139 passi (o quasi) verso la polis
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27 Gennaio 2019di Mario Brandolin
Messaggero Veneto – 24 gennaio 2011
«E’ bello vivere liberi!». Con queste parole, le ultime sue, Ondina Peteani siglava una vita. La sua, di donna, spesa con coerenza e dedizione assolute per quegli ideali di libertà e giustizia che la portarono, non ancora diciottenne, nel 1943 a diventare nellIsontino occupato dalle SS la prima staffetta partigiana d’Italia. E poi, catturata, a patire l’inferno dei Lager nazisti, Auschwitz, Ravensbruck, Eberswalde. Da dove uscirà profondamente segnata nel corpo e nell’anima. Anche se questo non le impedirà di dedicarsi a fondo all’impegno sociale, alla militanza nel Partito Comunista, al lavoro di ostetrica e al lavoro culturale, all’interno dell’organizzazione dei Pionieri e animando a Trieste, col suo compagno Pier Luigi Bruseghin, lagenzia libraria degli Editori Riuniti, uno dei circoli di sinistra più attivi della città, finché la malattia, conseguenza della detenzione nei Lager, non la immobilizzò per sempre.
Morì, Ondina, il 3 gennaio del 2003 in quella Trieste che l’aveva vista nascere da una famiglia del Monfalconese 78 anni prima e alla quale era ritornata dopo l’esperienza terribile del campo di concentramento per riannodare il filo drammaticamente interrotto di una lotta che dal fronte combattente partigiano si trasferiva ora nella quotidianità e nei grandi problemi, politici e sociali, che il dopoguerra, specialmente nelle nostre terre di confine, portò alla luce. Una quotidianità che le riserverà non pochi dispiaceri e cocenti delusioni e che le richiederà una capacità di vivere, con spirito critico ma anche con spirito di servizio, gli sconvolgimenti che ridimensioneranno, soprattutto sul piano dell’ideologia e su quello dell’organizzazione, la prassi del lavoro politico di partito. Certo a spingerla a restare fedele alle idee di gioventù, cera quel 81672 stampato indelebile sul braccio. Un ricordo, l’orrore del Lager, dove si consumò la «distruzione della giovinezza e la morte della bellezza», sempre più un incubo di cui parlerà poco. Per pudore, ma anche per la consapevolezza che nessun racconto poteva restituire l’enormità di quanto sofferto e visto. «Ben presto – dice in una testimonianza raccolta da Marco Coslovich e riportata nel bel volume che la storica Anna Di Gianantonio, con il contributo prezioso di Gianni Peteani, figlio di Ondina, le ha dedicato – dovemmo abituarci a tutto e cercare solamente di sopravvivere. Da parte mia continuavo ad avere la sensazione di non essere io a subire quella vita e continuavo a vedermi dall’esterno. Difatti non soffrivo, né inorridivo di quello che a mano a mano vedevo e sapevo. Lorrore è venuto dopo, quando ormai ero a casa». Anche se i racconti di quei giorni consumati tra un costante pericolo di vita, fame, freddo e maltrattamenti, agghiacciano il cuore e spiazzano la mente. Racconti sentiti e letti migliaia di volte eppure ogni volta nuovi, tanta è la fatica a comprenderli, perché ogni volta è difficile credere che l’uomo abbia potuto arrivare a tanto.
Il libro, pur soffermandosi a lungo sulla centralità della deportazione nell’esistenza di Ondina, offre al lettore anche ampi squarci sulla storia del nostro passato più recente, in particolare sui drammatici sviluppi che ebbero da noi, nell’immediato dopoguerra, gli ideali della resistenza tra ragioni politiche e tensioni di tipo etnico-nazionale, e che Ondina visse con lucidità e fede straordinarie nella convinzione di quanto fosse necessario costruire un mondo di pace giustizia e fratellanza. Una spinta a vivere inseguendo il sogno di una causa più alta dei bisogni dei singoli, profondamente maturata tra le atrocità del Lager. Una voglia di vivere che Ondina seppe inseguire nonostante tutto. Figura, la sua, ancor oggi, preziosa, d’insegnamento e conforto per quanti non si rassegnano al vuoto morale del nostro tempo.