Celebrazioni del 60° Anniversario della Liberazione 25 Aprile 2005
Coordinamento Nazionale 60° Anniversario della Liberazione
Comitato permanente Ondina Peteani
Nel coordinamento Nazionale delle Celebrazioni del 60° Anniversario della Liberazione del 25 Aprile 2005, si colloca l’80° anniversario (26 Aprile 1925) della nascita di Ondina Peteani, – prima staffetta partigiana d’Italia – deportata AUSCHWITZ n. 81672 che verrà celebrata nel quadro delle Manifestazioni della Festa della Liberazione in molte Regioni.
Alla data Simbolo della conclusione italiana della Seconda Guerra Mondiale del 25 Aprile risulta profondamente legata la figura e la storia di Ondina Peteani, giovanissima patriota che nello slancio di riscatto e di Libertà dall’oppressione nazifascista perseguì e promosse la pionieristica adesione alla Resistenza.
Sessant’anni or sono Ondina durante l’epocale viaggio di rientro dal Lager attraverso l’Europa annientata dalla barbarie del conflitto, non conosceva la simbolica adiacenza dei suoi natali con il fatidico giorno che in Italia portava finalmente al traguardo dell’agognata Pace.
La città di Cassino, per tramite della Scuola Media Statale DiBiasio ha tributato somma Onorificenza alla Peteani lo scorso 27 gennaio – Giornata della Memoria dell’Olocausto – intitolandole e dedicandole la celebrazione intera in uno spettacolo multimediale di alto profilo che ha ripercorso le fasi cruciali delle vicende che precedettero la tragedia della segregazione nel baratro di Auschwitz, seguendo in un percorso a ritroso, il suo anticipatorio ingresso nella Resistenza, illuminando pienamente l’iperbole di una vita straordinaria ed appassionante.
Il gran numero di portali tematici che nella rete internet ha scelto di pubblicarne e sostenerne la memoria, il ciclo di Conferenze a lei deputate in associazione ad un crescente interesse sulla rappresentatività al femminile del suo altruistico schierarsi “Donna” in funzione della ricerca della Libertà, concorrono ad elevarne oggi lo spirito, la determinazione ed il coraggio.
60° Anniversario pertanto della festa Nazionale che più di ogni altra è e rimarrà sempre inviolabile monito per le generazioni a venire, anche nell’analisi della viscerale passione per la Libertà della sua prima staffetta partigiana Ondina Peteani nell’80° Anniversario della nascita.
Il Comitato permanente Ondina Peteani
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Dal Memoriale di Ondina Peteani ____________________________
Le basi della nuova concezione della Donna agli albori della Resistenza. ____________________________ Dall’inizio del 1942 una nuova connotazione della donna scaturì dalle nostre riunioni segrete. Si percepiva in quei pericolosi frangenti l’esigenza crescente di affermare la nostra presenza, il nostro pensiero, i nostri desideri, così lungamente e pesantemente schiacciati nella dittatura fascista, nella quale eravamo oggetto e mai soggetto. La Forza della Libertà fu alla base dello slancio che il nostro schierarsi impose alla costretta società italiana d’allora quando propriamente l’organizzazione clandestina in noi individuò delle paritetiche collaboratrici ed audaci protagoniste. Si trattava delle prime forme di liberazione della Donna. Ragazze, madri, mogli: Donne che in larga schiera parteciparono con sacrificio ed impegno alla Lotta di Liberazione Nazionale.
Il fenomeno crebbe e si sviluppò costituendo i presupposti indispensabili alla rivalutazione della figura femminile nella nuova Società sorta dalle ceneri del nazifascismo, nata dal 25 Aprile 1945.
Il favorevole pronunciamento in ragione del voto elettorale alle donne rappresentò uno dei primi sostanziali riconoscimenti.
Una lunga scia di sangue e di martirio rimarrà sempre a testimonianza del tributo che la donna ha immolato nella causa della Libertà.
Risulta oggi incontrovertibile asserire che la scintilla che innescò in Italia la rivalutazione delle relegate potenzialità della donna, permane indiscutibilmente coesa all’eroico contributo di questa nel rovesciamento della dittatura nazifascista.
Anni di morte, di massacri e sgomento culminati nell’orrore del Lager.
Auschwitz, soglia del non ritorno della coscienza umana ha lasciato qualcosa di indelebile nel mio animo. Devo alla Resistenza, alla Rinascita Democratica ed al mio inscindibile ideale di Libertà il desiderio di continuare ad esprimermi ancora con l’azione ed il pensiero per una Società finalmente giusta, Libera ed antifascista, dove l’odio razziale e la prevaricazione rappresentano soltanto il monito di un passato che non deve mai più riaffermarsi. Ondina Peteani Trieste, 20 maggio 1989
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Estratto dal testo elaborato da Giovanni DeMartis – Presidente dall’Associazione Olokaustos – Venezia :
Nel Friuli Venezia Giulia, la Resistenza armata nacque sin dal 1942.
La tradizione storiografica nazionale fa nascere la lotta armata partigiana dopo l’armistizio con gli Alleati dell’8 settembre. In linea di massima questo giudizio storico è corretto per quasi tutta Italia fatta eccezione del Friuli Venezia Giulia. Qui la Resistenza armata nacque sin dal 1942 perché l’opposizione al fascismo nei venti anni di dittatura non si era mai spenta. Gli storici hanno parlato di “anni del consenso” riferendosi agli anni Trenta del Novecento. Un consenso largo e diffuso che circondò il fascismo che coglieva il suo trionfo con la guerra di Etiopia e la conseguente “proclamazione dell’Impero”. Gli antifascisti militanti in esilio o ridotti al silenzio in Italia erano certamente pochi in quegli anni di entusiasmi mussoliniani, pochi ma attivi. Alcune aree operaie italiane avevano ancora dei nuclei comunisti e socialisti che continuavano ad operare in clandestinità. In Friuli Venezia Giulia una delle zone di resistenza politica è Monfalcone e particolarmente il cantiere navale. Occorre tenere presente che Monfalcone – proprio grazie alla nascita dell’attività cantieristica – si era trasformato da piccolo villaggio anima a borgo operaio con più di diciannovemila abitanti nel 1936. La vicina Ronchi dei Legionari nel giro di qualche decennio arrivava a contare ottomila abitanti e così tutti i piccoli comuni dell’area. Uno sviluppo impetuoso che “operaizzò” ampie fasce di popolazione e che, per conseguenza, condusse ad un rapporto con la politica assai diverso rispetto a quanto accadeva in aree del Paese meno industrializzate. Il cantiere – come la fabbrica altrove – divenne il terreno di sviluppo della coscienza sindacale prima e politica poi dei nuovi operai friulani. Così negli “anni del consenso” in questa zona gli operai socialisti e comunisti lanciano manifestini contro la guerra d’Etiopia nel 1935, nel 1937 fanno decollare un pallone con la scritta “Viva l’URSS. Morte ai criminali fascisti”, creano un circuito di assistenza – il “Soccorso Rosso” – che dal 1936 raccoglie tra gli operai fondi per aiutare le famiglie dei militanti arrestati dalla polizia politica fascista. Nasce ed opera una tipografia clandestina. Si distribuiscono copie de “L’Avanti” portate clandestinamente da Padova, si tengono riunioni di partito nelle case operaie (1). Non è difficile essere reclutati ed entrare nelle fila del dissenso. Giovanni Fiori, nome di battaglia “Cvetko” ricorda così il suo arruolamento: “…. un pomeriggio verso la fine dello stesso mese di agosto [1940] mentre, come ogni giorno ritiravo delle bollette dai rispettivi bollettari mi si avvicina Fontanot Armido […] ed incomincia a dirmi che il fascismo è contro i lavoratori e fa solo gli interessi dei capitalisti ecc. e che deve essere abbattuto per vivere liberi. […] mi parlò di Soccorso Rosso e che io avrei dovuto contribuire a quella forma di sussidio per aiutare le famiglie ed i compagni caduti in sventura (disgrazia) a causa del fascismo. Da quel giorno contribuii regolarmente versando una quota fissa di due lire al mese. Un giorno, fine ottobre 1940 Armido mi portò a conoscenza che ad un convegno della cellula i compagni che componevano detta cellula e cioè: Fontanot Giovanni (padre di Armido, Licio e Vinicio); Armido, sua moglie (Lisa), Licio, Vinicio e sua moglie (Giovanna “Nina”), Ondina Peteani; Ribella [Fontanot], Mario Campo e Rosa o De Rosa […] aprirono una clausola per accogliermi come simpatizzante del PCI dandomi un programma di lavoro, cioè fare propaganda ai giovani locali.
Ondina che voleva essere “rapita”. Nella città operaia, nella cellula del Partito Comunista compare il nome di Ondina Peteani. Non si tratta di una militante politica di vecchia data, è una ragazzina che in quell’agosto del 1940 ha da poco compiuto quindici anni. E’ nata il 26 aprile 1925 a Trieste, è più giovane del regime fascista che combatte, è nata in tempo di dittatura. Ma avere quindici anni non significa non poter essere utili: da tempo uno degli incarichi di Ondina è andarsene in treno a Padova e a Udine per portare tra gli operai copie della “Unità” e del “Avanti”. Questa ragazzina cresce per certi versi a “pane e comunismo”, un comunismo non da salotto o da teoria, un comunismo rischioso che porta dritti davanti al Tribunale Speciale. Nel 1942 lavora come operaia al cantiere di Monfalcone, sa usare il “tornio a revolver” una conoscenza che le tornerà utile ad Auschwitz. Nei suoi ricordi il ruolo dell’ambiente di lavoro è fondamentale per la crescita politica: “e così, da una parte i colleghi di lavoro e dall’altra un gruppo di studenti che frequentavo a Ronchi, attraverso chiacchierate e discussioni, cominciai ad interessarmi di problemi sociali e politici. Sia alcuni operai del cantiere, sia alcuni studenti, militavano già allora nelle file clandestine dell’antifascismo e quasi tutti erano comunisti ed io mi sentii progressivamente attratta da questi compagni ed infine cominciai a capire quanto eravamo incasermati” (3). Si tratta ancora soltanto di suggestioni e di discorsi, la resistenza armata è ancora qualcosa di distante, di epico e di elettrizzante per l’adolescente Ondina. “Allora in queste terre (soprattutto sul Carso) vi erano già operanti alcuni gruppi partigiani sloveni e parecchi ragazzi di queste località si aggregarono a queste formazioni. I loro familiari dicevano di non saperne niente, che i loro ragazzi erano stati rapiti (ovviamente per cercar di evitare le rappresaglie fasciste nei loro confronti). Da parte nostra, eravamo entusiasti e dicevamo a chi ci raccontava queste cose di dar loro anche il nostro indirizzo per farci “rapire” (4). La realtà che circonda Ondina è un presente fatto di guerra continua. Sin dal maggio 1941 il Partito Comunista Italiano e l’Osvoboldilna Fronta (il Fronte di Liberazione sloveno) collaborano nella lotta armata nella Slovenia occupata. L’invasione italo-tedesca della Iugoslavia ha prodotto un cambiamento profondo nei confini orientali italiani: la Slovenia è divenuta una nuova provincia e la vicina Croazia un regno satellite affidato al duca Aimone d’Aosta che ha slavizzato il suo nome in Tomislav II. A cavallo tra il Friuli e la Slovenia combattono le formazioni partigiane slovene e vi si affiancano anche i comunisti italiani. Di questi scontri si parla anche nel cantiere di Monfalcone e Ondina sogna di essere rapita, di andarsene in montagna. Nel 1942 il Partito Comunista Italiano si pone l’obiettivo di creare delle unità nazionali che, almeno inizialmente, siano di concreto supporto alla ben più organizzata attività slovena. Le trattative tra i comunisti italiani e gli sloveni portarono alla creazione nel marzo 1943 del “Distaccamento Garibaldi”, una piccola unità nella quale sarebbero dovuti confluire tutti i combattenti italiani che si trovavano inquadrati nelle unità partigiane slovene. Si trattava del primo distaccamento partigiano italiano.
Il “Distaccamento Garibaldi” (aprile – giugno 1943) Ondina nel 1942 non è stata “rapita”: “Eravamo alla fine del 1942 e si parlava che la fuga era da effettuarsi nei primi giorni del 1943. Ma un successivo contrordine ci impedì questa azione. Il contrordine veniva da Padova con la cui Università i miei amici studenti avevano contatti da tempo. Lì operava Eugenio Curiel e da lì venne l’indicazione di formare gruppi antifascisti sul luogo” (5). Ondina distribuisce manifestini sovversivi e continua a sognare di andare in montagna. La nascita della “Garibaldi” e gli eventi legati al “Distaccamento” furono l’occasione per realizzare il sogno. Nei suoi appunti di ricordi Ondina scrive: “1943 – maggio – giugno: si fa vivo sul terreno un gruppo di cinque partigiani. Dicono che nel Coll’io era impossibile il mantenimento in zona. Il Davilla, giunto a sapere, li accusa di diserzione dai ranghi partigiani sloveni”. I cinque che arrivano dal Coll’io sono i primi partigiani operativi nella resistenza armata che Ondina vede. Sino a quel momento ha assistito alla partenza dei giovani verso le brigate partigiane in montagna ma combattenti in pianura non se ne erano ancora visti. Se da un lato Ondina è interessata il Partito Comunista locale è invece preoccupato. I cinque partigiani che Ondina ricorda sono un gruppetto di uomini capitanati da Mario Karis, un comunista già condannato a dodici anni dal Tribunale Speciale fascista. Karis era ricercato e si era dato alla clandestinità raggiungendo nel marzo 1943 una unità di partigiani sloveni che operava nella zona del Coll’io: la “Briski-Beneski Odred”. Karis era intenzionato a raggruppare gli italiani che operavano nelle unità slovene con il permesso del comandante della “Briski-Beneski Odred” si incontrò con il responsabile del Partito Comunista Italiano di Udine Mario Lizzero. Karis aveva fretta di costituire una unità italiana di partigiani mentre Lizzero aveva la necessità di procedere con metodo informando prima gli organi nazionali del Partito. I contatti però non riuscirono e Lizzero insieme ad un altro responsabile del Partito Comunista locale, Vincenzo Marcon detto “Davilla”, ebbero un secondo incontro con Karis. Questa volta si decise che sarebbe dovuto nascere un distaccamento denominato “Garibaldi”. L’avrebbe comandato Karis che per il momento doveva accogliere tutti i partigiani italiani che combattevano nelle unità slovene. La “Garibaldi” in realtà è più un atto politico simbolico che una unità in grado di reggere uno scontro armato con successo. Così la “Garibaldi” si stabilì nel paese di Clap in attesa di ingrandirsi con l’arrivo di altri combattenti. Soltanto nell’aprile 1943 Lizzero riuscì ad informare i dirigenti del Partito Comunista della avvenuta costituzione della “Garibaldi”. Non senza qualche discussione giunse il consenso politico alla “Garibaldi”. Frattanto nella zona di Clap iniziarono i rastrellamenti per snidare i partigiani. Karis e i suoi non si sentivano al sicuro e così presero la decisione di spostarsi a Ronchi dei Legionari. Si era nel giugno del 1943 ed il distaccamento comandato da Mario Karis era composto fra gli altri da Giovanni Fiori, da Antonio Dettori e da Brunetto Parri. L’arrivo inaspettato della “Garibaldi” suscitò sconcerto nel responsabile del PCI Vincenzo Marcon. Così si decise di prendere contatto con il gruppo che si era accampato in un bosco vicino a Monfalcone, incaricata di fare da staffetta fu Ondina Peteani. Così Giovanni Fiori ricorda l’incontro: “Dopo qualche giorno venne la compagna Ondina Peteani “Natalia”, prima staffetta del movimento partigiano italiano, ci informava che il funzionario del Partito Comunista Italiano della zona Trieste-Monfalcone, certo “Davilla” (il suo vero nome, credo, Marcon Vincenzo) non trovava giustificazione della nostra presenza e ci considerava dei disertori. Da notare che ognuno di noi, come ogni volta, aveva una lettera e che il Karis le consegnò ai compagni del Partito Comunista di Udine. Quindi la compagna “Natalia”, dopo aver pernottato con noi nel bosco ripartì per Monfalcone”. Il gruppetto attese quattro giorni nel bosco ma, non avendo più notizie, decise autonomamente di raggiungere Ronchi dei Legionari. Qui si nascosero nella casa dei Fontanot (unici sicuramente affidabili) e di qui si spostarono a Trieste nella casa di Darko Pezza in via Seismit Doda. Di fronte al fatto compiuto occorreva rifornire gli uomini e di mantenere i contatti. Occorrevano staffette, Ondina Peteani venne incaricata del compito. Finalmente Ondina è stata “rapita” e può “andare in montagna”. La realtà della guerra e i suoi pericoli non tardarono a togliere a tutta l’impresa il velo romantico che l’adolescenza vi aveva ricamato.
La compagna “Natalia” va alla guerra. La situazione del “Distaccamento” è assai confusa: il gruppo rimase in attesa di un segnale dai comunisti di Udine che gli permettesse di essere riconosciuti come affidabili e poter cominciare ad operare. Mario Karis e Darko Pezza facevano la spola in bicicletta da Trieste a Monfalcone per avere notizie. Ondina ha assunto il nome di battaglia di “Natalia” e si reca nell’appartamento di via Seismit Doda per portare cibo e notizie. Il 26 giugno 1943 Karis e Pezza di ritorno da Monfalcone si imbattono in un posto di blocco. Karis spara, ne nasce un conflitto a fuoco. Pezza riesce a rientrare subito a casa mentre Karis ferito di striscio rientra la sera del 27. Proprio la sera del 27 Ondina, che non sa nulla, arriva nell’appartamento per portare come al solito viveri e notizie. Così Giovanni Fiori ricorda gli avvenimenti successivi: “La sera del 27 giugno 1943 venne la compagna “Natalia” come altre volte per il consueto scambio di informazioni e per portarci da mangiare. La compagna “Natalia”, il Karis e io dormivamo in una stanza, in un’altra adiacente alla nostra il Dettori dormiva da solo, mentre in cucina dell’altro appartamento dormiva il Pecic [Darko Pezza] anche lui da solo. Il mattino successivo (28 giugno 1943), alle ore cinque circa, trovammo la casa circondata da carabinieri e da squadristi-fascisti. Un momento prima il Karis era uscito per fare i bisogni corporali ma tutto ad un tratto sento la voce del Karis che grida: “Aiuto, siamo circondati” e nel medesimo istante entrava nella stanza occupata da me e dalla compagna “Natalia”. Il mio primo pensiero [fu] quello di saltare dalla finestra (da notare che l’appartamento si trovava al primo piano) ma vidi che il Karis mi rincorreva, pensai alla sua posizione politica e gli lasciai il passo poi feci per seguirlo ma un carabiniere mi puntava la pistola gridando “Fermo, mani in alto o sparo”. In camera rimasi io e la compagna “Natalia”, mi venne l’idea di far fuggire la compagna magari col sacrificio della mia vita. Finsi un mal di ventre e mi misi in atto di fare i bisogni corporali e dissi alla compagna “Natalia” di passare nella camera adiacente alla nostra […] lei mi ascoltò malgrado il carabiniere voleva opporsi. Il carabiniere messosi alla porta della stanza da me occupata poteva benissimo controllare tutti e due […] un momento vidi che il carabiniere aveva l’attenzione verso la compagna, feci un volo, ma in un attimo due squadristi e il carabiniere – che aveva sparato due colpi di pistola e poi mi aveva seguito nel volo – erano sopra di me e mi legarono per bene e poi mi condussero a piedi in caserma. Dopo un breve interrogatorio potei sapere che il Pecic [Darko Pezza], il Dettori feriti ed io eravamo [stati] arrestati mentra la “Natalia” ed il Karis erano fuggiti”.
La “Brigata Proletaria” non si arrende. Mentre i carabinieri legavano Fiori, Ondina approfittando della confusione riuscì a fuggire. Non aveva molte altre possibilità se non ritornare a Monfalcone dai Fontanot e riferire quanto era accaduto. Ma neanche Monfalcone è sicura e lo stesso Vinicio Fontanot fugge in montagna per aggregarsi ai partigiani. Si tratta di un momento difficile: la partigiana Alma Vivoda è stata uccisa in uno scontro a fuoco a Trieste alla fine di giugno. Il cerchio si stringe anche intorno ad Ondina. Il 2 luglio la polizia politica l’arresta. Viene portata al carcere femminile dei “Gesuiti” e interrogata. La sua posizione è delicata e qualcuno ha parlato facendo nomi e raccontando fatti. Il carcere ospita prigioniere politiche soprattutto slovene, si fa la fame. A salvare Ondina sono gli avvenimenti del settembre 1943. L’armistizio firmato l’8 settembre mette in subbuglio anche il Friuli Venezia Giulia. Il 9 settembre la folla libera i prigionieri dell’altro carcere triestino, quello del “Coroneo”, il giorno successivo vengono liberate anche le recluse dei “Gesuiti”. Ondina appena libera decide di unirsi ai partigiani. Ha poche scelte: è oramai conosciuta come attivista comunista e per i fascisti è una “evasa”. La situazione politica non è affatto chiara, l’unica certezza è che i tedeschi non rimarranno con le mani in mano. Rimanere a Trieste significherebbe per lei essere ripresa e questa volta dai nazisti. Va a Villa Montevecchio presso Ranziano. Molti operai dei cantieri di Monfalcone erano fuggiti e, tutti insieme, stavano cercando di organizzare una unità di combattimento. Ondina a questo proposito scriveva: “Da parte del comando partigiano viene impartito l’ordine a Fontanot Vinicio (Petronio) di scendere a Ronchi per reclutare largamente fra i compagni del terreno. A Selz incontra Marega Ferdinando alla testa di un nutrito gruppo di operai del cantiere che si arruolano volontari tra i partigiani. Si forma così la prima brigata partigiana italiana che assume provvisoriamente il nome di Brigata Triestina, col compito di operare principalmente nella parte più avanzata del Carso, sopra Monfalcone fino a Gorizia” (7). Il 10 settembre per Ondina fu una giornata memorabile. Il Comitato d’Azione del cantiere di Monfalcone ha deciso: millecinquecento operai ancora con la tuta da lavoro si avviano verso Villa Montevecchio dove c’è un centro di smistamento incaricato di inquadrarli in una unità partigiana. Ondina è con loro. Lungo la strada la colonna attacca il presidio dell’aereoporto di Ronchi e mette in fuga un corpo di guardia tedesco che sorveglia il cavalcavia. Nella notte gli operai raggiungono Villa Montevecchio. Le notizie non sono buone: i tedeschi riavutisi dalla sorpresa iniziale si avvicinano e si parla di carri armati e d’artiglieria. In tutta fretta i nuovi arrivati vengono inquadrati in quella che provvisoriamente viene denominata “Brigata Proletaria”. Il compito che i partigiani si danno è di resistere su una linea che va da Merna a Valvocciano in modo da interrompere i rifornimenti via terra destinati ai tedeschi che combattono nei Balcani. Il 12 settembre i tedeschi avanzano. Non è chiaro in questo momento dove sia Ondina, probabilmente nel 3° Battaglione comandato da Vinicio Fontanot che difende Monte Sagrado. I tedeschi avanzano con l’appoggio dei mezzi corazzati. La “Divisione Proletaria” regge l’urto, distrugge un carro e tre blindati, ventisei nemici rimangono uccisi. Si combatte con ferocia, i tedeschi ricorrono all’aviazione che bombarda le posizioni della “Proletaria” e verso il 21 settembre attaccano nuovamente e in forze. Il 3° Battaglione viene travolto e fatto a pezzi, gli operai continuano a combattere sin quando rimangono munizioni. Quando i tedeschi completano lo sfondamento sul campo di battaglia rimangono i cadaveri di duecentocinquantasei operai di Monfalcone e di centonovantadue di Ronchi. Ondina scrive nel suo diario: “Solamente pochissimi riescono a rifugiarsi sulla parte più arretrata e a porsi in salvo”, tra questi la stessa Ondina che, persi i collegamenti con il gruppo, torna verso casa.
Ondina combatte “sul terreno”. Appena arrivata a casa Ondina si accorge di essere braccata. Un carabiniere viene a cercarla e per non essere arrestata è costretta a fuggire dalla finestra. A questo punto non rimane altro che passare alla clandestinità e combattere come si diceva allora “sul terreno”. Ciò significa appoggiare le pattuglie che dalla montagna scendono verso i centri abitati per compiere azioni militari e colpi di mano. Ondina è fra i quadri del “Battaglione Triestino d’Assalto” addetta ai collegamenti. Tra le azioni la più eclatante fu l’eliminazione della dell’ex partigiano “Blecchi” divenuto collaboratore dei nazisti. Con la sua opera di informatore aveva contribuito all’arresto e all’uccisione sia di partigiani che di civili che simpatizzavano per la Resistenza. Nel gennaio 1944 il comando del “Battaglione Triestino” decise l’eliminazione di “Blecchi” incaricando Plinio Tommasin, Lojze Andric e Egone Settomini di portare a termine l’operazione. Ondina e Elio Tamburin vennero incaricati di seguire le tracce di “Blecchi” e segnalarne la posizione al gruppo incaricato di ucciderlo. Si tratta di una operazione pericolosa. Si tratta di appostarsi e seguire le tracce della spia ed aspettare il momento opportuno per agire. Qualcuno informa i carabinieri dei movimenti del piccolo nucleo partigiano e una pattuglia li intercetta. Nello scontro a fuoco che ne segue Lojze Andric viene ucciso. Ondina nel suo diario scrive che l’agguato è avvenuto su “denuncia della Chiaradia”. Elio e Ondina continuano a rimanere sulle tracce di “Blecchi” e finalmente lo individuano nel pomeriggio del 29 gennaio a Vermegliano. La notizia arriva a Tommasin e Settomini che montati in bicicletta raggiungono il paesino. Arrivati vicinissimi senza smontare dalle biciclette scaricano le pistole su “Blecchi”, sono certi d’averlo ucciso perché lo vedono cadere a terra. In realtà la spia indossa una specie di corazza che lo protegge dai colpi mortali. Ancora una volta è Ondina a reperire le informazioni: “Blecchi” è stato portato all’ospedale di Monfalcone. Un infermiere simpatizzante dei resistenti fa sapere che un capitano medico tedesco ha operato la spia che ora si trova fuori pericolo. Il Comando decide che l’operazione va conclusa, viene inviato di rinforzo Oliviero del Bianco. Nella notte del 2 febbraio il gruppo entra in azione. Fatta irruzione nella stanza di ospedale dove si trova “Blecchi” i partigiani lo trovano con la madre che tenta di dare l’allarme. Ne nasce una colluttazione e poi gli spari che uccidono sia “Blecchi” che la madre. Mentre il gruppo si ritira vedono alzarsi fiamme dall’aereoporto di Merne. Il 20 gennaio 1944, mentre Ondina è impegnata nella operazione contro “Blecchi”, cinquantaquattro militari della Repubblica di Salò, tutti originari della Sardegna disertano unendosi al “Battaglione Triestino”. Si tratta di uomini ben armati e con esperienza, li comanda Luigi Podda detto “Corvo” di Orgosolo. Il Comando del “Battaglione Triestino” decide di far buon uso dei nuovi arrivati per riaffermare la sua presenza sul territorio. All’alba del 3 febbraio il vicecomandante Riccardo Giacuzzo con un gruppo di uomini attacca l’aereoporto di Merne. A colpi di bombe a mano e bottiglie incendiarie vengono distrutti otto aerei tedeschi. Durante i combattimenti muoiono Carmine Congiargiu di Orgosolo e Salvatore Piras di Dorgali. Le fiamme che Ondina e i suoi compagni vedono mentre fuggono dall’ospedale di Monfalcone sono quelle degli aerei tedeschi che bruciano.
Da Piazza Oberdan ad Auschwitz. Sia l’operazione contro “Blecchi” che l’attacco all’aereoporto fanno crescere la fama del “Battaglione Triestino” ma, di conseguenza, provocano la reazione dei fascisti e dei tedeschi. I partigiani si installano nei camminamenti sotterranei costruiti dall’esercito austriaco durante la Prima Guerra Mondiale a Temenizza. Ovviamente occorre cibo, armi e vestiario ed è Ondina che li raccoglie per consegnarli alle pattuglie che scendono dalla montagna per ritirarli. Queste operazioni di rifornimento proseguono ogni notte sin dai primi di febbraio. Ondina – dopo l’eliminazione di “Blecchi” è risalita in montagna: è troppo conosciuta e durante l’operazione si è esposta, si sente più sicura con il “Battaglione”. Ma è proprio in una di queste azioni notturne che come racconta Ondina succede il peggio: “Dopo una settimana di permanenza lassù, decisi di scendere con la pattuglia per provvedermi di alcuni capi di vestiario invernali e incontrare un sostenitore con cui avevo appuntamento e che mi avrebbe portato medicinali e denaro raccolti, anche qualche arma. La notte dell’11 febbraio 1944, mentre tornavo al mio battaglione, venni catturata da un pattuglione di tedeschi in perlustrazione e venni portata al comando delle SS in piazza Oberdan a Trieste” (8). Ondina non era stata catturata insieme ad altri, cosa che l’avrebbe fatta immediatamente identificare come partigiana operativa, durante l’interrogatorio raccontò di essere stata arrestata mentre si recava dal fidanzato. Per venti giorni venne trattenuta nelle celle del Comando delle SS e poi trasferita al carcere “Coroneo” ai primi di marzo. Mentre era in carcere le azioni della Resistenza continuavano in tutta la provincia di Trieste. I nazisti rispondevano con rastrellamenti e feroci rappresaglie. Il 27 marzo 1944 a Trieste vennero impiccati pubblicamente quattro partigiani del “Battaglione Triestino”: Sergio Cebroni, Giorgio De Rosa, Remigio Visini e Livio Stocchi. Il 3 aprile vennero impiccati settantadue ostaggi in rappresaglia ad un attentato compiuto dalla Resistenza a Opicina. Il 29 aprile, per rappresaglia rispetto all’uccisione di cinque tedeschi avvenuta a via Ghega a Trieste, i nazisti impiccarono altri cinquantasei partigiani. Tutte le vittime venivano prelevate dal carcere del “Coroneo” come ricorda nella sua testimonianza Ferruccio Derenzini: “Da giorni giacevamo in un tetro sotterraneo delle carceri del Coroneo a Trieste: la cella della morte”. Era la riserva” di ostaggi a immediata disposizione del comando tedesco della piazza per le rappresaglie agli attentati e sabotaggi dei gruppi di azione partigiana. In quella cella, stipatissimi, eravamo circa in cento tra italiani e sloveni; rastrellati, quest’ultimi, nei paesi a nord di Trieste. C’era con loro anche un giovane prete che a suon di campane aveva dato il segnale della scorreria tedesca. Noi provenivamo dalle carceri di Fiume. Era l’aprile del 1944. Una notte le SS spalancarono la porta della cella e chiamarono uno dopo l’altro cinquanta compagni. Uno di questi che tardava a presentarsi, perché non aveva ancora calzato gli stivali, si sentì gridare in faccia: “Dove vai tu, gli stivali non servono”. Capimmo e ammutolimmo. Il prete si appartò in un angolo della cella per raccogliersi in preghiera. Li rivedemmo tutti cinquanta, assieme a cinque giovani donne, cinque partigiane, appesi con il filo di ferro alle ringhiere delle scale di un palazzo. Per un feroce eccesso di zelo il comandante della piazza aveva fatto trucidare anche le cinque partigiane come sovrapprezzo “alla regola” dei dieci per uno; sebbene i tedeschi uccisi da una bomba dei G.A.P. – in Via Ghega a Trieste – fossero cinque. Rivedemmo penzolanti quei compagni mentre le SS ci scortavano allo scalo ferroviario per deportarci a Dachau”
Ondina era in gravissimo pericolo. L’11 maggio altri undici detenuti del carcere vennero impiccati dai nazisti. Alla prossima rappresaglia poteva essere il suo turno. “Alla fine di maggio ero nell’elenco di quelle che dovevano essere deportate. Non sembri strano se dico che ne fui contenta, ma durante la mia detenzione erano accaduti parecchi fatti preoccupanti: il peggiore era stato il prelievo di alcune detenute e la loro impiccagione per rappresaglia in via Ghega. Anche l’interprete mi sussurrò che lì stavano accadendo “brutte cose” e che era meglio così per me. Della famigerata Risiera ancora non si sapeva quasi niente, si diceva solo che era un centro di raccolta per la deportazione soprattutto di ebrei. Ma qualcuno sapeva già qualcosa, l’interprete ad esempio: “Vada via contenta” – mi disse – “qui stanno accadendo davvero cose molto brutte” poi aggiunse: “meglio via, lontano di qui che in Risiera”. Il 31 maggio [1944], all’alba partimmo dalla stazione di Trieste, non dal solito binario (la gente non doveva vedere queste cose!) ma sul binario dei silos da dove partivano i treni merci. Difatti, da quel momento tali eravamo considerati: stavano partendo circa duecento pezzi e pezzi ci calcolarono da quel momento, ma noi non lo sapevamo ancora, per cui credemmo di partire in 200 persone di cui 40 donne”.