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27 Gennaio 2019James Joyce
27 Gennaio 2019
Gabriele D’Annunzio
Libro Quarto delle LAUDI DEL CIELO DEL MARE DELLA TERRA E DEGLI EROI
La canzone dei trofei
- O Pisa, or tu sei vedova del mare,
- che stavi notte e dì per tener fronte
- in Tersanaia a fare, a racconciare,
- quando un bando di Chìnzica o di Ponte
- valeva a trarre in corso dai sessanta
- scali ben unti le galere pronte!
- Pende dal muro la catena infranta
- nel chiostro dove Andrea pinse Rinieri
- e i tuoi morti fiorìan la terra santa.
- La Porta a Mare è triste. Ma pur ieri
- nel tuo Vescovo il cor di Daiberto
- balzò, verso i trofei de’ Cavalieri.
- O Salerno, nel duomo dove offerto
- ti fu da Gian di Procita l’avorio
- e l’oro sovra i marmi di Ruberto,
- nell’ombra dove il settimo Gregorio
- grandeggia, non fanal di capitana,
- non stendardo d’emiro pel mortorio,
- non insegna, non spoglia musulmana
- hai, che tu orni in nome de’ tuoi grandi
- al tuo giovine eroe la coltre vana?
- Non egli è su la bara che inghirlandi;
- ma tu lo vedi, quasi fosse apparso.
- E lo chiami per nome e l’addimandi.
- Verginità del primo sangue sparso!
- Ne bevano le sabbie un più gran flutto;
- ma pur quel primo che sembrò sì scarso
- risplenderà sul giubilo e sul lutto
- più vermiglio e più fervido a Colei
- che sa pianger gli eroi con viso asciutto.
- O Gaeta, se in Sant’Erasmo sei
- a pregar pe’ tuoi morti, riconosci
- il Vessillo di Pio ne’ tuoi trofei,
- toglilo alla custodia perché scrosci
- come al vento di Lepanto tra i dardi
- d’Ali, mentre sul molo tristi e flosci
- sbarcano i prigionieri che tu guardi
- e che non puoi mettere al remo. O Cagliari,
- i quattrocento archibusieri sardi,
- che Don Giovanni d’Austria alla battaglia
- sotto il Vessillo nella sua Reale
- s’ebbe per incrollabile muraglia,
- hanno veduto verso il mare australe
- ardere il fuoco sopra Teulada
- e nella sera accorrono al segnale;
- ché vien pel mare d’Africa e dirada
- l’ombra con la bellezza della morte
- un che fu degno della lor masnada.
- Egli ha per buon compagno, o Carloforte
- che il ferro e il fuoco sai del predatore
- e la sferza e la stanga e le ritorte,
- un de’ tuoi figli che nel suo furore
- se ne sovvenne e, per i mille schiavi
- di quel settembre, ebbe di mille il cuore.
- Marinai, marinai, sopra le navi
- e dentro le trincere, a bordo e a terra,
- in ogni rischio e con ogni arme bravi,
- fatti dalla tempesta per la guerra,
- nel silenzio mirabili e nel grido,
- infaticati sempre, a bordo e a terra,
- di voi s’irraggi e palpiti ogni lido
- d’Italia mentre per la mia più grande
- Italia qui la vostra gloria incido.
- Non le piagge che adorna di ghirlande
- amare il flutto ove le sue melodi
- Undulna dea dal piè d’argento scande,
- ma oggi loderò con le mie lodi
- l’acqua oleosa lungo le banchine
- sonanti per gli imbarchi e per gli approdi,
- l’acqua opaca ove colan le sentine
- e nuotano i tritumi del carbone,
- le fecce dei cavalli, le farine
- delle sacca sventrate, il bariglione
- rotto, la buccia putrida, la lorda
- schiuma che ingialla il piede del pilone,
- mentre alla gru che cigolando assorda
- l’aria imbracato il bove da macello
- pencola come botte che sciaborda.
- Canto l’acqua dei porti. Odo l’appello
- rude, il commiato, il grido. I reggimenti
- partono. Ogni uomo armato è il mio fratello.
- Veggo gli occhi brillare, veggo i denti
- rilucere. Odo il lastrico del molo
- rombar sotto la marcia. Sono ardenti
- i vólti come se li ardesse un solo
- riverbero, o il sorriso d’una sola
- madre, di quella grande. Ogni figliuolo
- oggi ha sol quella, e in cuore la parola
- che alfine irruppe dalla bocca forte.
- Guerra! E’ il croscio dell’Aquila che vola.
- Guerra! Una gente balza dalla morte,
- s’arma, s’assolve nell’eucaristia
- del mare, e salpa verso la sua sorte.
- Non più si volge indietro. Guerra! Sia
- per giorni, sia per mesi, sia per anni
- ella combatterà nella sua via.
- Canto la libertà. Quali tiranni
- furono uccisi? quali mostri vinti?
- Qual forza li atterrò? di quanti inganni,
- di che frodi senili erano cinti?
- Chi diede al falso tempio il grande crollo?
- Le colonne piegarono su i plinti.
- Il precone stampato fu col bollo
- rovente nella palma della mano
- e nel dosso restìo, sino al midollo.
- Strascicandosi contra l’uragano
- gioioso che lo tratta come balla
- di cenci, or vocia nella piazza in vano.
- E marchiatelo ancóra su la spalla
- e su la fronte! Poi gli sia concessa
- la buona greppia nella buona stalla.
- Altra parola è data, altra promessa.
- Canto il domani e canto la canzone
- dei secoli; ché l’anima è trasmessa.
- A mira di balestra o di cannone
- l’occhio è ben quello, che non batte ciglio.
- Dritto è il silùro come lo sperone.
- Canto la forza antica e nova, figlio
- d’una carne vivente e d’infinita
- progenie. O tu che m’odi, io ti somiglio.
- Ma il balestriere, chino alla bastita
- o alzato sul carroccio, anco in me vive.
- L’anima eterna è il vaso della vita.
- Canto le stive, le profonde stive
- piene d’armi, di viveri, di tende,
- di bottame; le maestranze attive
- su i ponti apparecchiati ove risplende
- forbito ogni metallo. I battaglioni
- giungono. Il cielo è prode, con vicende
- di nubi e di chiarìe, con padiglioni
- immensi, con falangi impetuose.
- E tutta la città par che si doni.
- E diffuso è l’amore su le cose
- come un ciel più vicino, simigliante
- al vólto delle madri coraggiose.
- Non sul vólto, nell’anima son piante
- le lacrime divine e trionfali,
- mentre il silenzio fa le labbra sante.
- Gloria della città! Passano l’ali
- ripiegate dell’uomo, i grandi ordegni
- di Dedalo, le macchine campali
- fatte di tesa canape e di legni
- lievi, che porteran l’uomo e l’atroce
- sua folgore su i fragili sostegni.
- E le gole d’acciaio senza voce
- passano, che laggiù nel lor linguaggio
- conciso parleranno, dal veloce
- affusto tratte al ciglio del villaggio,
- lungo il palmeto, sopra le trincere,
- davanti ai pozzi. Romba il carriaggio
- su la selce. Seduto è l’artigliere
- sul cofano. Conduce a coppia a coppia
- i cavalli gagliardi il cavaliere.
- L’applauso scroscia, un gran clamore scoppia.
- Repente il sole batte su la faccia
- giovenile, sul pezzo, su la doppia
- groppa. E l’affusto trascinato a braccia
- nella sabbia ove il mare s’impantana
- vedo! Chi mai cancellerà la traccia
- dentro le dune della Giuliana?
- Il vento, il flutto, l’uomo, il tempo? E’ immota.
- Gloria a te, batteria siciliana!
- Canto il selvaggio anelito, la gota
- che gronda, il lungo sforzo a testa bassa,
- i polsi tra le razze della rota,
- le spalle che sollevano la cassa
- e la portano, l’ordine del fuoco,
- la mira, il primo colpo nella massa
- nemica, il suolo raso, l’urlo roco
- delle strozze riarse ad ogni schiera
- abbattuta, l’allegro ardor del gioco;
- o Ameglio, e il ferro freddo; e la bandiera
- tua vecchia, o Quarto Reggimento, issata
- su la Berca nel soffio della sera.
- Canto la Morte, alata e illuminata
- come la prima legge della luce.
- La vita è meno fertile. E’ rinata
- da lei l’alta bellezza. Ella produce
- le semenze che noi nella ruina
- seminerem cantando. Ella conduce
- le Muse, conduttrice più divina
- d’Apollo. Non ha tombe ma trofei.
- E’ tutt’avvolta d’aria mattutina
- come la messaggera degli dei.
- I più giovini eroi sono i suoi gigli.
- O Gloria, ed ella è là dove tu sei.
- O Primavera, e tu le rassomigli.
- Mentre che soffia il vento del Deserto,
- ella infiamma gli anemoni vermigli.
- Canto la Gloria cerula, dal serto
- alternato di rostri e di muraglie,
- che ride se il combattimento è incerto.
- Immune dall’orror delle battaglie,
- è bella come Roma nel suo trono
- e Siracusa nelle sue medaglie.
- Come sul mar risponde il tuono al tuono,
- il presente al passato in lei risponde;
- e la mia corda duplice è il suo dono.
- Conculcate le stirpi moribonde
- ella fa dell’Italia dai tre mari
- la grande Patria dalle quattro sponde.
- Quando nei nostri porti gli alti fari
- s’accendono, ella sfolgora da ostro
- sola nelle foschie crepuscolari.
- E, vòlto verso lei notturna, il nostro
- sogno ansioso vigila il mattino.
- E il mattino per noi sorge da ostro.
- Sorge con uno strepito marino,
- tra le grida gioiose dei messaggi
- che gridano il gentil sangue latino:
- gridano i reggimenti e gli equipaggi,
- gridano i morti, gridano i feriti
- le vittorie da’ bei nomi selvaggi,
- gli eroi dai nomi oscuri ingigantiti.
- Bu-Meliana, Sidi-Messri, Sciara-
- Sciat, Henni! Par che al lauro si mariti
- la palma. Tutta l’oasi è un’ara
- fumante. Verri, Granafei, Briona,
- Orst, Bertasso, Gangitano, Fara,
- Moccagatta, Spinelli! Un nome suona
- la morte, l’altro la vita. E la morte
- e la vita son come una corona
- sola composta di due fronde attorte.
- Severo dal suo grande Arco sorride:
- il battaglione è come la coorte.
- Foss’io come colui che i nomi incide
- col ferro aguzzo nella nuda stele
- ad eternar la gesta ch’egli vide!
- O Roma, almen quello del tuo fedele
- inciderò nel fulvo travertino,
- e il tuo modo: «Coi remi e con le vele».
- O Roma, e mentre al giovine Latino
- «Velis remisque» nella pietra intaglio,
- scorgo l’Ombra del grande suo vicino.
- Guarda la fresca tomba l’Ammiraglio,
- quegli che fece co’ suoi nervi soli
- a San Giorgio di Lissa il suo travaglio.
- «Gittai buon seme» ei dice. Si consoli
- per quell’Ombra e s’inebrii del suo pianto
- la madre di Riccardo Grazioli.
- E tu resta, o Canzone, in camposanto.
- Annotta. Sta fra l’una e l’altra tomba;
- e veglia, incoronata d’amaranto.
- Alla diana sonerai la tromba.