri eroi, non caddero sul ponte
della nave, gioiosi di battaglia,
in un sangue perenne come fonte
che non s’accaglia;
non udirono, sotto la bufera
del fuoco, nel rossore che non stagna,
stridere contro l’asta la bandiera
quasi grifagna,
non lassù, dalla ferrea rembata
che folgora, la scorsero con gli arsi
cigli come Vittoria catenata
lassù squassarsi;
né s’accosciaron presso i tubi, quando
nel capo chiuso dentro la sonora
cuffia d’un tratto rombano comando
e morte, a prora;
né, travaglio dell’orrido beccaio
che pesta e insacca, furon carne trita
da rempiere la gola del mortaio
ammutolita;
né, dato in brocca il fulmine coperto
contro il nemico enorme, solitaria
vider l’elice folle in cima all’erto
scafo nell’aria
e irsuta l’onda, delle mille braccia
invan tese da un sol terrore urlante,
prima d’inabissarsi senza traccia
presso il gigante.
Ma l’insidia li colse, ma l’agguato
li pigliò, nell’immensa albàsia eguale:
ruppe il fianco, la piaga nel costato
aprì, mortale;
di sùbito colcò pel sonno eterno
la bella nave, dandole carena
come a racconcio, sotto il lungo scherno
della sirena;
e l’acciaio temprato a gran martello
fu cosa ignuda come vil tritume,
sopra l’acque di Dio men che fuscello,
men che le spume.
Or repente un miracolo divino
percote l’acque. Il sol rompe la nube?
fa d’ogni flutto un branco leonino
di rosse giube?
Chi squarcia la foschìa dell’imminente
morte? Si leva un giorno di beata
porpora? Esulta tutto l’oriente,
e un’ora è nata?
Né fulvo branco di leoni balza,
né s’inarca fulgore di sovrana
porpora. Sola su la morte s’alza
l’anima umana.
Sola alla morte l’anima sovrasta
congiunta ancóra al carcere dell’ossa
come fuoco si radica in catasta
a prender possa.
Uomini vivi, saldi sul tallone,
non in coperta ma l’ungh’esso il bordo
dileguante con l’ultimo cannone
nel succhio sordo,
diritti come se facesser ala
ad ammiraglio in nave pavesata,
diritti come sotto la gran gala
schiera ordinata,
gittano al cielo un grido così forte
che ferisce le cime dell’ardore,
e sforzano a sorridere la Morte
che mai non muore.
O Vittoria, alta vergine severa,
or quando vinci se non vinci in questa
fine? Dove più sfolgori, o guerriera?
in quale gesta?
E qual madre, qual dolce madre o suora,
che tu le renda le profonde salme
osa pregarti, o Mare dell’aurora,
giunte le palme?
Chi lungo i lidi tuoi, Mare dei prodi,
erra con entro il cor l’esangue vólto,
sperando che nel cor l’ombra gli approdi
dell’insepolto?
Mare di Dio, le vittime che celi
tu non rendi, né odi le querele
dei sùpplici; ma duri ai tuoi fedeli
tomba fedele,
ma conservi le spoglie nell’intorto
abisso pari al nostro amor rapace,
perché non sia rifugio in te né porto
in te né pace
in te né tregua né salute a noi
alcuna se la servitù non cessi
e in te Roma non chiami i glauchi eroi
al Resurressi.
11 decembre 1915.
II.
PER LA GLORIA
Dio d’Italia, cui Dante il duro viso
incotto dalla vampa dell’Inferno
tende e, non vinto dal fulgore eterno,
guata con occhi di rapina fiso;
Dio d’Italia, che gli uomini di parte
cementarono vivo in pietre conce,
il sangue cittadin con le bigonce
mischiando nella calce a far lor arte;
Dio d’Italia, bellezza che il titano
Michelangelo in cupola ed in volta
girò, tagliò nel sasso, amò raccolta
nell’ossatura del dolore umano;
Dio di gloria, tu fa questo giudicio
della gloria, tu giudica di noi
per la palma, considera gli eroi,
guarda alla fede e pesa il sacrificio.
Dicean eglino: «Dove sono i vostri
morti? Quante migliaia di migliaia
falciò ne’ vostri solchi l’operaia
assidua? Dove l’ugne e dove i rostri?
Dove i combattimenti disperati
a corpo a corpo, lama contro lama?
Chi vi devasta i campi? chi v’affama?
chi vi rempie le vie di mutilati?
Avete appreso a vivere sotterra,
fitti nel fango sino alla cintura?
Dentro il fetore della sepoltura
avete appreso a prolungar la guerra?
Avete appreso a mordere la mota?
avete appreso a mordere la neve?
e quando non si mangia né si beve?
quando il calcio s’incrosta nella gota?
e quando non si veglia né si dorme?
quando mastichi il sangue del compagno
e non sai, o t’impigli nell’entragno
caldo, o ti volti su qualcosa informe?
Avete appreso a riconoscer l’ombre
della follia, che genera il fragore,
quando si cala, giù per le gran more
dei morti occhiuti, alle trincere sgombre?
Avete appreso, posti in una croce
di fuoco, a mascherarvi come i mimi?
a brancolar, nelle agonie sublimi,
ciechi d’un pianto stupido ed atroce?
Avete appreso che la guerra è bassa
bisogna, frode lùgubre, immondizia
dolosa? e ch’è sigillo di giustizia
lo stival lordo quando schiaccia e passa?
Dove sono le donne con nel seno
due rosse piaghe, Amàzoni dell’onta?
dove i validi figli con l’impronta
di poltronìa, col pollice di meno?
Quante delle città vostre ridenti
son arse e diroccate? quanti altari
disfatti? quanti senza focolari
popoli in lacrime e in stridor di denti?
Contiamo. Avete appreso ben quest’arte?
Quegli che più patisce e che più dura
diritto avrà di primogenitura
sul gran retaggio, avrà la miglior parte».
E si divincolavano ruggendo
sotto le suola del nemico. I loro
campi erano pantani roggi. L’oro
colava come il sangue, ed era orrendo.
Le donne non avevano più mani
da giugnere, ma moncherini oranti.
Le cattedrali non avean più santi
che pregassero in sommo agli archi vani.
Il fanciullo copriva il limitare,
supino. La canizie pia del vecchio
era dispersa là come pennecchio
arido non finito di filare.
Tutte le dolci cose erano spente
senza pietà . Tutte le cose sacre
non erano più sacre. Il fumo acre
del sangue soffocava il Dio vivente.
Rase città lungo putride gore,
borghi in cenere sopra nere pozze
guardava solo, irto di membra mozze
e d’occhi fissi, il dementato Orrore.
L’Italia era in disparte. Taciturna
volgeva la sua faccia verso il mare
sùpero. Udiva il rombo aquilonare
percuotere la grande Alpe notturna.
L’ombra mordeva il suo bel capo stretto
fra i rostri della sua naval corona.
Come chi forte nel pensier tenzona,
ella anelava dal quadrato petto.
Di sé nutriva il suo divino male.
Come l’eroe delle speranze inulto,
parea patire un avvoltoio occulto
che le rodesse il fegato immortale.
Basso intorno al suo cruccio solitario
era il susurro d’un mercato immondo.
Non vedea, non udia, nel suo profondo
travaglio, ella. Guatava l’avversario.
E diceano i suoi blandi parasiti,
diceano i delicati proci: «O fiore
della terra, o benigna Italia, amore
degli uomini, ubertà degli iddii miti,
o nostra grazia, o nostro eterno aroma,
o nomata qual miele nella bocca,
o più dolce dell’aria che ti tocca,
o più bella del nome che ti noma,
qual è mai questo cupo fuoco ond’ardi
negli occhi tuoi d’aquila giovinetta?
Ti proteggan gli iddii, o prediletta
degli iddii tutti! L’Iddio tuo ti guardi!
Cesare è cenere, e smarrito è il dado.
Or sei tu osa ritentar le sorti?
Né dietro a te fremono le coorti
come al grifagno sul fatale guado.
Duro nemico: in vento di Croazia
è polvere di guasto, afa d’incendio.
Ogni bellezza ei tiene in vilipendio.
Mal ti difenderebbe la tua grazia.
O nostra grazia, o balsamo giocondo
per ogni cura, unguento dell’esiglio,
tra tutte le contrade quale il giglio
è tra le spine, voluttà del mondo,
o di noi vecchi bruna Sunamita,
tu sei pur sempre tutta quanta bella,
Italia! Ogni tua pietra t’ingioiella,
ogni tua gleba è un ùbero di vita.
Ti spiamo di sopra alle rovine,
o di noi vecchi bianca Bersabea.
Chi s’ardirà con l’ispida trincea
turbar l’azzurro delle tue colline?
Sèrbati a noi, sérbati a noi perfetta
pe’ lunghi ozii che a noi farà la pace
candida. Non ti giova il dado audace
trarre. Ma dormi su’ tuoi lauri e aspetta».
Ella balzò con fremito selvaggio
squassando la corona e la criniera,
ebra di forza, ebra di primavera,
ebra di morte, ebra di te, o Maggio.
O maschio Maggio, turbine solare,
inno vasto di giubilo, o torrenti
di giovinezza, o sùbiti torrenti
di sangue, verso l’Alpe e verso il mare!
Diceva il Patto: «Dove sono i tuoi
morti?». Dal Chiese gelido all’Isonzo
precipitoso, nel romano bronzo
ella eternava il gaudio degli eroi.
Eccoli, Dio d’Italia, i nostri morti.
Li raccogliamo su le grandi cime,
dove l’anima e l’aere sublime
sono la solitudine dei forti.
Dio di gloria, tu fa questo giudicio
della gloria, tu giudica di noi
per la palma, considera gli eroi,
guarda alla fede e pesa il sacrificio.
Di poi verranno i savii partitori
e distribuitori della terra;
sicché ciascuno, giusta la sua guerra,
godrà la parte e succerà gli onori.
Ma tu fa, Dio d’Italia, che al tuo cenno
gittiam nelle bilance lor cortesi
un ferro ancor temibile, che pesi
più della spada barbara di Brenno.
12 decembre 1915.
III.
PER IL RE
Salva il Re che, dimesso l’ermellino
e la porpora, come il fantaccino
renduto in panni bigi,
sfanga nel fosso o va calzato d’uosa
cercando nella cruda alpe nevosa,
Dio vero, i tuoi prodigi.
Salva il Re che partisce il pane scuro
col combattente e non isdegna il duro
macigno alla sua sosta
né pe’ suoi brevi sonni strame o paglia
sospesi ai rossi orli della battaglia
che sotterra è nascosta.
Proteggi il Re del sollecito amore,
che in casta forza il tremante dolore
cangia con l’occhio fermo,
il Re che in fronte ha la ruvida ruga
e pur sì dolce esser può quando asciuga
la tempia dell’infermo.
Proteggi il Re della semplice vita
chinato verso ogni bella ferita
che è rosa del suo regno,
chinato verso il sorriso dei morti,
verso il sorriso immortale dei morti,
che è l’alba del suo regno.
19 decembre 1915.
IV.
PER LA REGINA
E questa che la Vila con un canto
incoronò del crine di viola
folto come la treccia che di schianto
lasciò la pia Gevròsima alla trave
chiamando il fratel Mòncilo fra il pianto,
questa guarda, Signore.
Volarono laggiù sul Monte Nero
dodici aquile bianche con gran strido.
Ed una a lei volò sul suo pensiero,
e la coprì con velo insanguinato.
Il vecchio padre, il candido guerriero,
le piange in mezzo al cuore.
S’alzano dal confin serbico in frotte
i corvi lordi. A valle la Boiana
róssica, Scodra fumiga. La notte,
ahi, stelle più non ha sul Nero Monte.
«Miei falchi, in piè!» Chiama all’estreme lotte
il veglio, e conta l’ore.
«In piè, falchi miei!» grida il Re canuto.
Senza pane, senz’acqua, senza sonno
negli occhi, giorno e notte han combattuto.
Sinché nevichi al monte, è grassa guerra.
Mangiato han neve e neve hanno bevuto,
e munto hanno il dolore.
Prega pel Re la figlia sua Regina
che in sogno sta tra due fiumane calde.
Or quale d’esse fa più gran rapina,
o nell’aspra Cemàgora o nel Carso
brollo? A quest’una la pregante inclina
l’ombra del tuo pallore.
Prega per due Re prodi, e figlia e sposa.
Veglia e s’affanna per due mute piaghe.
Non su l’un fianco né su l’altro posa.
Elena, Nostra Donna di due Spade!
Ella è per noi due volte gloriosa.
Tu guardala, Signore.
19 decembre 1915.
V.
PEL GENERALISSIMO
Questi, che vedi curvo su le carte,
nel più duro granito del Verbano
tagliato e scarpellato fu, di mano
di maestro; e il vigor soverchiò l’arte.
La sua chiusa virtù, che par novella,
nella tenacia dell’antica schiatta
usa a fare e patire, assuefatta
ad attendere in fede la sua stella,
si foggiò per i secoli, celato
diamante che incudine non doma.
V’incise il segno mistico di Roma,
Dio d’Italia, l’acume del tuo fato.
Guarda il suo maschio vólto dove l’orma
del tempo e il solco dello studio scava
nella tristezza della carne ignava
e trova l’osso che non si difforma.
Conta le sue fatiche a ruga a ruga,
novera gli anni suoi, segno per segno:
giovine il teschio vige, quasi ordegno
di quella volontà che il cor gli fruga.
Non meno adunco vomere mordea
la fronte di quel giusto che l’obbrobrio
cinse; ma v’era incancellato il sobrio
eroe di Maratona e di Platea.
Guarda la sua mascella che tien fermo,
guarda severità della sua bocca
onde il comando ed il castigo scocca,
e il lampo a cui la pàlpebra fa schermo
gravata sopra il chiaro occhio che scaglia
l’anima al segno e il tratto non misura.
Sempre in tutt’arme egli è senza armatura.
Tutta nel pugno nudo ha la battaglia.
Quel condottiere che dal piedestallo
la morta riva domina in Vinegia
minacciata dal barbaro e dispregia
la minaccia del ciel, solo, a cavallo,
Bartolomeo grifagno come Dante
che converso abbia in elmo il suo cappuccio
a gote, chiuso in piastra il suo corruccio,
preso a trattar cavalleggiere e fante,
tu lo vedi al segnale delle trombe
sollevare e sferrare i battaglioni
come balestra lancia i suoi bolzoni,
come mortaio lancia le sue bombe.
Tal questi, senz’arcione ma più grande,
senza gesto né grido, solo armato
del suo tacito genio e del suo fato,
amplia la forza che quel bronzo spande.
Egli ha mura da prendere, fiumane
da valicare e gioghi e vette e gole,
ghiacciai deserti, valli senza sole,
fosche petraie, squallide biancane.
Vigila ai ponti dell’Isonzo; a Plezzo
tuona; a Tolmino folgora; tien Plava
e la vetta, Voraia e il passo; scava
la trincea nella neve ed issa il pezzo.
Gorizia in cor gli crolla. Il Carso gronda
sangue inesausto nel suo petto. Tutta
la terra combattuta, arsa e distrutta,
dentro gli sorge, dentro gli sprofonda.
La malga e il picco, il botro e la laguna,
la roccia e il muro, l’argine e la fossa
vivono in lui come le vene e l’ossa,
come i disegni della sua fortuna.
Egli è la terra ed è l’assalitore.
E la forza degli uomini respira
in lui, palpita in lui, freme e s’adira,
giubila e canta in lui, combatte e muore.
Verso tutte le cime della gloria
egli la incalza. Ecco, subitamente
il suo pensiero si fa carne ardente,
grido e strage si fa, morte e vittoria.
Tutte le notti dallo Stelvio al Carso
la gran barra di fuoco arde e risuona.
Egli la sua certezza ne incorona,
la sua certezza in te, Dio ricomparso.
O Dio d’Italia, tieni la tua mano
su questa fronte che facesti dura
più delle fronti loro. Egli ti giura
che tanto sangue non t’è dato invano.
Egli si prostra come il donatore
che giugnea le manopole di maglia
in atto pio, nel cuor della battaglia
avendo colto un portentoso fiore.
La sua casa egli pensa sul suo lago
quieta, dove per la porta adorna
d’una ghirlanda il terzo dei Cadorna
rientrerà, sol di silenzii pago,
e innanzi alle due mute Ombre severe
scioglierà gli alti vóti, i grandi fati
adempirà, l’isole dei beati
quivi splendendo nell’albor leggiere.
O Dio, per questo duce che ci spezza
il tuo pane, io ti prego che tu m’oda.
Acùmina la sua certezza, e inchioda
nei nostri petti, o Dio, la sua certezza.
19 decembre 1915.
Il Rinato
Non videro la stella d’oriente
i magi, non andava innanzi a loro
ella per scorta su le nevi ardente;
non improvviso udiron elli il coro
dei Messaggeri in Betleem di Giuda
prostrandosi; non mirra incenso ed oro
offersero alla creatura ignuda
sopra la paglia della mangiatoia
calda di fiati nella notte cruda;
né, curvi in calca sotto la tettoia
radiosa, i pastori di Giudea
intonarono cantico di gioia.
S’ebbe natività nella trincea
cava il Figliuol dell’uomo; e solo quivi,
messo in fasce da piaghe, si giacea.
Fasciato di tristezza era tra i vivi
e i morti, solo; e il ferro e il sangue e il loto
erano innanzi a lui doni votivi.
E non piangea, ma intento era ed immoto.
Laude gli era il rimbombo senza fine
per il silenzio delle nevi ignoto;
cantico gli era il croscio delle mine
occulto; gli era aròmato il fetore
ventato su dalle carneficine.
E sanguinava in fasce; ed il rossore
si dilatava come immenso raggio,
sicché tutti i ghiacciai parvero aurore,
tutte le nevi parvero il messaggio
dei dì prossimi, l’ombra fu promessa
di luce, il buio fu di luce ostaggio.
Ed intendemmo la parola stessa
del suo profeta: «Un grido è stato udito
in Rama, un mugolìo di leonessa,
un lamento, un rammarico infinito:
Rachele piange i suoi figliuoli, e guata
l’ultimo suo non anche seppellito.
Non è voluta esser racconsolata
de’ suoi figliuoli che non sono più.
Una cosa novella, ecco, è creata.
Il Signore ha creata una virtù
nella carne. Quel ch’apre la matrice
Ei farà santo. Ei semina quaggiù
una semenza d’uomini». Ora dice
una voce: «Io farò rigermogliare
in carne i tuoi germogli, o genitrice.
Ritieni gli occhi tuoi di lacrimare,
ritieni la tua gola dal lamento;
perché come la rena del tuo mare
t’accrescerò, come la rena al vento
ti spanderò. Eccoti i tuoi figliuoli
moltiplicati dal combattimento.
Senza sudarii tu, senza lenzuoli,
li seppellisci ed io li dissotterro.
Rifioriranno ai tuoi novelli soli,
alla nova stagione ch’io disserro».
E quivi il Figliuol d’uomo era, il Rinato;
e quivi erano il loto e il sangue e il ferro.
E con fasce da piaghe era fasciato;
e sanguinava senza croce, come
per il colpo di lancia nel costato.
Ma «Colui ch’è il più forte» era il suo nome.
1 gennaio 1916.
Per i combattenti
I.
Signor di sangue, Dio dei combattenti,
non a te supplichiamo con la faccia
alzata, non leviamo noi le braccia
verso te, non gli altari tuoi cruenti
serviamo con le man protese o giunte
né ti cerchiamo noi con la preghiera
nostra nei luoghi altissimi, di sfera
in sfera, tra le tue falangi assunte;
ma ci prostriamo con la fronte bassa,
ma contro il suolo noi poniam la fronte
nuda, poniamo il viso nelle impronte
umili, il fiato dove il piede passa,
c’inginocchiamo, o Dio della battaglia.
dove la Patria è nostra, nella mota,
nell’erba, nella strada che la ruota
solca, nel campo che l’aratro taglia,
dove la zolla è come nostra polpa,
dove il fiore è un pensiero di mill’anni
intimo e fresco in noi come gli affanni
segreti dell’infanzia senza colpa,
dove la foglia è un cuore che si frange,
dove il sasso è la vertebra scolpita
d’una potenza che in un’altra vita
fu nostra, dove tutto parla e piange,
dove tutto per noi ricorda e spera,
dove a noi l’acqua è lacrime e rugiade,
dov’è l’autunno tutto quel che cade
di noi tristi, dov’è la primavera
tutto quel che di noi si rinnovella
e gemma e fa di noi virgulto e ramo;
quivi, Signore Iddio, c’inginocchiamo
quivi chiniam la fronte, ch’è più bella;
perché, Nostro Signore, non nei cieli
sei ma sotterra sei, ma sei profondo
nel nero suolo, occulto sei nel mondo
di giù, Dio che col fuoco ti riveli;
e non hai cura delle tue felici
selve, non nutri il seme, non concedi
al germe il fimo fendere, ma i piedi
dei combattenti sono le radici
della tua primavera annunziata
dall’Arcangelo, i piedi dolorosi
dei combattenti, i piedi sanguinosi
dei figli nella terra insanguinata,
Signor di sangue, e tutto il lor dolore
e nella terra una fecondità
per sempre, nella terra una bontà
per sempre, un spino, un eternale ardore.
II.
Udimmo i loro gridi nella notte,
udimmo i loro canti nel mattino
pieni del grande zefiro latino
come vele tesate dalle scotte.
Ascoltammo nell’alba dell’insonne
urbe, nell’ora della tua rugiada,
crescere l’inno e rimbombar la strada
sotto lo scalpitìio delle colonne.
Il cuore delle madri coraggiose
rosso balzava innanzi al lor coraggio,
ed era un sole più che il sol di maggio
fervido; e il nido al chiaro inno rispose.
S’oscuraron nell’ombra tutti i marmi,
risplendettero tutte le fucine.
Le città ridivennero eroine
fumide, ansarono: Armi! Armi! Armi!
Le città ebber l’anima d’acciaio
sfavillanti d’acerrimo travaglio.
Tal’una fu dismisurato maglio;
tal’una, innumerevole telaio.
Ed eglino passavano cantando
per le diritte vie, verso le porte:
prima la Gloria ed ultima la Morte,
duce e seguace. Ed era il primo bando.
Erano i primigeniti del sole,
erano le primizie, eran le offerte
virginee, le vittime più certe,
Signor di sangue, la più maschia prole.
Erano l’ostie ai sacrifici tuoi
su gli altari terribili dei monti,
grandeggiando da tutti gli orizzonti
la madre delle messi e degli eroi;
ché, ubertà di Dio, lungo le strade
degli eserciti già spigava il grano
alto e vedeasi contra il flutto umano
ripalpitare l’onda delle biade,
e la madre era bella come i figli,
era la prole come le colline
e le ripe, era bella come il crine
dell’alpe, come il grano e come i gigli.
Ed era il sogno simile alla vita
com’è simile al mosto il sangue ardente,
quando il genio di tutta la tua gente
raggiò dalla primissima ferita.
Il valor rise come il fiore sboccia.
Ala, una città presa per amore!
E l’eroe d’Ala avea nome Cantore!
E il suo canto è scolpito nella roccia.
III.
Ma dall’immondo Barbaro la viva
guerra sepolta fu come carogna
truce, posta a marcire nella fogna
buia, stivata nell’orrenda stiva,
soffocata nel tossico fumante
e rituffata nella lorda pozza
come quell’ira che del fango ingozza
nello Stige implacabile di Dante.
E i figli dell’ulivo e della spica,
i chiari primigeniti del sole,
scesero giù nelle maligne gole
a consumar la lùgubre fatica.
Quegli che avea sospeso le ghirlande
dei pampini all’amico olmo soavi,
assi aguzzò, ficcò pali, ugnò travi,
costrusse il suo sepolcro ognor più grande.
Quegli che a’ poggi avea falciato il caldo
fieno e negli orti munto l’alveare,
sacchi empié, more alzò, cementò ghiare,
costrusse il suo sepolcro ognor più saldo.
E la divinità era presente.
Ogni moggio di fresca terra offerto
era al genio di Roma, al giorno certo.
E seco ebbe i penati il combattente.
Il ciel del Palatino ebber gli eroi
su l’ira, il tempio aereo che il vate
segnava con la verga adunca (alate
armi parvero stormi d’avvoltoi),
quando giù nelle fosse un furibondo
grido fendé le tuniche di loto
intorno ai petti; e l’impeto devoto
balzò, irto di cuori, dal profondo.
Impeto, primogenito del fuoco,
spirito dell’incendio e della piena,
più celere del grido che ti sfrena
subitamente al dubitoso giuoco;
Impeto, condottiere dell’assalto
disperato, che cozzi con la fronte
e tanto hai più di lena quanto il monte
è più nudo, più ripido e più alto;
Impeto, ghermitor della fortuna
improvviso, che sì l’insegui e serti
con la punta alle reni e sì l’afferri
a’ capegli e non hai pietà veruna,
demone della nostra lotta, gloria
a te che su la guerra seppellita
sol per noi rilampeggi e con l’ignita
bocca avvampi le penne alla Vittoria!
21 gennaio 1916.
Per i cittadini
I.
Quando la notte cade
su la città che strascica l’arsura
della fatica
pei labirinti delle sue contrade,
e nella casa amica
è la lampada accesa da man pura,
e tra le quattro mura
il silenzio si fa ne’ cuori attenti,
e l’imagine cara della Patria
viene e trema nel cerchio del chiarore,
e tu senti sgorgare il sangue suo
presso e lontano
ed una santità gli occhi ti vela
che non è pianto ed è più che dolore,
e nell’anima tua stilla quel sangue,
gronda quel sangue sopra la tua mano:
quivi è l’Iddio verace,
e sia lodato.
II.
Quando si leva l’alba dei guerrieri
su la città di cenere ove il passo
dei primi artieri
è come d’avanguardia scalpitare,
e tu ansi nel mare
dei sogni con un’ansia in cuor confusa,
e all’anima socchiusa
ecco t’appare
più vicina dei sogni
la trincea tetra, la penosa bolgia,
tra maceria e steccaia
il fango imputridito
le piaghe non fasciate
i morti non sepolti
gli smorti vólti
dei vivi senza sonno
fitti nel limo sino all’anguinaia,
e il cuor ti morde l’onta,
e balzi in piedi, e l’anima t’è pronta
ad ogni evento
ad ogni prova
ad ogni dono,
e tutto armato di dolor t’avanzi
ed imprendi, nel giorno che t’è innanzi,
il taciturno tuo combattimento:
quivi è l’Iddio verace,
e sia lodato.
III.
Quando la donna veglia senza velo,
bontà senza figura,
le piaghe in carne viva,
ardendo come lampada votiva
sotto la bianca volta;
quand’ella ascolta
l’agonia che sorride
favellando a un’imagine futura
immortalmente;
quando al ferro che incide e che recide
ella in silenzio il dolce paziente
porge con cuor che trema e man sicura,
senza battere gli occhi;
quando i ginocchi
ella piega e le tempie
alate abbassa,
sostenenendo il bacino
che del sangue fraterno
e del muto supplizio si riempie,
ma nell’ombra del suo carnal pallore
il confino dell’anima trapassa
per amor dell’amore sempiterno:
quivi è l’Iddio verace,
e sia lodato.
IV.
Quando ella fila
la bianca lana e col fil bigio agucchia,
e non canta ma pensa
al combattente che nell’alpe immensa
è bianco su la neve ch’egli ammucchia
dinanzi alla sua fossa,
o prega per colui che nella tana
cupa ha il colore della terra smossa,
il color che le scorre tra le dita
leni di maglia in maglia;
e nel rombo del cuore
ascolta ella il fragor della battaglia
cieca e lontana,
su la malga lontana
vede ella d’improvviso la ferita
schiudersi nella neve che s’arrossa
o mescolarsi al fango scalpitato
che la corrompe,
e il filo bianco torce col suo cuore
palpitante ella e il bigio
conduce col suo cuore vigilante
ella, e un prodigio
di carità trasfonde
nella lana il calor del focolare,
nella lana la tempra dell’usbergo:
quivi è l’Iddio verace,
e sia lodato.
V.
Quando colui che perse il figliuol primo
bevuto sino all’ultima sua stilla
dal sitibondo Carso
che mai non si disseta,
e il suo secondo ne’ ghiacciai scomparso
di là da quella mèta
che si trapassa per non ritornare,
e il terzo sul calcàre
candido come ossame
al gelo della luna,
riverso, incoronato con le spine
di ferro ch’ei tagliò tra legno e legno
confitti come croce al sacrificio
dell’eroe sovrumano;
quando colui non piange né dà segno
di lacrime ma pone la sua mano
su la spalla dell’ultimo suo nato,
su l’omero del fresco adolescente
fulgido di bellissimo dolore,
che ricevuto ha in sé la grazia e il sangue
dei suoi fratelli e il fiato
come se dentro il calice d’un fiore
si celebrasse nova eucaristia;
quando colui non piange ma per via
con la man dolcemente
sospinge il giovinetto e l’accompagna
e l’offre e lo sacrifica e lo dona
e dice all’Indicibile «Perdona
se più non ho che questo,
ma questo prendi e me con lui se valgo»:
quivi è l’Iddio verace,
e sia lodato.
VI.
Quando il ricco ha rossore
degli agi suoi, e non s’indugia a mensa
né poltrisce, se pensa
che alcun del sangue suo
ha per tovaglia il sacco o la fascina,
ha per coltre la melma febbricosa
nella fossa che pute;
né si riscalda al ceppo sfavillante
che croscia su gli alari,
perché sogna le bianche
sentinelle perdute
nei deserti di neve, nella cerchia
dei picchi invitti come il diamante,
ai limitari della bàite irsute
che la sizza scoperchia,
al sommo della rupe
onde non più discende chi vi sale;
ma rinunzia egli i beni ed è l’eguale
del povero che offre
tutto che strappa alla fatica dura
e il ben senza figura
riceve in abondanza
per solo amore dell’amor che soffre:
quivi è l’Iddio verace,
e sia lodato.
VII.
Quando la vecchia inferma e triste e sola,
che logora con gli ossi delle dita
le lente avemarie senza parola
tra morte e vita
nella sua stanza fredda
come la soglia del sepolcro, pensa
che le rimane
un’ultima reliquia
d’oro consunto,
forse nel mondo l’ultimo suo pane,
e si leva e s’affanna e la ritrova,
ed oblia la dimane
poi che il suo vespro è giunto;
ed esce, quasi cieca, per l’incerta
via seguitando il suon delle campane,
la melodia di Cristo antica e nova;
ed in silenzio reca quell’offerta
all’urna che non parla;
e poi torna nell’ombra per morire,
e l’angelo è nell’ombra ad aspettarla;
ed un alito fresco
come canto novello
allevia la parete, che dispare;
e nella povertà di san Francesco,
nella felicità del Poverello,
ella non ha più fame né più sete;
e l’angelo sommesso le ripete
il canto del Beato
«Ma chi è dato più non si può dare.
Vivi morendo in pace»:
quivi è l’Iddio verace,
e sia lodato
22 gennaio 1916.
La preghiera di Doberdò
1. San Francesco lacero e logoro piange silenziosamente in ginocchio sul gradino spezzato dell’altare maggiore.
2. Per lo squarcio del tetto il mattino di settembre gli illumina le piante dei piedi piagate; ed è come un lume che raggi dalle sue stìmate di amore.
3. In questo lume soffrono i feriti della notte colcati su la paglia lungo il muro superstite della povera casa di Dio.
4. Non ha più tovaglia la tavola dell’altare, né candellieri, né palme, né ciborio, né turribolo, né ampolle, né messale, né leggìo.
5. A mucchio su la tavola dell’altare stanno gli elmetti dei morti, le scarpe terrose dei morti. Per ciò il Poverello qui piange.
6. Gli elmetti ammaccati, scrostati, forati, l’un su l’altro, grigi come la cenere, col cuoio dentro macero di sudore, intriso di sangue.
7. Gli elmetti ch’eran tenuti dalla soga sotto il mento dei morti, e per torli fu fatto un poco di forza alla mascella dura.
8. Le scarpe ch’eran rimaste ai piedi per giorni e per giorni e per giorni in fango in polvere in sasso, e furono rotti i legàccioli per tirarle dai piedi freddi allineati su l’orlo della sepoltura.
9. Le spoglie del capo e dei piedi, serbate pei vivi che nella battaglia morranno, gravano l’altare del sacrificio incruento.
10. Solo v’è con le spoglie il Cristo che porta la croce, la sesta Stazione, un’imagine di purità e di patimento.
11. Il medico, tra fiaschi fasce garza e cotone, curvo su la cimasa della balaustrata di legno malferma scrive le sue tristi tabelle.
12. Da presso, ripiegate, contro il muro cadente, simili a vecchie bandiere chiuse nelle custodie di tela, maculate di rosso e di bruno, poggiano le bianche barelle.
13. I feriti dell’assalto notturno, discesi dalle trincee scavate nelle petraie del colle, simili a un armento sublime giacciono sopra la paglia.
14. Bocconi giacciono a covare il dolore, o supini a fisarlo, o sul fianco e sul gomito, o rattratti, o col braccio dietro il capo, o col capo tra i ginocchi, o con un sorriso d’infante nella bocca assetata, o con nelle occhiaie torbide la vertigine della battaglia.
15. Non si lagnano, non chiamano, non dimandano, non fanno parola. Taciturni, aspettano che di strame in strame li trasmuti la Patria, con le tabelle quadre legate al collo da un filo, ov’è scritta la piaga e la sorte.
16. Stanno tra paglia e macerie, sotto travi stroncate, lungo un muro fenduto, nella chiesa senza preghiere. E guatano per lo squarcio del tetto se non si curvi sul loro patire l’angelo col dìttamo bianco o col papavero nero la morte.
17. Sanguinano gli adulti, robusti e irsuti, con vólti intagliati dall’ascia latina. Domina tal’uno il dolore, con cipiglio selvaggio, masticando la gialla festuca.
18. Sanguinano i giovinetti: e le stille si rappigliano giù per la lanugine prima. Socchiude tal’uno le ciglia, e sente la mano materna sotto la nuca.
19. Biondi e foschi, pallidi come l’abete della gabbia che chiude la granata dall’ogiva d’acciaio, fuligginosi come se escissero fabbri lesi dalla fucina tremenda.
20. Sembrano corpi formati di terra con in sommo un viso di carne che duole. Ai ginocchi delle brache consunte è rimasto il sigillo rossastro del Carso. Ma una rosa verace fiorisce a fior d’ogni benda.
21. Pochi su poca paglia, tra macerie e rottami, in una miseranda ruina, dove tutte le imagini della Passione furono abbattute o distrutte, tranne una: la sesta.
22. E, com’essi respirano ed ansano, il luogo si riempie d’una santità vivente come quella che precede il Signore quando si manifesta.
23. Costui dal capo bendato, dalla barba crespa che imbiutano i grumi, con negli occhi di fiera l’ardore intento della fede novella, non è simile ai giovani discepoli in Cristo, a Filippo di Betsaida, ad Andrea fratel di Simone, quando il Figliuolo dell’uomo non avea pur dove posare la guancia?
24. E questo imberbe dallo sguardo cilestro, dal virgineo vólto inclinato, ove un fuoco chiuso traspare pel teschio che solo è coperto di carne quanto basta a significare il dolore, non somiglia Giovanni il diletto quando si piega verso il costato che sarà trafitto dal colpo di lancia?
25. Pochi su poca paglia, tra un muro fenduto e un muro crollato. E dietro hanno i loro monti, le loro valli, le loro fiumane, le lor dolci contrade, le lor città di grazia in ginocchio davanti ai lor duomi costrutti con la pietra natale.
26. E qui sanguina l’Umbria, e sanguina qui Lombardia, e sanguina Venezia la bella, sanguina la Campania felice, sanguina Sicilia l’aurata, e Puglia la piana, e Calabria la cruda, e Sardegna in disparte, e meco la terra mia pretta, e tutta la Patria riscossa con Roma la donna immortale.
27. Or chi mai su la povera casa di Dio, a raccogliere tanta offerta di porpora, gira su lo squarcio del tetto, con arte titanica, una si vasta cupola in gloria?
28. E’ l’artefice dei templi novelli, simile a un Buonarroto ventenne, pari al Genio vittorioso che calca il barbaro schiavo e guata di là dalla vittoria?
29. Silenzio, umiltà, pazienza. Stagna la vena. La rosa è colma. Taluno s’addorme, col braccio sotto la gota. Lo vegliano i fratelli che non hanno tregua al penare.
30. Entra una barella carica d’altre spoglie di morti, carica di scarpe terrose e d’elmetti forati. Si ferma davanti all’altare.
31. Gli elmetti ammaccati, scrostati, forati, l’un su l’altro, grigi come la cenere, col cuoio dentro macero di sudore, intriso di sangue.
32. Le scarpe lorde di terra rossigna, con qualche scheggia di sasso, con qualche fil d’erba calcata, con qualche foglia di quercia confitta dal chiodo che lustra. Per ciò il Poverello qui piange.
33. Piange inginocchiato su la sua tonaca logora ai ginocchi, lacera agli orli che scoprono i piedi suoi scalzi. Lacrima, e non s’ode. Tanto ama, e rompersi non s’ode il suo petto.
34. Entra una barella che porta un soldato con la benda su gli occhi, con una gamba prigione tra due assi grezze. Ed è come il mendico di Gerico, Bartimeo. E’ come l’infermo della piscina, l’uomo di Betesda, sul letto.
35. Forse non sa ch’egli è cieco. E dice anch’egli forse nel cuore: «Figliuolo dell’uomo, abbi misericordia di me». Ed ecco appesa gli è al collo, con un frusto di corda, la tabella ov’è scritto il male e il destino.
36. Ma d’improvviso entra per lo squarcio irto di travi tronche una rondine spersa, l’ultima rondine; e nel silenzio getta un grido, due gridi. Sorvola l’altare. Sorvola le macerie, lo strame, le piaghe, l’ambascia, l’attesa. Getta un grido, due gridi. Dà un guizzo di luce. Ha seco il mattino.
37. E il Santo rapito si volge alla creatura di Dio, con ferme su la faccia le lacrime come la rugiada su la foglia è prima del sole. E tutte si volgono rapite alla messaggera d’una stagione sublime le facce del glorioso dolore.
38. E tutti sono fanciulli, tutti nel sangue innocenti. E il cieco si leva sul gomito, con l’anima trapassa le fasce, si tende verso l’ala invisibile che muove l’aura del miracolo intorn. E ode ridiscendere nella casa disfatta il Signore.
Novena di San Francesco d’Assisi. Settembre 1916.
A Luigi Cadorna
Questo che in te si compie anno di sorte
l’Italia l’alza in cima della spada,
trionfal segno; e la sua rossa strada
ne brilla insino alle fraterne porte.
Tu tendi la potenza della morte
come un arco tra il Vòdice e l’Ermada;
torci l’Isonzo indomito, ove guada
la tua vittoria, col tuo pugno forte.
Giovine sei, rinato dalla terra
sitibonda, balzato su dal duro
Carso col fiore dei tuoi fanti imberbi.
Questo che in te si compie anno di guerra
scrolli da te, avido del futuro;
e al domani terribile ti serbi.
4 settembre 1917.
La canzone del Quarnaro
Tibi cornua nigrescunt
Nobis arma dum clarescunt.
Siamo trenta d’una sorte,
e trentuno con la morte.
EIA, l’ultima!
Alalà!
Siamo trenta su tre gusci,
su tre tavole di ponte:
secco fegato, cuor duro,
cuoia dure, dura fronte,
mani macchine armi pronte,
e la morte a paro a paro.
EIA, carne del Carnaro!
Alalà!
Con un’ ostia tricolore
ognun s’è comunicato.
Come piaga incrudelita
coce il rosso nel costato,
ed il verde disperato
rinforzisce il fiele amaro.
EIA, sale del Quarnaro!
Alalà!
Tutti tornano, o nessuno.
Se non torna uno dei trenta
torna quella del trentuno,
quella che non ci spaventa,
con in pugno la sementa
da gittar nel solco avaro.
EIA, fondo del Quarnaro!
Alalà!
Quella torna, con in pugno
il buon seme della schiatta,
la fedel seminatrice,
dov’è merce la disfatta,
dove un Zanche la baratta
e la dà per un denaro.
EIA, pianto del Quarnaro!
Alalà!
Il profumo dell’Italia
è tra Unie e Promontore.
Da Lussin, da Val d’Augusto
vien l’odor di Roma al cuore.
Improvviso nasce un fiore
su dal bronzo e dall’acciaro.
EIA, patria del Quarnaro.~
Alalà!
Ecco l’isole di sasso
che l’ulivo fa d’argento.
Ecco l’irte groppe, gli ossi
delle schiene, sottovento.
Dolce è ogni albero stento,
ogni sasso arido è caro.
EIA, patria del Quarnaro!
Alalà!
Il lentisco il lauro il mirto
fanno incenso alla Levrera.
Monta su per i valloni
la fumea di primavera,
copre tutta la costiera,
senza l’una e senza faro.
EIA, patria del Quarnaro!
Alalà!
Dentro i covi degli Uscocchi
sta la bora e ci dà posa.
Abbiam Cherso per mezzana,
abbiam Veglia per isposa,
e la parentela ossosa
tutta a nozze di corsaro.
EIA, mirto del Quarnaro!
Alalà!
Festa grande. Albona rugge
ritta in piè su la collina.
Il ruggito della belva
scrolla tutta Farasina.
Contro sfida leonina
ecco ragghio di somaro.
EIA, guardie del Quarnaro!
Alalà!
Fiume fa le luminarie
nuziali. In tutto l’arco
della notte fuochi e stelle.
Sul suo scoglio erto è San Marco.
E da ostro segna il varco
alla prua che vede chiaro.
EIA, sbarre del Quarnaro!
Alalà!
Dove son gli impiccatori
degli eroi? Tra le lenzuola?
Dove sono i portuali
che millantano da Pola?
A covar la gloriola
cinquantenne entro il riparo?
EIA, chiocce del Quarnaro!
Alalà!
Dove sono gli ammiragli
d’arzanà? Su la ciambella?
Santabarbara è sapone,
è capestro ogni cordella
nella ex voto navicella
dedicata a san Nazaro.
EIA, schiuma del Quamaro!
Alalà!
Da Lussin alla Merlera,
da Calluda ad Abazia,
per il largo e per il lungo
siam signori in signoria.
Padre Dante, e con la scia
facciam «tutto il loco varo».
EIA, mastro del Quarnaro!
Alalà!
Siamo trenta su tre gusci,
su tre tavole di ponte:
secco fegato, cuor duro,
cuoia dure, dura fronte,
mani macchine armi pronte,
e la morte a paro a paro.
EIA, carne dal Carnaro!
Alalà!
11 febbraio 1918.
All’America in armi
While we are marching on!
LA CANZONE DI JOHN BROWN
I.
1. Mattino oceanico della Libertà alzata sul fondamento di sangue e d’anima dalle spalle dei suoi tredici artieri,
2. giorno della giovine Republica che delle tredici colonie fece il fascio consolare di tredici verghe intorno alla scure dei pionieri,
3. gli Italiani lodano l’Iddio che lor concesse di salutarti oggi in piedi sotto il croscio della vittoria romana,
4. essi che oggi ti danno, o Libertà, per tuo diadema il sasso scolpito del Grappa e ti danno il Piave flessibile per tua collana.
5. O Terrestre, lasciato hai il tuo piedestallo solitario e non voli, ma cammini stampando la terra co’ tuoi calcagni senza calzati.
6. Guardaci. Siamo il tuo amore. Amiamo il lampo de’ tuoi occhi più che il guizzo dei nostri focolari.
7. Guardaci. Riconosci il tuo amore. Abbiamo combattuto per te divinamente come la giovinezza del mondo pugnava a Maratona.
8. Per questo tuo giorno, con la mano della vita e con la mano della morte, liberali entrambe, abbiamo tessuto la tua corona.
9. La corona di spighe alla Fertile! L’ora del combattimento fu l’ora della messe per la Madre degli eroi e delle biade.
10. Per mietere, la sua gente ha impugnato le falci; e per uccidere ha brandito le spade.
11. S’inchinarono le messi e brillarono nel vento come le schiere nella battaglia.
12. Rinasce a noi un pane vittorioso, e ai nostri dolci feriti si rinnova il letto di paglia.
13. Abbiamo mietuto e abbiamo combattuto, con la faccia sempre volta a oriente.
14. Riarsi, abbiamo bevuto alla più profonda delle nostre piaghe come alla sorgente.
15. O Libertà, ma la collina tumida tra Nervesa e Biàdene ci nutriva come la tua mammella.
16. Per sette dì e per sette notti i petti eroici ne trassero una forza sempre novella.
17. Per sette mattini gli eroi videro te levarti dall’Adriatico prima del sole e aprire al giorno la porta.
18. Gridarono: «Benché tu ci uccida, lèvati. Lèvati, e che tutti moriamo per te, non importa».
19. E’ questo il grido di questo giorno, più alto che i gridi delle aquile d’Eschilo, più selvaggio che i gridi delle Erine di Dante.
20. E’ il grido che comanda alla battaglia di riaccendersi e al tempo di sostare e ai morti di risorgere e ai vivi di moltiplicarsi nel sangue.
II.
21. Come i vasti cavalli criniti di spuma nell’oceano che uguagli, come le miriadi dei corsieri spumanti nell’Atlantico indomo,
22. i flutti del tuo vigore, o Republica, accorrono verso le rosse rive dove grandeggia quanto più sanguina la speranza dell’uomo.
23. Gli eroi morienti con occhi pio che umani guardano levarsi la tua luce dove il loro sole si colca.
24. E pensano: «O eternità del mare, non sapesti mai forza più bella di questo spirito che ti solca».
25. Non ti fa bella, o Republica, l’immenso tuo cumulo d’oro, non la copia inesausta che ti versano dal buio i tuoi genii senz’ali,
26. non l’ascia tua celere che ti muta in chiare città le tue selve, non l’impeto delle aeree tue case che ti sono le tue cattedrali,
27. non il numero delle tue macchine schiave che servono i tuoi lucri e i tuoi agi, non l’orgoglio che le tue stirpi arroventa e martella,
28. ma una parola che in te parlò una voce republicana, una parola ti fa la più bella.
29. E di sùbito il tuo oro e tutti i tuoi metalli e tutte le tue fucine e tutte le tue genti non sono se non luce operante.
30. Tutta sei luce. E fin l’oscurità delle tue miniere s’irraggia, così che il tuo nero carbone t’è diamante.
31. Teco sono le sorgenti solari, negli occhi tuoi fissi. Dalla fronte al calcagno, tutta quanta sei luce.
32. Sopra l’oceano che è la tua anima vera, l’ora prima, l’ora bianca dell’Alba a noi ti conduce.
33. Innanzi che le mille e mille tue prore fendano il cielo e il mare, la tua parola risana il cuore profondo della terra gonfio di doglia.
34. Rescissa dal ferro, incesa dal fuoco, intrisa di sangue, la divina radice per te rigermoglia.
35. T’avevam conosciuta e disconosciuta, t’avevamo amata e poi rinnegata prima che il gallo cantasse.
36. Troppo aspettammo che i colpi del tuo vecchio tamburo riscotessero le tarde tue masse.
37. Dato avevi due volte il tuo messaggio col sigillo purpureo, due volte vestita di porpora; e il tuo terzo era atteso dai vivi e dai morti nella notte feroce.
38. Gloria! Agitasti alfine la tua bandiera seminando dalle sue pieghe le stelle; e nella notte sfolgorò la tua voce.
39. «Vivete, perché la verità è vivente. Morite, perché la morte è immortale. Riordinate la battaglia. Noi siamo gli eguali del Tempo. Incomincia la guerra.
40. Se questa è l’ora del combattimento e della messe, ecco le armi, ecco le falci. Si combatta e si mieta. Si muoia e si raccolga. Non più partiremo col bruto il pane della terra.»
III.
41. In marcia! La vecchia canzone di John Brown, radicata nella memore gleba, riscoppia come il fiore dell’agave ardente.
42. Dal fondo degli anni ritorna e si spande il rombo dei bronzi che sonarono il transito del martire nell’Occidente.
43. In marcia! la semenza è fervida. Gli uomini nuovi bàlzano in armi dai tuoi solchi fulvi e dalle tue bianche strade.
44. Recando nel pugno il tuo gruppo di stelle, cacciano in fuga la pace ignobile da tutte le tue contrade.
45. In marcia! Come nella valle dello Shenandoah, c’è il ferro e c’è il fuoco, c’è il sangue e c’è il sudore, c’è il fiele e c’è il pianto, l’urlo e il lagno, la sete e la fame, la falange spedita e il branco immondo.
46. In marcia! Come allora, nella selva, nell’alpe, nel piano, sul fiume, sul lago, sul mare, l’uomo inventi la sua vita e la sua morte ogni giorno. Non v’è più sonno. Non v’è più tregua. Non v’è più respiro. In marcia verso la battaglia del mondo!
47. Si sveglia, laggiù, nella dolce valle virginiana ove geme l’uccello notturno, si sveglia Stonewall Jackson e sente il suo sangue che tuttavia cola, e ordina: «Avanti!».
48. Si poggia sul gomito sano, solleva con l’anima il suo braccio stroncato, lascia pendere i suoi rossi brandelli, e ordina con la voce d’allora: «Portate innanzi i miei fanti!».
49. Balza di nuovo in sella Philip Sheridan fiutando la disfatta lontana, mette il suo cuore in bocca al suo baio; e galoppa le sue venti miglia.
50. Non ha in bocca né cuore né freno il cavallo. Il cuore fu più veloce dei quattro suoi zoccoli. E, quando arriva, la vittoria gli prende la briglia.
51. «Navi! Navi! Navi!» grida David Farragut, l’affondatore di arieti, l’incendiatore di zattere, lo spezzator di catene, a cui furono armi fedeli lo sperone diritto e l’anima ignuda.
52. Qual passo è da forzare? qual porto da violare? qual corazza da fendere? E’ pallido. Gli ruppe nel sepolcro i sonni e le glorie l’eroe di Premuda.
53. «Ali! Ali! Ali!» grida non il vittorioso che balza dalla tomba all’appello, né la giovine cerna anelante, né la folla dal piè di tempesta;
54. ma la stessa vittoria che, come quella d’Atene, non ha negli òmeri penne e non migra, sì arma la sua specie nei cieli a miriadi e con noi resta.
55. Resta con noi sul Piave, resta con noi su la Marna, con noi su i santissimi fiumi, con noi sopra i monti sublimi, con noi dove le è suora corporale la morte.
56. O Liberatrice, il tuono è incessante. Il fragore lacera il cielo come un velario che si ritessa. La nube infame acceca e soffoca la battaglia. Il coraggio ansa e soffre. Tutto è martirio celato. Ma la tua statura è più alta, ma la tua voce è più forte.
57. «Vivete, perché la verità è vivente. Morite, perché la morte è immortale. Riordinate la battaglia. Noi siamo gli eguali del Tempo. Incomincia la guerra.
58. Se questa è l’ora del combattimento e della messe, ecco le armi, ecco le falci. Si combatta e si mieta. Si muoia e si raccolga. Non più partiremo col bruto il pane della terra.
59. Siamo in marcia, non truppe noverate e marchiate come le greggi, non eserciti cacciati col pungolo come le mandre. Un popolo armato s’avanza. Consacra le sue stelle al Futuro.
60. In marcia! Fino a quando? Fino a che la via d’oriente, fino a che la via d’occidente non sia libera. Fino a che tra i quattro v’ènti del mondo la Libertà non sia sola con l’uomo. Fino a che non si compia il cammino del tempo, se non bastino al cómpito gli anni. Una fede armata s’avanza. Consacra i suoi segni al Futuro.»
IV luglio 1918.
La preghiera di Sernaglia
I.
1. Chi risponde? La bocca d’un uomo può dunque portare una parola che pesa come il sangue di tutti?
2. Chi risponde? E’ la voce d’un uomo questa che varca l’oceano inespiato e gonfia i suoi flutti?
3. Chi giudica? Lo spirito solo d’un uomo si fa spada infallibile e taglia il groppo di tutte le sorti?
4. Chi giudica? Chi è che non teme di parlare là dove sol regna il silenzio di Dio e dei morti?
5. Ha egli imposto l’alterno suo polso a quel mare implacato che non ebbe mai rive a serrar le procelle?
6. Ha egli come il re tebano sposato la novella Armonia, e alla città spirtale cantato le leggi novelle?
7. Chi s’alza oggi arbitro di tutta la vita futura, sopra la terra ululante e fumante?
8. Donde è venuto? dalle profondità della pena o dalle sommità della luce, come l’esule Dante?
9. O solo è un savio seduto nella sua catedra immota, ignaro di gironi e di bolge?
10. O solo è un interprete assiso dinanzi al polito suo libro, che nessun vento ignoto sconvolge?
11. Non so, né m’inclino al responso lontano, né indago i legami tra sillaba e sillaba accorti.
12. Serro l’animo spietato nel cuore, l’arma provata nel pugno; e ascolto il silenzio di Dio e dei morti.
II.
13. Chi risponde? Chi giudica? Non l’uomo seduto, né l’uomo diritto, né il codice né la bilancia.
14. Risponde chi per parlare sputa il fango ch’ei morse cadendo o si netta dalle lacrime di sangue la guancia.
15. Risponde chi per parlare rompe lo stridore dei denti e l’ambascia, col giogo bestiale sul collo.
16. Risponde chi col moncherino grondante scrisse l’abominio e il taglione sul muro superstite al crollo.
17. Risponde chi nel patire eccedette i limiti del patimento posti al misero dalla pietà del Signore.
18. Risponde l’umana e divina agonia cui fu Ghetsémani tutta la terra cospersa di atroce sudore.
19. E alcuno invocò sul misfatto la clemenza del Figliuol d’uomo? Ecco. Mano per mano, dente per dente, occhio per occhio.
20. Non il sermone laborioso ma il doppio taglio della spada forbita fa la luce al nemico in ginocchio.
21. Il Figliuol d’uomo essi tolsero di croce non per comporlo nella pietra col panno lino e l’unguento,
22. ma per riflagellarlo e ricoronarlo di spine e risaziarlo d’ingiurie e partirsi il suo vestimento.
23. Ti sovvenga, o Clemenza. Del suo lenzuolo e del suo sudario e delle sue bende fecero vincoli e corde:
24. vincoli per legare le mani e i piedi forati delle nazioni, corde per strangolarle a stràscino, o Misericorde.
III.
25. Non sono un rammemoratore d’immemori e un riscotitore d’ignavi. Ma, se nessuno grida, io grido. Oserò se altri non osa.
26. O pace inviata alla tristezza degli uomini non come nivea colomba ma come serpe viscosa!
27. Che mai resta nel mondo, ch’essi non abbiano guasto e corrotto? Più pestilente è il lor fiato che il vomito dell’avvoltoio.
28. Partire voleano col ferro la somma dei secoli, tra dominio e servaggio. Ogni stirpe era morchia di macine, e la terra il lor grande frantoio.
29. Hanno arsi i duomi di Dio dove battezzammo i nostri nati, portammo le nostre bare, prostrammo il nostro cuor tristo.
30. Hanno abbattuto i nostri altari, fonduto le nostre campane, contaminato le nostre reliquie, maculato le specie di Cristo.
31. Lordato hanno le nostre case, scoperchiato i nostri sepolcri, sterilito ogni solco, divelto ogni erba e ogni fusto,
32. disperso i semi, corrotto le fonti, percosso i vecchi, forzato le donne, fatto monco ogni fanciullo robusto.
33. Il lagno d’Isaia si rinnova: «Tutte le tavole son piene di vomito e di lordure; luogo non v’è più, che sia mondo».
34. Ma Colui che già pianse per Lazaro, Colui che sopra Gerusalemme già pianse, Colui che già pianse nell’Orto, oggi piangere non può sopra il mondo.
IV.
35. Non piange più; combatte. Non ha il capo chino su l’omero scarno, né inchiodate le palme all’infamia, né i piedi trafitti.
36. Né sfolgora come quando l’angelo rotolò dal sepolcro la pietra ed Egli sorse, ed apparve agli Undici afflitti.
37. Ma lo vede ogni fante, simile a sé, con l’elmetto del fante, con le uose del fante, col sudore e col sangue del fante, allato allato.
38. Cade anch’Egli, come quando portava la croce; cade e si rialza. E, come quando riprendeva la croce, riprende la sua arme e il suo fiato.
39. Resiste, perdura, persevera, a fianco dell’uomo. All’uomo dona il suo cuore divino e la sua lena immortale.
40. Si volge l’ispirato sentendo crescere nel suo petto la forza; e vede al suo fianco penare e lottare un eguale.
41. Lotta Egli e pena con noi. La sua arsura, che lambì la spugna intrisa nell’aceto e nel fiele, si disseta alla nostra borraccia.
42. Suda e ansa con noi. L’offerta rinnova del suo sacrifizio ogni giorno spezzando con le mani piagate il pane della nostra bisaccia.
43. Egli che all’ora di nona gridò: «Dio mio, perché m’hai lasciato?», Egli ben sa quanto costi l’intera vittoria agli eroi.
44. Non ha Egli pur riudito lo scherno? «Se tu sei l’eletto di Dio, salva te stesso. Se il Cristo tu sei, salva te stesso, e noi.»
45. Or Egli vince. Con noi vince. Chi credette nell’anima, ora vince per l’anima. Chi accettò la morte, ecco vince per la vita immortale.
46. La forza dell’anima pura precipita le nostre legioni fangose, e in carne tanta non sente il suo male.
47. Chi l’arresta? Dove sono i valli insuperabili? dove gli impenetrabili petti? Dov’è mai la lor ferrata muraglia?
48. Quel che in Dio fu detto è ridetto: «Son fuggiti dinanzi alle spade, dinanzi alla spada tratta, dinanzi all’arco teso, e dinanzi allo sforzo della battaglia».
49. Quel che in Dio fu detto è ridetto: «Guai a te che predi e non fosti predato. Quando finito avrai di predare, predato sarai tu senza mora».
50. Quel che in Dio fu detto è ridetto: «Guardia, che hai tu veduto dopo la notte? Guardia, che hai tu veduto dopo la notte?». L’aurora! L’aurora!
V.
51. O stagione di rapimento improvvisa, che la primavera non sei e non l’autunno ma quella dove il lauro eternale allega i suoi frutti!
52. O spirito rapido che rifecondi le piaghe della terra e susciti il fremito della messe futura dallo strazio dei campi distrutti!
53. O fiumi rivalicati, gonfii di giubilo, come le vene che portano l’orgoglio al cuor della Patria e sino alla sua fronte il vermiglio!
54. O valli disgombre dove torna una così pura dolcezza che i morti sembran quivi dormire nel grembo di Maria come il Figlio!
55. O canti sovrani, santissimi tra gli inni più santi, alzati dall’agonia degli oppressi che sentono i liberatori alle porte!
56. O vincoli, o spine, o flagelli, rinnegamento e vergogna, soma e ambascia, sete e fame, sanie e sangue, o passione di Cristo e del mondo, o vittoria di là dalla morte!
57. Chi muterà questa grandezza e questa bellezza impetuose in disputa lunga di vecchi, in concilio senile d’inganni?
58. Inchiostro di scribi per sangue di martiri? A peso di carte dedotte ricomperato il martirio degli anni?
59. Se il mutilatore è in ginocchio, se leva le sudice mani, se abbassa il ceffo compunto, troncategli i pollici e i polsi, rompetegli zanne e ganasce.
60. Stampategli il marchio rovente fra ciglio e ciglio, fra spalla e spalla. Né basti. Tal specie, se in paura si scioglie, poi dalle sue fecce rinasce.
61. E passate oltre. Vi precedono i morti. Rimasto ai morti, ai sepolti e agli insepolti rimasto è l’osso del tallone integro per calcare la terra straniera.
62. Quel che in Dio fu detto è ridetto: «Per l’anima delle creature che hanno spasimato di fame a ogni capo di strada; e mani non avean da giugnere nella preghiera».
63. Vittoria nostra, non sarai mutilata. Nessuno può frangerti i ginocchi né tarparti le penne. Dove corti? dove sali?
64. La tua corsa è di là dalla notte. Il tuo volo è di là dall’aurora. Quel che in Dio fu detto è ridetto: «I cieli sono men vasti delle tue ali».
Novena di tutti i Santi. Ottobre 1918.
Cantico per l’ottava della vittoria
Balza su dal nero fango, lava il sangue e il sudore.
E vendica la potenza del canto sul clamore,
o Verità cinta di quercia.
Come la spada a due tagli leva il tuo canto puro
che la nostra anima nuda fenda, mentre Bonturo
mal mondato nel trivio bercia.
Verità cinta di lauro, ben tu oggi mi scegli
come quando su lo strame d’Italia i tristi vegli
rumavan la menzogna stracchi
e tu mi cantavi il canto solitario alla Terra
al Cielo al Mare agli Eroi, meco armata alla guerra
contro il sogghigno dei vigliacchi.
O domatrice di fuochi, foggiami tu quest’ode
e scagliala verso Roma; ché la mia mano prode
mi trema e condurla non posso.
Patria! Patria! Questa sola parola mi trasporta.
E rimbombare odo dentro di me, come alla porta
del tempio, uno scudo percosso.
Patria! Il terribile e dolce nome chiamare voglio.
Sono ebro. Odo il tuono e il rombo. Chi mai sul Campidoglio
percote lo scudo raggiante?
Il giubilo è una rapina bella, un ratto felice.
E il cielo è tanto a noi chiaro, sol perché Beatrice
rivede sorridere Dante.
Come chi chiama la luce pel suo nome divino,
come chi chiama la luce pel suo nome e al mattino
comanda che nasca dal mare,
o Patria, così ti chiama colui che trascolora
di dolcezza e di spavento. Non tu sembri un’aurora
che abbia volontà di cantare?
Palpiti come un’ aurora colma di melodia,
come un’aurora chiomata d’astri ignoti, che sia
apparsa alla soglia del mondo.
Dalle calcagna possenti fino alle rosee dita
non sei se non il preludio della novella vita,
una nell’alto e nel profondo.
E nel profondo e nell’alto sei tu stessa l’aurora
a cui ti facemmo sacra con l’aratro e la prora
quando la notte era su noi.
La notte pallida s’apre come si squarcia un velo.
Sei tutta la luce; e nella luce cantano il cielo
il mare la terra e gli eroi.
Sei un infinito canto. Muta sembri rimasta
da secoli per cantare quest’inno che sovrasta
la speranza e supera il fato.
Sembri rimasta in silenzio da che la terza rima
ti rapì nel Paradiso dov’arde su la cima
dell’amore il verso stellato.
Tutto è voce numerosa, tutto è numero e modo
in te nova. Sei la grande Carmenta. Ecco che t’odo
fra il Tevere e il Capitolino.
Ecco che t’odo fra l’Alpe Giulia e l’Alpe Apuana.
T’odo fra le Dolomiti rosse e la Puglia piana.
E l’Istria è un sol coro latino.
E il leone di Parenzo rugge col miele in gola.
E la vittoria cilestra nel colosséo di Pola
si prodiga all’arcato abbraccio.
E le città di Dalmazia si scingono sul mare
cantando dai bei veroni veneti, bionde e chiare
nell’ambra di Vettor Carpaccio.
E Zara è la prima, Zara nostra, rocca di fede,
ch’è scolpita nel mio petto com’è scolpita appiede
di Santa Maria Zobenigo,
tutta bella al davanzale della sua Riva Vecchia,
ridorata come quando Venezia si rispecchia
nell’oro sciolta dal caligo.
E la seconda non fulge sopra il riposto mare
dalla gran nave di sasso, tra battistero e altare,
ma per gli occhi del suo veggente,
ma per gli occhi del suo cieco, pei fisi occhi riarsi
dall’ardore del futuro ch’egli vede levarsi
oggi dal sangue immortalmente.
O Sebenico beata, che hai gli occhi più profondi,
la cecità del profeta reduce dai tre mondi
anch’egli ma senza corona!
O Spàlato imperiale, Spàlato piena d’arche
sante, ove cantano alterne le Marie e le Parche
sopra le tombe di Salona!
O Traù, mia dolce donna, tu che sei tra le donne
dàlmate la più dorata! Sei nelle tue colonne
come il fuoco nell’alabastro.
La tua gioia è come l’oro fulva. Sotto l’artiglio
il tuo libro si riapre. Fiorisce come un giglio
il tuo cipresso nell’incastro.
La sùbita primavera si crinisce di pioggia.
La rondine d’oriente torna nella tua l’oggia
ad annunciar la Santa Entrata.
Disseppellisci di sotto l’altare i tuoi stendardi
e li spieghi. Ardono al vento salso come tu ardi,
o tu che sei la più dorata.
E danzano la tua gioia l’ungh’essa la tua costa
le isole nutrici di api, da Zirona a Lagosta,
e coi cembali e col saltero.
O Solta ricca di miele che sa di rosmarino!
O sasso della Donzella dove l’amor latino
rinnovellò la morte d’Ero!
E s’inghirlanda di mirto Lissa vittoriosa.
E la vittoria navale coglie il lauro e la rosa
nell’oleandro di Lacroma.
E la Libertà dal vasto petto, l’unica Musa,
canta con dodici bocche nel tuo fonte, o Ragusa;
e tu bevi il carme di Roma.
Patria! Patria! Tutto è canto, tutto è canto infinito,
canto nato col mattino. Tocca il cuore ferito
degli eroi nella terra nera.
Schiude fin le tristi labbra dei giovinetti muti
nelle ripe nelle malghe nelle velme, caduti
quando la grande alba non era.
Si levano gli insepolti, si levano i sepolti:
al sommo del loro ossame portano i loro volti
trasfigurati, l’ebre gole.
Son tutti luce e canto, gaudio e canto gli uccisi
come se in tutti e in ciascuno san Francesco d’Assisi
spirasse il cantico del sole.
Nei valichi dello Stelvio, nei passi del Tonale,
nella roccia d’Ercavallo che l’ascia trionfale
tagliò come ceppo d’abeto,
nel lene argento del Garda, nel rame della Zugna,
nella Vallarsa ricinta d’arci che il sole espugna
per baciar laggiù Rovereto;
e tra l’Astico e il Rio Freddo, di girone in girone,
negli inferni statuarii del Cengio e del Cimone,
che sono i fratelli del Grappa,
essi cantano con calde bocche, riavvampati
da un sangue repente; e vanno, s’accrescono, soldati
della luce, di tappa in tappa.
Chi è con loro? Chi viene, riavvampato anch’esso
di gioventù sovrumana, come aveva promesso?
«Ch’io venga anche all’ultima guerra!
Legatemi al mio cavallo. Ma ch’io veda la stella
d’Italia su la Verruca! Cinghiatemi alla sella.
Ma ch’io venga all’ultima guerra!»
Giovine, giovine come nell’estancia, a Maromba,
alla Barra, al Cerro, al Salto, come quando la tromba
dal Vascello e dalla Corsina
sonò su Roma serva slargando col selvaggio
squillo gli archi di trionfo troppo angusti al passaggio
della nova gloria latina,
giovine e con la criniera fulva come l’estate,
sul gran stallone di neve dalle froge rosate,
che per ala ha il candido manto,
cavalca Egli nel delirio come in un nembo ardente,
fiso alla morte, e l’amore della sua morta gente
l’inalza alla vita del canto.
O vita! O morte! Il mio canto vien di sotterra o spira
dal mio petto? Son io servo dell’inno senza lira
o son io signore del fato?
Tutte le vie della notte furon da me percorse
per amor del tuo mattino, Patria. Ma so io forse
come questo giorno m’è nato?
Non ho perduto il mio giorno? non ho perduto i doni
della trasfiguratrice? Che val se m’incoroni?
O fine delle cose impure!
Son nel carcere dell’ossa, nei lacci delle vene,
e non diffuso nei v’ènti, nelle acque, nelle arene,
in tutte le tue creature.
Con una meravigliosa gioia tesi le mani
a rapir la morte. E sempre diceva ella: «Domani».
Sempre diceva ella: «Più alto!».
La inseguii di là da ogni mèta al mio cor promessa.
Ed ella diceva sempre: «Più oltre!». Era ella stessa
il volo la schiuma l’assalto.
O mio compagno sublime, perché t’ho io deluso?
e perché fu ingannata l’anima? Avevo chiuso
te nell’arca e la mia speranza,
tra i cipressi di Aquileia. Silenziosamente
avevo teco bevuto l’acqua senza sorgente
e celebrato l’alleanza.
Risorto sei tu dall’arca, fra il croscio dei cipressi.
L’arcangelo del mio nome, nel dì del Resurressi,
ha scoperchiato il sasso cavo.
E tu, Dioscuro, franco del cavallo e dell’asta,
sei ridisceso a lavare dal lutto la tua casta
forza nel lustrale Timavo.
Ma dov’era il tuo fratello? la sua forza dov’era?
Non l’avevano raccolto dentro la tua bandiera
stessa i compagni di ardore.
Non il suo corpo abbronzato sul rottame fumante
dell’ala avevan disteso, né con le foglie sante
coperto il nudato suo cuore;
né veduto di tra le foglie dell’alloro pugnace
ardere subitamente nel profondo torace
un fiore perfetto di fuoco.
Eroe, tu m’attendi invano sul tuo fiume lustrale.
Ma, se la vita è mortale, se la morte è immortale,
in te vita e morte oggi invoco.
Nella mia bocca ho il tuo soffio, tra i miei denti il tuo fiato.
Si fa mattutino canto lo spirito esalato.
L’agonia si fa melodia.
Patria! Patria! Questa sola parola è tutto il cielo.
La notte pallida s’apre come si squarcia un velo.
Regna «colui che più s’indìa».
Come chi chiama la luce pel suo nome divino,
come chi chiama la luce pel suo nome e al mattino
comanda che nasca dall’acque,
o Patria, così ti chiamo. Sono il tuo gridatore
e sono il tuo testimonio. Se m’odi, il mio amore
sa come questo giorno nacque.
Sto tra la vita e la morte, vate senza corona.
Da oriente a ponente l’inno prima s’intona:
«La vita riculmina in gloria!».
Sto tra la morte e la vita, sopra il crollo del mondo.
Da ostro a settentrione scroscia l’inno secondo:
«La morte s’abissa in vittoria!».
3-11 novembre 1918.
NOTE AI CANTI DELLA GUERRA LATINA
Sur une image de la France croisée
Une lettre adressée à M. Alfred Campus, directeur du Figaro, accompagnait l’envoit de ces poèmes:
«Mon cher ami, je pars pour Gênes. On va jeter le dé. Ce qui n’est pas arrivé sous le signe du Bélier, va arriver sous le signe du Taureau. Cette bte zodiacale a un front encore plus dur, frontem duriorem frontibus eorum. De Gênes vous recevrez, de grandes nouvelles.
J’ai composé quatre sonnets d’amour pour la France, et je les publie au profit de la Croix-Rouge de France, du Vestiaire des Blessés et de l’Hôpital auxiliaire du Val-de-Grâce n. II.(institution italienne). Ils sont inédits. J’aimerais les donner eu public français en guise d’adieu, Voutez-vous les publier dans le Figaro, le matin du 5 mai? A la même heure nous serons des alliés.
Au revoir, cher ami. Je vous serre le main bien affectueusement.
En hâte, votre
G. D’A.
Ce 3 mai 1915.
Ode alla nazione Serba
Stefano soprannominato Dusciano dalle molte pie elemosine che fece (nell’anno 1346 pur al nostro santuario di San Nicola di Bari donò una rendita di dugento perperi in continuo per la cera) fu della stirpe nemànide quegli «che coronò la grandezza del nome serbico e forse ne preparò la ruina». Silni fu chiamato dal popol suo, cioè il Possente; e nella ragunata dell’anno 1340, in Scoplia, gridato cesare dei Serbi, dei Bulgari, dei Greci, e «primogenito di Cristo».
Lazaro Greblanovic, conte, creduto figliuolo naturale di Stefano, fu l’ultimo re grande di Serbia. Ebba Mìliza per donna, d’insigne sangue, d’animo insigne. Nell’anno 1389 sul piano di Cossovo fu dal Turco reciso a un tratto il vigore della nazione e a Lazaro il capo; che poi, gettato nella corrente, raggiò a miracolo. Venne il re misero dalla pietà della sua gente posto tra i santi, come confessore e martire della patria, in Ravàniza sepolto, nella chiesa da lui costrutta «del proprio pane e della propria ricchezza, e senza le lacrime dei poveretti».
Perirono in Cossovo, col sire, i nove prodi Giugovic, i nove figliuoli del vecchio Giugo Bogdano, fratelli di Mìliza infelice. «Ecco muore Bogdano il vecchio, e periscono i nove Giugovic, al par di nove candidi falchi, e tutta perisce l’oste loro» si narra nel carme eroico.
Vàlico fu, nel duro tempo di Giorgio il Nero (Kara-George), il più terribile degli aiduchi. La guerra egli amava per la guerra, sicché sempre pregava Dio che la Serbia non venisse in pace se non dopo la sua morte. Avendogli Giorgio assegnato la difesa della rocca di Negòtino e della terra circostante, egli con qualche migliaio d’uomini sostenne maravigliosamente, l’assedio. Senza più vettovaglia, senza munizione, senza speranza di soccorsi, in un mucchio di rovine fumanti, sotto la minaccia d’un nemico venti volte più numeroso, non cedette; anzi di giorno e di notte moltiplicò le sortite temerarie, sempre valido, ardente, fidente, gaio. Avendo avvistato in lontananza una compagnia di Serbi e volendo abboccarsi col capitano, monta a cavallo, salta il fosso; con la sciabola tra i denti, con la pistola nel pugno, seguito da un solo de’ suoi, traversa il campo ottomano a furia. Si toglie di bocca la lama per gridare, a squarciagola: «O cani, ecco l’aiduco Vàlico!» Nessuno osa contrastargli il passo. Compie egli il suo disegno e rivolge la briglia a gran galoppo. Fende di nuovo la ressa ostile gridando: «O cani, ecco l’aiduco Vàlico che torna!». Gli è libero il passo. Egli rientra in Negòtino fra le sue torri mezzo diroccate.
Ma fu, una mattina, nel fare la ronda, riconosciuto da un cannoniere turco e preso di mira. La palla lo colse, e in due lo spezzò. Ai suoi che accorrevano egli ebbe il fegato di gridare quella parola che oggi è la legge dei Serbi, la nostra, quella dei nostri alleati.
Vucàssino ammazzato il pio imperatore Urosio figliuolo del grande Stefano, usurpò il regno; ed ebbe titolo di despota in prima, poi di re di Serbia e di Romania. Guerreggiò sempre, in vicenda di vittorie e di sconfitte; e trovò morte alfine in battaglia campale, affogato nella Màriza sanguinosa (1372)
Celeberrimo dei suoi eredi il primogenito, Marco, detto Cralievic, cioè figliuolo del re, lo stupendo eroe cantato nel poemi epici della nazione serba. Quando Marco ebbe trecent’anni, trecent’anni di giustizia e di guerra, la Vila gli annunziò la morte prossima e Dio lo addormentò in un sonno che non si romperà se non quando gli si sguainerà da sé la lunga spada. Ecco, s’ode il suo grande cavallo macchiato nitrire, e la spada è già nuda…
Uno dei canti epici più belli racconta come Marco di Prìlipa giovinetto sia chiamato ad aggiudicare l’impero fra i contendenti. «Re Vucàssino dice: “è mio”. Uliesa despoto: “no, gli è mio”. Il voivoda Goico: “no, ch’è mio”.» Il giustissimo eroe lo aggiudica a quello che è da lui reputato legittimo erede. «Il libro dice: “ad Urosio l’impero”.»
Le Vile sono una sorta di deità che abitano i gioghi, i boschi, le fiumane. Vengono a soccorrere, a incitare, a consolare, a medicare i combattenti. Cavalcano sopra le nubi, sul crine dei monti, danzano sopra lance rizzate; annunziano, predicono, ammoniscono.
Sempre ebbero grande animo le donne serbe. Anche oggi combattono a piedi e a cavallo, come combatteva Ljùbiza, la moglie di Milosio Obrenovic; la quale rincuorò il marito che per lei «dalla fuga volò sùbito alla vittoria»; e sempre di poi ella «col vigore proprio accendeva lo spento coraggio de’ suoi».
Le patrizie veneziane Anna Dandolo (1217-1221) e Costanza Morosini (1321)furono regine di Serbia: e il patrizio fiorentino Esaù de’ Buondelmonti (1386-1403) sposò una donzella della Stirpe regia di Orosia.
FINE