Vita di Galileo
27 Gennaio 2019ATTO QUARTO
27 Gennaio 2019Giosuè Carducci
ODI BARBARE
PRELUDIO
Odio l’usata poesia: concede
comoda al vulgo i flosci fianchi e senza
palpiti sotto i consueti amplessi
4 stendesi e dorme.
A me la strofe vigile, balzante
co ‘l plauso e ‘l piede ritmico ne’ cori:
per l’ala a volo io còlgola, si volge
8 ella e repugna.
Tal fra le strette d’amator silvano
torcesi un’evia su ‘l nevoso Edone:
più belli i vezzi del fiorente petto
12 saltan compressi,
e baci e strilli su l’accesa bocca
mesconsi: ride la marmorea fronte
al sole, effuse in lunga onda le chiome
16 fremono a’ venti.
DELLE ODI BARBARE
LIBRO I
IDEALE
Poi che un sereno vapor d’ambrosia
da la tua coppa diffuso avvolsemi,
o Ebe con passo di dea
4 trasvolata sorridendo via;
non più del tempo l’ombra o de l’algide
cure su ‘l capo mi sento; sentomi,
o Ebe, l’ellenica vita
8 tranquilla ne le vene fluire.
E i ruinati giú pe ‘l declivio
de l’età mesta giorni risursero,
o Ebe, nel tuo dolce lume
12 agognanti di rinnovellare;
e i novelli anni da la caligine
volenterosi la fronte adergono,
o Ebe, al tuo raggio che sale
16 tremolando e roseo li saluta.
A gli uni e gli altri tu ridi, nitida
stella, da l’alto. Tale ne i gotici
delúbri, tra candide e nere
20 cuspidi rapide salïenti
con doppia al cielo fila marmorea,
sta su l’estremo pinnacol placida
la dolce fanciulla di Jesse
24 tutta avvolta di faville d’oro.
Le ville e il verde piano d’argentei
fiumi rigato contempla aerea,
le messi ondeggianti ne’ campi,
28 le raggianti sopra l’alpe nevi:
a lei d’intorno le nubi volano;
fuor de le nubi ride ella fulgida
a l’albe di maggio fiorenti,
32 a gli occasi di novembre mesti.
ALL’AURORA
Tu sali e baci, o dea, co ‘l rosëo fiato le nubi,
2 baci de’ marmorëi templi le fosche cime.
Ti sente e con gelido fremito destasi il bosco,
4 spiccasi il falco a volo su con rapace gioia;
mentre ne l’umida foglia pispigliano garruli i nidi,
6 e grigio urla il gabbiano su ‘l vïolaceo mare.
Primi nel pian faticoso di te s’allegrano i fiumi
8 tremuli luccicando tra ‘l mormorar de’ pioppi:
corre da i paschi baldo v’èr’ l’alte fluenti il poledro
10 sauro, dritto il chiomante capo, nitrendo a’ venti:
vigile da i tuguri risponde la forza de i cani
12 e di gagliardi mugghi tutta la valle suona.
Ma l’uom che tu svegli a oprar consumando la vita,
14 te giovinetta antica, te giovinetta eterna
ancor pensoso ammira, come già t’adoravan su ‘l monte
16 ritti fra i bianchi armenti i nobili Aria padri.
Ancor sovra l’ali del fresco mattino rivola
18 l’inno che a te su l’aste disser poggiati i padri.
– Pastorella del cielo, tu, frante a la suora gelosa
20 le stalle, riadduci le rosse vacche in cielo.
Guidi le rosse vacche, guidi tu il candido armento
22 e le bionde cavalle care a i fratelli Asvini.
Come giovine donna che va da i lavacri a lo sposo
24 riflettendo ne gli occhi il desïato amore,
tu sorridendo lasci caderti i veli leggiadri
26 e le virginee forme scuopri serena a i cieli.
Affocata le guance, ansante dal candido petto,
28 corri al sovran de i mondi, al bel fiammante Suria,
e il giungi, e in arco distendi le rosee braccia al gagliardo
30 collo; ma tosto fuggi di quel tremendo i rai.
Allora gli Asvini gemelli, cavalieri del cielo,
32 rosea tremante accolgon te nel bel carro d’oro;
e volgi verso dove, misurato il cammino di gloria,
34 stanco ti cerchi il nume ne i mister de la sera.
Deh propizia trasvola – cosí t’invocavano i padri –
36 nel rosseggiante carro sopra le nostre case.
Arriva da le plaghe d’orïente con la fortuna,
38 con le fiorenti biade, con lo spumante latte;
ed in mezzo a’ vitelli danzando con floride chiome
40 molta prole t’adori, pastorella del cielo. –
Cosí cantavano gli Aria. Ma piàcqueti meglio l’Imetto
42 fresco di vénti rivi, che al ciel di timi odora:
piàcquerti su l’Imetto i lesti cacciatori mortali
44 prementi le rugiade co ‘l coturnato piede.
Inchinaronsi i cieli, un dolce chiarore vermiglio
46 ombrò la selva e il colle, quando scendesti, o dea.
Non tu scendesti, o dea: ma Cefalo attratto al tuo bacio
48 salía per l’aure lieve, bello come un bel dio.
Su gli amorosi venti salía, tra soavi fragranze,
50 tra le nozze de i fiori, tra gl’imenei de’ rivi.
La chioma d’oro lenta irriga il collo, a l’omero bianco
52 con un cinto vermiglio sta la faretra d’oro.
Cadde l’arco su l’erbe; e Lèlapo immobil con erto
54 il fido arguto muso mira salire il sire.
Oh baci d’una dea fragranti tra la rugiada!
56 oh ambrosia de l’amore nel giovinetto mondo!
Ami tu anche, o dea? Ma il nostro genere è stanco;
58 mesto il tuo viso, o bella, su le cittadi appare.
Languon fiocchi i fanali; rincase, e né meno ti guarda,
60 una pallida torma che si credé gioire.
Sbatte l’operaio rabbioso le stridule impòste,
62 e maledice al giorno che rimena il servaggio.
Solo un amante forse che placida al sonno commise
64 la dolce donna, caldo de’ baci suoi le vene,
alacre affronta e lieto l’aure tue gelide e il viso:
66 – Portami -, dice, – Aurora, su ‘l tuo corsier di fiamma!
ne i campi de le stelle mi porta, ond’io vegga la terra
68 tutta risorridente nel roseo lume tuo,
e vegga la mia donna davanti al sole che leva
70 sparsa le nere trecce giú pe ‘l rorido seno. –
NELL’ANNUALE DELLA FONDAZIONE DI ROMA
Te redimito di fior purpurei
april te vide su ‘l colle emergere
da ‘l solco di Romolo torva
4 riguardante su i selvaggi piani:
te dopo tanta forza di secoli
aprile irraggia, sublime, massima,
e il sole e l’Italia saluta
8 te, Flora di nostra gente, o Roma.
Se al Campidoglio non più la vergine
tacita sale dietro il pontefice
né più per Via Sacra il trionfo
12 piega i quattro candidi cavalli,
questa del Fòro tua solitudine
ogni rumore vince, ogni gloria;
e tutto che al mondo è civile,
16 grande, augusto, egli è romano ancora.
Salve, dea Roma! Chi disconósceti
cerchiato ha il senno di fredda tenebra,
e a lui nel reo cuore germoglia
20 torpida la selva di barbarie.
Salve, dea Roma! Chinato a i ruderi
del Fòro, io seguo con dolci lacrime
e adoro i tuoi sparsi vestigi,
24 patria, diva, santa genitrice.
Son cittadino per te d’Italia,
per te poeta, madre de i popoli,
che desti il tuo spirito al mondo,
28 che Italia improntasti di tua gloria.
Ecco, a te questa, che tu di libere
genti facesti nome uno, Italia,
ritorna, e s’abbraccia al tuo petto,
32 affisa ne’ tuoi d’aquila occhi.
E tu dal colle fatal pe ‘l tacito
Fòro le braccia porgi marmoree,
a la figlia liberatrice
36 additando le colonne e gli archi:
gli archi che nuovi trionfi aspettano
non più di regi, non più di cesari,
e non di catene attorcenti
40 braccia umane su gli eburnei carri;
ma il tuo trionfo, popol d’Italia,
su l’età nera, su l’età barbara,
su i mostri onde tu con serena
44 giustizia farai franche le genti.
O Italia, o Roma! quel giorno, placido
tornerà il cielo su ‘l Fòro, e cantici
di gloria, di gloria, di gloria
48 correran per l’infinito azzurro.
DINANZI ALLE TERME DI CARACALLA
Corron tra ‘l Celio fosche e l’Aventino
le nubi: il vento dal pian tristo move
umido: in fondo stanno i monti albani
4 bianchi di nevi.
A le cineree trecce alzato il velo
verde, nel libro una britanna cerca
queste minacce di romane mura
8 al cielo e al tempo.
Continui, densi, neri, crocidanti
versansi i corvi come fluttuando
contro i due muri ch’a più ardua sfida
12 levansi enormi.
– Vecchi giganti, – par che insista irato
l’augure stormo – a che tentate il cielo? –
Grave per l’aure vien da Laterano
16 suon di campane.
Ed un ciociaro, nel mantello avvolto,
grave fischiando tra la folta barba,
passa e non guarda. Febbre, io qui t’invoco,
20 nume presente.
Se ti fûr cari i grandi occhi piangenti
e de le madri le protese braccia
te deprecanti, o dea, da ‘l reclinato
24 capo de i figli:
se ti fu cara su ‘l Palazio eccelso
l’ara vetusta (ancor lambiva il Tebro
l’evandrio colle, e veleggiando a sera
28 tra ‘l Campidoglio
e l’Aventino il reduce quirite
guardava in alto la città quadrata
dal sole arrisa, e mormorava un lento
32 saturnio carme);
Febbre, m’ascolta. Gli uomini novelli
quinci respingi e lor picciole cose:
religïoso è questo orror: la dea
36 Roma qui dorme.
Poggiata il capo al Palatino augusto,
tra ‘l Celio aperte e l’Aventin le braccia,
per la Capena i forti omeri stende
40 a l’Appia via.
ALLA VITTORIA
TRA LE ROVINE DEL TEMPIO DI VESPASIANO IN BRESCIA
Scuotesti, vergin divina, l’auspice
ala su gli elmi chini de i pèltasti,
poggiasti il ginocchio a lo scudo,
4 aspettanti con l’aste protese?
o pur volasti davanti l’aquile,
davanti i flutti de’ marsi militi,
co ‘l miro fulgor respingendo
8 gli annitrenti cavalli de i Parti?
Raccolte or l’ali, sopra la galea
del vinto insisti fiera co ‘l poplite,
qual nome di vittorïoso
12 capitano su ‘l clipeo scrivendo?
E’d’un arconte, che sovra i despoti
gloriò le sante leggi de’ liberi?
d’un consol, che il nome i confini
16 e il terror de l’impero distese?
Vorrei vederti su l’Alpi, splendida
fra le tempeste, bandir ne i secoli:
“O popoli, Italia qui giunse
20 vendicando il suo nome e il diritto.”
Ma Lidia intanto de i fiori ch’èduca
mesti l’ottobre da le macerie
romane t’elegge un pio serto,
24 e, ponendol soave al tuo piede,
– Che dunque – dice – pensasti, o vergine
cara, là sotto ne la terra umida
tanti anni? sentisti i cavalli
28 d’Alemagna su ‘l greco tuo capo? –
– Sentii – risponde la diva, e folgora –
però ch’io sono la gloria ellenica,
io sono la forza del Lazio
32 traversante nel bronzo pe’ tempi.
Passâr l’etadi simili a i dodici
avvoltoi tristi che vide Romolo
e sursi “O Italia” annunziando
36 “i sepolti son teco e i tuoi numi!”
Lieta del fato Brescia raccolsemi,
Brescia la forte, Brescia la ferrea,
Brescia leonessa d’Italia
40 beverata nel sangue nemico. –
ALLE FONTI DEL CLITUMNO
Ancor dal monte, che di foschi ondeggia
frassini al vento mormoranti e l’unge
per l’aure odora fresco di silvestri
4 salvie e di timi,
scendon nel vespero umido, o Clitumno,
a te le greggi: a te l’umbro fanciullo
la riluttante pecora ne l’onda
8 immerge, mentre
v’èr lui dal seno de la madre adusta,
che scalza siede al casolare e canta,
una poppante volgesi e dal viso
12 tondo sorride:
pensoso il padre, di caprine pelli
l’anche ravvolto come i fauni antichi,
regge il dipinto plaustro e la forza
16 de’ bei giovenchi,
de’ bei giovenchi dal quadrato petto,
erti su ‘l capo le l’unate corna,
dolci ne gli occhi, nivëi, che il mite
20 Virgilio amava.
Oscure intanto fumano le nubi
su l’Apennino: grande, austera, verde
da le montagne digradanti in cerchio
24 l’Umbrïa guarda.
Salve, Umbria verde, e tu del puro fonte
nume Clitumno! Sento in cuor l’antica
patria e aleggiarmi su l’accesa fronte
28 gl’itali iddii.
Chi l’ombre indusse del piangente salcio
su’ rivi sacri? ti rapisca il vento
de l’Apennino, o molle pianta, amore
32 d’umili tempi!
Qui pugni a’ verni e arcane istorie frema
co ‘l palpitante maggio ilice nera,
a cui d’allegra giovinezza il tronco
36 l’edera veste:
qui folti a torno l’emergente nume
stieno, giganti vigili, i cipressi;
e tu fra l’ombre, tu fatali canta
40 carmi, o Clitumno.
O testimone di tre imperi, dinne
come il grave umbro ne’ duelli atroce
cesse a l’astato velite e la forte
44 Etruria crebbe:
di’ come sovra le congiunte ville
dal superbo Címino a gran passi
calò Gradivo poi, piantando i segni
48 fieri di Roma.
Ma tu placavi, indigete comune
italo nume, i vincitori a i vinti,
e, quando tonò il punico furore
52 dal Trasimeno,
per gli antri tuoi salí grido, e la torta
lo ripercosse buccina da i monti:
– O tu che pasci i buoi presso Mevania
56 caliginosa,
e tu che i proni colli ari alla sponda
del Nar sinistra, e tu che i boschi abbatti
sopra Spoleto verdi o ne la marzia
60 Todi fai nozze,
lascia il bue grasso tra le canne, lascia
il torel fulvo a mezzo solco, lascia
ne l’inclinata quercia il cuneo, lascia
64 la sposa a l’ara;
e corri, corri, corri! con la scure
corri e co’ dardi, con la clava e l’asta!
corri! minaccia gl’itali penati
68 Annibal diro. –
Deh come rise d’alma luce il sole
per questa chiostra di bei monti, quando
urlanti vide e ruinanti in fuga
72 l’alta Spoleto
i Mauri immani e i númidi cavalli
con mischia oscena, e, sovra loro, nembi
di ferro, flutti d’olio ardente, e i canti
76 de la vittoria!
Tutto ora tace. Nel sereno gorgo
la tenue miro salïente vena:
trema, e d’un lieve pullular lo specchio
80 segna de l’acque.
Ride sepolta a l’imo una foresta
breve, e rameggia immobile: il diaspro
par che si mischi in flessuosi amori
84 con l’ametista.
E di zaffiro i fior paiono, ed hanno
de l’adamante rigido i riflessi,
e splendon freddi e chiamano a i silenzi
88 del verde fondo.
A piè de i monti e de le querce a l’ombra
co’ fiumi, o Italia, è de’ tuoi carmi il fonte.
Visser le ninfe, vissero: e un divino
92 talamo è questo.
Emergean lunghe ne’ fluenti veli
naiadi azzurre, e per la cheta sera
chiamavan alto le sorelle brune
96 da le montagne,
e danze sotto l’imminente l’una
guidavan, liete ricantando in coro
di Giano eterno e quanto amor lo vinse
100 di Camesena.
Egli dal cielo, autoctona virago
ella: fu letto l’Apennin fumante:
velaro i nembi il grande amplesso, e nacque
104 l’itala gente.
Tutto ora tace, o vedovo Clitumno,
tutto: de’ vaghi tuoi delúbri un solo
t’avanza, e dentro pretestato nume
108 tu non vi siedi.
Non più perfusi del tuo fiume sacro
menano i tori, vittime orgogliose,
trofei romani a i templi aviti: Roma
112 più non trionfa.
Più non trionfa, poi che un Galileo
di rosse chiome il Campidoglio ascese,
gittolle in braccio una sua croce, e disse
116 – Portala, e servi. –
Fuggîr le ninfe a piangere ne’ fiumi
occulte e dentro i cortici materni,
od ululando dileguaron come
120 nuvole a i monti,
quando una strana compagnia, tra i bianchi
templi spogliati e i colonnati infranti,
procedé lenta, in neri sacchi avvolta,
124 litanïando,
e sovra i campi del lavoro umano
sonanti e i clivi memori d’impero
fece deserto, et il deserto disse
128 regno di Dio.
Strappâr le turbe a i santi aratri, a i vecchi
padri aspettanti, a le fiorenti mogli;
ovunque il divo sol benedicea,
132 maledicenti.
Maledicenti a l’opre de la vita
e de l’amore, ei deliraro atroci
congiungimenti di dolor con Dio
136 su rupi e in grotte:
discesero ebri di dissolvimento
a le cittadi, e in ridde paurose
al crocefisso supplicaro, empi,
140 d’essere abietti.
Salve, o serena de l’Ilisso in riva,
o intera e dritta a i lidi almi del Tebro
anima umana! i foschi dí passaro,
144 risorgi e regna.
E tu, pia madre di giovenchi invitti
a franger glebe e rintegrar maggesi,
e d’annitrenti in guerra aspri polledri
148 Italia madre,
madre di biade e viti e leggi eterne
ed inclite arti a raddolcir la vita,
salve! a te i canti de l’antica lode
152 io rinnovello.
Plaudono i monti al carme e i boschi e l’acque
de l’Umbria verde: in faccia a noi fumando
ed anelando nuove industrie in corsa
156 fischia il vapore.
ROMA
Roma, ne l’aer tuo lancio l’anima altera volante:
2 accogli, o Roma, e avvolgi l’anima mia di luce.
Non curïoso a te de le cose piccole io vengo:
4 chi le farfalle cerca sotto l’arco di Tito?
Che importa a me se l’irto spettral vinattier di Stradella
6 mesce in Montecitorio celie allobroghe e ambagi?
e se il lungi operoso tessitor di Biella s’impiglia,
8 ragno attirante in vano, dentro le reti sue?
Cingimi, o Roma, d’azzurro, di sole m’illumina, o Roma:
10 raggia divino il sole pe’ larghi azzurri tuoi.
Ei benedice al fosco Vaticano, al bel Quirinale,
12 al vecchio Capitolio santo fra le ruine;
e tu da i sette colli protendi, o Roma, le braccia
14 a l’amor che diffuso splende per l’aure chete.
Oh talamo grande, solitudini de la Campagna!
16 e tu Soratte grigio, testimone in eterno!
Monti d’Alba, cantate sorridenti l’epitalamio;
18 Tuscolo verde, canta; canta, irrigua Tivoli;
mentr’io da ‘l Gianicolo ammiro l’imagin de l’urbe,
20 nave immensa lanciata v’èr’ l’impero del mondo.
O nave che attingi con la poppa l’alto infinito,
22 varca a’ misterïosi liti l’anima mia.
Ne’ crepuscoli a sera di gemmeo candore fulgenti
24 tranquillamente lunghi su la Flaminia via,
l’ora suprema calando con tacita ala mi sfiori
26 la fronte, e ignoto io passi ne la serena pace;
passi a i concilii de l’ombre, rivegga li spiriti magni
28 de i padri conversanti l’ungh’esso il fiume sacro.
ALESSANDRIA
A GIUSEPPE REGALDI QUANDO PUBBLICÒ “L’EGITTO”
Ne l’aula immensa di Lussor, su ‘l capo
roggio di Ramse il mistico serpente
sibilò ritto e ‘l vulture a sinistra
4 volò stridendo,
e da l’immenso serapèo di Memfi,
cui stanno a guardia sotto il sol candente
seicento sfingi nel granito argute,
8 Api muggío,
quando da i verdi immobili papiri
di Mareoti al livido deserto
sonò, tacendo l’aure intorno, questo
12 greco peana.
– Ecco, venimmo a salutarti, Egitto,
noi figli d’Elle, con le cetre e l’aste.
Tebe, dischiudi le tue cento porte
16 ad Alessandro.
Noi radduciamo a Giove Ammone un figlio
ch’ei riconosca; questo caro alunno
de la Tessaglia, questa bella e fiera
20 stirpe d’Achille.
Come odoroso läureto ondeggia
a lui la chioma: la sua rosea guancia
par Tempe in fiore: ha ne’ grand’occhi il sole
24 ch’ a Olimpia ride:
ha de l’Egeo la radïante in viso
pace diffusa; se non quando, bianche
nuvole, i sogni passanvi di gloria
28 e poesia.
Ei de la Grecia a la vendetta balza
leon da l’aspra tessala falange,
sgomina carri ed elefanti, abbatte
32 satrapi e regi.
Salve, Alessandro, in pace e in guerra iddio!
A te la cetra fra le eburnee dita,
a te d’argento il fulgid’arco in pugno,
36 presente Apollo!
A te i colloqui di Stagira, i baci
a te co’ serti de le ionie donne,
a te la coppa di Lieo spumante,
40 a te l’Olimpo.
Lisippo in bronzo ed in colori Apelle
ti tragga eterno: ti sollevi Atene,
chete de’ torvi demagoghi l’ire,
44 al Partenone.
Noi ti seguiamo: il Nilo in vano occulta
i dogmi e il capo a la possanza nostra:
noi farem pace qui tra i numi e al mondo
48 luce comune.
E se ti piaccia aggiogar tigri e linci,
Bacco novello, noi verrem cantando,
te duce, in riva al sacro Gange i sacri
52 canti d’Omero. –
Tale il peana de gli achei sonava.
E il giovin duce, liberato il biondo
capo da l’elmo, in fronte a la falange
56 guardava il mare.
Guardava il mare e l’isola di Faro
innanzi, a torno il libico deserto
interminato: dal sudato petto
60 l’aurea corazza
sciolse, e gittolla splendida nel piano:
– Come la mia macedone corazza
stia nel deserto e a’ barbari ed a gli anni
64 regga Alessandria. –
Disse; ed i solchi a le nascenti mura
ei disegnava per ottanta stadi,
bianco spargendo su le flave arene
68 fior di farina.
Tale il nipote del Pelíde estrusse
la sua cittade; e Faro, inclito nome
di luce al mondo, illuminò le vie
72 d’Africa e d’Asia.
E non il flutto del deserto urtante
e non la fuga de i barbarici anni
valse a domare quella balda figlia
76 del greco eroe.
Alacre, industre, a la sua terza vita
ella sorgea, sollecitando i fati,
qual la vedesti, o pellegrin poeta,
80 ammiratore,
quando fuggendo la incombente notte
di tirannia, pien d’inni il caldo ingegno,
ivi chiedendo libertade e luce
84 a l’orïente,
e su le tombe di turbanti insculte
star la colonna di Pompeo vedesti
come la forza del pensier latino
88 su ‘l torbid’evo.
Deh, le speranze de l’Egitto e i vanti
nel tuo volume vivano, o poeta!
Oggi Tifone l’ire del deserto
92 agita e spira.
Sepolto Osiri, il latratore Anubi
morde a i calcagni la fuggente Europa,
e avanti chiama i bestïali numi
96 a le vendette.
Ahi vecchia Europa, che su ‘l mondo spargi
l’irrequïeta debolezza tua,
come la triste fisa a l’orïente
100 sfinge sorride!
IN UNA CHIESA GOTICA
Sorgono e in agili file dilungano
gl’immani ed ardui steli marmorei,
e ne la tenebra sacra somigliano
4 di giganti un esercito
che guerra mediti con l’invisibile:
le arcate salgono chete, si slanciano
quindi a vol rapide, poi si rabbracciano
8 prone per l’alto e pendule.
Ne la discordia cosí de gli uomini
di fra i barbarici tumuli salgono
a Dio gli aneliti di solinghe anime
12 che in lui si ricongiungono.
Io non Dio chieggovi, steli marmorei,
arcate aeree: tremo, ma vigile
al suon d’un cognito passo che piccolo
16 i solenni echi suscita.
E’Lidia, e volgesi: lente nel volgersi
le chiome lucide mi si disegnano,
e amore e il pallido viso fuggevoli
20 tra il nero velo arridono.
Anch’ei, tra ‘l dubbio giorno d’un gotico
tempio avvolgendosi, l’Alighier, trepido
cercò l’imagine di Dio nel gemmeo
24 pallore d’una femina.
Sott’esso il candido vel, de la vergine
la fronte limpida fulgea ne l’estasi,
mentre fra nuvoli d’incenso fervide
28 le litanie salíano;
salian co’ murmuri molli, co’ fremiti
lieti saliano d’un vol di tortore,
e poi con l’ululo di turbe misere
32 che al ciel le braccia tendono.
Mandava l’organo pe’ cupi spazii
sospiri e strepiti: da l’arche candide
parea che l’anime de’ consanguinei
36 sotterra rispondessero.
Ma da le mitiche vette di Fiesole
tra le pie storie pe’ vetri roseo
guardava Apolline: su l’altar massimo
40 impallidiano i cerei.
E Dante ascendere tra inni d’angeli
la tosca vergine transfigurantesi
vedea, sentiasi sotto i piè ruggere
44 rossi d’inferno i baratri.
Non io le angeliche glorie né i démoni,
io veggo un fievole baglior che tremola
per l’umid’aere: freddo crepuscolo
48 fascia di tedio l’anima.
Addio, semitico nume! Continua
ne’ tuoi misterii la morte domina.
O inaccessibile re de gli spiriti,
52 tuoi templi il sole escludono.
Cruciato martire tu cruci gli uomini,
tu di tristizia l’aër contamini:
ma i cieli splendono, ma i campi ridono,
56 ma d’amore lampeggiano
gli occhi di Lidia. Vederti, o Lidia,
vorrei tra un candido coro di vergini
danzando cingere l’ara d’Apolline
60 alta ne’ rosei vesperi
raggiante in pario marmo tra i lauri,
versare anemoni da le man, gioia
da gli occhi fulgidi, dal labbro armonico
64 un inno di Bacchilide.
NELLA PIAZZA DI SAN PETRONIO
Surge nel chiaro inverno la fosca turrita Bologna,
2 e il colle sopra bianco di neve ride.
E’l’ora soave che il sol morituro saluta
4 le torri e ‘l tempio, divo Petronio, tuo;
le torri i cui merli tant’ala di secolo lambe,
6 e del solenne tempio la solitaria cima.
Il cielo in freddo fulgore adamàntino brilla;
8 e l’aër come velo d’argento giace
su ‘l foro, lieve sfumando a torno le moli
10 che levò cupe il braccio clipeato de gli avi.
Su gli alti fastigi s’indugia il sole guardando
12 con un sorriso languido di vïola,
che ne la bigia pietra nel fosco vermiglio mattone
14 par che risvegli l’anima de i secoli,
e un desio mesto pe ‘l rigido aëre sveglia
16 di rossi maggi, di calde aulenti sere,
quando le donne gentili danzavano in piazza
18 e co’ i re vinti i consoli tornavano.
Tale la musa ride fuggente al verso in cui trema
20 un desiderio vano de la bellezza antica.
LE DUE TORRI
ASINELLA
Io d’Italia dal cuor tra impeti d’inni balzai
quando l’Alpi di barbari snebbiarono
e su ‘l populeo Po pe ‘l verde paese i carrocci
4 tutte le trombe reduci suonavano.
GARISENDA
Memore sospirai sorgendo e la fronte io piegai
su le ruine e su le tombe. Irnerio
curvo tra i gran volumi sedeva e di Roma la grande
8 lento parlava al palvesato popolo.
ASINELLA
Bello di maggio il dí ch’io vidi su ‘l ponte di Reno
passar la gloria libera del popolo,
sangue di Svevia, e te chinare la bionda cervice
12 a l’ondeggiante rossa croce italica.
GARISENDA
Triste mese di maggio, che intorno al bel corpo d’Imelda
cozzâr le spade de i fratelli e corsero
lunghi quaranta giorni le furie civili crollando
16 tra ‘l vasto sangue l’ardue torri in polvere.
ASINELLA
Dante vid’io levar la giovine fronte a guardarci,
e, come su noi passano le nuvole,
vidi su lui passar fantasmi e fantasmi ed intorno
20 premergli tutti i secoli d’Italia.
GARISENDA
Sotto vidimi il papa venir con l’imperatore
l’un a l’altro impalmati; ed oh me misera,
in suo giudicio Dio non volle che io ruinassi
24 su Carlo quinto e su Clemente settimo!
FUORI ALLA CERTOSA DI BOLOGNA
Oh caro a quelli che escon da le bianche e tacite case
2 de i morti il sole! Giunge come il bacio d’un dio:
bacio di luce che inonda la terra, mentre alto ed immenso
4 cantano le cicale l’inno di messidoro.
Il piano somiglia un mare superbo di fremiti e d’onde:
6 ville, città, castelli emergono com’isole.
Slanciansi lunghe tra ‘l verde polveroso e i pioppi le strade:
8 varcano i ponti snelli con fughe d’archi il fiume.
E tutto è fiamma ed azzurro. Da l’alpe là giú di Verona
10 guardano solitarie due nuvolette bianche.
Delia, a voi zefiro spira da ‘l colle pio de la Guardia
12 che incoronato scende da l’Apennino al piano,
v’agita il candido velo, e i ricci commove scorrenti
14 giú con le nere anella per la superba fronte.
Mentre domate i ribelli, gentil, con la mano, chinando
16 gli occhi onde tante gioie promette in vano Amore,
udite (a voi de le Muse lo spirito in cuore favella),
18 udite giú sotterra ciò che dicono i morti.
dormono a piè qui del colle gli avi umbri che ruppero primi
20 a suon di scuri i sacri tuoi silenzi, Apennino:
dormon gli etruschi discesi co ‘l liuto con l’asta con fermi
22 gli occhi ne l’alto a’ verdi misterïosi clivi,
e i grandi celti rossastri correnti a lavarsi la strage
24 ne le fredde acque alpestri ch’ei salutavan Reno,
e l’alta stirpe di Roma, e il lungo-chiomato lombardo
26 ch’ultimo accampò sovra le rimboschite cime.
Dormon con gli ultimi nostri. Fiammeggia il meriggio su ‘l colle:
28 udite, o Delia, udite ciò che dicono i morti.
Dicono i morti – Beati, o voi passeggeri del colle
30 circonfusi da’ caldi raggi de l’aureo sole.
Fresche a voi mormoran l’acque pe ‘l florido clivo scendenti,
32 cantan gli uccelli al verde, cantan le foglie al vento.
A voi sorridono i fiori sempre nuovi sopra la terra:
34 a voi ridon le stelle, fiori eterni del cielo. –
Dicono i morti – Cogliete i fiori che passano anch’essi,
36 adorate le stelle che non passano mai.
Putridi squagliansi i serti d’intorno i nostri umidi teschi:
38 ponete rose a torno le chiome bionde e nere.
Freddo è qua giú: siamo soli. Oh amatevi al sole! Risplenda
40 su la vita che passa l’eternità d’amore. –
SU L’ADDA
Corri, tra’ rosei fuochi del vespero,
corri, Addua cerulo: Lidia su ‘l placido
fiume, e il tenero amore,
4 al sole occiduo naviga.
Ecco, ed il memore ponte dilungasi:
cede l’aereo de gli archi slancio,
e al liquido s’agguaglia
8 pian che allargasi e mormora.
Le mura dirute di Lodi fuggono
arrampicandosi nere al declivio
verde e al docile colle.
12 Addio, storia de gli uomini.
Quando il romuleo marte ed il barbaro
ruggîr ne’ ferrei cozzi, e qui vindice
la rabbia di Milano
16 arse in itali incendii,
tu ancor dal Lario verso l’Eridano
scendevi, o Addua, con desio placido,
con murmure solenne,
20 giú pe’ taciti pascoli.
Quando su ‘l dubbio ponte tra i folgori
passava il pallido còrso, recandosi
di due secoli il fato
24 ne l’esile man giovine,
tu il molto celtico sangue ed il teutono
lavavi, o Addua, via: su le tremule
acque il nitrico fumo
28 putrido disperdeasi.
Moriano gli ultimi tuon de la folgore
franca ne i concavi seni: volgeasi
da i limpidi lavacri
32 il bue candido, attonito.
Ov’è or l’aquila di Pompeo? l’aquila
ov’è de l’ispido sir di Soavia
e del pallido còrso?
36 Tu corri, o Addua cerulo.
Corri tra’ rosei fuochi del vespero,
corri, Addua cerulo: Lidia su ‘l placido
fiume, e il tenero amore,
40 al sole occiduo naviga.
Sotto l’olimpico riso de l’aere
la terra palpita: ogni onda accendesi
e trepida risalta
44 di fulgidi amor turgida.
Molle de’ giovani prati l’effluvio
va sopra l’umido pian: l’acque a’ margini
di gemiti e sorrisi
48 un suon morbido frangono.
E il legno scivola lieve: tra le uberi
sponde lo splendido fiume devolvesi:
trascorrono de’ campi
52 i grandi alberi, e accennano,
e giú da gli alberi, su da le floride
siepi, per l’auree strisce e le rosee,
s’inseguono gli augelli
56 e amore ilari mescono.
Corri tra’ rosei fuochi del vespero,
corri, Addua cerulo: Lidia su ‘l placido
fiume naviga, e amore
60 d’ambrosia irriga l’aure.
Tra’ pingui pascoli sotto il sole aureo
tu con Eridano scendi a confonderti:
precipita a l’occaso
64 il sole infaticabile.
O sole, o Addua corrente, l’anima
per un elisio dietro voi naviga:
ove ella e il mutuo amore,
68 o Lidia, perderannosi?
Non so; ma perdermi lungi da gli uomini
amo or di Lidia nel guardo languido,
ove nuotano ignoti
72 desiderii e misterii.
DA DESENZANO
A G. R.
Gino, che fai sotto i felsinei portici?
mediti come il gentil fior de l’Ellade
d’Omero al canto e a lo scalpel di Fidia
4 lieto sorgesse nel mattin de i popoli?
Da l’Asinella gufi e nibbi stridono
invidïando e i cari studi rompono.
Fuggi, deh fuggi da coteste tenebre
8 e al tuo poeta, o dolce amico, vientene.
Vienne qui dove l’onda ampia del lidio
lago tra i monti azzurreggiando palpita:
vieni: con voce di faleuci chiàmati
12 Sirmio che ancor del suo signore allegrasi.
Vuole Manerba a te rasene istorie,
vuole Muníga attiche fole intessere,
mentre su i merli barbari fantasimi
16 armi ed amori con il vento parlano.
Ascoltiam sotto anacreòntea pergola
o a la platonia verde ombra de’ platani,
freschi votando gl’innovati calici
20 che la Riviera del suo vino imporpora.
Dolce tra i vini udir lontane istorie
d’atavi, mentre il divo sol precipita
e le pie stelle sopra noi viaggiano
24 e tra l’onde e le fronde l’aura mormora.
Essi che queste amene rive tennero
te, come noi, bel sole, un dí goderono,
o ti gittasser belve umane un fremito
28 da le lacustri palafitte, o agili
Veneti a l’onda le cavalle dessero
trepida e fredda nel mattino roseo,
o co ‘l tirreno lituo segnassero
32 nel mezzogiorno le pietrose acropoli.
Gino, ove inteso a le vittorie retiche
o da le dacie glorïoso il milite
in vigil ozio l’aquile romulee
36 su ‘l lago affisse ricantando Cesare,
ivi in fremente selva Desiderio
agitò a caccia poi cignali e daini,
fermo il pensiero a la corona ferrea
40 fulgida in Roma per la via de’ Cesari.
Gino, ove il giambo di Catullo rapido
l’ala aprí sovra la distesa cerula,
Lesbia chiamando tra l’odor de’ lauri
44 con un saliente gemito per l’aere,
ivi il compianto di lombarde monache
salmodïando ascese v’èr’ la candida
l’una e la requie mormorò su i giovani
48 pallidi stesi sotto l’asta francica.
E calerem noi pur giú tra i fantasimi
cui né il sol veste di fulgor purpureo
né le pie stelle sovra il capo ridono
52 né de la vite il frutto i cuor letifica.
Duci e poeti allor, fronti sideree,
ne moveranno incontro, e “Di qual secolo
– dimanderanno – di qual triste secolo
56 a noi venite, pallida progenie?
A voi tra’ cigli torva cura infóscasi
e da l’angusto petto il cuore fumiga.
Non ne la vita esercitammo il muscolo,
60 e discendemmo grandi ombre tra gl’inferi”.
Gino, qui sotto anacreòntea pergola
o a la platonia verde ombra de’ platani,
qui, tra i bicchieri che il vin fresco imporpora,
64 degna risposta meditiamo. Versasi
cerula notte sovra il piano argenteo,
move da Sirmio una canora imagine
giú via per l’onda che soave mormora
68 riscintillando a al curvo lido infrangesi.
SIRMIONE
Ecco: la verde Sirmio nel lucido lago sorride,
2 fiore de le penisole.
Il sol la guarda e vezzeggia: somiglia d’intorno il Benaco
4 una gran tazza argentea,
cui placido olivo per gli orli nitidi corre
6 misto a l’eterno lauro.
Questa raggiante coppa Italia madre protende,
8 alte le braccia, a i superi;
ed essi da i cieli cadere vi lasciano Sirmio,
10 gemma de le penisole.
Baldo, paterno monte, protegge la bella da l’alto
12 co ‘l sopracciglio torbido:
il Gu sembra un titano per lei caduto in battaglia,
14 supino e minaccevole.
Ma incontro le porge dal seno l’unato a sinistra
16 Salò le braccia candide,
lieta come fanciulla che in danza entrando abbandona
18 le chiome e il velo a l’aure,
e ride e gitta fiori con le man piene, e di fiori
20 le esulta il capo giovine.
Guarda là in fondo solleva la ròcca sua fosca
22 sovra lo specchio liquido,
cantando una saga d’antiche cittadi sepolte
24 e di regine barbare.
Ma qui, Lalage, donde per tanta pia gioia d’azzurro
26 tu mandi il guardo e l’anima,
qui Valerio Catullo, legato giú a’ nitidi sassi
28 il fasélo britinico,
sedeasi i lunghi giorni, e gli occhi di Lesbia ne l’onda
30 fosforescente e tremula,
e ‘l perfido riso di Lesbia e i multivoli ardori
32 vedea ne l’onda vitrea,
mentr’ella stancava pe’ neri angiporti le reni
34 a i nepoti di Romolo.
A lui da gli umidi fondi la ninfa del lago cantava
36 – Vieni, o Quinto Valerio.
Qui ne le nostre grotte discende anche il sole, ma bianco
38 e mite come Cintia.
Qui de la vostra vita gli assidui tumulti un lontano
40 d’api sussurro paiono,
e nel silenzio freddo le insanie e le trepide cure
42 in lento oblio si sciolgono.
Qui ‘l fresco, qui ‘l sonno, qui musiche leni ed i cori
44 de le cerule vergini,
mentr’Espero allunga la rosea face su l’acque
46 e i flutti al lido gemono. –
Ahi triste Amore! egli odia le Muse, e lascivo i poeti
48 frange o li spegne tragico.
Ma chi da gli occhi tuoi, che lunghe intentano guerre,
50 chi ne assecura, o Lalage?
Cogli a le pure Muse tre rami di lauro e di mirto,
52 e al Sole eterno li agita.
Non da Peschiera vedi natanti le schiere de’ cigni
54 giú per il Mincio argenteo?
da’ verdi paschi dove Bianore dorme non odi
56 la voce di Virgilio?
Volgiti, Lalage, e adora. Un grande severo s’affaccia
58 a la torre scaligera.
– Suso in Italia bella – sorridendo ei mormora, e guarda
60 l’acqua la terra e l’aere.
DAVANTI IL CASTEL VECCHIO DI VERONA
Tal mormoravi possente e rapido
sotto i romani ponti, o verde Adige,
brillando dal limpido gorgo,
4 la tua scorrente canzone al sole,
quando Odoacre dinanzi a l’impeto
di Teodorico cesse, e tra l’erulo
eccidio passavan su i carri
8 diritte e bionde le donne amàle
entro la bella Verona, odinici
carmi intonando: raccolta al vescovo
intorno, l’italica plebe
12 sporgea la croce supplice a’ Goti.
Tale da i monti di neve rigidi,
ne la diffusa letizia argentea
del placido verno, o fuggente
16 infaticato, mormori e vai
sotto il merlato ponte scaligero,
tra nere moli, tra squallidi alberi,
a i colli sereni, a le torri,
20 onde abbrunate piangon le insegne
il ritornante giorno funereo
del primo eletto re da l’Italia
francata: tu, Adige, canti
24 la tua scorrente canzone al sole.
Anch’io, bel fiume, canto: e il mio cantico
nel picciol verso raccoglie i secoli,
e il cuore al pensiero balzando
28 segue la strofe che sorge e trema.
Ma la mia strofe vanirà torbida
ne gli anni: eterno poeta, o Adige,
tu ancor tra le sparse macerie
32 di questi colli turriti, quando
su le rovine de la basilica
di Zeno al sole sibili il còlubro,
ancor canterai nel deserto
36 i tedi insonni de l’infinito.
PER LA MORTE DI NAPOLEONE EUGENIO
Questo la inconscia zagaglia barbara
prostrò, spegnendo li occhi di fulgida
vita sorrisi da i fantasmi
4 fluttuanti ne l’azzurro immenso.
L’altro, di baci sazio in austriache
piume e sognante su l’albe gelide
le dïane e il rullo pugnace,
8 piegò come pallido giacinto.
Ambo a le madri lungi; e le morbide
chiome fiorenti di puerizia
pareano aspettare anche il solco
12 de la materna carezza. In vece
balzâr ne ‘l buio, giovinette anime,
senza conforti; né de la patria
l’eloquio seguivali al passo
16 co’ i suon de l’amore e de la gloria.
Non questo, o fosco figlio d’Ortensia,
non questo avevi promesso al parvolo:
gli pregasti in faccia a Parigi
20 lontani i fati del re di Roma.
Vittoria e pace da Sebastopoli
sopían co ‘l rombo de l’ali candide
il piccolo: Europa ammirava:
24 la Colonna splendea come un faro.
Ma di decembre, ma di brumaio
cruento è il fango, la nebbia è perfida:
non crescono arbusti a quell’aure,
28 o dan frutti di cenere e tòsco.
O solitaria casa d’Aiaccio,
cui verdi e grandi le querce ombreggiano
e i poggi coronan sereni
32 e davanti le risuona il mare!
Ivi Letizia, bel nome italico
che omai sventura suona ne i secoli,
fu sposa, fu madre felice,
36 ahi troppo breve stagione! ed ivi,
lanciata a i troni l’ultima folgore,
date concordi leggi tra i popoli,
dovevi, o consol, ritrarti
40 fra il mare e Dio cui tu credevi.
Domestica ombra Letizia or abita
la vuota casa; non lei di Cesare
il raggio precinse: la còrsa
44 madre visse fra le tombe e l’are.
Il suo fatale da gli occhi d’aquila,
le figlie come l’aurora splendide,
frementi speranza i nepoti,
48 tutti giacquer, tutti a lei lontano.
Sta ne la notte la còrsa Niobe,
sta sulla porta donde al battesimo
le uscïano i figli, e le braccia
52 fiera tende su ‘l selvaggio mare:
e chiama, chiama, se da l’Americhe,
se di Britannia, se da l’arsa Africa
alcun di sua tragica prole
56 spinto da morte le approdi in seno.
A GIUSEPPE GARIBALDI
III NOVEMBRE MDCCCLXXX
Il dittatore, solo, a la lugubre
schiera d’avanti, ravvolto e tacito
cavalca: la terra ed il cielo
4 squallidi, plumbei, freddi intorno.
Del suo cavallo la pésta udivasi
guazzar nel fango: dietro s’udivano
passi in cadenza, ed i sospiri
8 de’ petti eroici ne la notte.
Ma da le zolle di strage livide,
ma da i cespugli di sangue roridi,
dovunque era un povero brano,
12 o madri italiche, de i cuor vostri,
saliano fiamme ch’astri parevano,
sorgeano voci ch’inni suonavano:
splendea Roma olimpica in fondo,
16 correa per l’aëre un peana.
– Surse in Mentana l’onta de i secoli
dal triste amplesso di Pietro e Cesare:
tu hai, Garibaldi, in Mentana
20 su Pietro e Cesare posto il piede.
O d’Aspromonte ribelle splendido,
o di Mentana superbo vindice,
vieni e narra Palermo e Roma
24 in Capitolïo a Camillo. –
Tale un’arcana voce di spiriti
correa solenne pe ‘l ciel d’Italia
quel dí che guairono i vili,
28 botoli timidi de la verga.
Oggi l’Italia t’adora. Invòcati
la nuova Roma novello Romolo:
tu ascendi, o divino: di morte
32 l’unge i silenzii dal tuo capo.
Sopra il comune gorgo de l’anime
te rifulgente chiamano i secoli
a le altezze, al puro concilio
36 de i numi indigeti su la patria.
Tu ascendi. E Dante dice a Virgilio
“Mai non pensammo a forma più nobile
d’eroe”. Dice Livio, e sorride,
40 “E’ de la storïa, o poeti.
De la civile storia d’Italia
è quest’audacia tenace ligure,
che posa nel giusto, ed a l’alto
44 mira, e s’irradia ne l’ideale”.
Gloria a te, padre. Nel torvo fremito
spira de l’Etna, spira ne’ turbini
de l’alpe il tuo cor di leone
48 incontro a’ barbari ed a’ tiranni.
Splende il soave tuo cor nel cerulo
riso del mare del ciel de i floridi
maggi diffuso su le tombe
52 su’ marmi memori de gli eroi.
SCOGLIO DI QUARTO
Breve ne l’onda placida avanzasi
striscia di sassi. Boschi di lauro
frondeggiano dietro spirando
4 effluvi e murmuri ne la sera.
Davanti, larga, nitida, candida
splende la luna: l’astro di Venere
sorridele presso e del suo
8 palpito lucido tinge il cielo.
Par che da questo nido pacifico
in picciol legno l’uom debba movere
secreto a colloqui d’amore
12 leni su zefiri, la sua donna
fisa guatando l’astro di Venere.
Italia, Italia, donna de i secoli,
de’ vati e de’ martiri donna,
16 inclita vedova dolorosa,
quindi il tuo fido mosse cercandoti
pe’ mari. Al collo leonino avvoltosi
il puncio, la spada di Roma
20 alta su l’omero bilanciando,
stiè Garibaldi. Cheti venivano
a cinque a dieci, poi dileguavano,
drappelli oscuri, ne l’ombra,
24 i mille vindici del destino,
come pirati che a preda gissero;
ed a te occulti givano, Italia,
per te mendicando la morte
28 al cielo, al pelago, a i fratelli.
Superba ardeva di lumi e cantici
nel mar morenti lontano Genova
al vespro lunare dal suo
32 arco marmoreo di palagi.
Oh casa dove presago genio
a Pisacane segnava il transito
fatale, oh dimora onde Aroldo
36 sití l’eroico Missolungi!
Una corona di luce olimpica
cinse i fastigi bianchi in quel vespero
del cinque di maggio. Vittoria
40 fu il sacrificio, o poesia.
E tu ridevi, stella di Venere,
stella d’Italia, stella di Cesare:
non mai primavera più sacra
44 d’animi italici illuminasti,
da quando ascese tacita il Tevere
d’Enea la prora d’avvenir gravida
e cadde Pallante appo i clivi
48 che sorger videro l’alta Roma.
SALUTO ITALICO
Molosso ringhia, o antichi versi italici,
2 ch’io co ‘l batter del dito seguo o richiamo i numeri
vostri dispersi, come api che al rauco
4 suon del percosso rame ronzando si raccolgono.
Ma voi volate dal mio cuor, com’aquile
6 giovinette dal nido alpestre a i primi zefiri.
Volate, e ansiosi interrogate il murmure
8 che giú per l’alpi giulie, che giú per l’alpi retiche
da i verdi fondi i fiumi a i venti mandano,
10 grave d’epici sdegni, fiero di canti eroici.
Passa come un sospir su ‘l Garda argenteo,
12 è pianto d’Aquileia su per le solitudini.
Odono i morti di Bezzecca, e attendono:
14 “Quando?” grida Bronzetti, fantasma erto fra i nuvoli.
“Quando?” i vecchi fra sé mesti ripetono,
16 che un dí con nere chiome l’addio, Trento, ti dissero.
“Quando?” fremono i giovani che videro
18 pur ieri da San Giusto ridere Glauco l’Adria.
Oh al bel mar di Trieste, a i poggi, a gli animi
20 volate co ‘l nuovo anno, antichi versi italici:
ne’ rai del sol che San Petronio imporpora
22 volate di San Giusto sovra i romani ruderi!
Salutate nel golfo Giustinopoli,
24 gemma de l’Istria, e il verde porto e il leon di Muggia;
salutate il divin riso de l’Adria
26 fin dove Pola i templi ostenta a Roma e a Cesare!
Poi presso l’urna, ove ancor tra’ due popoli
28 Winckelmann guarda, araldo de l’arti e de la gloria,
in faccia a lo stranier, che armato accampasi
30 su ‘l nostro suol, cantate: Italia, Italia, Italia!
A UNA BOTTIGLIA DI VALTELLINA DEL 1848
E tu pendevi tralcio da i retici
balzi odorando florido al murmure
de’ fiumi da l’alpe volgenti
4 ceruli in fuga spume d’argento,
quando l’aprile d’itala gloria
da ‘l Po rideva fino a lo Stelvio
e il popol latino si cinse
8 su l’Austria cingol di cavaliere.
E tu nel tino bollivi torbido
prigione, quando d’italo spasimo
ottobre fremeva e Chiavenna,
12 oh Rezia forte!, schierò a Vercea
sessanta ancora di morte libera
petti assetati: Hainau gli aspri animi
contenne e i cavalli de l’Istro
16 ispidi in vista dei tre colori.
Rezia, salute! di padri liberi
figlia ed a nuove glorie più libera!
E’bello al bel sole de l’alpi
20 mescere il nobil tuo vin cantando:
cantando i canti de i giorni italici,
quando a’ tuoi passi correano i popoli,
splendea tra le nevi la nostra
24 bandiera sopra l’austriaca fuga.
A i noti canti lievi ombre sorgono
quei che anelando vittoria caddero?
Sia gloria, o fratelli! Non anche,
28 l’opra del secol non anche è piena.
Ma nei vegliardi vige il vostro animo,
il sangue vostro ferve ne i giovani:
o Italia, daremo il altre alpi
32 inclita a i venti la tua bandiera.
MIRAMAR
O Miramare, a le tue bianche torri
attedïate per lo ciel piovorno
fosche con volo di sinistri augelli
4 vengon le nubi.
O Miramare, contro i tuoi graniti
grige dal torvo pelago salendo
con un rimbrotto d’anime crucciose
8 battono l’onde.
Meste ne l’ombra de le nubi a’ golfi
stanno guardando le città turrite,
Muggia e Pirano ed Egida e Parenzo
12 gemme del mare;
e tutte il mare spinge le mugghianti
collere a questo bastïon di scogli
onde t’affacci a le due viste d’Adria,
16 rocca d’Absburgo;
e tona il cielo a Nabresina lungo
la ferrugigna costa, e di baleni
Trieste in fondo coronata il capo
20 leva tra’ nembi.
Deh come tutto sorridea quel dolce
mattin d’aprile, quando usciva il biondo
imperatore, con la bella donna,
24 a navigare!
A lui dal volto placida raggiava
la maschia possa de l’impero: l’occhio
de la sua donna cerulo e superbo
28 iva su ‘l mare.
Addio, castello pe’ felici giorni
nido d’amore costruito in vano!
Altra su gli ermi oceani rapisce
32 aura gli sposi.
Lascian le sale con accesa speme
istorïate di trionfi e incise
di sapïenza. Dante e Goethe al sire
36 parlano in vano
de le animose tavole: una sfinge
l’attrae con vista mobile su l’onde:
ei cede, e lascia aperto a mezzo il libro
40 del romanziero.
Oh non d’amore e d’avventura il canto
fia che l’accolga e suono di chitarre
là ne la Spagna de gli Aztechi! Quale
44 lunga su l’aure
vien da la trista punta di Salvore
nenia tra ‘l roco piangere de’ flutti?
Cantano i morti veneti o le vecchie
48 fate istriane?
– Ahi! mal tu sali sopra il mare nostro,
figlio d’Absburgo, la fatal Novara.
Teco l’Erinni sale oscura e al vento
52 apre la vela.
Vedi la sfinge tramutar sembiante
a te d’avanti perfida arretrando!
E’il viso bianco di Giovanna pazza
56 contro tua moglie.
E’il teschio mózzo contro te ghignante
d’Antonïetta. Con i putridi occhi
in te fermati è l’irta faccia gialla
60 di Montezuma.
Tra boschi immani d’agavi non mai
mobili ad aura di benigno vento,
sta ne la sua piramide, vampante
64 livide fiamme
per la tenébra tropicale, il dio
Huitzilopotli, che il tuo sangue fiuta,
e navigando il pelago co ‘l guardo
68 ulula – Vieni.
Quant’è che aspetto! La ferocia bianca
strussemi il regno ed i miei templi infranse;
vieni, devota vittima, o nepote
72 di Carlo quinto.
Non io gl’infami avoli tuoi di tabe
marcenti o arsi di regal furore;
te io voleva, io colgo te, rinato
76 fiore d’Absburgo;
e a la grand’alma di Guatimozino
regnante sotto il padiglion del sole
ti mando inferia, o puro, o forte, o bello
80 Massimiliano. –
ALLA REGINA D’ITALIA
XX NOV. MDCCCLXXVIII
Onde venisti? Quali a noi secoli
sí mite e bella ti tramandarono?
fra i canti de’ sacri poeti
4 dove un giorno, o regina, ti vidi?
Ne le ardue rocche, quando tingeasi
a i latin’ soli la fulva e cerula
Germania, e cozzavan nel verso
8 nuovo l’armi tra lampi d’amore?
Seguiano il cupo ritmo monotono
trascolorando le bionde vergini,
e al ciel co’ neri umidi occhi
12 impetravan mercé per la forza.
O ver ne i brevi dí che l’Italia
fu tutta un maggio, che tutto il popolo
era cavaliere? Il trionfo
16 d’Amor gía tra le case merlate
in su le piazze liete di candidi
marmi, di fiori, di sole; e “O nuvola
che in ombra d’amore trapassi, –
20 l’Alighieri cantava – sorridi!”
Come la bianca stella di Venere
ne l’april novo surge da’ vertici
de l’alpi, ed il placido raggio
24 su le nevi dorate frangendo
ride a la sola capanna povera,
ride a le valli d’ubertà floride,
e a l’ombra de’ pioppi risveglia
28 li usignoli e i colloqui d’amore:
fulgida e bionda ne l’adamàntina
luce del serto tu passi, e il popolo
superbo di te si compiace
32 qual di figlia che vada a l’altare;
con un sorriso misto di lacrime
la verginetta ti guarda, e trepida
le braccia porgendo ti dice
36 come a suora maggior “Margherita!”
E a te volando la strofe alcaica,
nata ne’ fieri tumulti libera,
tre volte ti gira la chioma
40 con la penna che sa le tempeste:
e, Salve, dice cantando, o inclita
a cui le Grazie corona cinsero,
a cui sí soave favella
44 la pietà ne la voce gentile!
Salve, o tu buona, sin che i fantasimi
di Raffaello ne’ puri vesperi
trasvolin d’Italia e tra’ lauri
48 la canzon del Petrarca sospiri!
COURMAYEUR
Conca in vivo smeraldo tra foschi passaggi dischiusa,
o pia Courmayeur, ti saluto.
Te da la gran Giurassa da l’ardüa Grivola bella
4 il sole più amabile arride.
Blandi misteri a te su’ boschi d’abeti imminente
la gelida l’una diffonde,
mentre co ‘l fiso albor da gli ermi ghiacciaï risveglia
8 fantasime ed ombre moventi.
Te la vergine Dora, che sa le sorgive de’ fonti
e sa de le genti le cune,
cerula irriga, e canta; gli arcani ella canta de l’alpi
12 e i carmi de’ popoli e l’armi.
De la valanga il tuon da l’orrida Brenva rintrona
e rotola giú per neri antri:
sta su ‘l verone in fior la vergine, e tende lo sguardo,
16 e i verni passati ripensa.
Ma da’ pendenti prati di rosso papavero allegri
tra gli orzi e le segali bionde
spicca l’alauda il volo trillando l’aerea canzone:
20 io medito i carmi sereni.
Salve, o pia Courmayeur, che l’ultimo riso d’Italia
al piè del gigante de l’Alpi
rechi soave! te, datrice di posa e di canti,
24 io reco nel verso d’Italia.
Va su’ tuoi verdi prati l’ombria de le nubi fuggenti,
e va su’ miei spirti la musa.
Amo al lucido e freddo mattin da’ tuoi sparsi casali
28 il fumo che ascende e s’avvolge
bigio al bianco vapor da l’are de’ monti smarrito
nel cielo divino. Si perde
l’anima in lento error: vien da le compiante memorie
32 e attinge l’eterne speranze.
IL LIUTO E LA LIRA
A MARGHERITA REGINA D’ITALIA
Quando la Donna Sabauda il fulgido
sguardo al lïuto reca e su ‘l memore
ministro d’eroici lai
4 la mano e l’inclita fronte piega,
commove un conscio spirito l’agili
corde, e dal seno concavo mistico
la musa de’ tempi che fûro
8 sale aspersa di faville d’oro;
e un coro e un canto di forme aeree,
quali già vide l’Alighier movere
ne’ giri d’armonica stanza,
12 cinge l’italica Margherita.
“Io – dice l’una, cui la cesarie
inonda bionda gli omeri nivei
e gli occhi natanti nel lume
16 de l’estasi chiedono le sfere –
io son, regina, – dice – la nobile
Canzone; e a’ cieli volai da l’anima
di Dante, quand’egli nel maggio
20 angeli e spiriti lineava.
Io del Petrarca sovra le lacrime
passai tingendo d’azzurro l’aere
e accesi corone di stelle
24 in su l’aurea treccia d’Avignone.
Non mai più alto sospiro d’anime
surse dal canto. Di te le laudi
a’ due leverò che l’Italia
28 poeti massimi rivelaro”.
“A me la terra piace – nel cantico
una seconda balzando applaude
con l’asta e lo scudo, e da l’elmo
32 fosca fugge a’ venti la criniera -.
Piace, se lampi d’acciaio solcano,
se ferrei nembi rompono l’aere
e cadon le insegne davanti
36 al flutto e a l’impeto de’ cavalli.
A cui la morte teme non ridono
le muse in cielo, quaggiú le vergini.
Avanti, Savoia! non anche
40 tutta desti la bandiera al vento.
La Sirventese sono. A me l’aquila
che da Superga rivola al Tevere
e i folgori stringe severa
44 dritta ne l’iride tricolore”
“Ed io – la terza dice, di mammole
vïole un cerchio tessendo, e semplice
di rose e ligustri il sembiante
48 ombra sotto la castanea chioma –
la Pastorella sono. Di facili
amori e sdegni, danze e tripudii,
non più rendo gli echi: una nube
52 va di tristizïa su la terra.
A te da’ verdi mugghianti pascoli,
da’ biondi campi, da le pomifere
colline, da’ boschi sonanti
56 di scuri e dal fumo de’ tuguri,
io reco il blando riso de’ parvoli,
di spose e figlie reco le lacrime
e i cenni de’ capi canuti
60 che ti salutano pïa madre”.
Tali, o Signora, forme e fantasimi
a voi d’intorno cantando volano
dal vago liuto: a la lira
64 io li do di Roma imperïante,
qui dove l’Alpi de le virginee
cime più al sole diffusa raggiano
la bianca letizia da immenso
68 circolo, e cerula tra l’argento
per i tonanti varchi precipita
la Dora a valle cercando Italia,
e sceser vostri avi ferrati
72 con la spada e con la bianca croce.
Dal grande altare nival gli spiriti
del Montebianco sorgono attoniti,
a udire l’eloquio di Dante,
76 ne’ ritmi fulgidi di Venosa,
dopo cotanto strazio barbarico
ponendo verde sempre di gloria
il lauro di Livia a la fronte
80 de la Sabauda Margherita,
a voi, traverso l’onde de i secoli,
di due forti evi ricantar l’anima,
o figlia e regina del sacro
84 rinnovato popolo latino.
DELLE ODI BARBARE
LIBRO II
CE’RILO
Non sotto ferrea punta che strida solcando maligna
2 dietro un pensier di noia l’aride carte bianche;
sotto l’adulto sole, nel palpito mosso da’ venti
4 pe’ larghi campi aprici, lungo un bel correr d’acque,
nasce il sospir de’ cuori che perdesi ne l’infinito,
6 nasce il dolce e pensoso fior de la melodia.
Qui brilla il maggio effuso ne l’aere odorato di rose,
8 brillano gli occhi vani, dormon ne’ petti i cuori:
dormono i cuor, si drizzan le orecchie facili quando
10 la variopinta strilla nota de la Gioconda.
Oh de le Muse l’ara dal verde vertice bianca
12 su ‘l mare! Alcmane guida i virginei cori:
“Voglio con voi, fanciulle, volare, volare a la danza,
14 come il c’èrilo vola tratto da le alcïoni:
vola con le alcïoni tra l’onde schiumanti in tempesta,
16 c’èrilo purpureo nunzio di primavera”.
FANTASIA
Tu parli; e, de la voce a la molle aura
lenta cedendo, si abbandona l’anima
del tuo parlar su l’onde carezzevoli,
4 e a strane plaghe naviga.
Naviga in un tepor di sole occiduo
ridente a le cerulee solitudini:
tra cielo e mar candidi augelli volano,
8 isole verdi passano,
e i templi su le cime ardui lampeggiano
di candor pario ne l’occaso roseo,
ed i cipressi de la riva fremono,
12 e i mirti densi odorano.
Erra lungi l’odor su le salse aure
e si mesce al cantar lento de’ nauti,
mentre una nave in vista al porto ammàina
16 le rosse vele placida.
Veggo fanciulle scender da l’acropoli
in ordin lungo; ed han bei pepli candidi,
serti hanno al capo, in man rami di lauro,
20 tendon le braccia e cantano.
Piantata l’asta in su l’arena patria,
a terra salta un uom ne l’armi splendido:
è forse Alceo da le battaglie reduce
24 a le vergini lesbie?
RUIT HORA
O desïata verde solitudine
lungi al rumor de gli uomini!
qui due con noi divini amici vengono,
4 vino ed amor, o Lidia.
Deh, come ride nel cristallo nitido
Lieo, l’eterno giovine!
come ne gli occhi tuoi, fulgida Lidia,
8 trïonfa amore e sbendasi!
Il sol traguarda basso ne la pergola,
e si rinfrange roseo
nel mio bicchiere: aureo scintilla e tremola
12 fra le tue chiome, o Lidia.
Fra le tue nere chiome, o bianca Lidia,
langue una rosa pallida;
e una dolce a me in cuor tristezza súbita
16 tempra d’amor gl’incendii.
Dimmi: perché sotto il fiammante vespero
misterïosi gemiti
manda il mare là giú? quai canti, o Lidia,
20 tra lor quei pini cantano?
Vedi con che desio quei colli tendono
le braccia al sole occiduo:
cresce l’ombra e li fascia: ei par che chiedano
24 il bacio ultimo, o Lidia.
Io chiedo i baci tuoi, se l’ombra avvolgemi,
Lieo, dator di gioia:
io chiedo gli occhi tuoi, fulgida Lidia,
28 se Iperïon precipita.
E precipita l’ora. O bocca rosea,
schiuditi: o fior de l’anima,
o fior del desiderio, apri i tuoi calici:
32 o care braccia, apritevi.
ALLA STAZIONE IN UNA MATTINA D’AUTUNNO
Oh quei fanali come s’inseguono
accidïosi là dietro gli alberi,
tra i rami stillanti di pioggia
4 sbadigliando la luce su ‘l fango!
Flebile, acuta, stridula fischia
la vaporiera da presso. Plumbeo
il cielo e il mattino d’autunno
8 come un grande fantasma n’è intorno.
Dove e a che move questa, che affrettasi
a’ carri foschi, ravvolta e tacita
gente? a che ignoti dolori
12 o tormenti di speme lontana?
Tu pur pensosa, Lidia, la tessera
al secco taglio dài de la guardia,
e al tempo incalzante i begli anni
16 dài, gl’istanti gioiti e i ricordi.
Van lungo il nero convoglio e vengono
incappucciati di nero i vigili,
com’ombre; una fioca lanterna
20 hanno, e mazze di ferro: ed i ferrei
freni tentati rendono un lugubre
rintocco lungo: di fondo a l’anima
un’eco di tedio risponde
24 doloroso, che spasimo pare.
E gli sportelli sbattuti al chiudere
paion oltraggi: scherno par l’ultimo
appello che rapido suona:
28 grossa scroscia su’ vetri la pioggia.
Già il mostro, conscio di sua metallica
anima, sbuffa, crolla, ansa, i fiammei
occhi sbarra; immane pe ‘l buio
32 gitta il fischio che sfida lo spazio.
Va l’empio mostro; con traino orribile
sbattendo l’ale gli amor miei portasi.
Ahi, la bianca faccia e ‘l bel velo
36 salutando scompar ne la tènebra.
O viso dolce di pallor roseo,
o stellanti occhi di pace, o candida
tra’ floridi ricci inchinata
40 pura fronte con atto soave!
Fremea la vita nel tepid’aere,
fremea l’estate quando mi arrisero;
e il giovine sole di giugno
44 si piacea di baciar luminoso
in tra i riflessi del crin castanei
la molle guancia: come un’aureola
più belli del sole i miei sogni
48 ricingean la persona gentile.
Sotto la pioggia, tra la caligine
torno ora, e ad esse vorrei confondermi;
barcollo com’ebro, e mi tócco,
52 non anch’io fossi dunque un fantasma.
Oh qual caduta di foglie, gelida,
continua, muta, greve, su l’anima!
io credo che solo, che eterno,
56 che per tutto nel mondo è novembre.
Meglio a chi ‘l senso smarrí de l’essere,
meglio quest’ombra, questa caligine:
io voglio io voglio adagiarmi
60 in un tedio che duri infinito.
MORS
NELL’EPIDEMIA DIFTERICA
Quando a le nostre case la diva severa discende,
2 da lungi il rombo de la volante s’ode,
e l’ombra de l’ala che gelida gelida avanza
4 diffonde intorno lugubre silenzïo.
Sotto la venïente ripiegano gli uomini il capo,
6 ma i sen feminei rompono in aneliti.
Tale de gli alti boschi, se luglio il turbine addensa,
8 non corre un fremito per le virenti cime:
immobili quasi per brivido gli alberi stanno,
10 e solo il rivo roco s’ode gemere.
Entra ella, e passa, e tocca; e senza pur volgersi atterra
12 gli arbusti lieti di lor rame giovani;
miete le bionde spiche, strappa anche i grappoli verdi,
14 coglie le spose pie, le verginette vaghe
ed i fanciulli: rosei tra l’ala nera ei le braccia
16 al sole a i giuochi tendono e sorridono.
Ahi tristi case dove tu innanzi a’ vólti de’ padri,
18 pallida muta diva, spegni le vite nuove!
Ivi non più le stanza sonanti di risi e di festa
20 o di bisbigli, come nidi d’augelli a maggio:
ivi non più il rumore de gli anni lieti crescenti,
22 non de gli amor le cure, non d’Imeneo le danze:
invecchian ivi ne l’ombra i superstiti, al rombo
24 del tuo ritorno teso l’orecchio, o dea.
UNA SERA DI SAN PIETRO
Ricordo. Fulvo il sole tra i rossi vapori e le nubi
calde al mare scendeva, come un grande clipeo di rame
che in barbariche pugne corrusca ondeggiando, poi cade.
Castiglioncello in alto fra mucchi di querce ridea
5 da le vetrate un folle vermiglio sogghigno di fata.
Ma io languido e triste (da poco avea scosso la febbre
maremmana, ed i nervi pesavanmi come di piombo)
guardava a la finestra. Le rondini rapide i voli
sghembi tessevano e ritessevano intorno le gronde,
10 e le passere brune strepïano al vespro maligno.
Brevi d’entro la macchia svariavano il piano ed i colli,
rasi a metà da la falce, in parte ancor mobili e biondi.
Via per i solchi grigi le stoppie fumavano accese:
or sí or no veniva su per le aure umide il canto
15 de’ mietitori, lungo, lontano, piangevole, stanco:
grave l’afa stringeva l’aër, la marina, le piante.
Io levai gli occhi al sole – O lume superbo del mondo,
tu su la vita guardi com’ebro ciclope da l’alto! –
Gracchiarono i pavoni schernendomi tra i melograni,
20 e un vipistrello sperso passommi radendo su ‘l capo.
PE ‘L CHIARONE DA CIVITAVECCHIA
LEGGENDO IL MARLOWE
Calvi, aggrondati, ricurvi, sí come becchini a la fossa,
2 stan radi alberi in cerchio de la sucida riva.
Stendonsi livide l’acque in linea lunga che trema
4 sotto squallido cielo per la lugubre macchia.
Bevon le nubi dal mare con pendule trombe, ed il sole
6 piove sprazzi di riso torbido sovra i poggi.
I poggi sembrano capi di tignosi ne l’ospitale,
8 l’un fastidisce l’altro da’ finitimi letti.
Scattan su da un cespuglio co ‘l guizzo di frecce mancate
10 due neri uccelli: cala con pigre ruote un falco.
Corrono, mentr’io leggo Marlowe, le smunte cavalle
12 de la vettura: il sole scema, la pioggia freme.
Ed ecco a poco a poco la selva infóscasi orrenda,
14 la selva, o Dante, d’alberi e di spiriti,
dove tra piante strane tu strane ascoltasti querele,
16 dove troncasti il pruno ch’era Pier de la Vigna.
Io leggo ancora Marlowe. Dal reo verso bieco, simile
18 a sogno d’uomo cui molta birra gravi,
d’odii et inc’èsti e morti balzando tra forme angosciose
20 esala un vapor acre d’orrida tristizia,
che sale e fuma, e misto a l’aër maligno feconda
22 di mostri intorno le pendenti nuvole,
crocida in fondo a’ fossi, ferrugigno ghigna ne’ bronchi,
24 filtra con la pioggia per l’ossa stanche. Io tremo.
Ah quei pini che il vento che il mare curvaron tanti anni
26 paiono traer guai contro di me: “Che importa
– dicon – tendere a l’alto? che vale combatter? che giova
28 amare? Il fato passa ed abbassa.” Ma tu,
tu sughero triste che a terra schiacciato rialzi
30 il capo, reo gobbo, bestemmïando Iddio,
perché mi tendi minaccioso le braccia tue torte?
32 che colpa ho io ne ‘l fato che ti danna?
E voi, lunghe ne ‘l mezzo del tetro recinto alberelle,
34 co’ rami spioventi, quasi canute chiome,
siete alberelle voi? siete le tre fiere sorelle
36 che aspettâr Macbeth su la fatale via?
Odo pauroso carme che voi bisbigliate co’ venti,
38 di rospi, di serpi, di sanguinari cuori.
Guglielmo, re de’ poeti da l’ardüa fronte serena,
40 perché mi mandi lugubri messaggi?
Io non uccisi il sonno, ben gli altri a me spensero il cuore:
42 non cerco un regno, io solo chieggio al mondo l’oblío.
Oblío? no, vendetta. Cadaveri antichi, pensieri
44 che tutti una ferita mostrate aperta e tutti
a tradimento, su! su da ‘l cimitero del petto,
46 su date a’ venti i vostri veli funebri.
Qui raduniam consiglio, qui ne l’orribile spazzo,
48 a l’ombre ignave, su le mortifere acque.
Qui gonfia di serpi tra ‘l fior bianco e giallo la terra,
50 pregna di veleni qui primavera ride.
Ride ubriaco il verso di gioia maligna; com’angue,
52 strisci, si attorca, snodisi tra i sibili.
Volate, volate, canzoni vampire, cercando
54 i cuor’ che amammo: sangue per sangue sia.
Ma che? Disvelasi l’unge superbo a veder l’Argentaro
56 lento scendendo ne ‘l Tirreno cerulo.
Il sole illustra le cime. Là in fondo sono i miei colli,
58 con la serena vista, con le memorie pie.
Ivi m’arrise fanciullo la diva sembianza d’Omero.
60 Via, tu, Marlowe, a l’acque! tu, selva infame, addio.
ALLA MENSA DELL’AMICO
Non mai dal cielo ch’io spirai parvolo
ridesti, o Sole, bel nume, splendido
a me, sí come oggi ch’effuso
4 t’amo per l’ampie vie di Livorno.
Non mai fervesti, Bromio, ne i calici
consolatore saggio e benevolo,
com’oggi ch’io libo a l’amico
8 pensando i varchi de l’Apennino.
O Sole, o Bromio, date che integri,
non senza amore, non senza cetera,
scendiamo a le placide ombre
12 – là dov’è Orazio – l’amico ed io.
Ma sorridete gli augurî a i parvoli
che, dolci fiori, la mensa adornano,
la pace a le madri, gli amori
16 a i baldi giovani e le glorie.
RAGIONI METRICHE
Rompeste voi ‘l Tevere a nuoto, Clelïa, come
2 l’antica vostra, o a noi nuova Rea Silva uscite?
Scarso, o nipote di Rea, l’endecasillabo ha il passo
4 a misurare i clivi de le bellezze vostre:
solo co ‘l piè trïonfale l’eroico esametro puote
6 scander la vïa sacra de le l’unate spalle.
Da l’arce capitolina de ‘l collo fidiaco molle
8 il pentametro pender, ghirlanda albana, deve.
Batta ne ‘l raggio de gli occhi, che fiero corusca sí come
10 tra i colli prenestini dietro l’aurora il sole,
batta l’alcaica strofe trepidando l’ali, e si scaldi
12 a i forti amori: indietro, tu settenario vile.
Oh, su la chioma ondosa che simile a notte discende
14 pe ‘l crepuscolo pario de le doriche forme
(lasciate a le serve, nipote di Rea, gli ottonari)
16 corona aurea di stelle fulga l’asclepiadea.
FIGURINE VECCHIE
Qual da la madre battuto pargolo
od in proterva rissa mal domito
stanco s’addorme con le pugna
4 serrate e i cigli rannuvolati,
tal ne ‘l mio petto l’amore, o candida
Lalage, dorme: non sogna o invidia,
s’al roseo maggio erran giocando
8 gli altri felici pargoli al sole.
Oh no ‘l destare! l’udresti, o Lalage,
di torbid’ire fiedere l’aere
rompendo i giuochi a’ lieti eguali,
12 dio di battaglia per me l’amore.
SOLE D’INVERNO
Nel solitario verno de l’anima
spunta la dolce imagine,
e tocche frangonsi tosto le nuvole
4 de la tristezza e sfumano.
Già di cerulea gioia rinnovasi
ogni pensiero: fremere
sentomi d’intima vita gli spiriti:
8 il gelo inerte fendesi.
Già de’ fantasimi dal mobil vertice
spiccian gli affetti memori,
scendon con rivoli freschi di lacrime
12 giú per l’ombra del tedio.
Scendon con murmuri che a gli antri chiamano
echi d’amor superstiti
e con letizia d’acque che a’ margini
16 sonni di fiori svegliano.
Scendono, e in limpido fiume dilagano,
ove le rive e gli alberi
e i colli e il tremulo riso de l’aere
20 specchiasi vasto e placido.
Tu su la nubila cima de l’essere,
tu sali, o dolce imagine;
e sotto il candido raggio devolvere
24 miri il fiume de l’anima.
EGLE
Stanno nel grigio verno pur d’edra e di lauro vestite
2 ne l’Appia trista le ruinose tombe.
Passan pe ‘l ciel turchino che stilla ancor da la pioggia
4 avanti al sole lucide nubi bianche.
Egle, levato il capo v’èr’ quella serena promessa
6 di primavera, guarda le nubi e il sole.
Guarda; e innanzi a la bella sua fronte più ancora che al sole
8 ridon le nubi sopra le tombe antiche.
PRIMO VERE
Ecco: di braccio al pigro verno sciogliesi
ed ancor trema nuda al rigid’aere
la primavera: il sol tra le sue lacrime
4 limpido brilla, o Lalage.
Da lor culle di neve i fior si svegliano
e curïosi al ciel gli occhietti levano:
il quelli sguardi vagola una tremula
8 ombra di sogno, o Lalage.
Nel sonno de l’inverno sotto il candido
lenzuolo de la neve i fior sognarono;
sognaron l’albe roride ed i tepidi
12 soli e il tuo viso, o Lalage.
Ne l’addormito spirito che sognano
i miei pensieri? A tua bellezza candida
perché mesta sorride tra le lacrime
16 la primavera, o Lalage?
VERE NOVO
Rompendo il sole tra i nuvoli bianchi a l’azzurro
2 sorride e chiama – O primavera, vieni! –
Tra i verzicanti poggi con mormorii placidi il fiume
4 ricanta a l’aura – O primavera, vieni! –
– O primavera, vieni! – ridice il poeta al suo cuore
6 e guarda gli occhi, Lalage pura, tuoi.
CANTO DI MARZO
Quale una incinta, su cui scende languida
languida l’ombra del sopore e l’occupa,
disciolta giace e palpita su ‘l talamo,
sospiri al labbro e rotti accenti vengono
5 e súbiti rossor la faccia corrono,
tale è la terra: l’ombra de le nuvole
passa a sprazzi su ‘l verde tra il sol pallido:
umido vento scuote i pèschi e i mandorli
bianco e rosso fioriti, ed i fior cadono:
10 spira da i pori de la glebe un cantico.
– O salïenti da’ marini pascoli
vacche del cielo, grigie e bianche nuvole,
versate il latte da le mamme tumide
al piano e al colle che sorride e verzica,
15 a la selva che mette i primi palpiti -.
Cosí cantano i fior che si risvegliano:
cosí cantano i germi che si movono
e le radici che bramose stendonsi:
cosí da l’ossa dei sepolti cantano
20 i germi de la vita e de gli spiriti.
Ecco l’acqua che scroscia e il tuon che brontola:
porge il capo il vitel da la stalla umida,
la gallina scotendo l’ali strepita,
profondo nel verzier sospira il cúculo
25 ed i bambini sopra l’aia saltano.
Chinatevi al lavoro, o validi omeri;
schiudetevi a gli amori, o cuori giovani;
impennatevi a i sogni, ali de l’anime;
irrompete a la guerra, o desii torbidi:
30 ciò che fu torna e tornerà ne i secoli.
SALUTO D’AUTUNNO
Pe’ verdi colli, da’ cieli splendidi,
e ne’ fiorenti campi de l’anima,
Delia, a voi tutto è una festa
4 di primavera: lungi le tombe!
Voi dolce madre chiaman due parvole,
voi dolce suora le rose chiamano,
e il sol vi corona di lume,
8 divino amico, la bruna chioma.
Lungi le tombe! Lontana favola
per voi la morte! Salite il tramite
de gli anni, e con citara d’oro
12 Ebe serena v’accenna a l’alto.
Giú ne la valle, freddi dal turbine,
noi vi miriamo ridente ascendere;
e un raggio del vostro sorriso
16 frange le nebbie pigre a l’autunno.
SU MONTE MARIO
Solenni in vetta a Monte Mario stanno
nel luminoso cheto aere i cipressi,
e scorrer muto per i grigi campi
4 mirano il Tebro,
mirano al basso nel silenzio Roma
estendersi, e, in atto di pastor gigante
su grande armento vigile, davanti
8 sorger San Pietro.
Mescete in vetta al luminoso colle,
mescete, amici, il biondo vino, e il sole
vi si rifranga: sorridete, o belle:
12 diman morremo.
Lalage, intatto a l’odorato bosco
lascia l’alloro che si gloria eterno,
o a te passando per la bruna chioma
16 splenda minore.
A me tra ‘l verso che pensoso vola
venga l’allegra coppa ed il soave
fior de la rosa che fugace il verno
20 consola e muore.
Diman morremo, come ier moriro
quelli che amammo: via da le memorie,
via da gli affetti, tenui ombre lievi
24 dilegueremo.
Morremo; e sempre faticosa intorno
de l’almo sole volgerà la terra,
mille sprizzando ad ogni istante vite
28 come scintille;
vite in cui nuovi fremeranno amori,
vite che a pugne nuove fremeranno,
e a nuovi numi canteranno gl’inni
32 de l’avvenire.
E voi non nati, a le cui man’ la face
verrà che scórse da le nostre, e voi
disparirete, radïose schiere,
36 ne l’infinito.
Addio, tu madre del pensier mio breve,
terra, e de l’alma fuggitiva! quanta
d’intorno al sole aggirerai perenne
40 gloria e dolore!
fin che ristretta sotto l’equatore
dietro i richiami del calor fuggente
l’estenuata prole abbia una sola
44 femina, un uomo,
che ritti in mezzo a’ ruderi de’ monti,
tra i morti boschi, lividi, con gli occhi
vitrei te veggan su l’immane ghiaccia,
48 sole, calare.
LA MADRE
(GRUPPO DI ADRIANO CECIONI)
Lei certo l’alba che affretta rosea
al campo ancora grigio gli agricoli
mirava scalza co ‘l piè ratto
4 passar tra i roridi odor del fieno.
Curva su i biondi solchi i larghi omeri
udivan gli olmi bianchi di polvere
lei stornellante su ‘l meriggio
8 sfidar le rauche cicale a i poggi.
E quando alzava da l’opra il turgido
petto e la bruna faccia ed i riccioli
fulvi, i tuoi vespri, o Toscana,
12 coloraro ignei le balde forme.
Or forte madre palleggia il pargolo
forte; da i nudi seni già sazio
palleggialo alto, e ciancia dolce
16 con lui che a’ lucidi occhi materni
intende gli occhi fissi ed il piccolo
corpo tremante d’inquïetudine
e le cercanti dita: ride
20 la madre e slanciasi tutta amore.
A lei d’intorno ride il domestico
lavor, le biade tremule accennano
dal colle verde, il büe mugghia,
24 su l’aia il florido gallo canta.
Natura a i forti che per lei spregiano
le care a i vulghi larve di gloria
cosí di sante visïoni
28 conforta l’anime, o Adrïano:
onde tu al marmo, severo artefice,
consegni un’alta speme de i secoli.
Quando il lavoro sarà lieto?
32 quando securo sarà l’amore?
quando una forte plebe di liberi
dirà guardando nel sole – Illumina
non ozi e guerre a i tiranni,
36 ma la giustizia pia del lavoro -?
PER UN INSTITUTO DI CIECHI
Quando mirava Omero le fulgide a’ dardani campi
2 pugne, con gli occhi spenti ed immoti al cielo;
quando, levata in fredda caligin la fronte, vedeva
4 Milton passare su’ mondi vinti Dio;
l’alma del tutto in essi rompeva la inerte de’ sensi
6 bruma, e ne’ grandi spiriti il sole ardea.
Quando Tobia meschino del can riconobbe il latrato
8 e brancolando porse le bianche mani,
messa dal ciel sovvenne la santa pietà : Rafaele
10 biondo a’ lassi occhi rese il bel figlio e il lume.
Stanno ne l’ampia terra gli eroi del pensiero in disparte:
12 a Rafaele tende le braccia il mondo.
SOGNO D’ESTATE
Tra le battaglie, Omero, nel carme tuo sempre sonanti
la calda ora mi vinse: chinommisi il capo tra ‘l sonno
in riva di Scamandro, ma il cor mi fuggí su ‘l Tirreno.
Sognai, placide cose de’ miei novelli anni sognai.
5 Non più libri: la stanza da ‘l sole di luglio affocata,
rintronata da i carri rotolanti su ‘l ciottolato
de la città, slargossi: sorgeanmi intorno i miei colli,
cari selvaggi colli che il giovane april rifioria.
Scendeva per la piaggia con mormorii freschi un zampillo
10 pur divenendo rio: su ‘l rio passeggiava mia madre
florida ancor ne gli anni, traendosi un pargolo a mano
cui per le spalle bianche splendevano i riccioli d’oro.
Andava il fanciulletto con piccolo passo di gloria,
superbo de l’amore materno, percosso nel core
15 da quella festa immensa che l’alma natura intonava.
Però che le campane sonavano su dal castello
annunzïando Cristo tornante dimane a’ suoi cieli;
e su le cime e al piano, per l’aure, pe’ rami, per l’acque,
correa la melodia spirituale di primavera;
20 ed i pèschi ed i méli tutti eran fior bianchi e vermigli,
e fior gialli e turchini ridea tutta l’erba al di sotto,
ed il trifoglio rosso vestiva i declivii de’ prati,
e molli d’auree ginestre si paravano i colli,
e un’aura dolce movendo quei fiori e gli odori
25 veniva giú da ‘l mare; nel mar quattro candide vele
andavano andavano cullandosi lente nel sole,
che mare e terra e cielo sfolgorante circonfondeva.
La giovine madre guardava beata nel sole.
Io guardava la madre, guardava pensoso il fratello,
30 questi che or giace lungi su ‘l poggio d’Arno fiorito,
quella che dorme presso ne l’erma solenne Certosa;
pensoso e dubitoso s’ancora ei spirassero l’aure
o ritornasser pii del dolor mio da una plaga
ove tra note forme rivivono gli anni felici.
35 Passâr le care imagini, disparvero lievi co ‘l sonno.
Lauretta empieva intanto di gioia canora le stanze,
Bice china al telaio seguia cheta l’opra de l’ago.
COLLI TOSCANI
Colli toscani e voi pacifiche selve d’olivi
a le cui ombre chete stetti in pensier d’amore,
tósca vendemmia e tu da’ grappi vermigli spumanti
4 in faccia al sole tra giocondi strepiti,
sole de’ giovini anni; ridete a la dolce fanciulla
che amor mi strappa e rende sposa al toscano cielo;
voi le ridete, e quella che sempre negaronmi i fati
8 pace d’affetti datele ne l’anima.
Colli, tacete, e voi non susurratele, olivi,
non dirle, o sol, per anche, tu onniveggente, pio,
ch’oltre quel monte giaccion, lei forse aspettando, que’ miei
12 che visser tristi, che in dolor morirono.
Ella ammirando guarda la cima, tremarsi nel cuore
sente la vita e un lieve spirto sfiorar le chiome,
mentre l’aura montana, calando già il sole, d’intorno
16 al giovin capo le agita il vel candido.
PER LE NOZZE DI MIA FIGLIA
O nata quando su la mia povera
casa passava come uccel profugo
la speranza, e io disdegnoso
4 battea le porte de l’avvenire;
or che il piè saldo fermai su ‘l termine
cui combattendo valsi raggiungere
e rauchi squittiscon da torno
8 i pappagalli lusingatori;
tu mia colomba t’involi, trepida
il nuovo nido voli a contessere
oltre Apennino, nel nativo
12 aëre dolce de’ colli tóschi.
Va’ con l’amore, va’ con la gioia,
va’ con la fede candida. L’umide
pupille fise al vel fuggente,
16 la mia Camena tace e ripensa.
Ripensa i giorni quando tu parvola
coglievi fiori sotto le acacie,
ed ella reggendoti a mano
20 fantasmi e forme spïava in cielo.
Ripensa i giorni quando a la morbida
tua chioma intorno rogge strisciavano
le strofe contro a gli oligarchi
24 librate e al vulgo vile d’Italia.
E tu crescevi pensosa vergine,
quand’ella prese d’assalto intrepida
i clivi de l’arte e piantovvi
28 la sua bandiera garibaldina.
Riguarda, e pensa. De gli anni il tramite
teco fia dolce forse ritessere,
e risognare i cari sogni
32 nel blando riso de’ figli tuoi?
O forse meglio giova combattere
fino a che l’ora sacra richiamine?
Allora, o mia figlia, – nessuna
36 me Beatrice ne’ cieli attende –
allora al passo che Omero ellenico
e il cristïano Dante passarono
mi scorga il tuo sguardo,
40 la nota voce tua m’accompagni.
PRESSO L’URNA DI PERCY BYSSHE SHELLEY
Lalage, io so qual sogno ti sorge dal cuore profondo,
2 so quai perduti beni l’occhio tuo vago segue.
L’ora presente è in vano, non fa che percuotere e fugge;
4 sol nel passato è il bello, sol ne la morte è il vero.
Pone l’ardente Cl’io su ‘l monte de’ secoli il piede
6 agile, e canta, ed apre l’ali superbe al cielo.
Sotto di lei volante si scuopre ed illumina l’ampio
8 cimitero del mondo, ridele in faccia il sole
de l’età nova. O strofe, pensier de’ miei giovini anni,
10 volate omai secure verso gli antichi amori;
volate pe’ cieli, pe’ cieli sereni, a la bella
12 isola risplendente di fantasia ne’ mari.
Ivi poggiati a l’aste Sigfrido ed Achille alti e biondi
14 erran cantando lungo il risonante mare:
dà fiori a quello Ofelia sfuggita al pallido amante,
16 dal sacrificio a questo Ifïanassa viene.
Sotto una verde quercia Rolando con Ettore parla,
18 sfolgora Durendala d’oro e di gemme al sole:
mentre al florido petto richiamasi Andromache il figlio;
20 Alda la bella, immota, guarda il feroce sire.
Conta re Lear chiomato a Edippo errante sue pene,
22 con gli occhi incerti Edippo cerca la sfinge ancora:
la pia Cordelia chiama – Deh, candida Antigone, vieni!
24 vieni, o greca sorella! Cantiam la pace a i padri. –
Elena e Isotta vanno pensose per l’ombra de i mirti,
26 il vermiglio tramonto ride a le chiome d’oro:
Elena guarda l’onde: re Marco ad Isotta le braccia
28 apre, ed il biondo capo su la gran barba cade.
Con la regina scota su ‘l lido nel lume di l’una
30 sta Clitennestra: tuffan le bianche braccia in mare,
e il mar rifugge gonfio di sangue fervido: il pianto
32 de le misere echeggia per lo scoglioso lido.
O lontana a le vie de i duri mortali travagli
34 isola de le belle, isola de gli eroi,
isola de’ poeti! Biancheggia l’oceano d’intorno,
36 volano uccelli strani per il purpureo cielo.
Passa crollando i lauri l’immensa sonante epopea
38 come turbin di maggio sopra ondeggianti piani;
o come quando Wagner possente mille anime intona
40 a i cantanti metalli; trema a gli umani il core.
Ah, ma non ivi alcuno de’ novi poeti mai surse,
42 se non tu forse, Shelley, spirito di titano,
entro virginee forme: dal divo complesso di Teti
44 Sofocle a volo tolse te fra gli eroici cori.
O cuor de’ cuori, sopra quest’urna che freddo ti chiude
46 odora e tepe e brilla la primavera in fiore.
O cuor de’ cuori, il sole divino padre ti avvolge
48 de’ suoi raggianti amori, povero muto cuore.
Fremono freschi i pini per l’aura grande di Roma:
50 tu dove sei, poeta del liberato mondo?
Tu dove sei? m’ascolti? Lo sguardo mio umido fugge
52 oltre l’aurelïana cerchia su ‘l mesto piano.
AVE
IN MORTE DI G. P.
Or che le nevi premono,
lenzuol funereo, le terre e gli animi,
e de la vita il fremito
4 fioco per l’aura vernal disperdesi,
tu passi, o dolce spirito:
forse la nuvola ti accoglie pallida
là per le solitudini
8 del vespro e tenue teco dileguasi.
Noi, quando a’ soli tepidi
un desio languido ricerca l’anime
e co’ i fiori che sbocciano
12 torna Perséfone da gli occhi ceruli,
noi penseremo, o tenero,
a te non reduce. Sotto la candida
l’una d’april trascorrere
16 vedrem la imagine cara accennandone.
NEVICATA
Lenta fiocca la neve pe ‘l cielo cinerëo: gridi,
2 suoni di vita più non salgon da la città,
non d’erbaiola il grido o corrente rumore di carro,
4 non d’amor la canzon ilare e di gioventú.
Da la torre di piazza roche per l’aere le ore
6 gemon, come sospir d’un mondo lungi dal dí.
Picchiano uccelli raminghi a’ vetri appannati: gli amici
8 spiriti reduci son, guardano e chiamano a me.
In breve, o cari, in breve – tu càlmati, indomito cuore –
10 giú al silenzio verrò, ne l’ombra riposerò.
CONGEDO
A’ lor cantori diano i re fulgente
collana d’oro lungo il petto, i volghi
a’ lor giullari dian con roche strida
4 suono di mani.
Premio del verso che animoso vola
da le memorie a l’avvenire, io chiedo
colma una coppa a l’amicizia e il riso
8 de la bellezza.
Come ricordo d’un mattin d’aprile
puro è il sorriso de le belle, quando
l’età fugace chiudere s’affretta
12 il nono lustro;
e tra i bicchier che l’amistade infiora
vola serena imagine la morte,
come a te sotto i platani d’Ilisso,
16 divo Platone.
VERSIONI
TOMBE PRECOCI
DA FR. G. KLOPSTOCK
Ben vieni, o bell’astro d’argento,
compagno tacente a la notte.
Tu fuggi? oh rimanti, splendore pensoso!
4 Vedete? ei rimane: la nuvola va.
Più bel d’una notte d’estate
è solo il mattino di maggio:
a lui la rugiada gocciando da i ricci
8 riluce, e vermiglio pe ‘l colle va su.
O cari, già il musco severo
a voi sopra i tumuli crebbe:
deh come felice vedeva io con voi
12 le notti d’argento, vermigli i bei dí!
NOTTE D’ESTATE
DA FR. G. KLOPSTOCK
Quando il tremulo splendore de la luna
si diffonde giú pe’ boschi, quando i fiori
e i molli aliti de i tigli
4 via pe ‘l fresco esalano,
il pensiero de le tombe come un’ombra
in me scende; né più i fiori né più i tigli
dànno odore; tutto il bosco
8 è per me crepuscolo.
Queste gioie con voi, morti, m’ebbi un tempo:
come il fresco era e il profumo dolce intorno!
come bella eri, o natura,
12 in quell’albor tremulo!
LA TORRE DI NERONE
DA A. VON PLATEN
Narra la fama, e ancor n’ha orrore il popolo:
Nerone, indétto a la città l’incendio,
salí su quella torre a lo spettacolo
4 del rogo, allegro ed avido.
Correano al cenno suo gl’incendiarii,
baccanti in festa, e roteavan picei
serti di fiamma. Dritto su’ merli aurei
8 Neron tocca la cetera.
– Gloria – egli canta – al fuoco: a l’oro ei simile
ei degno del Titan che al cielo tolselo:
l’augel di Giove il porta; ed il primo alito
12 egli accolse di Bromio.
Vieni, splendido nume: al crine i pampini,
molle danza su ‘l mondo anzi che in polvere
torni: di Roma qui raccogli il cenere
16 e nel tuo vino mescilo.
ERO E LEANDRO
DA A. VON PLATEN
Ero l’amata muore, ne i flutti cercando la morte:
2 Saffo l’amante muore, morte chiedendo a i flutti.
Amore, iddio crudele, a te cadon vittime entrambe:
4 scorgile tu nel cheto reame di Perséfone.
Ma di Leandro al petto conduci la vergin di Sesto,
6 guida al fiume di Lete la deserta di Lesbo.
LA LIRICA
DA A. VON PLATEN
A la materia l’anima s’appiglia,
polso del mondo è l’azïone; e a sorde
orecchie spesso versa i canti l’alta
4 lirica musa.
A tutti Omero s’apre e svarïati
gli arazzi de la favola dispiega,
l’autor del dramma trascinando i volghi
8 le scene eleva.
Ma il vol del sacro Pindaro, di Flacco
l’arte e, o Petrarca, il tuo librato verso,
lento ne i cuori imprimesi, e a la plebe
12 ardüo sfugge.
Grazia che pensa, non agevol ritmo
di canzoncine intorno la teletta:
non lieve sguardo penetra le loro
16 alme possenti.
Eterno vaga per le genti il nome,
ma raro ad essi spirito s’aggiunge
amico e pio che onori le gagliarde
20 menti profonde.