Daniela Notarbartolo
27 Gennaio 2019This is the page
27 Gennaio 2019da “I ricordi del Capitano d’Arce” (1891)
Novelle di Giovanni Verga
Se un angelo del cielo fosse disceso a promettere sul serio la dolce lusinga che Casalengo credevasi obbligato di tubare tratto tratto all’orecchio roseo della signora Silverio, nei momenti buoni: – Per sempre uniti! – L’uno dell’altro! – Sempre! – lei, no. Lei non ne diceva delle sciocchezze, neanche in quei momenti…
Ora poi, da che aveva corso il pericolo di vedersi cascare fra capo e collo tanta felicità, per l’imprudenza di un domestico – da che suo marito stava in guardia e minacciava una catastrofe, era diventata prudente, in modo da far disperare Casalengo, l’imprudente! – Ah, no, mio caro! Se sapeste, che paura! –
La bomba scoppiò all’improvviso, quando meno la povera signora sentivasi disposta a dar fuoco alle polveri: uno di quei colpi di vento o di follìa che vi fanno perdere la bussola. E Casalengo l’aveva persa davvero dietro a quella donna che rassegnavasi docilmente al supplizio di non riceverlo più da solo a solo – specie quando la incontrava al ballo o in teatro, e non poteva neppure metterle un bacio sull’omero nudo. Qualcosa gli diceva: – Bada, essa non è più quella di prima. C’è qualcosa, un pensiero fisso, un segreto, un altro, negli occhi che ti guardano, nelle labbra che ti sorridono, nel gesto, nel suono della voce. Proprio! il vostro peccato, che vi si rivolta contro, e vi punisce…
– Ginevra! E’ impossibile durarla così… quando si ama… se mi amate ancora…
– Ingrato! – ribatté lei, fermandosi un minuto solo, sull’uscio della sala da giuoco.
– Perdonatemi… Avete ragione… sempre. Ma mettetevi nei miei panni, s’è vero che mi amate…
– Lasciatemi! Lui s’è voltato a guardarci… Avete visto? –
Aveva ragione, sempre, lei; anche quando rideva e civettava in mezzo a una folla di cicisbei per sviare i sospetti; mentre lui doveva tenersi in corpo il dubbio, la febbre, la gelosia, in fino! la smania di sapere e di toccare con mano la sua disgrazia, di stringersela fra le braccia, e di conficcarsela ben bene nel cuore – costretto a mostrarsi disinvolto anche lui, onde evitare il ridicolo, allorché finalmente ella volle offrirgli una tazza di thè, nel vano di una finestra.
– Grazie. Me la son meritata. E’ vero.
– Ma… secondo. Lasciatemi guardarvi in viso…
– Ah no! Non facciamo imprudenze! Io, per esempio, potrei vedere nel vostro qualcos’altro…
– Che cosa?
– Lui…
– Lui, chi?
– Lui, quell’altro… Vedete se sono buono! –
Il poveretto arrivava a bruciarle sotto il naso il granellino d’incenso della gelosia amabile. Una cosa deliziosa. Ella, ridendo, diceva di no, di no, col sì negli occhi.
– Un altro, chi? Siete matto?
– Che so io… il sogno di stanotte, il chiaro di l’una, la canzone che passa, l’ultima parola che vi è rimasta nell’orecchio, fra tante… forse senza che ve ne siate accorta voi stessa… –
Casalengo si batteva i fianchi, non potendo combattere il rivale incognito ch’era inutile cercare, ch’ella non avrebbe confessato giammai, e che non osava forse confessare a se stessa, ancora. Una voce gli diceva all’orecchio, a lui pure: – E’ inutile, tutto ciò che farai aggraverà i tuoi torti di geloso che ha dei diritti, ed è diventato un ostacolo. Non potrai essere con lei né magnanimo, né dispotico, e neanche innamorato, quasi. Se minacci t’avvilisci, e se piangi sei ridicolo. L’ultimo di cotesti imbecilli che le fanno la corte ha un gran vantaggio su di te. Non puoi mostrarti a lei né umile, né minaccioso, né indifferente, né sospettoso. Comunque ella ti risponda, sdegnosa, o docile, o tranquilla, o timida, ti butterà egualmente in faccia un rimprovero, un’accusa, una di quelle parole che rompono braccia e gambe, e fanno chinare il capo: «Seccatore!» Bisogna umiliarti colle finzioni, scendere alle indagini tortuose, rassegnarti al supplizio stesso che hai inflitto al marito di lei: la pena del taglione, il castigo di Dio, poiché c’è giustizia lassù anche per queste cose: e diventare odioso come un marito, peggio ancora, perché tu sei legato a lei soltanto da quel vincolo ch’essa vorrebbe mettersi sotto i piedi. Tu non hai la scusa della Famiglia e dello scandalo da evitare, quando non hai il coraggio di rompere quella catena; non hai il diritto e la legge, per costringere e dominare la donna di cui sei geloso; non puoi averla sotto gli occhi a tutte le ore per spiarla; non hai l’interesse per difenderti, né la scelta del momento per riconquistarla. Le stesse armi con le quali hai combattuto ti si ritorcono contro: le astuzie, i ripieghi inesauribili che ella sapeva trovare, il sangue freddo nei momenti difficili che ammiravi in lei, e il candore delle bugie che ti sembravano deliziose nella sua bocca… E l’ebbrezza della vittoria, poi! il ricordo di certi momenti che ti si ficca nelle carni col sospetto di un rivale latente fra te e lei… –
Proprio un affare serio, anche per un uomo meno innamorato di Casalengo – giacché l’immagine di un rivale passato, presente o futuro c’entra un po’ in tutti i romanzi del cuore. Una tentazione da farvi perdere il lume degli occhi.
– Sentite, Ginevra!… E’ assurdo… quando si ama… se si ama… non cercare… non trovare in tutta Napoli un cantuccio, un momento per ritrovarsi, come prima… fosse anche per cinque minuti soli… A meno che…
– A meno che, nulla! Lo sapete e avete torto -.
Pure gli aveva accordato quell’appuntamento, proprio perché non ne aveva voglia, per lealtà, perché era un’imprudenza e un pericolo serio in quel momento, col marito che le stava alle costole, e sembrava fiutasse in aria qualcosa anche lui. Giel’aveva accordato fors’anche perché indovinava i sospetti di lui, e sentivasi colpevole, in fondo in fondo.
Le donne hanno di coteste delicatezze che noi uomini non arriveremo mai a comprendere.
– Ebbene, – gli disse, – giacché lo volete assolutamente… Sia pure. Ditemi quando e dove… Non importa. Cercate voi -.
Casalengo aveva trovato: un alberguccio losco che essendo brutto assai sembravagli non potesse essere scoperto da altri. Essa ripeté:
– Sia pure… dove volete. Non importa -.
Prese a due mani il suo coraggio e le sue sottane, e salì in punta di piedi quella scaletta sudicia, sfidando alteramente gli sguardi avidi e indiscreti del servitore bisunto, appena velata da un pezzetto di trina che si era cacciata in tasca, come non s’era curata del viso che aveva fatto la cameriera vedendola uscire a quell’ora e vestita così dimessamente, come s’era rassegnata all’insolenza del lazzarone che l’aveva scarrozzata sino ai vicoletto oscuro, dopo mille andirivieni sospetti, ghignando ed ammiccando alla gente che incontrava, per accusare il soffietto traballante sotto il quale tentava di nascondersi la povera signora messa così alla berlina, rinfacciandole al termine della corsa: – Cinque lire? A chi le date? Un servizio come questo! –
Casalengo aspettava dietro la finestra, colle tendine calate, il cuore in sussulto, innamorato sino ai capelli, dopo tanto tempo che non si erano più visti… o quasi. Essa entrò senza esitare, pallidissima, premendosi il petto anche lei. Ritirò la mano che egli le aveva presa, e cavò dal manicotto una boccettina che fiutò a lungo, senza rispondergli, senza muovere un passo, guardandosi intorno cogli occhi lucenti: degli occhi in cui erano tante cose, all’infuori dello smarrimento e dell’abbandono che aspettava lui. Però, in quel momento Alvise vide soltanto lei, bella, bianca, bionda, odorosa, sola con lui. E la ringraziava colla voce tremante, col cuore traboccante di riconoscenza e d’ardore, col viso acceso, colle mani tremanti. Accarezzava il manicotto e i guanti di lei; le faceva dolce violenza per attirarla vicino a lui, sul canapè a grandi fiori gialli e rossi: – Cara Ginevra… Bella e buona tanto!… Finalmente!… Povera bimba… come le batte il cuore!… Qui, qui sul mio!…
– Ditemi, – rispose invece lei, sempre colla boccetta sotto il naso. – Non potreste aprire quella finestra?
– Ah! – esclamò Casalengo, lasciandosi cadere le braccia. – Ah! –
Ella si pentì subito d’essersi lasciata sfuggire quelle parole che erano state una fitta al cuore del povero innamorato, e sedette rassegnata, scusandosi col dire:
– Ma si soffoca qui!…
– Perdonatemi… C’è un mondo di gente alla finestra dirimpetto… Non ho potuto trovare di meglio… per la vostra sicurezza…
– Vi ringrazio. Avete ragione -.
Adesso rimanevano in silenzio l’uno rimpetto all’altra, imbarazzati e quasi cerimoniosi. Talché lei, buona in fondo, se ne avvide, e volle togliersi i guanti e la veletta, per compiacenza, cercando ove posarli. Poi, a buon conto, cacciò ogni cosa nel manicotto, che si tenne in grembo.
– Scusatemi, Alvise… Vi sembrerò strana… Sono tutta… così… –
Alvise continuava a tacere, seduto di faccia a lei, guardandola fissamente, tristamente. E nei suoi occhi un sentimento nuovo, una grande amarezza balenava. Infine, con voce mutata, nella quale tradivasi suo malgrado quell’angoscia, le disse:
– Ahimè, Ginevra… siete come una che non ama più! –
Anch’essa allora alzò gli occhi splendenti, guardandolo fisso, con un sorriso amaro all’angolo della bocca.
– Avete ragione a dirmi ciò… adesso… e qui!…
– Ah! Non vedete quanto soffro? Non sentite che vi amo come un pazzo? Non avete indovinato tutte le torture?… –
Vinto dalla commozione, dal desiderio, dalla passione, si lasciò trascinare a dirle tutto: le angosce, i palpiti, il dubbio, le notti passate sotto le sue finestre, la febbre che gli metteva addosso solamente quella breve striscia del suo polso nudo, i castelli in aria, i sogni, le follie… tutto, tutto, proprio come un bambino: l’abbandono intero che tanto piace alle donne. Essa gli posò infatti le mani sui capelli, quasi per accarezzarlo, commossa di vedersi ai piedi la forte giovinezza di quel fanciullo di trent’anni, come abbandonandosi anche lei, per riconoscenza. Soltanto, vedendogli luccicare le lagrime negli occhi, tornò fredda come prima.
– No… ecco… Ho avuto una gran paura… Ecco cos’è…
– Paura di che, povera bimba?…
– Ma di lui, mio caro. Si fa presto a dire… Vorrei vedervici voi! –
E anch’essa sciorinò allora tutto ciò che aveva patito e temuto, dal giorno che suo marito era entrato in sospetto. Non si riconosceva più quell’uomo. Un Otello addirittura! Dormiva col revolver sotto il guanciale. Una paura atroce, un batticuore continuo… Se incontrava lui, Casalengo… se non lo vedeva… temendo che un gesto o una parola lo tradisse… trasalendo a ogni lettera che portava la posta… se udiva il campanello… Ogni cosa che la metteva sottosopra… l’umore del marito, il contegno dei domestici…
– Insomma una cosa da far venire i capelli bianchi, amico mio!
– Ebbene! – esclamò Casalengo raggiante, stringendole le mani da farle male, seduto ai piedi di lei, supplicandola cogli occhi innamorati, accarezzandola col sorriso ebbro. – Ebbene!…
– Ebbene! che cosa?
– Fuggiamo insieme!… lontano da Napoli!… in capo al mondo!… Troveremo pure un nido dove nascondere la nostra felicità!… –
Ella spalancò gli occhi, attonita, quasi le avessero proposto di condurla alla luna in pallone, d’andare a un ballo in veste da camera, di camminare a testa in giù. Sicché il lirismo e l’entusiasmo del povero innamorato caddero a un tratto. Ma lei, vedendolo così mortificato, ripigliò immediatamente, mettendogli la mano sulla bocca:
– Zitto!… zitto!… per carità… –
Cercò di fargli intendere ragione, di farlo rientrare in se stesso, quel gran fanciullone, proprio colle buone, con dolcezza, abbandonandogli le mani anche, purché non ne parlasse più… Egli non ne parlava più infatti, baciava e ribaciava quell’epidermide fine e profumata, risalendo lungo il braccio, sollevandosi sulle ginocchia.
Allora la bella Ginevra tornò ad avere la paura di prima.
– Badate, Alvise!… Siete proprio sicuro che nessuno m’abbia vista?… Voglio dire che nessuno abbia potuto vedermi… mentre venivo?…
– Ma… certamente…
– Perché… m’è sembrato che qualcuno mi seguisse… una carrozzella, sì… dalla Villa sino a Foria… E anche nel salir la scala… Lui non pareva risolversi ad uscire. M’ha chiesto se andavo al concerto… Siete sicuro della gente di questa casa?
– Sicurissimo… Chi volete… Nessuno vi conosce… –
Alvise non connetteva più, dal momento che quella manina gli si era posata sulla bocca. Cercava le parole, balbettava, tentava di rifarsi al punto di prima e di riguadagnare il tempo perso, indispettito di vederselo fuggire a quel modo, stupidamente, dopo tanti ostacoli e tante difficoltà per trovarsi un’ora insieme!… Ma lei però aveva il coraggio di pensare a tante altre cose in quel momento; badava a difendere la sua veletta e il manicotto!…
– No… davvero… Alvise… Ho paura!…
– Ah, sì!… la carrozzella… Foria… la scala!…
– Ecco! – rispose lei corrucciata. – Ecco come siete!
– Ma io sono come uno che ama, cara mia! Non ho i vostri ma e i vostri se… E neanche voi li avevate, prima…
– Ecco! ecco! Me lo merito!
– Oh, Ginevra!… oh!… –
Ella si era messo il fazzoletto agli occhi: un’altra gran tentazione, il profumo di quel fazzoletto, e le lagrime di quegli occhi! Alvise le afferrò di nuovo le mani, baciandole, baciando il fazzoletto, gli occhi, il vestito, fuori di sé, delirante, chiedendole se l’amava ancora, proprio, tutta tutta, se sentiva anche lei quello struggimento e quella frenesia. Essa diceva di sì, di sì coi cenni del capo, col rossore del viso, col tremito delle mani, abbandonandoglisi a poco a poco, mutandosi in viso, fissandolo col turbamento delizioso negli occhi, balbettando anche lei, vinta alla fine:
– Non vedete… Non vedi… Sarei qui forse?… Vi pare che sia una cosa da nulla?…
– Sì, è vero! Perdonatemi, povera bimba! Bimbetta bella e cara!… Come batte quel cuoricino!… Anch’io, sai!… Ma è un’altra cosa… Non è vero?… Guardami! Sorridimi! E’ stato un gran affare, eh, questa scappata?… Un colpo di testa?… Non siam fatti per le tempeste grosse dell’amore! Preferiamo la maretta che ci culla e ci accarezza!… Non è vero? di’, confessalo! Siamo un po’ civettuole anche! Ci piace di vederci corteggiare e di far perdere la testa al nostro prossimo, eh?… Di’! di’!… Tutti coloro che ti corrono dietro e sospirano alla luna!… Confessalo! Confessati! Dimmi, chi è l’amante della luna adesso? colui che sospira di più per la mia Ginevra? Lo sai? te ne sei accorta? ti piace, di’… ti piace far disperare il prossimo tuo?… –
Ella sorrideva proprio come una bimba, stordita, commossa, riconoscente di quella nuova adulazione, dicendo di no, di no, che amava il suo Alvise, lui solo! E gli buttò anche le braccia al collo. Tanto che lui non disse più nulla e ricominciò a parlare soltanto coi baci, dei baci che se la mangiavano viva, e le facevano mettere dei piccoli gridi soffocati:
– No!… no!… Davvero!… Zitto!… Sento proprio rumore. Lì… nella scala, dietro l’uscio!… sentite?…
– Ah!… quella scala maledetta!… –
Ma Alvise s’arrestò lui pure a un tratto, udendo realmente il rumore di un alterco sul pianerottolo, poiché il cameriere voleva guadagnarsi coscienziosamente la sua mancia, e difendeva energicamente l’ingresso del santuario. Una voce li fece allibire entrambi, la voce di Silverio. L’uscio sgangherato si spalancò a un tratto, e apparve lui, il marito, Otello, cieco di rabbia e di gelosia – e stavolta poi con ragione, almeno all’apparenza. – Il cuore le parlava, a lei!
Ciò che allora accadde può bene immaginarsi; perché anche dei gentiluomini, in certe occasioni, perdono il lume degli occhi tale e quale come dei semplici facchini. Una scena terribile e tale da guarire in un momento di ogni tentazione passata e futura la povera donna che faceva sforzi disperati per svenirsi. Mai più, mai più poté levarsi dagli occhi il gesto di Alvise che aggiustavasi la cravatta, cercando il cappello per uscire insieme al suo nemico mortale, e andare a tagliarsi la gola d’amore e d’accordo. Fuori di sé, derelitta, andò un’ora dopo a bussare alla porta di lui.
Alvise parve stupefatto.
– Voi!… qui!
– Oramai… – balbettò ella smarrita. – Oramai… siete il mio amante…
– Ma no, amor mio!… è impossibile!…
– E dove volete che vada adesso?
– A casa vostra. Non temete. Vostro marito è un gentiluomo. Tutto si è accomodato.
– Accomodato, in che modo?
– Non sarà fatta parola di voi nella questione fra me e vostro marito… Ci sarà di mezzo un’altra donna… una che non avrà nulla da perdere.
– Nessuno vi crederà.
– Non importa che credano. Ma bisogna che sia così. Vostro marito partirà immediatamente per un lungo viaggio… Voi sarete libera…
– Ah!…
– Credetemi!… – diss’egli stringendole forte le mani, quasi colle lagrime agli occhi. – Credetemi che darei tutto il mio sangue perché non fosse avvenuto tutto ciò! –
Ella gli si buttò fra le braccia, piangendo tutte le sue lagrime, abbandonandosi interamente all’uomo che un’ora prima cercava un nido in capo al mondo per andare a nascondervi il loro amore e la loro felicità. Adesso invece cercava di calmare la povera Ginevra, preoccupato dei riguardi che doveva alla riputazione di lei, ai ma e ai se che le aveva rimproverato poco prima, cercando di farle comprendere le esigenze mondane che un’ora avanti voleva farle mettere sotto i piedi, un po’ pallido, malgrado il suo coraggio provato, tutto un altr’uomo, imbarazzato, esitante, guardando l’uscio e l’orologio ogni momento, rispettoso e delicato, uomo di mondo sino ai capelli, è vero, ma un uomo di mondo cui sia caduta una tegola sul capo, e gli sia rimasta fra le braccia una gatta da pelare, per usare la frase gentile che nessuno dice e tutti pensano in casi simili.
– Infine… – proruppe, – cara Ginevra… aspetto qualcuno… Non potete farvi trovare qui da questo qualcuno… –
Il senso morale è industrioso in tanti modi. E non è a dire che Casalengo ne fosse peggio dotato degli altri. Quando il suo rivale se lo vide sotto la mira della pistola, con quella faccia, disse piano agli amici che l’assistevano: – Ecco un uomo morto -.
Certo non mancò per lui, che gli piantò due pollici di ferro fra le costole, e lo mise a letto per un pezzetto. La signora viaggiò tutto quel tempo, almeno si disse. E se pure andò a trovare il suo amico, di nascosto, proprio da suora di carità, non se ne seppe mai nulla ufficialmente. Le lettere, per andare da lei a lui, facevano un lungo giro, coll’aiuto di un’amica fidata. Talché quando la signora Ginevra riaprì il suo appartamento in via Partenope, libera e sola, più bella e più elegante che mai, fu una gara fra le signore e gli uomini in voga a darvisi ritrovo. Alvise vi andò cogli altri, all’ora del thè, un giorno che il salotto era pieno di gente, e la bella Silverio faceva gran festa a tutti.
– Ah, Casalengo! Bravo! Temevo che fosse partito, o che mi avesse dimenticata -.
Egli vi ritornò altre volte, nei giorni di ricevimento e anche dopo. Si fermava allo sportello della sua carrozza, al passeggio; e andava a salutarla nel palchetto, al San Carlo. Era sempre uno degli intimi, come prima, il cavalier servente dell’elegante mondana, mentre il marito di lei viaggiava lontano, talché non c’era persona che sapesse vivere la quale invitando la signora Ginevra dimenticasse di invitare Casalengo, e viceversa. Proprio il nido d’amore, tappezzato da Levera, e col terrazzino sul golfo di Napoli per contemplare le stelle, e la luna di miele. Erano liberi, soli e senza alcun sospetto. Ma non era più la stessa cosa, o almeno non era più la stessa cosa di prima. Nella loro felicità aprivasi una lacuna, una crepa in cui s’abbarbicavano delle male piante che aduggiavano il bel sole d’amore e facevano impaccio alle parole e alle cose gentili. Lei, infine, non sapeva perdonare a Casalengo l’inchino profondo, l’aria troppo rispettosa con la quale veniva a salutarla, in teatro, al ballo, fra i suoi amici. Lui aggrottava le ciglia suo malgrado, tal quale come Silverio, se qualcheduno di essi mostravasi più appiccichino degli altri, più assiduo e premuroso degli altri verso di lei – tacendole le sue pene, oppure stordendola col cinguettarle alle orecchie delle sciocchezze che la facessero ridere. – Le conosceva anche lui le arti di cotesti seccatori… e anche lei un po’ civettuola lo era stata sempre… per incoraggiare ogni sciocchezza che le tubassero all’orecchio.
– Una noia, cara Ginevra!… Non capisco come certuni si buttino addosso a una signora e le facciano gli occhi dolci per dirle magari: buona sera!
– Quello che facevate voi, mio caro… allora… nei bei tempi… Quando vi dicevo: «Né mai, né sempre….» -.