PRES.XML
27 Gennaio 2019James Joyce
27 Gennaio 2019
Gabriele D’Annunzio
Libro Quarto delle LAUDI DEL CIELO DEL MARE DELLA TERRA E DEGLI EROI
La canzone del sangue
- In Cristo Re o Genova, t’invoco.
- Avvampi. Odo il tuo Cìntraco, nel caldo
- vento, gridarti che tu guardi il fuoco.
- Non Spinola né Fiesco né Grimaldo
- trae con la stipa. Il sangue del Signore
- bulica nella tazza di smeraldo.
- S’invermiglia a miracolo d’ardore
- il tuo bel San Lorenzo, come quando
- tornò di Cesarèa l’espugnatore.
- Tornò Guglielmo Embrìaco recando
- ai consoli giurati, in sul cuscino,
- tra la sesta e il bastone di comando,
- tra la coltella e il regolo, il catino
- ove Giuseppe e Nicodemo accolto
- aveano il sangue dell’Amor divino.
- Era desso, l’Embrìaco, figliuolto,
- quei che fece al Buglione il battifredo
- onde il vóto santissimo fu sciolto.
- Con le mani che diedero a Goffredo
- la scala invitta, sopra il popol misto
- levò la tazza. E il popol disse: «Credo».
- E ribolliva il sangue ad ogni acquisto
- di Terrasanta; e n’eri tutta rossa,
- il popolo gridando: «Cristo, Cristo!
- Cristo ne preste grazia che si possa
- andar di bene in meglio». E la Compagna
- incastellava cocca e galèa grossa.
- Così tu veleggiasti alla seccagna
- di Tripoli, con uno de’ tuoi Doria
- buon predatore, o Genova grifagna;
- ché padroni e nocchieri di Portoria
- e di Prè, stanchi d’oziare a bordo,
- tentarono l’impresa per galloria.
- Ed era un vile tirannello ingordo
- quivi, nato d’un fabbro saracino;
- e l’ebbero per palio in sul bigordo.
- Ogni roba condussero a bottino,
- ogni uom prigione. E pieno di tesoro
- fu l’ammiraglio quanto il pilotino.
- La terra spoglia come piacque a loro
- poi la vollero vendere a vergogna.
- per cinquanta e più milia doble d’oro.
- Poi cattarono altrove altra bisogna;
- e stettero tre mesi in su la guerra
- per le marine della Catalogna.
- O Genova, ma non l’istessa terra
- presa dalle tue quindici galere
- è quella ch’oggi il nostro acciaro serra;
- né di preda in pecunia ed in avere
- sottile, se il sangiacco dà la volta
- come l’altro, sarem noi per godere;
- né, quando bene glie l’avrem ritolta,
- a quetare i tribuni dell’Erario
- la venderemo noi un’altra volta.
- Odimi, pel sepolcro solitario
- del tuo Lamba colcato in San Matteo
- lungi al figlio che s’ebbe altro sudario;
- pel fonte del tuo picciol Battisteo
- donde al mare t’escì la grande schiatta
- sperta di mille vie come Odiseo,
- di mille astuzie aguta, assuefatta
- ai mali, contra i rischi pronta, a scotta
- tesa, a voga arrancata, a spada tratta,
- ìmproba e col gabbano e con la cotta,
- usa il giaco fasciar di mal entragno
- come di cuoia crude la barbotta,
- indomita a periglio ed a guadagno,
- or tutt’ala di remi al folle volo,
- or piantata nel sodo col calcagno;
- odimi, Mercatante, dal tuo molo,
- Guerriera, dal naval tuo sepolcreto,
- Auspice, dal tuo scoglio ignudo e solo,
- per l’ombra di quel semplice Assereto
- che, distolto da rògito o caparra
- e posto sopra il cassero, l’abeto
- trattò meglio che il calamo, la barra
- di battaglia assai meglio che il sigillo,
- contra il fior d’Aragona e di Navarra,
- vincitore di re su mar tranquillo,
- con gli infanti coi duchi e coi gran mastri
- aggiugnendo al trionfo un codicillo;
- odimi, Ascia di Dio. Se sotto gli astri
- d’un’altra state, tutti i tuoi rosai
- aulendo ne’ tuoi chini orti salmastri,
- tal si partì coi rossi marinai,
- con l’Amore e la Morte, del fraterno
- stuolo facendo un spirito, e giammai
- volse il bel capo verso il lido eterno,
- dubitoso di perdere Euridice
- che dietro sé traeva dall’Inferno;
- se t’ebbe inconsapevole nutrice
- l’esule smorto, tutto fronte e sguardo,
- il fuoruscito senza Beatrice,
- quegli che nel crepuscolo infingardo
- eresse il suo dolore come un rogo,
- il suo pensiero come uno stendardo,
- e nella carne stracca sotto il giogo
- il soffio ansò di quella terza vita
- ch’or freme ferve splende in ogni luogo,
- con te sì presso all’opera fornita
- è quel dèmone vindice che forma
- il suo mondo nell’anima infinita.
- Ben a tal piaggia, ove non è che l’orma
- dell’Immortale, o Madre delle Navi,
- ieri approdò la nostra prima torma.
- Non all’antica terra che forzavi
- con la balestra e col montone, dura
- in mettere a bottino, in trarre schiavi;
- ma alla terra che chiamano futura
- i messaggeri, alla terra dei figli,
- alla terra dell’Aquila futura.
- Come di tra i riversi orli vermigli
- delle pàlpebre gli occhi del piloto
- s’aguzzavano sotto i sopraccigli!
- Ché divinava egli per entro al vòto
- gorgo dell’aria un che di virginale
- e di sublime, quasi monte ignoto,
- simile al nudo culmine ove sale
- lo spirito, ov’edifica imminente
- lo spirito la grande arce spirtale.
- E chiuse, per veder profondamente,
- e chiuse egli le pàlpebre infiammate
- su le pupille insonni; e fu veggente.
- Per ciò, serva del Ciel, per ciò, primate
- del Mare santo, la Reliquia vedo
- ardere ed arrossar le tue navate.
- Con le mani che diedero a Goffredo
- la scala invitta, il rude espugnatore
- levò la tazza. E il popol disse: «Credo».
- O parola novissima d’amore,
- trascorri in nembo tutto l’Apennino
- e fa crosciar le selve al tuo clangore!
- Ecco il vaso di vita, ecco il catino
- ove Gesù nel vespero pasquale
- ai Dodici versò l’ultimo vino,
- e lor disse: «Quest’è il mio sangue; il quale
- è il sangue del novel patto, ed è sparso
- per molti». E s’indiava sopra il male.
- Quando clamò «Eloi!» dal cor riarso,
- nell’ora nona, un uom d’Arimatea
- venne; e in quel vaso accolse il sangue sparso.
- Quindi per alta grazia un’assemblea
- di Puri s’ebbe lo smeraldo sculto
- in custodia; e di loro il mondo ardea.
- Pari l’ebrezza del convito occulto
- era ad una immortalità precoce,
- ed il trapasso era un divino indulto.
- L’anima era visibile; la croce
- era senz’ombra; il pianto era rugiada;
- il silenzio era un inno senza voce.
- L’avversario era in capo d’ogni strada;
- la battaglia era un serto di faville;
- la giustizia era l’occhio della spada.
- Il futuro era un carme di sibille
- come di tessitrici glorianti;
- e la gloria era d’uno contro mille.
- O Mistero del Sangue! I duomi santi
- crollarono in un vespero, i templari
- furon sepolti sotto i marmi infranti.
- E un’orda venne, che coi limitari
- divelti, col rottame dei lavacri
- perfetti, con le mense degli altari,
- con le schegge dei grandi simulacri
- costrusse le sue case. Ed il porcile
- era murato di frammenti sacri.
- Ma i bianchi Astori lungi all’orda vile
- avean rapito il segno del reame.
- Odimi tu, latin sangue gentile!
- Odimi; ché di te sotto il velame
- io dico, e del miracolo repente
- onde un spirito fai di tanto ossame.
- Quale improvviso nella notte ardente
- di Cesarèa l’Embrìaco la tazza
- di salute rinvenne alla sua gente
- e, quella pósta su la galeazza
- come il palladio fu su la trireme,
- ricelebrò la gloria della razza,
- tal forse un genio indìgete del seme
- d’Enea ritorna a noi col divin segno
- dallo splendore delle sabbie estreme.
- Tra le palme invisibili arde il pegno
- del novo patto. Innanzi ch’Ei si sveli
- giura fede al Signor del novo regno,
- Italia, per gli aperti tuoi vangeli,
- e per la grande imagine che invoco,
- e per la gesta che t’allarga i cieli!
- «Chi stenderà la mano sopra il fuoco?»
- grida il Signore ai primi eroi comparsi
- «Chi stenderà la mano sopra il fuoco
- avrà quel fuoco per incoronarsi.»