Dio c’è, anche se non esiste.
27 Gennaio 2019Anna di Niccolò Ammaniti
27 Gennaio 2019Matteo Maria Boiardo
LIBRO PRIMO CANTI 21-29
CANTO VENTESIMOPRIMO
1.
Cantando qui di sopra, io vi lasciai
Come Ranaldo è sopra allo afferrante,
E con vergogna e vituperio assai
Disfida Trufaldino a sé davante;
E nella fin del canto io vi contai
Come fu spregionato Sacripante,
E fece pace col re Trufaldino;
Ma il re Torindo tenne altro camino.
2.
Ora pone Ranaldo il corno a bocca,
E tal parole al tintinar risuona:
– O campioni, che seti nella rocca
In compagnia della mala persona,
Oditi quel che a tutti quanti tocca,
Sia cavalliero, o sia re de corona:
Chi non punisce oltraggio e tradigione,
Potendo farlo, lui ne è la cagione.
3.
Ciascun che puote e non diveta il male,
In parte del deffetto par che sia;
Ed ogni gentilomo naturale
Viene obligato per cavalleria
Di esser nemico ad ogni disleale
E far vendetta de ogni villania;
Ma ciascuno de voi questo dispreza,
Ché pietà non aveti o gentileza.
4.
Anci teneti vosco uno assassino,
Quel falso cane de Dio maledetto,
Dico il re di Baldaca, Trufaldino,
Malvaggio, traditor, pien de diffetto.
Ora me intenda il grande e il piccolino:
Tutti ve isfido e nel campo vi aspetto;
E vo’ provarvi, con la spada in mano,
Che ognom de voi è perfido e villano. –
5.
Con tal parole e con altre minaccia
Tutti quei cavallieri il fio de Amone;
Lor se guardavan l’uno e l’altro in faccia,
Ché chiaro aveano inteso quel sermone;
De loro alcun non è che ben non saccia
Che a torto prenderà la questïone;
Ché Trufaldin da tutti era stimato
Iniquo, traditore e scelerato.
6.
Ma la promessa fede e il giuramento
Li fece uscire armati de le porte;
E benché avessen tutti alto ardimento,
E non stimassen, per onor, la morte,
Andarno alla battaglia con spavento;
E non vi fu baron cotanto forte
Che, vedendo Ranaldo a sé davante,
Non se stordisse insin sotto le piante.
7.
Sei cavallieri uscîr di quel girone,
E calarno de il sasso alla pianura:
Primo Aquilante e il suo fratel Grifone,
Che hanno e destrier fatati e l’armatura,
Oberto e il re Adrïano e Chiarïone;
In mezo è Trufaldin con gran paura.
Come nel campo fôr gionti di saldo,
Grifon cognobbe in vista il bon Ranaldo.
8.
Verso Aquilante disse: – Odi, germano:
Se io vedo drittamente, ora mi pare
Che questo sia il segnor di Montealbano;
E ben serebbe de girlo a trovare,
E con carezze e con parlare umano
Veder se pace se puote trattare;
Però che, a dirti il vero, io me sconforto
Per la battaglia che prendiamo a torto. –
9.
Disse Aquilante: – A me pare ancora esso,
E più proprio me par quanto più guardo;
Ma non ardisco a dirlo per espresso,
Ché non ha sotto il suo destrier Baiardo.
Or cavalchiam pur, ché gionti da presso
Ben lo cognosceremo senza tardo:
E parla poi con lui, come te piace,
De accordo o di battaglia, o guerra o pace. –
10.
Così van verso lui, sempre parlando,
E già l’un l’altro se recognoscia;
Unde andarno da parte, e ragionando
La sua sorte avenire, ogni om dicia
Perché qua fosse gionto, e come, e quando;
Ma ciascadun de’ tre gran pena avia,
Poi che trovar non san ragion che vaglia,
Che tra lor cessi la mortal battaglia.
11.
Di Chiaramonte sono e di Mongrana,
Gentile ischiatte e de un sangue discese;
Or per altrui e per cagione istrana
Vengono insieme alle mortale offese.
Dicea il franco Grifon con voce umana
Verso Ranaldo: – Deh baron cortese!
Mal aggia la fortuna e trista sorte
Che per altrui te adduce a prender morte.
12.
Perché sette baroni hanno giurato
Diffender Trufaldin da tutto il mondo,
Ciascuno d’alto pregio e nominato.
Caro fratello, io non te me nascondo:
Morto ti veggio e disteso nel prato,
Ché dopo il primo venirà il secondo,
E il terzo e il quarto senza dimorare:
Contra de tanti non puotrai durare. –
13.
Disse Ranaldo: – A fede di leanza,
Aver guerra con voi molto me pesa;
E ciò non dico già per dubitanza,
Ché tutti andreti in terra alla distesa;
Ed è la vostra sì grande arroganza,
Poi contra a tutto il mondo aveti impresa,
Che non doveti già meravigliare
Se io solo a sette voglio contrastare.
14.
Ma noi facciamo ormai troppo parole,
Ed io non voglio star tutto oggi armato;
Qual’unche Trufaldin diffender vôle,
Prenda del campo, ché io l’ho desfidato.
Certo non passarà quel monte il sole,
Che ad uno ad un vi stenderò sul prato,
E mostrarovi chiaro il parangone
Che ve moveti contra alla ragione. –
15.
Poi che ebbe così detto, il cavalliero
Più non aspetta e volta Rabicano:
E dilungato con sembiante altiero
Fermossi al campo con la lancia in mano.
Or vedon li altri al tutto esser mestiero
De insanguinar le spade in su quel piano,
Perché Ranaldo ha qui fermato il chiodo;
Alla battaglia dànno ordine e modo.
16.
E, vergognando andarli tutti adosso,
Ordinorno che Oberto dal Leone
Fosse contra de lui soletto mosso;
E quando avesse il peggio alla tenzone,
Il re Adrïano l’avesse riscosso;
E, bisognando, movesse Grifone,
Al qual donasse aiuto il suo germano;
E Chiarïone a lui, de mano in mano.
17.
Aveva Oberto una estrema possanza,
E fu de’ digni cavallier del mondo;
Sprona il destriero ed impugna la lanza.
Non fu mai corso tanto foribondo
Quanto hanno e duo baron pien de arroganza
Credendo metter l’uno l’altro al fondo;
Poco vantaggio fu nel gionger saldo,
Me se ge ne fu alcun, fu de Ranaldo.
18.
E ritornarno con brandi taglienti
Alla terribil zuffa, inanimati
Per darsi morte, a guisa de serpenti,
Sempre menando colpi disperati.
Avean tagliati tutti e guarnimenti,
E rotti e scudi e li usberghi spezzati;
Ma Ranaldo con lui de maestria
E ancor di forza vantaggio avia.
19.
Menando le botte aspere e diverse,
Ranaldo, che aspettava, il tempo ha còlto;
Però che, come Oberto se scoperse,
Gionse Fusberta, e l’elmo ebbe disciolto.
La barbuta e il guancial tutto li aperse,
E crudelmente lo ferì nel volto;
E fu il colpo sì fiero e smisurato,
Che come morto lo distese al prato.
20.
Questo veggendo il franco re Adrïano,
Che stava apparecchiato alla riscossa,
Mosse a gran furia, correndo nel piano
Con una lanza smisurata e grossa.
Era senza asta il sir de Montealbano,
Ché l’avea rotta alla prima percossa,
Ma correndo ne vien col brando nudo;
Il re Adrïano il gionse a mezo il scudo.
21.
La lancia ne andò al ciel, rotta a tronconi,
Né se mosse Ranaldo più che un sasso.
Or ben vi sazo dir che e due ronzoni
Non venian di galoppo né di passo,
Anci se urtarno insieme come troni,
Petto per petto, con molto fraccasso;
Ma quel del re Adrïano andò per terra:
Grifone incontinente il brando afferra.
22.
Non volse lancia il cavallier pregiato,
E quasi ancor de andar se vergognava,
Parendoli Ranaldo affaticato.
Or, come io dissi, la spada pigliava;
L’arme avea tutte e il destriero affatato,
Né d’altra cosa lui se dubitava,
Salvo de non potersi indi partire
Che non facesse Ranaldo morire.
23.
E dolcemente lo volea pregare
Che li piacesse de lasciar la impresa.
Disse Ranaldo a lui: – Non predicare;
Fuggi in mal’ora, o prendi tua diffesa. –
Quando Grifone intese quel parlare,
La faccia li vampò di foco accesa,
Ed a lui disse: – Io non soglio fuggire,
Ma tua superbia ti farà morire. –
24.
Compìto non avea queste parole,
Che il principe il ferì con tal roina,
Che veder non sapea se è l’una o sole,
Né se gli era da sera o da matina.
Ranaldo a lui diceva: – Altro ce vôle
Che il destrier bianco e l’armatura fina
A voler esser bon combattitore!
Lena bisogna ed animoso core. –
25.
Quando Grifone intese con oltraggio
Dal sir de Montealbano esser schernito,
Turbato oltra misura nel coraggio
Ferilli ad ambe man l’elmo forbito;
E benché a quel non facesse dannaggio,
Ché era incantato, come avete odito,
Fu il colpo di tal furia e tal tempesta
Che tutta quanta gli stordì la testa.
26.
Non pone indugia, che un altro li mena,
Con più roina assai de quel primiero;
Non sentì mai Ranaldo maggior pena,
E tutto fraccassato avea il cimiero.
– Io ti farò sentir se ho core e lena,
E se altro vôlsi che un bianco destriero,
Vil ribaldo, di strata rio ladrone! –
Queste parole diceva Grifone.
27.
E menò il terzo colpo assai maggiore,
Così come era tutto invelenito,
E tanta fretta mena e tal furore,
Che Ranaldo non può prender partito.
Ma come piacque a l’alto Creatore,
Sempre ne l’elmo l’aveva ferito,
Ché, se l’avesse gionto in altro loco,
Serìa durata la battaglia poco;
28.
Però che avria spezzata ogni armatura:
Ma l’elmo stette alle percosse saldo.
Turbato era Grifone oltra misura,
Né mai fu de grande ira tanto caldo;
Ma d’altra parte a voi lascio la cura
Di pensar come stesse il pro’ Ranaldo;
Ché Mongibel non arde né Vulcano,
Più che facesse il sir de Montealbano.
29.
Sembrava gli occhi suoi faville accese,
E parea nel soffiar tempesta e vento;
Cridando ad ambe man Fusberta prese,
E ferisce a Grifon con ardimento.
Sette armature non serian diffese,
Se non vi fosse stato incantamento;
Ma quella fatasone era sì forte
Che campò il giovanetto dalla morte.
30.
Abenché se stordì della percossa,
Ed alle crine del destrier s’inchina;
E non avendo ancor l’alma riscossa,
Ranaldo lo ferì con gran ruina.
Ma il giovanetto, che avea tanta possa,
Ed è guarnito di armatura fina,
Come risente, di nulla si cura,
E mena colpi grandi oltra misura.
31.
E sì crudel battaglia han cominciata,
Che un’altra non fu mai cotanto dura;
Né mai chiesen ripossa alcuna fiata,
Né di doglia o de affanno alcun si cura.
La faccia avea ciascun tanto infiammata,
Che solo a riguardarli era paura;
E, chi mirava da lontano un poco,
Parea che fuor de l’elmi uscisse foco.
32.
Né si scorgìa vantaggio di nïente,
Benché meglio Grifone fosse armato.
Cresce d’ognor lo assalto più fervente,
Qual già presso a cinque ore avea durato.
Dicea Ranaldo: – O Cristo onnipotente,
Se bene in altra cosa aggio peccato,
Non ne volere in questo far amendo,
Ché adesso il dritto e la ragion diffendo!
33.
Tu sai, Segnor, se iusta è la mia impresa,
Ché a te menzogna se direbbe in vano;
Grifon de un Saracino ha la diffesa
Contra di me, che pur son cristïano.
Per un can Saracin lui fa contesa,
Crudele, iniquo, perfido e inumano:
Fa, re del ciel, che chiaro ora comprenda
Che la iustizia per te se diffenda. –
34.
Così parlava; ed ancora Grifone,
Tuttavia combattendo a gran ruina,
Mirava al celo con devozïone.
– Vergine, – dicea lui – del cel regina,
Abbi del mio fallir compassïone,
Né abandonar questa anima tapina!
Che, benché in altre cose aggia peccato,
In questo è pur il dritto dal mio lato.
35.
Sempre parlai con Ranaldo de pace,
E lui me oltraggia con tal villania,
Che adoprar mi convien quel che me spiace
E far battaglia contra a voglia mia.
Suo tanto orgoglio e suo parlar mordace
Me hanno condutto a questa pugna ria;
E il tuo soccorso aspetto, che è dovuto,
Ché sempre a’ bisognosi doni aiuto. –
36.
In tal forma pregavan con pietate,
Tuttavia combattendo, quei guerreri;
Né mai se vedean ferme le sue spate,
Ma colpi sopra colpi ognor più fieri;
Né se temean l’un l’altro in veritate,
Tanto eran prodi e de virtute altieri,
Che a brando, a lancia, a piedi e su l’arcione,
Potean con ciascun stare al paragone.
37.
Ma nel presente io voglio differire
Il fin di questa pugna sì rubesta;
De Orlando e Brandimarte vi vo’ dire,
Che son con quella dama alla foresta,
Quale han campata da crudel martìre,
E tre giganti occisi con tempesta,
Come doveti aver nella memoria;
Or de quel fatto io vo’ seguir la istoria.
38.
Brandimarte giacea sopra a quel prato,
Come io vi dissi, tutto sanguinoso,
Con l’elmo rotto e scudo fraccassato
Pel colpo di Marfusto furïoso.
Orlando in braccio se l’avea recato,
E piangea forte quel conte pietoso.
Ma quella damisella a mano a mano
Giù del gambelo discese nel piano,
39.
Ed andò prestamente ivi alla fonte,
Ch’era nel mezo del prato fiorito,
E gettando acqua a Brandimarte in fronte
Ritornar fece il spirto sbigotito:
E dolcemente ragionando al conte
Dicea voler pigliare altro partito,
Ché poco longe una erba avea veduta,
Qual racquista la vita ancor perduta.
40.
Dentro alla selva che girava intorno
La damisella se pone a cercare,
Né stette molto, che fece ritorno
Con l’erba che a virtute non ha pare.
Ad ôr simiglia quando è chiaro il giorno,
La notte poi se vede lampeggiare;
Il fior vermiglio ha la pianta felice,
E come argento è bianca sua radice.
41.
Avea il baron la testa dissipata
Per il gran colpo, come aveti odito;
Posevi dentro quella erba fatata
La damisella, e chiusela col dito.
Fu incontinente la piaga saldata,
Né pur se vede dove era ferito;
Ma, come il spirto li fu ritornato,
Di Fiordelisa il conte ha dimandato.
42.
– Eccola quivi! – a lui rispose Orlando
– Lei sola ti campò veracemente. –
Così rispose il conte al suo dimando,
Perché de l’altra non sapea nïente.
Brandimarte mirò la dama, e quando
Vide che non è quella, un dolor sente
Sì smisurato e sì nocivo al core,
Che quel del trapassar serìa minore.
43.
Volgendo al cel le luce lacrimose:
– Chi mi campò, – dicea – da mortal sorte
Per darmi pene tanto dolorose?
Or non me era assai meglio aver la morte?
Spirti dolenti ed anime piatose
Che stati del morir sopra le porte,
Pietà vi prenda della pena mia,
Ch’io vo’ venir con vosco in compagnia!
44.
Non voglio viver, non, senza colei,
Che sola ene il mio bene e ‘l mio conforto;
Vivendo, mille volte io morirei.
Ahi, Fortuna crudel, come a gran torto
Presa hai la guerra contro a’ fatti miei!
Or che te giovarà poi che sia morto?
Che farai poi, crudel, senza lïanza?
Ché morte finirà la tua possanza.
45.
Tolto m’hai del paese ove fui nato,
Ché ancor me odiasti essendo fanciullino;
Di mia casa reale io fui robato,
E venduto per schiavo piccolino;
Il nome de mio patre aggio scordato
E il mio paese, misero! tapino!
Ma solo il nome de mia matre ancora
Fermo nella memoria mi dimora.
46.
Fortuna dispietata, iniqua e strana,
Tu me facesti servo ad un barone,
Quale era conte di Rocca Silvana;
E poi, per darmi più destruzïone,
Con falso viso ti mostrasti umana:
E il conte, che mi desti per padrone,
Franco mi fece; e, non avendo erede,
Ogni sua robba e il suo castel mi dede.
47.
E per fingerti a me più grata e sciolta,
Dama me desti de tanta beltate:
Quella me desti che adesso m’hai tolta,
Per farmi ora morir con crudeltate.
Odi, fallace, e il mio parlare ascolta:
Nocer non posso alla tua vanitate,
Ma sempre biasmarotti ed in eterno
Di te me andrò dolendo nello inferno. –
48.
Così parlando sì forte piangia,
Che avria spezzato un sasso di pietate.
Il conte Orlando gran dolor n’avia,
E quella dama con umanitate
Dolcemente parlando gli dicia:
– Molto me incresce di tua aversitate,
E debbo avere assai compassïone,
Perché a dolermi teco aggio cagione.
49.
E vo’ che intendi se le cose istrane
Son date ad altri ancor dalla Fortuna.
Mio padre è re delle Isole Lontane,
Dove il tesor del mondo se raduna;
E tanto argento ed oro ha in le sue mane,
Che altro tanto non è sotto la luna,
Né ricchezza maggior al sol si vede;
Ed io restavo a tanto bene erede.
50.
Ma non se puote indivinar giammai
Quel che sia meglio a desïare al mondo.
Di re figliola e bella mi trovai,
Ricca de avere e de stato iocondo;
E ciò mi fu cagion de molti guai,
Come te contaraggio il tutto a tondo,
Perché cognosci a quel che èmmi incontrato,
Che anzi alla morte alcun non è beato.
51.
Era la fama già sparta de intorno
Della ricchezza del mio patre antico;
E nominanza del mio viso adorno,
O vera o falsa, pur come io te dico,
Menò duo amanti a chiedermi in un giorno,
Ordauro il biondo e il vecchio Folderico;
Bello era il primo dal zuffo alla pianta,
L’altro de li anni avea più de sessanta.
52.
Ricco ciascuno e de schiatta gentile;
Ma Folderico sagio era tenuto
E de uno antiveder tanto sotile,
Che come a Dio del cel gli era creduto.
Ordauro era di forza più virile,
E grande di persona e ben membruto;
Io, che a quel tempo non chiedea consiglio,
Il vecchio lascio, e il giovine me piglio.
53.
Non era tutta mia la libertate,
Però che il patre mio vi tenea parte;
Vergogna rafrenò la voluntate,
Che presto in nave avria tratto le sarte.
Ed anco mi stimava in veritate
Poter mandar mia voglia al fin con arte,
Ed ottenire Ordauro di leggiero;
Ma fallito me andò questo pensiero.
54.
Nelli antichi proverbii dir se suole
Che malizia non è che donna avanze;
Salamon disse già queste parole,
Ma al nostro tempo se ritrovan cianze.
Provato l’ho a mio costo, e ben mi dole,
Ch’aggio perduto l’ultime speranze,
Per confidarme alla malizia mia;
Perso ho quel ch’io volevo e quel ch’io avia.
55.
Perché, fingendo la faccia vermiglia
E gli occhi quanto io pote vergognosi,
Con quel parlar che a pianto se assomiglia,
Nanti al mio patre ingenocchion mi posi,
E dissi a lui: “Segnor, s’io son tua figlia,
Se sempre il tuo volere al mio preposi,
Come fatto ho di certo in abandono,
Non mi negare a l’ultimo un sol dono.
56.
Questo serà che non me dia marito
Che prima meco al corso non contenda;
E sia per legge fermo e stabilito
Che il vincitor per sua moglie mi prenda;
Ma fa che ‘l vinto sappia che il partito
Sia di lasciar la vita per amenda,
E sia palese per tutte le bande:
Chi non è corridor, non me domande.”
57.
Questa richiesta fu crudele e dura,
Ma non la seppe il mio patre negare,
E fecela per voce e per scrittura
Quasi per l’universo divulgare.
Ora me tenni lieta e ben secura
Poter marito a mia voglia pigliare,
Perché io son tanto nel corso legiera,
Che apena è più veloce alcuna fiera.
58.
E mi ricordo che nel prato piano
Che è presso alla città di Damosire,
Presi una cerva, correndo, con mano,
Ed altre cose assai che non vo’ dire.
Or, come io dissi, Ordauro, quel soprano,
Con Folderico insieme ebbe a venire.
L’uno è canuto e di molti anni pieno,
L’altro nel viso angelico e sereno.
59.
Pensa tu, cavalliero, a qual s’accosta
Lo amoroso voler de una fanciulla.
Io tutta al giovanetto ero disposta,
E di quel vecchio mi curavo nulla.
Più non se dette al fatto indugia o sosta;
Venne il vecchiardo sopra ad una mulla,
E de alto carco se mostrava stanco;
Una gran tasca avea dal lato manco.
60.
Il giovanetto viene con gran festa
Sopra un corsier, che de oro era guarnito;
Salta su il campo ed al corso s’apresta.
Ciascun mostrava Folderico al dito,
Dicendo: “Il saggio perderà la testa,
Ché qua non gioverà esser scaltrito;
Di tanta astuzia al mondo era tenuto,
Or per amore egli ha il senno perduto.”
61.
Fuor della terra smontamo ad un prato
Per far di nostro corso ultima prova:
Folderico la tasca avea da lato.
E prima che dal segno alcun se mova,
Fu il patto nostro ancora ricontato,
E la condizïon qui se rinova;
La turba sta d’intorno alla vedetta,
E sol la mossa al terzo suono aspetta.
62.
Ciascun di noi dal segno fo partito.
Folderico davanti via passava:
Io il comportai, per averlo schernito.
Come lui vide che a passarlo andava,
Un pomo d’oro lucido e polito
Fuor della tasca subito cavava;
Io, che invaghita fui di quel lavoro,
Lasciai la corsa e venni al pomo d’oro.
63.
Ché quel metallo in vista è sì iocondo,
Che la più parte del mondo disvia;
Ed era sì volubile e ritondo,
Che de pigliarlo gran fatica avia.
Io presi il primo, e lui gettò il secondo,
Fuggendomi davanti tuttavia,
Dove ebbi assai fatica, e ad un ponto
Questo pigliai ed ebbilo ancor gionto.
64.
Io l’ebbi gionto, ed eravamo al fine
Della affannata corsa e faticosa;
E già le tende bianche eran vicine,
Dove, compìto il corso, se riposa.
Fra me dicea: Convien che io me destine
A dietro non tornar per altra cosa;
Non tornaria per tutto il mondo un dito,
Ché un vecchio non voglio io per mio marito.
65.
Passar me lassaraggio al giovanetto,
E lui davante vo’ lasciare andare;
E questo brutto vecchio e maledetto,
Che è sì canuto e vôlsi maritare,
La forma lasciarà del bacinetto;
E già questa ora mille anni a me pare
Che Ordauro meco nel corso contenda,
Ed io lo baci e per vinta mi renda.”
66.
Così parlava meco nel mio core,
Alegra, già vicina alla speranza,
Quando il vecchio malvaggio e traditore
Il terzo pomo della tasca lanza;
E tanto me abagliò col suo splendore,
Che, benché tempo al corso non me avanza,
Pur venni adietro e quel pomo pigliai,
Né Folderico più gionsi giamai.
67.
Lui forte ansando alle tende arivava;
E soi gli sono intorno con letizia.
Tutta la gente di fuora cridava:
“Adoprata ha il volpone alta malizia.”
Or tu pôi mo pensar se io biastemava,
Ch’io piansi il sangue vivo per gran stizia;
E nel mio cor dicea: Se egli è volpone,
Farollo essere un becco, per Macone.
68.
Ché mai non intrò a giostra cavalliero,
Né a torniamento per farsi vedere,
Che avesse in capo tanto alto il cimiero,
Come io farò di corne al mio potere.
Ponga a guardarme tutto il suo pensiero,
Che non gli giovarà lo antivedere;
E s’egli avesse uno occhio in ciascun dito,
Ad ogni modo rimarrà schernito.”
69.
Feci il pensiero e missilo ad effetto.
Ma voi aveti forse altro che fare,
Perché io vedo entrambi nello aspetto
Esser sospesi e de intorno guardare;
Sì che io verrò con voi, e con diletto
La mia novella voglio seguitare,
Qual or vi piace. Prendite la via,
Ch’io serò presta a farvi compagnia. –
70.
Rispose Brandimarte: – Il danno mio
M’ha tratto della mente al tutto fuore,
E de mia dama tanto mi sa rio,
Come perduto avessi proprio il core;
Sì che a cercarla è tutto il mio desio,
E sento per la indugia tal dolore
E tanta pena e tanta angoscia e guai,
Ch’io non ho inteso ciò che detto m’hai. –
71.
E così tutti tre fôrno accordati
Di cercar Fiordelisa in quel deserto,
E non posar giamai son destinati,
Sin che di lei non sanno al tutto il certo;
E cavalcando se fôrno invïati
Nel bosco ombroso e di rame coperto.
Ma il lor camino e i fatti e il ragionare
Dirovi a ponto in questo altro cantare.
CANTO VENTESIMOSECONDO
1.
Erano entrati alla gran selva folta
Quei tre, come di sopra io vi contai:
Ciascun, dintorno remirando, ascolta
Se Fiordelisa sentisse giamai,
Che fo dal rio palmier dormendo tolta;
E di lei ragionando io ve lasciai,
Che essendo in braccio a quel palmier villano
Cridava aiuto adimandando in vano.
2.
Brandimarte il suo drudo allor non vi era,
Che gli potesse soccorso donare;
Anci era travagliato in tal maniera,
Che per se stesso avea troppo che fare;
Perché in quel tempo alla battaglia fera
Con quei giganti prese a contrastare,
Con Ranchera e Marfusto ed Oridante,
Come io ve dissi nel cantar davante.
3.
Senza soccorso, adunque, la meschina
Empìa de pianti la selva dintorno,
Né mai de aiuto chieder se rafina,
Battendosi con mano il viso adorno.
Via la portava il vecchio a gran ruina
Sempre temendo averne onta e gran scorno,
Né mai sua mente al tutto ebbe sicura
Sin che fu gionto ad una tomba scura.
4.
Nel sasso entrava quel falso vecchione,
Cridando la donzella ad alta voce.
Lui ha ben ferma e certa opinïone
Di sfocar quel disio che il cor gli coce;
Ma ne la tomba alor stava un leone
Ismisurato, orribile e feroce;
Il quale, odendo il crido e gran rumore,
Uscì fremendo con molto furore.
5.
Come lo vide il vecchio fuora uscire,
Non domandati se egli ebbe paura;
Pallido in faccia se pose a fuggire,
Lasciando quella bella creatura,
Che di spavento credette morire;
Ma, come volse sua bona ventura,
Lasciolla quel leone, e via passava,
Seguendo il vecchio che fuggendo andava.
6.
Lui gionse il vecchio, che al bosco fuggiva,
E tutto quanto l’ebbe a dissipare.
La dama non restò morta né viva,
Né di paura sa quel che si fare;
Pur così quatta per la verde riva
Nascosamente prese a caminare,
E già callato avendo il monte al piano
Ritrovò uno omo contrafatto e strano.
7.
Questo era grande e quasi era gigante,
Con lunga barba e gran capigliatura,
Tutto peloso dal capo alle piante:
Non fu mai visto più sozza figura.
Per scudo una gran scorza avia davante,
E una mazza ponderosa e dura;
Non avea voce de omo né intelletto:
Salvatico era tutto il maladetto.
8.
Come la dama riscontrò nel prato,
Presela in braccio; e, caminando forte,
Ad una quercia che era lì da lato,
La legò stretta con rame ritorte.
Poi là vicino a l’erba fu colcato,
Mirando lei, che ognior chiedea la morte;
Lei chiedendo morir sempre piangea,
Ma questo omo bestial non la intendea.
9.
Lasciamo il dir di quella sventurata,
Che de l’un male in l’altro era caduta;
Ella di stroppe alla quercia è legata,
E sol piangendo il suo dolore aiuta.
Ora ascoltati de l’altra brigata,
Che per cercarla al bosco era venuta:
Orlando e Brandimarte e la donzella
Per lor campata da fortuna fella.
10.
In croppa la portava il conte Orlando,
E dolcemente la prese a pregare
Che gli contasse, così caminando,
Quel che promesso avea di ragionare.
Lei, prima leggermente sospirando,
Disse: – D’ognor che senti racontare
De alcun vecchio marito beffa nova,
Tientela certa, e non chieder più prova.
11.
Perché tante ne son fatte nel mondo,
Strane e diverse, come aggio sentito,
Che per vergogna già non me nascondo
Se anch’io ne feci un’altra al mio marito;
Anci mi torna l’animo iocondo
D’ognor ch’io mi ramento a qual partito
Fo da me scorto quel vecchio canuto,
Che sì scaltrito al mondo era tenuto.
12.
Sì come alla fontana io te contai,
Quel vecchio di me fece il male acquisto;
Il celo e la fortuna biastemai,
Ma ad esso assai toccava esser più tristo,
Ché ne dovea sentire eterni guai,
Né fu dal suo gran senno assai provvisto
A prender me fanciulla, essendo veglio;
Che tuorla antica o star senza era meglio.
13.
Lui me condusse con solenne cura,
Con pompa e con trionfo glorïoso,
Ad una rocca che ha nome Altamura,
Dove il suo gran tesor stava nascoso.
Di quel che gli intravenne ebbe paura,
Né ancor vista m’avea, che era zeloso;
Però me pose dentro a quel girone,
Intro una ciambra, peggio che pregione.
14.
Là mi stavo io, de ogni diletto priva,
E campi e la marina a riguardare,
Perché la torre è posta in su la riva
D’una spiaggia deserta, a lato al mare:
Non vi puotria salir persona viva
Che non avesse l’ale da volare,
E sol da un lato a quel castello altiero
Salir se puote per stretto sentiero.
15.
Ha sette cinte e sempre nova intrata
Per sette torrïoni e sette porte,
Ciascuna piccoletta e ben ferrata.
Dentro a questo giron cotanto forte
Fo’ io piacevolmente impregionata,
Sempre chiamando, e notte e giorno, morte;
Né altro speravo che desse mai fine
Al mio dolore e a mie pene meschine.
16.
Di zoie e de oro e de ogni altro diletto
Ero io fornita troppo a dismisura,
Fuor de il piacer che si prende nel letto,
Del quale avea più brama e maggior cura;
E il vecchio, che avea ben de ciò sospetto,
Sempre tenea le chiave alla cintura,
Ed era sì zeloso divenuto,
Che avendol visto non serìa creduto.
17.
Perciò che sempre che alla torre entrava,
Le pulice scotea del vestimento,
E tutte fuor de l’uscio le cacciava;
Né stava per quel dì più mai contento,
Se una mosca con meco ritrovava;
Anzi diceva con molto tormento:
è femina, over maschio questa mosca?
Non la tenire, o fa ch’io la cognosca.
18.
Mentre ch’io stavo da tanto sospetto
Sempre guardata e non sperando aiuto,
Ordauro, quel legiadro giovanetto,
Più volte a quella rocca era venuto,
E fatto ogni arte e prova; ed in effetto
Altro mai che il castel non ha veduto;
Ma Amor, che mai non è senza speranza,
Con novo antiveder li die’ baldanza.
19.
Egli era ricco di molto tesoro,
Ché senza quel non val senno un lupino;
Onde con molto argento e con molto oro
Fe’ comprare un palagio in quel confino
Dove me tenìa chiusa il barbasoro,
E manco de due miglia era vicino.
Non dimandati mo se al mio marito
Crebbe sospetto, e se fu sbigotito.
20.
Esso temea del vento che soffiava,
E del sol che lucea da quella parte,
Dove Ordauro al presente dimorava;
E con gran cura, diligenzia ed arte
Ogni picciol pertugio vi serrava,
Né mai d’intorno dal giron se parte;
E se un occello o nebbia nel ciel vede,
Che quel sia Ordauro fermamente crede.
21.
Ogni volta salia con molto affanno
Sopra alla torre, e trovandomi sola
Diceva: “Io temo che me facci inganno,
Ché non so che qua su de intorno vola.
Io ben comprendo la vergogna e il danno,
E non ardisco a dirne una parola:
Ché oggi ciascun che ha riguardo al suo fatto,
Nome ha zeloso, ed è stimato un matto.”
22.
Così diceva; e poi che era partito,
Rodendo andava intorno a quel rivaggio;
E per spiare ancor tal volta è gito
Dove abitava Ordauro al bel palaggio;
E a lui diceva: “Quel riman schernito,
Che più stima sapere ed esser saggio.
Se una vien còlta, non te ne fidare,
Ché l’ultima per tutte può pagare.”
23.
Queste parole e molte altre dicia
Sempre fra denti, con voce orgogliosa.
Ordauro al suo parlar non attendia,
Ma con mente scaltrita ed amorosa
Sotto la terra avea fatto una via,
A ciascuno altro incognita e nascosa.
Per una tomba chiusa intorno e scura
Gionse una notte dentro ad Altamura.
24.
E benché egli arivasse d’improviso,
Ch’io non stimavo quella cosa mai,
Io il ricevetti ben con meglior viso
Ch’io non facevo Folderico assai.
Ancora esser mi par nel paradiso,
Quando ramento come io lo baciai,
E come lui baciomme nella bocca;
Quella dolcezza ancor nel cor mi tocca.
25.
Questo ti giuro e dico per certanza,
Ch’io ero ancora vergine e polzella;
Ché Folderico non avea possanza,
Ed essendo io fanciulla e tenerella,
Me avea gabata con menzogna e zanza,
Dandomi intender con festa novella,
Che sol baciando e sol toccando il petto
De amor si dava l’ultimo diletto.
26.
Alora il suo parlar vidi esser vano,
Con quel piacer che ancor nel cor mi serbo.
Noi cominciammo il gioco a mano a mano;
Ordauro era frezzoso e di gran nerbo,
Sì che al principio pur mi parve strano,
Come io avessi morduto un pomo acerbo;
Ma nella fin tal dolce ebbi a sentire,
Ch’io me disfeci e credetti morire.
27.
Io credetti morir per gran dolcezza,
Né altra cosa da poi stimai nel mondo.
Altri acquisti possanza o ver ricchezza,
Altri esser nominato per il mondo.
Ciascun che è saggio, il suo piacere aprezza
E il viver dilettoso e star iocondo;
Chi vôle onore o robba con affanno,
Me non ascolti, ed abbiasene il danno.
28.
Più fiate poi tornammo a questo gioco,
E ciascun giorno più crescia il diletto;
Ma pur il star rinchiusa in questo loco
Mi dava estrema noia e gran dispetto;
E il tempo del piacer sempre era poco,
Però che quel zeloso maladetto
Me ritornava sì ratto a vedere,
Che spesso me sturbò di gran piacere.
29.
Unde facemmo l’ultimo pensiero
Ad ogni modo de quindi fuggire;
Ma ciò non puotea farsi de legiero,
Ché avea quel vecchio sì spesso a salire
Là dove io stava nel castello altiero,
Che non ci dava tempo di partire.
Al fin consiglio ce donò lo amore,
Che dona ingegno e sotigliezza al core.
30.
Ordauro Folderico ebbe invitato
Al suo palagio assai piacevolmente,
Mostrandoli che se era maritato,
Per trarli ogni sospeto della mente.
Lui, da poi che ebbe il castel ben serrato,
Ch’io non potessi uscirne per niente,
Né sapendo di che, pur sbigotito,
Ne andò dove era fatto il gran convito.
31.
Io già prima de lui ne era venuta
Per quella tomba sotterra nascosa,
E d’altri panni ornata e proveduta
Sì come io fossi la novella sposa;
Ma come il vecchio m’ebbe qui veduta,
Morir credette in pena dolorosa;
E vòlto a Ordauro disse: “Ahimè tapino!
Ché ben ciò mi stimai, per Dio divino!
32.
Io non occisi già il tuo patre antico,
Né abruciai la tua terra con roina,
Che esser dovessi a me crudel nemico
E far la vita mia tanto meschina.
Ahi tristo e sventurato Folderico,
Che sei gabato al fin da una fantina!
Ora a mio costo vadase a impiccare
Vecchio che ha moglie, e credela guardare.”
33.
Mentre che lui dicea queste parole
De ira e de sdegno tutto quanto acceso,
Ordauro assai de ciò con lui se dole,
Mostrando in vista non averlo inteso;
E giura per la luna e per il sole,
Che egli è contra ragion da lui ripreso;
E che per il passato e tutta via
Gli ha fatto e falli onore e cortesia.
34.
Cridava il vecchio ognior più disperato:
“Questa è la cortesia! questo è l’onore!
Tu m’hai mia moglie, mio tesor robbato,
E poi, per darmi tormento maggiore,
M’hai ad inganno in tua casa menato,
Ladro, ribaldo, falso, traditore,
Perch’io veda il mio danno a compimento
E la mia onta, e mora di tormento.”
35.
Ordauro se mostrava stupefatto,
Dicendo: “O Dio, che reggi il cel sereno,
Come hai costui de l’intelletto tratto,
Che fu de tal prudenza e senno pieno?
Or de ogni sentimento è sì disfatto,
Come occhi non avesse, più né meno.
Odi (diceva), Folderico, e vedi:
Questa è mia moglie, e che sia tua credi.
36.
Essa è figliola del re Manodante,
Che signoreggia le Isole Lontane;
Forse che in vista te inganna il sembiante,
Perché aggio inteso che fôr due germane
Tanto di faccia e membre simigliante,
Che, veggendole ‘l patre la dimane
E la sua matre, che fatte le avia,
L’una da l’altra non ricognoscia.
37.
Sì che ben guarda e iudica con teco,
Prima che a torto cotanto ti doglie,
Perché contra al dover turbato èi meco.”
Diceva il vecchio: “Non mi vender foglie,
Ch’io vedo pur di certo, e non son ceco,
Che questa è veramente la mia moglie:
Ma pur, per non parer paccio ostinato,
Vado alla torre, e mo serò tornato.
38.
E se non la riveggio in quel girone,
Non te stimar di aver meco mai pace:
In ogni terra, in ogni regïone
Te perseguitarò, per Dio verace;
Ma se io la ritrovo, per Macone
De averti detto oltraggio mi dispiace;
Ma fa che questa quindi non si mova
Insin ch’io torni e vedane la prova.”
39.
Così dicendo, con molta tempesta,
Trottando forte, alla torre tornava;
Ma io, che era de lui assai più presta,
Già dentro dalla rocca lo aspettava;
E sopra il braccio tenendo la testa,
Malanconosa in vista me mostrava.
Come fu dentro ed ebbemi veduta,
Meravigliosse e disse: “Iddio me aiuta!
40.
Chi avria creduto mai tal meraviglia,
Né che tanto potesse la natura,
Che una germana sì l’altra somiglia
De viso, de fazione e di statura?
Pur nel cor gran sospetto ancor mi piglia,
Ed ho, senza cagione, alta paura,
Però che io credo, e certo giurarei,
Che quella che è là giù, fosse costei.”
41.
Poi verso me diceva: “Io te scongiuro,
Se mai speri aver ben che te conforte:
Fosti oggi ancor di for da questo muro?
Chi te condusse, e chi aperse le porte?
Dimmi la verità, ch’io te assicuro
Che danno non avrai, pena, né morte;
Ma stu mentisci, ed io lo sappia mai,
Da me non aspettare altro che guai.”
42.
Ora non dimandar come io giurava
Il celo e’ soi pianeti tutti quanti:
Quel che si fa per ben, Dio non aggrava,
Anci ride il spergiuro degli amanti.
Così te dico ch’io non dubitava
Giurare e l’Alcorano e’ libri santi,
Che dapoi ch’era intrata in quel girone
Non era uscita per nulla stagione.
43.
Lui, che più non sapea quel che se dire,
Torna di fora, e le porte serrava.
Io d’altra parte non stavo a dormire,
Ma per la tomba ascosa me ne andava,
E a nova guisa m’ebbi a rivestire.
Quando esso gionse, e quivi mi trovava:
“Il cel – diceva – e Dio non faria mai
Che questa è quella che là su lasciai.”
44.
Così più volte in diversa maniera
Al modo sopradetto foi mostrata,
E sì for di sospetto il zeloso era,
Che spesso me appellava per cognata.
Fo dapoi cosa facile e legiera
Indi partirsi; perché una giornata
Ordauro a Folderico disse in breve
Che quella aria marina è troppo greve;
45.
E che non era stato una ora sano,
Dapoi che venne quivi ad abitare;
Sì che al giorno sequente e prossimano
Nel suo paese volea ritornare,
Ch’era da tre giornate indi lontano.
Or Folderico non se fie’ pregare,
Ma per se stesso se fo proferito
A farce compagnia for de quel sito.
46.
E con noi venne forse da sei miglia,
E poi con fretta adietro ritornava.
Ora io non so s’egli ebbe meraviglia,
Quando alla rocca non me ritrovava.
La lunga barba e le canute ciglia,
Maledicendo il cel, tutte pelava;
E destinato de averme o morire,
Nostro camino se pose a seguire.
47.
E non avendo possa, né ardimento
Di levarme per forza al giovanetto,
Veniaci dietro con gran sentimento,
Del qual troppo era pieno il maledetto.
Ora ciascun di noi era contento,
Io, dico, e Ordauro, quel gentil valletto,
Che senza altro pensier ne andamo via;
Forse da trenta eramo in compagnia.
48.
Scudieri e damiselle eran costoro,
Tutti senza arme caminando adaggio;
Emo la vittualia e argento ed oro
Posto sopra gambeli al carrïaggio;
Perché tutta la robba e il gran tesoro
Che possedeva quel vecchio malvaggio,
Avevamo noi tolta alla sicura,
Là dove io venni per la tomba oscura.
49.
Già la prima giornata caminando
Aveàn passata senza impedimento;
Ordauro meco ne venìa cantando,
Ed avea indosso tutto il guarnimento
Di piastre e maglia, e cento al fianco il brando;
Ma la sua lancia e il bel scudo d’argento
E l’elmo adorno di ricco cimero
Gli eran portati apresso da un scudero:
50.
Quando davanti, in mezo del camino,
Scontramo un damigello in su l’arcione.
Quel veniva cridando: “Ahimè tapino!
Aiuto! aiuto! per lo Dio Macone”;
Ed era alle sue spalle uno assassino
(Così sembrava in vista quel fellone);
Correndo a tutta briglia per il piano
Seguiva il primo con la lancia in mano.
51.
Per il traverso di quel bosco ombroso
Passarno e duo, correndo a gran flagello.
Ordauro de natura era pietoso,
Onde gli increbbe di quel damigello,
E posesi a seguir senza riposo;
Ma ciascun di color parea uno uccello,
Ch’eran senza arme e scarchi e lor destrieri,
Però veloci andavano e legieri.
52.
Ordauro il suo ronzone avea coperto
Di piastra e maglia, onde ebbe molto affanno:
E per esser lui di malizia experto,
Ebbe oltra alla fatica ancor gran danno;
Perché, come io conobbi poi di certo,
Sol Folderico avea fatto ad inganno
Quel giovanetto e quel ladron venire,
Acciò che Ordauro gli avesse a seguire.
53.
E come fu da noi sì dilungato,
Che di gran lunga più non si vedia,
Il falso vecchio se fu dimostrato,
Con circa a vinti armati in compagnia.
Ciascun de’ nostri se fu spaventato,
Chi qua chi là per lo bosco fuggia,
Né fu chi se ponesse alle diffese,
Onde il vecchiardo subito me prese.
54.
Se io ero in quel ponto dolorosa,
Tu lo puoi, cavallier, fra te pensare.
Per una strata de bronchi spinosa,
Dove altri non suolea mai caminare,
Me conducea quel vecchio alla nascosa,
E cento macchie ce fe’ traversare,
Perché de Ordauro avea molta paura;
Or noi giongemo ad una valle oscura.
55.
Stata ero io presa duo giorni davanti,
Quando giongemmo a l’ombroso vallone;
Io non avea giamai lasciato e pianti,
Benché me confortasse quel vechione.
Eccote uscir del bosco tre giganti,
Ciascuno armato e con grosso bastone;
Un d’essi venne avanti e cridò forte:
“Getti giù l’arme chi non vôl la morte.” –
56.
Stava la dama in questo ragionare
Col conte Orlando, ed ancora seguia,
Però che li voleva racontare,
Come e giganti l’ebbero in balìa,
E come il vecchio la volse aiutare;
E lui fu morto e la sua compagnia,
E sua ventura poi de parte in parte,
Sin che soccorsa fu da Brandimarte;
57.
Ma nova cosa che ebbe ad apparire,
Qual sturbò il ragionar della donzella;
Ché un cervo al verde prato vedean gire
Pascendo intorno per l’erba novella.
Come era vago non potrebbi io dire,
Ché fiera non fu mai cotanto bella;
Quel cervo è della Fata del Tesoro,
Ambe le corne ha grande e de fino oro.
58.
Lui come neve è bianco tutto quanto,
Sei volte il giorno di corno se muta;
Ma de pigliarlo alcun non se dà vanto,
Se forse quella fata non lo aiuta;
Ed essa è bella ed è ricca cotanto,
Che omo non ama e ciascadun riffiuta;
Ché beltate e ricchezza a ogni maniera
Per sé ciascuna fa la donna altiera.
59.
Or questo cervo pascendo ne andava,
Quando fo visto dai duo cavallieri
E dalla dama, che ancor ragionava.
Brandimarte a pigliarlo ebbe in pensieri,
Ma non già il conte, perché egli estimava
Quelle ricchezze per cose legieri;
E però apena li fece riguardo,
Abenché avesse il bon destrier Baiardo.
60.
Ma sopra a Brigliadoro è Brandimarte,
Qual, come il cervo vide, in su quel ponto
Dal conte Orlando subito se parte,
Ché de acquistarlo avea l’animo pronto;
Ma quello era fatato con tal arte,
Che non l’arìa volando alcuno agionto
Però il seguiva Brandimarte in vano
Quel giorno tutto quanto per il piano.
61.
Poiché venuta fu la notte oscura,
Lui perse il cervo per le fronde ombrose,
E veggendosi al fin de sua ventura,
Poscia che ‘l giorno la luce nascose,
Vestito sì come era de armatura
Nel verde prato a riposar se pose;
E poi nel tempo fresco, al matutino,
Monta il destriero e torna al suo camino.
62.
Quel che poi fece con l’omo selvaggio
Che la sua Fiordelisa avea legata,
Nel canto che vien drieto conteraggio,
E dirò la battaglia cominciata
Tra Ranaldo e Grifon senza vantaggio.
Per Dio, tornate a me, bella brigata,
Ché volentieri ad ascoltar vi aspetto,
Per darvi al mio cantar zoia e diletto.
CANTO VENTESIMOTERZO
1.
Seguendo, bei segnori, il nostro dire,
Brandimarte dal conte era partito,
E perse il cervo e posese a dormire;
Ma poi, al novo giorno resentito,
Al suo compagno volea rivenire;
E già sopra il destrier sendo salito,
Ascoltando li parve voce umana
Che si dolesse, e non molto lontana.
2.
E poi che un pezzo per odir fu stato,
Verso quel loco se pose ad andare;
E come aveva alquanto cavalcato,
Stavasi fermo e quieto ad ascoltare;
E così andando gionse ad un bel prato,
E colei vide, che odìa lamentare,
Legata ad una quercia per le braccia;
Come la vide, la cognobbe in faccia.
3.
Perché quella era la sua Fiordelisa,
Tutto il suo bene e vita del suo core;
Sì che pensati voi or con qual guisa
Se cangiò Brandimarte de colore.
Era l’anima sua tutta divisa:
Parte allegrezza e parte era dolore,
Ché d’averla trovata era zoioso,
Ma del suo mal turbato e doloroso.
4.
Più non indugia, che salta nel piano,
E lega Brigliadoro ad una rama;
Va con gran fretta il cavallier soprano
Per discioglier colei che cotanto ama;
Ma quello omo bestiale ed inumano
Ch’era nascoso in guardia de la dama,
Come lo vide, uscì de quel macchione,
E imbraccia il scudo ed impugna il bastone.
5.
Era quel scudo tutto de una scorza
Ben atto a sostenire ogni percossa,
Né dubbio è che se piega o che se torza,
Perché de un gran palmo egli era grossa.
Omo non ave mai cotanta forza,
Cavalliero, o gigante di gran possa,
Quanto ha quello omo rigido e selvaggio:
Ma non cognosce a zuffa alcun vantaggio.
6.
Abita in bosco sempre, alla verdura,
Vive de frutti e beve al fiume pieno;
E dicesi ch’egli ha cotal natura,
Che sempre piange, quando è il cel sereno,
Perché egli ha del mal tempo alor paura,
E che ‘l caldo del sol li venga meno;
Ma quando pioggia e vento il cel saetta,
Alor sta lieto, ché ‘l bon tempo aspetta.
7.
Vene questo omo adosso a Brandimarte,
Col scudo in braccio e la maza impugnata;
Non ha di guerra lui senno né arte,
Ma legerezza e forza smisurata.
Non era il baron vòlto in quella parte,
Ma là dove la dama era legata;
E se lei forse non se ne avedia,
Quello improviso adosso li giongia.
8.
De ciò non se era Brandimarte accorto,
Ma quella dama, che ‘l vide venire,
Cridò: – Guârti, baron, che tu sei morto! –
Non se ebbe il cavalliero a sbigotire;
E più d’esso la dama ebbe sconforto
Che di se stessa, né del suo morire,
Perché con tutto il cor tanto lo amava
Che, sé scordando, sol di lui pensava.
9.
Presto voltosse il barone animoso
E se ricolse ad ottimo governo;
E quando vide quel brutto peloso,
Beffandolo fra sé, ne fie’ gran scherno;
E stette assai sospeso e dubbïoso
Se questo era omo o spirto dello inferno;
Ma sia quel che esser voglia, e’ non ne cura,
E vallo a ritrovar senza paura.
10.
A prima gionta il salvatico fiero
Menò sua mazza, che cotanto pesa,
E gionse sopra il scudo al cavalliero,
Che ben stava coperto in sua diffesa;
E come quel che è scorto a tal mestiero,
Taglia quella col brando alla distesa.
Come lui vide rotta la sua mazza,
Saltagli adosso e per forza l’abbrazza.
11.
E lo tenìa sì stretto e sì serrato,
Che non puoteva se stesso aiutare.
Più volte il cavallier se fo provato
Con ogni forza de sua man campare;
Ma quanto un fanciulletto adesso nato
Potrebbe a petto a uno omo contrastare,
Tanto il selvaggio di estrema possanza
E di gran forza Brandimarte avanza.
12.
Via ne ‘l portava e stimavalo tanto
Quanto fa il lupo la vil pecorella.
Ora chi odisse il smisurato pianto
Che facea lamentando la donzella,
A Dio chiamando aiuto, ad ogni Santo
In cui sperava, alla Fede novella:
Chi odisse il pianto e ‘l piatoso sermone,
Ciascuno avria di lei compassïone.
13.
Tuttavia quel selvaggio omo il portava;
Per le braccia a traverso l’avia preso;
Lui quanto più puotea si dimenava,
D’ira, de orgoglio e di vergogna acceso;
Ma quel suo dimenar poco giovava,
Perché il selvaggio lo tenìa sospeso
Alto da terra, perché era maggiore,
Correndo tuttavia con gran furore.
14.
Gionse correndo, col barone in braccio,
Dove era un’alta pietra smisurata;
Correa nella radice un gran rivaccio,
Che l’avea da quel canto dirupata,
Sì che da cima al fondo avea di spaccio
Seicento braccia la ripa tagliata.
Quivi il selvaggio ne portò il barone
Per trabuccarlo giuso a quel vallone.
15.
Come fo gionto a l’orlo del gran sasso,
Via lo lancia da sé senza riguardo;
Poco mancò che non gionse al fraccasso
Del dirupo alto il cavallier gagliardo,
E ben gli fo vicino a men d’un passo.
Ma presto saltò in piede e non fo tardo;
Perché egli aveva ancora in mano il brando,
Verso il selvaggio se ne andò cridando.
16.
Quel non aveva scudo né bastone,
L’uno era rotto, l’altro avea lasciato;
Corse ad uno olmo e prese un gran troncone,
E non l’avendo ancor tutto spiccato,
Brandimarte il ferì sopra al gallone,
E di gran piaga l’ebbe vulnerato.
Lui, ch’è orgoglioso ed ha superbia molta,
Quel troncon lascia ed al baron si volta.
17.
Voltasi quel selvaggio furïoso
A Brandimarte per saltargli adosso;
Il cavallier col brando sanguinoso,
Nel voltar che se fie’, l’ebbe percosso;
Via tagliò un braccio, che è tutto peloso,
E gionse al busto smisurato e grosso;
Giù per le coste insieme alla ventraglia
Tutte col brando ad un colpo gli taglia.
18.
Quel non se puote alor più sostenire,
Cade cridando in su la terra dura;
E’ non sapea parole proferire,
Ma facea voce terribile e oscura.
Quando il barone lo vide morire,
Quivi lo lascia e più non ne dà cura,
Anci correndo a quel prato ne andava,
Dove il destriero e la sua dama stava.
19.
Come fu gionto ove era la donzella,
Di gran letizia non sa che si fare;
Tienla abbracciata e già non li favella,
Ché de allegrezza non puotea parlare.
Or per non far de ciò longa novella,
Quella disciolse ed ebbe a cavalcare,
E posesela in groppa, e a lei rivolto
Parlando andava per quel bosco folto.
20.
E l’uno e l’altro insieme racontava,
Questa come fu tolta dal vecchione
Che per la selva oscura la portava,
E come fu poi morto dal leone;
E così a lei Brandimarte narrava
De’ tre giganti quella questïone
Che fatta aveano al prato della fonte,
E de la dama che portava il conte.
21.
E così l’uno e l’altro ragionando
De lor travaglio e de la lor paura,
Veniano a ritrovare il conte Orlando.
Ma ad esso era incontrata altra ventura,
Qual poi a tempo vi verrò contando;
Ora al presente poneti la cura
Ad ascoltar la zuffa e la tenzone
Che ebbe Ranaldo col franco Grifone.
22.
Né so se vi ricorda nel presente,
Segnor, come io lasciassi quella cosa
De’ due baron, che nequitosamente
Facean cruda battaglia e tenebrosa,
E stimavan la vita per nïente,
E quello e questo mai non se riposa,
Né sparma colpi alcun, né si nasconde,
Ma l’uno l’altro a bon gioco risponde.
23.
Tutta la gente quivi se adunava,
Pedoni e cavallieri a poco a poco;
Sì ciascun de veder desiderava,
Che strettamente li bastava il loco.
Marfisa avanti agli altri riguardava,
Tutta nel viso rossa come un foco;
Ma, mentre che mirava, ecco Ranaldo
Mena un gran colpo furïoso e saldo;
24.
E sopra l’elmo gionse de Grifone,
Ch’era affatato, come aveti odito;
Se alora avesse gionto un torrïone,
Sin gioso al fondo l’arebbe partito;
Ma quello incanto e quella fatasone
Campò da morte il giovanetto ardito,
Benché a tal guisa fu del spirto privo,
Che non moritte e non rimase vivo.
25.
Però che, briglia e staffe abandonando,
Pendea de il suo destriero al destro lato,
E per il prato strasinava il brando,
Perché l’aveva al braccio incatenato.
Quando Aquilante il venne remirando,
Ben lo credette di vita passato,
E sospirando di dolore e d’ira
Verso Ranaldo furïoso tira.
26.
Questo era anch’esso figlio de Olivero,
Come Grifone, e di quel ventre nato,
Né di lui manco forte né men fiero,
E come l’altro aponto era fatato:
L’arme sue, dico, il brando e il bon destriero,
Benché a contrario fosse divisato,
Ché questo tutto è nero, e quello è bianco,
Ma l’un e l’altro a meraviglia è franco.
27.
Sì che non fo questo assalto minore,
Ma più crudele assai ed inumano,
Perché Aquilante avea molto dolore,
Credendo essere occiso il suo germano;
E come disperato a gran furore
Combattea contra il sir de Montealbano,
Ferendo ad ambe man con molta fretta,
Per morir presto o far presto vendetta.
28.
Da l’altra parte a Ranaldo parea
Ricever da costoro a torto ingiuria,
Però più dello usato combattea
Terribilmente, acceso in maggior furia;
Contra sé tutti quanti li vedea,
E lui soletto non ha chi lo alturia
Se non Fusberta e il suo core animoso,
Però combatte irato e furïoso.
29.
– Or via, – diceva lui – brutta canaglia!
Mandati ancor de li altri a ricercare,
Che vengano a fornir vostra battaglia;
O venitene insieme, se vi pare,
Che tutti non vi stimo un fil de paglia.
Come poteti gli occhi al celo alciare
De vergogna, o vedere vi lasciati,
Sendo tra gli altri sì vituperati? –
30.
Non respondeva Aquilante nïente,
Benché egli odisse quel parlar superbo,
Ma, stringendo de orgoglio dente a dente,
Con quanta possa aveva e quanto nerbo
Ferì Ranaldo ne l’elmo lucente
De un colpo furïoso e tanto acerbo,
Che Ranaldo le braccia al celo aperse
Per la gran pena che al colpo sofferse.
31.
E se il suo brando non fosse legato
Al destro braccio, come lui portava,
Ben li serìa caduto al verde prato.
Or Rabicano a gran furia ne andava,
Perché Ranaldo il freno avea lasciato,
Né dove fosse alor se ricordava;
Ma di profondo spasmo e di dolore
Ave perduto lo intelletto e il core.
32.
Aquilante, de orgoglio e d’ira pieno,
Per tutto intorno al campo lo seguìa;
Ed avea preso al cor tanto veleno,
Che così volontier morto l’avria,
Come fosse un pagan, né più né meno.
Ma ritornò Ranaldo in sua balìa;
Proprio alor che Aquilante l’avea gionto,
In sé rivenne vigoroso e pronto.
33.
E, ritrovato il brando che avea perso,
Voltò contra Aquilante il corridore,
Acceso di furor troppo diverso;
Con quanta forza mai puote maggiore,
Lo gionse a mezo l’elmo nel traverso.
Non valse ad Aquilante il suo valore,
Né l’arme fatte per incantamento,
Ché stramortito perse il sentimento.
34.
Ranaldo già nïente indugiava,
Perché era d’ira pieno a quella fiata,
E l’elmo prestamente li slaciava,
E ben gli avrebbe la testa tagliata:
Ma Chiarïone la lancia arrestava,
Così come era la cosa ordinata;
Né de lui se accorgendo il fio d’Amone,
Di traverso il ferì sopra il gallone.
35.
Piastra non lo diffese o maglia grossa,
Ma crudelmente al fianco l’ha ferito.
Alor che ebbe Ranaldo la percossa,
Grifone aponto se fo risentito,
Ch’era stato gran pezzo in molta angossa
E fuora de intelletto sbalordito;
Via passò Chiarïon, rotta ha la lancia,
Ché tenire il destrier non ha possancia.
36.
Or, come io dissi, Grifon se risente,
Alor che via ne andava Chiarïone,
E non sapea de Aquilante nïente,
Né de questo altro ancor la questïone,
Ché mosso non serebbe certamente;
Ma così come uscì de stordigione,
Per vendicarse il colpo che avea còlto
Verso a Ranaldo furïoso è vòlto.
37.
Non era ancora il sir de Montealbano
Aconcio ne l’arcione e rassettato,
Per quello incontro sì crudo e villano
Che quasi fuor di sella andò nel prato,
Quando gionse Grifon col brando in mano;
Trovandolo improviso e sbarattato,
Gli donò un colpo orribile e possente:
Voltosse il fio de Amon come un serpente.
38.
Come un serpente per la coda preso,
Che gonfia il collo e il busto velenoso,
Cotal Ranaldo, de grand’ira acceso,
A Grifon se rivolse nequitoso;
E ben l’avrebbe per terra disteso,
Tanto menava un colpo furïoso;
Se non che Chiarïon, ch’era voltato,
Giongendo sturbò il gioco cominciato.
39.
E sopra il braccio destro lo percosse,
Come ebbe de improviso ad arivare,
E con tanta ruina lo commosse,
Che quasi il fece il brando abandonare.
Pensati se Ranaldo ora adirosse,
Che perder non vo’ tempo al racontare;
Forte cridando, giura a Dio divino
Che tutti non gli stima un vil lupino.
40.
E se rivolta contra a Chiarïone,
E darli morte al tutto è delibrato;
Ma già per questo non resta Grifone,
Né il lascia prender lena e trare il fiato.
Ecco Aquilante ariva alla tenzone,
Che era de stordigion già ritornato,
Ma non già al tutto, perché veramente
Non s’accorgea de gli altri duo nïente:
41.
De gli altri duo che, ciascadun più fiero,
Stanno d’intorno Ranaldo a ferire;
Ciò non pensa Aquilante, quello altiero,
Ma sua battaglia destina finire.
Spronando a gran ruina il suo destriero
Lascia sopra a Ranaldo un colpo gire
Tanto feroce, dispietato e crudo,
Che tagliò tutto per traverso il scudo.
42.
Sotto il scudo la piastra del bracciale
Sopra un cor’ buffalino era guarnita;
La manica de maglie nulla vale,
Ché gli fece nel braccio aspra ferita.
A’ circonstanti ciò parea gran male;
Sopra a gli altri Marfisa, quella ardita,
Va correndo, ché apena ritenuto
Se era sin ora di donargli aiuto.
43.
Onde se mosse lui con la regina
Che di prodezza al mondo non ha pare.
Qual vento, qual tempesta di marina
Se puote al gran furore equiperare?
Quando Marfisa mosse con ruina,
Parea che e monti avessero a cascare,
E’ fiumi andasser nello inferno al basso,
Ardendo l’aria e il celo a gran fraccasso.
44.
A quel furor terribil e diverso
Serebbe tutto il mondo sbigotito;
Per ciò non ha Grifon l’animo perso,
Né il suo german, che fo cotanto ardito;
Ma ciascun de gli altri ha il cor summerso
Quando vider colei sopra a quel sito,
Qual con tal furia nel giorno davanti
Gli avea cacciati e rotti tutti quanti.
45.
Venner contra Marfisa e duo germani,
Ciascun di lor se stringe, il scudo imbraccia;
E il pro’ Ranaldo, solo in su quei piani,
Al re Adrïano e a Chiarïon minaccia;
E fôr Torindo ed Oberto alle mani,
Ben che ferito è Oberto nella faccia.
Trufaldin sta da parte e pone mente,
Come avesse de questo a far nïente.
46.
L’una e poi l’altra zuffa voglio dire,
Perché in tre lochi a un tempo se travaglia,
E il rumore è sì grande ed il ferire
E il spezzar delle piastre e della maglia,
Che apena se potrebbe il trono odire.
Or, cominciando alla prima battaglia,
Grifone ed Aquilante alla frontera
Tolsero in mezo la regina fiera.
47.
Lei, come una leonza che di pare
Se veggia in mezo a duo cervi arivata,
Che ad ambo ha il core e non sa che si fare,
Ma batte i denti, e quello e questo guata;
Cotal Marfisa se vedea mirare,
Adosso l’uno e l’altro inanimata,
Sol dubitando la regina forte
A cui prima donar debba la morte.
48.
Ma star sospesa non li fa mestiero,
Ché ben gli diè Grifone altro pensare;
Ad ambe mani il giovanetto fiero
Un colpo smisurato lasciò andare.
Il drago, che ha la dama per cimiero,
Fece in due parte alla terra callare;
Non fo Marfisa per quel colpo mossa,
Benché sentisse al capo gran percossa.
49.
Verso Grifon turbata un colpo mena,
Con quel gran brando che ha tronca la ponta;
Ma non è verso lui voltata apena,
Che nel collo Aquilante l’ebbe gionta.
Pensati or se ella rode la catena,
E se a tal cosa prese sdegno ed onta,
Perché quel colpo orribile e improviso
Batter li fece contra a l’elmo il viso.
50.
E gli uscì il sangue da’ denti e dal naso,
Che non gli avvenne in battaglia più mai.
Dricciandosi cridò: – Giotton malvaso,
Se tu sapesti quel che tu non sai,
Voresti nel girone esser rimaso:
Or vo’ che sappi che tu morirai
Per le mie mane, e non è in celo Iddio
Che te possa campar dal furor mio. –
51.
Mentre che ella braveggia a suo volere,
Non ha il franco Grifone il tempo perso,
Ma con ogni sua forza e suo potere
In fronte la ferì de un gran riverso.
Io non sapria cantando far vedere
Di lei lo assalto orribile e diverso,
Ché, non curando più la sua persona,
Verso Aquilante tutta se abandona.
52.
Ferì con tal superbia la adirata,
Con tal ruina e con furor cotanto,
Che, se non fosse la piastra incantata,
Fesso l’avria per mezzo tutto quanto.
Dicea il franco Grifon: – Cagna rabbiata,
Tu non te donarai al mondo il vanto
Che promisso hai, de occider mio germano:
Ma serà tuo zanzar bugiardo e vano. –
53.
Così dicendo la ferì del brando
Con gran tempesta ne l’elmo lucente.
Or, bei segnori, a Dio ve racomando,
Perché finito è il mio dire al presente;
E, se tornati, verrovi contando
Questa battaglia nel canto sequente,
Qual fo tra gente di cotanto ardire,
Che ve fia gran diletto odendol dire.
CANTO VENTESIMOQUARTO
1.
Se non me inganna, segnor, la memoria,
Seguir convene una zuffa grandissima,
Ché a l’altro canto abandonai la istoria
Della dama terribile e fortissima,
Quale ha tanta arroganza e sì gran boria,
Che vergognata se stima e vilissima
E che beffando ogni om dietro gli rida,
Se tutto il mondo a morte non disfida.
2.
Da l’altra parte Aquilante e Grifone
Eran duo cavallier di tanto ardire,
Che lo universo non avea barone
Qual gli potesse entrambi sostenire:
Dico né Orlando, né il figlio de Amone,
O di qual altro più se possa dire,
Perché ciascun di lor, fronte per fronte,
Tiene battaglia al pro’ Ranaldo e al conte.
3.
Onde una zuffa sì pericolosa
Non fo nel mondo più fatta giamai,
Come fu tra Marfisa valorosa
E i duo guerrer, che avean prodezza assai.
Per ordine vi voglio or dir la cosa,
Ché, se ben mi ramento, io ve lasciai
Come la dama ne l’elmo forbito
Era percossa da Grifone ardito.
4.
A lui se volta con tanta ruina,
Che lo credette al tutto dissipare;
Gionse nel scudo la forte regina,
E quel spezzato fa per terra andare;
E se non era l’armatura fina
Che quella fata bianca ebbe a incantare,
Tagliava lui con tutto il suo destriero,
Tanto fu il colpo dispietato e fiero.
5.
Ben gli rispuose il franco giovanetto
Ed a due man ne l’elmo la percosse,
E callò il brando ne lo armato petto.
Aquilante a quel tempo ancor se mosse;
Ma la regina con molto dispetto
Contra di lui turbata rivoltosse,
E nel viso il ferì con tal tempesta,
Che su le groppe il fie’ piegar la testa.
6.
Né pone indugia, che a Grifon se volta,
E mena un colpo tanto disperato,
Che al giovanetto avria la vita tolta,
Se quel non fusse per incanto armato.
Mentre a quel colpo è la dama disciolta,
Aquilante arivò da l’altro lato,
E con gran furia ne l’elmo la afferra,
Credendo a forza metterla per terra.
7.
Forte tira Aquilante ad ambe braccia;
Marfisa abranca lui di sopra al scudo,
E via dal petto con la mano il straccia.
Allor Grifone, il giovanetto drudo,
De aiutare Aquilante se procaccia,
E menò un colpo dispietato e crudo,
Tal che col brando il scudo gli fracassa;
Lei se rivolta ed Aquilante lassa.
8.
Lascia Aquilante e voltasi al germano,
E lo ferì de un colpo furïoso;
Or chi più presto può, gioca de mano,
Né indugia vi si pone, o alcun riposo.
Come in un tempo oscuro e subitano,
Che vien con troni e vento ruïnoso,
Grandine e pioggia batte in ogni sponda,
Che l’erbe strugge e gli arbori disfronda;
9.
Così son essi, ed era il suo colpire:
Nïun de’ duo quella dama abandona,
Or l’uno or l’altro l’ha sempre a ferire.
Lei da altra parte è sì franca persona,
Che il lor vantaggio poco viene a dire.
Alle spesse percosse il cel risuona;
Né vinti fabri a botta di martello
Farian tanto rumore e tal flagello.
10.
Vicino a questi, proprio in su quel piano,
Era un’altra terribil questïone,
Però che ‘l franco sir de Montealbano
Ha il re Adrïano adosso e Chiarïone.
Benché ferito è quel baron soprano
Forte nel braccio manco e nel gallone,
Pure è sì fiero e sì di guerra saggio,
Che a’ duo combatte ed ha sempre avantaggio.
11.
Tra il forte Oberto e quel re de Turchia
La zuffa cominciata ancor durava;
Torindo la battaglia mantenia,
Abenché Oberto forte lo avanzava.
Più fier cresce lo assalto tutta via,
In quei tre lochi ogni om se adoperava;
Vero è che con più ardore ed altra guisa
Se combattea là dove era Marfisa.
12.
Ma poi de tutte tre queste battaglie
Vi contaraggio il fin, ciò vi prometto;
Or convengo narrarvi altre travaglie
De il conte Orlando, che giva soletto
Tra l’aspre spine e le sassose scaglie,
Dove il lasciai, in quel folto boschetto;
Sol di trovare il suo compagno ha cura,
Sempre cercando insino a notte scura.
13.
Da poi che ‘l giorno al tutto fu passato,
E già splendia nel cel ciascuna stella,
E non trova colui che egli ha cercato,
Né scontra che de quel sappia novella,
Smonta Baiardo e discese nel prato,
Ed avea seco quella damigella
Di cui longo parlare aveti odito,
Qual fie’ la beffa al suo vecchio marito.
14.
Lei de essere assalita dubitava,
E forse non gli avria fatto contrasto;
Ma questo dubbio non gli bisognava,
Ché Orlando non era uso a cotal pasto.
Turpino affirma che il conte de Brava
Fo ne la vita sua vergine e casto.
Credete voi quel che vi piace ormai;
Turpin de l’altre cose dice assai.
15.
Colcossi a l’erba verde il conte Orlando,
Né mai se mosse insino al dì nascente.
Lui dormia forte, sempre sornachiando;
Ma la donzella non dormì nïente,
Perché stava sospesa, imaginando
Che questo cavallier tanto valente
Non fosse al tutto sì crudo de core,
Che non pigliasse alcun piacer de amore.
16.
Ma poi che la chiara alba era levata,
E vide del baron le triste prove,
In groppa gli montò disconsolata,
E se saputo avesse andare altrove,
Via volentieri ne serebbe andata;
Ma, come io dico, non sapeva il dove.
Malinconiosa e tacita si stava:
Il conte la cagion gli domandava.
17.
Ella rispose: – Il vostro sornacchiare
Non mi lasciò questa notte dormire,
Et, oltra a ciò, me sentia piziccare. –
Dicendo questo e volendo altro dire,
Avanti a loro una donzella appare,
Che fuor de un bel boschetto ebbe ad uscire,
Sopra de un palafren di seta adorno;
Un libro ha in mano ed alle spalle un corno.
18.
Bianco era il corno e d’un ricco lavoro,
Troppo mirabilmente fabricato;
Di smalto colorito e splendido oro
Da ciascun capo e in mezo era legato;
E ben valeva infinito tesoro,
De tante ricche pietre era adornato:
E, come io dissi, il porta una donzella
Sopra de l’altre grazïosa e bella.
19.
Come fu giunta, ad Orlando se inchina,
E con parlar cortese e voce pura
Gli disse: – Cavallier, questa matina
Trovato aveti la maggior ventura
Che abbia la terra e tutta la marina;
Ma a ciò bisogna un cor senza paura,
Quale aver debbe un cavallier perfetto,
Sì come voi mostrati nello aspetto.
20.
Questo libro la insegna ad acquistare,
Ma il modo e la maniera convien dire.
Prima il bel corno vi convien suonare,
Poi de improviso questo libro aprire,
E leggeriti quel che avriti a fare
Di quella cosa che abbia ad apparire;
Perché, suonando il corno, a prima voce
Verrà qualcosa orribile e feroce.
21.
Ma il libro chiarirà, quale io ve ho detto,
Come vi abbiate in quella a governare;
E non crediati già di aver diletto,
Ma converravi il brando adoperare.
Come sereti fuor di quel sospetto,
Non vi bisogna ponto indugïare,
Ché vostra libertà vi serìa tolta;
Ma il corno suonareti un’altra volta.
22.
Ed a quel suono ancor qualche altra cosa
Vedreti uscire e qualche gran periglio;
E voi, come persona valorosa,
Aprite il libro e prendite consiglio;
Ma se teneti l’alma paurosa,
A tal ventura non dati de piglio;
Perché ardito principio e mala fine
Fatto ha più volte assai gente tapine.
23.
E ciò ve dico per questa ragione:
Il corno per incanto è fabricato,
E se alcun cavalliero è sì fellone,
Che dopo il primo suon sia spaventato,
Sempre seranne in sua vita pregione,
Ché a la Isola del Lago fia menato;
Né a cui spiace il finir, die’ cominciare:
Tre volte il corno se convien sonare.
24.
Alle due prime incontra gran travaglia,
Pena e fatica troppo smisurata,
Ed a ciascuna convien far battaglia;
Ma, suonando da poi la terza fiata,
Non bisogna adoprar brando né maglia,
Che uscirà cosa tanto aventurata,
Qual, se campasti ancor de li anni cento
In vostra vita, vi farà contento. –
25.
Da poi che il conte dalla dama intese
L’alta ventura e la gran meraviglia,
De trarla al fine entro al suo cor se accese,
Né fra sé pensa o con altrui consiglia,
Ma con gran voluntà la man distese,
E prestamente il libro e il corno piglia;
E per meglio acconciarse a quella guerra,
La dama che avea in groppa pose a terra.
26.
Poi messe a bocca il corno in abandono,
Come colui che ciò ben far sapiva.
Sembrava quasi quella voce un trono,
E ben da longe de intorno se odiva;
Ed ecco nella fin del primo suono
Una gran pietra in due parte se apriva;
La pietra a cento braccia era vicina:
Tutta se aperse con molta ruina.
27.
Rotta che fo la pietra per traverso,
Duo tori uscirno con molto rumore,
Ciascun più fiero orribile e diverso,
Con vista cruda e piena di terrore.
Le corne avian di ferro, e il pel riverso
Tutto alla testa, e di strano colore,
Però che or verde, or negro se mostrava,
Or giallo, or rosso, e sempre lustrigiava.
28.
Aperse Orlando il libro incontinente;
Così diceva a ponto la scrittura:
‘Cavallier, sappi che serai perdente,
Se ad occider quei duo tu poni cura,
Ché con la spada faresti nïente;
Ma se vôi trare a fin questa ventura,
Pigliarli te convien con molta pena
E legarli ambi insieme a una catena.
29.
Poi che sian gionti, ti conviene andare
Là dove vedi la pietra intagliata,
E il campo ivi de intorno tutto arare;
E questo è quanto alla prima sonata.
Nella seconda torna a riguardare,
Perché il modo e la via te fia mostrata
De aver de questa impresa onore o morte.
Via! via! barone; e fa che te conforte.’
30.
Non fece Orlando al libro più riguardo,
Ma se rivolse al fraccassato sasso;
Né certo bisognava esser più tardo,
Però che e tori uscirno a gran fracasso.
Esso era già smontato di Baiardo,
E lor contra ne andava a fermo passo.
Or gionse il primo ed abassa la testa
E ferì in fianco il conte a gran tempesta.
31.
Più de otto braccia ad alto l’ha gettato,
E cade in terra con grave percossa.
Gionse il secondo, e col corno ferrato
Ruppe le piastre, usbergo e maglia grossa,
E un’altra fiata al cel lo ebbe levato,
E ben gli fe’ doler le polpe e l’ossa;
Vero è che alcun di lor non l’ha ferito,
Perché è fatato il cavalliero ardito.
32.
Or se lui se turbò, non dimandate,
Ché contar non puotria la voce umana;
Come ebbe in terra le piante fermate,
Ben dimostrava sua forza soprana,
Botte menando tanto desperate
Che sibillar faceva Durindana;
E per le corne e pel dosso peloso
Mena a traverso il conte furïoso.
33.
Ma, come il brando suo fosse de un fusto,
Non li puotea tagliar la pelle adosso;
Così fatato avean quei tori il busto,
Che tutti e brandi un pel no’ gli avrian mosso;
E benché ‘l conte fosse aspro e robusto,
L’avean di qua, di là tanto percosso,
Con le corne di ferro sì pistato,
Che a gran fatica puotea trar il fiato.
34.
Pur, come quel che è fiero oltra a misura,
Facea del suo dolore aspra vendetta;
Sempre combatte con vista secura,
E de ferire a l’uno e a l’altro afretta;
E benché abbian la pelle e grossa e dura,
Muggiavan molte fiate per gran stretta,
Ché lui feriva con tanta roina,
Che spesso a terra or questo or quello inchina.
35.
E cominciavan già de rinculare,
A testa bassa facendo diffesa;
Ma, come il conte gli andava a trovare,
Era di novo sua superbia accesa.
Così tre volte se ebbero a fermare,
E tre volte tornarno alla contesa:
Al fine Orlando, per finir la guerra,
Un d’essi in fronte per un corno afferra.
36.
Con la sinistra man nel corno il piglia,
E quel, forte mugiando, furïava
Facendo salti grandi a meraviglia,
E già per questo Orlando nol lasciava.
Esso avea tratto a Baiardo la briglia
E sotto la cintura la portava.
Questa era aredinata di catena:
Prendela il conte e il toro intorno mena.
37.
E mentre che così questo ragira,
Tenendol tuttavia preso nel corno,
Quell’altro toro, acceso de molta ira,
Sempre ferendo a lui giva d’intorno.
Il conte con gran forza il primo tira
Dove è un pilastro de marmore adorno,
Che fu del re Bavardo sepultura,
Come mostrava intorno la scrittura.
38.
Con questa briglia il primo ebbe legato,
E similmente ancor prese il secondo;
E poi che l’ebbe a quel sasso menato,
Tanto gli batte al colpo furibondo,
Che a l’uno e l’altro è l’orgoglio mancato.
Non se indugia il guerrer, che è fior del mondo,
Ma sì fra e tori attacca la sua spada,
Che ‘l stocco avanti e l’elzo adrieto vada.
39.
Poi se fece d’un tronco una gran mazza,
E come biolco se pone ad arare;
Quei duo feroci tori avanti cazza
E dritto il solco li fa caminare.
Sempre col tronco li batte e minazza:
Mai non fu visto il più bel lavorare.
Per terra è Durindana e par che rada,
Radice e pietre taglia quella spada.
40.
Poi che fu il campo nelle sue confine
Arato tutto, Orlando fie’ gran festa,
Dio ringraziando e sue virtù divine,
Che gli avea dato onor de tanta inchiesta.
Poi lasciò e tori, e non se vidde il fine
De lor, che se ne andarno con tempesta;
Muggiando forte via passarno un monte,
E uscîr de vista alle donzelle e al conte.
41.
Benché sofferto avesse molto affanno
Il franco conte alla battaglia dura,
A lui pareva ciascuna ora uno anno
De poter trare a fin tanta ventura;
Né stima che per forza o per inganno
Possa esser vinta sua mente sicura.
Senza altramente adunque riposare,
Prende il bel corno e comincia a suonare.
42.
Era smontata giù del palafreno
Quella donzella che portava il corno,
E nel bel prato de fioretti pieno
Se avea d’una ghirlanda il capo adorno;
Ma, come il suon del conte venne meno,
Tremò quella campagna tutta intorno,
E un piccol monticel ch’era in quel loco,
Se aperse in cima e fuor gettò gran foco.
43.
Stavasi queto il figlio di Melone,
Per veder ciò che al fine avesse a uscire.
Ecco fuor di quel monte esce un dragone,
Terribil tanto, ch’io nol posso dire.
La dama, che sapea la fatasone,
Tenne quell’altra, che volea fuggire,
Dicendo: – Sopra me stati sicura,
Ché solo al cavallier tocca paura.
44.
Questa facenda a noi non apartiene,
Ma quel barone al tutto fia deserto. –
Rispose l’altra: – Ben se gli conviene,
Ché un più malvaggio al mondo non è certo. –
Adunque ciascadun m’intenda bene,
Perché il caso de Orlando mostra aperto
Che ogni servigio di dama si perde
Chi non ad’acqua il suo fioretto verde.
45.
Or torno a ragionar di quel serpente
Che un altro non fu mai visto maggiore.
Di scaglie verde e d’oro era lucente,
L’ale ha depinte in diverso colore.
Tre lingue avea ed acuto ogni dente,
Battea la coda con molto rumore,
Sempre gettava foco e fiamma viva,
Che da l’orecchie e di bocca li usciva.
46.
Come il serpente in tutto si scoperse,
Il conte, che teniva il libro in mano,
Gli vide scritto ove prima lo aperse:
‘ Nel mondo tutto, per monte e per piano,
Tanta fatica mai altrui sofferse
Come tu soffrirai, baron soprano;
Ma forse ancora potresti campare,
Se quel ch’io dico, te amenti di fare.
47.
Questa battaglia conviene esser presta,
Perché il serpente è di tossico pieno,
E getta fumo e fiamma sì molesta,
Che ti farebbe tosto venir meno;
Ma stu potesti tagliarli la testa,
Non dubitar di foco o di veleno,
E piglia pur quel capo arditamente:
Rompilo sì, che ne traggi ogni dente.
48.
E questi denti tu seminerai
In questa terra per te lavorata,
E poi mirabil cosa vederai:
Di tal semente nascer gente armata,
Forte ed ardita, e tu lo provarai.
Or va, che se tu campi a questa fiata
E se tu porti di tal guerra onore,
Di tutto il mondo pôi chiamarti il fiore.’
49.
Non par che in quel libro altro più se scriva:
Il conte prestamente lo serrava,
Perché il serpente già sopra gli ariva
Con l’ale aperte, e gran furia menava,
Gettando sempre foco e fiama viva.
Con alto ardire Orlando l’aspettava;
La bocca aperse il diverso dragone,
Credendosi ingiottirlo in un boccone.
50.
Ma, come piacque a Dio, nel scudo il prese,
E tutto quanto l’ebbe dissipato.
Era di legno, e sì forte se accese,
Che presto e incontinente fu bruciato;
E così il sbergo e l’elmo e ogni altro arnese
Venne quasi rovente ed affocato:
Arsa è la sopravesta, e il bel cimiero
Ardea tuttora in capo al cavalliero.
51.
Non ebbe il conte mai cotal battaglia,
Poi che a quel foco contrastar conviene;
Forza non giova o arte di scrimaglia,
Perché gran fumo, che con fiamma viene,
Gli entra ne l’elmo e la vista li abaglia,
Né apena vede il brando che in man tiene;
Ma, ben che abbia il veder quasi già perso,
Pur mena il brando a dritto ed a roverso.
52.
Così di qua di là sempre menando
In quella zuffa oscura e tenebrosa,
Nel collo il gionse pure al fin col brando,
E via tagliò la testa sanguinosa;
Quella poi prese il conte e, remirando,
Ben gli parve quel capo orribil cosa,
Ch’era vermiglio, d’oro, verde e bruno;
Fuor di quel trasse e denti ad uno ad uno.
53.
L’elmo se trasse poi quel conte ardito
E dentro i denti di quel drago pose;
Dapoi nel campo arato se ne è gito,
Sì come il libro nel suo canto espose.
Dove Bavardo il re fu sepellito,
Seminò lui le seme venenose;
Turpin, che mai non mente in alcun loco,
Dice che penne uscirno a poco a poco.
54.
Penne depinte, dico, de cimieri
Uscirno a poco a poco de la terra,
E dapoi gli elmi e’ petti de’ guerreri
E tutto il busto integro si disserra.
Prima pedoni, e poscia cavallieri
Uscîr, tutti cridando: – Guerra, guerra! –
Con trombe e con bandiere, a gran tempesta:
Ciascun la lancia verso Orlando arresta.
55.
Veggendo il conte la cosa sì strana,
Disse fra sé: Questa semenza ria
Mieter mi converrà con Durindana,
Ma s’io n’ho mal, la colpa è tutta mia,
Perché diletto ha pur la gente umana
Lamentarsi d’altrui per sua follia:
Ma colui pianger debbe a doppie doglie
Che per mal seminar peggio raccoglie.”
56.
Così dicendo il conte non fu tardo,
Perché a guarnirsi tempo non gli avanza;
L’elmo se alaccia il cavallier gagliardo,
E non aveva più scudo né lanza.
Di piana terra salta su Baiardo
E quel percote con molta arroganza
Contra alla gente che gli ariva intorno,
Che, pur mo nata, die’ morir quel giorno.
57.
Or che bisogna ch’io vada contando
E colpi ad un ad uno e il lor ferire,
Dapoi che contra a Durindana il brando
Non val coperta, né arme, né scrimire?
Però concludo in fin che il conte Orlando
Tutti li fece in quel giorno morire;
Come nel campo fur morti e dispersi,
L’arme e i cavalli e i corpi fôr somersi.
58.
Da poi che il conte per tutto ivi intorno
Vide la gente morta e dissipata,
Che in vita fatto avea poco soggiorno,
E dove nacque se era sotterrata,
Lui non indugia e pone a bocca il corno,
Per donar fine alla terza suonata,
E darsi a tal ventura ultimo vanto,
Come io vi contarò ne l’altro canto.
CANTO VENTESIMOQUINTO
1.
Il conte Orlando il corno a bocca pose,
Sì come a l’altro canto io vi lasciai,
Ché trare al fine in tutto se dispose
L’alte aventure, e non posarsi mai
Sin che quelle opre sì meravigliose
Che apparevano al suon, come contai,
Non fussero apparite tutte quante;
Però suonava quel segnor de Anglante.
2.
Tanto suonava, che al suonar si stanca
Quel vago corno il cavallier ardito.
Nulla d’intorno appare e il giorno manca,
E già temeva lui d’esser schernito,
Quando una cucciarella tutta bianca
Gionse latrando nel prato fiorito;
Il conte alla cuccietta pone cura,
Dicendo: Dio me doni alta ventura!
3.
Tanta fatica adunque e tanto stento
Aver durato me incresce per certo;
Ma tardo ormai ed indarno mi pento,
Ch’indarno un tanto affanno aggio sofferto.
è questo ciò che me die’ far contento?
è questo il guidardone? è questo il merto,
Qual promise la dama in abandono,
Che doveva apparire al terzo suono?”
4.
Così dicendo ratto si voltava
Per girne altrove, tutto disdegnoso;
Il conte il corno per terra gettava
E via fugiva a corso roïnoso.
Ma la donzella a gran voce il chiamava:
– Aspetta, aspetta, baron valoroso!
Ché non è al mondo re né imperatore,
Che abbia ventura di questa maggiore.
5.
Ascolta adunque il mio parlar, che spiana
Di questa cucciarella il bel lavoro.
Una isoletta non molto lontana
Ha il nome ed ha lo effetto del tesoro;
Ivi è una fata, nomata Morgana,
Che alle gente diverse dona l’oro;
Quanto per tutto il mondo or se ne spande,
Convien che ad essa prima se dimande.
6.
Lei sotto terra il manda a l’alti monti,
Dove se cava poi con gran fatica;
E ne’ fiumi l’asconde e dentro a’ fonti,
E in India, dove il coglie la formica.
Abada e guarda ben che sian disgionti,
Ché ciascaduno un pesce ne nutrica;
E vo’ che sappi il nome per ragione:
Timavo è l’uno, e l’altro è il carpïone.
7.
Questi due pesci viveno d’ôr fino.
Ora, per seguitar la mia novella,
Dico che ogni metallo ha in suo domìno
De oro e de argento Morgana la bella;
Ed è venuto per questo confino
Da lei mandata quella cucciarella
Per farte sempre in tua vita beato,
Poiché tre volte il suo corno hai suonato.
8.
Ché non fo al mondo mai più cavalliero,
Qual lo suonasse la seconda volta,
Benché molti provarno tal mestiero,
Ma sempre a tutti fu la vita tolta.
Or lascia adunque ogni tristo pensiero,
Franco barone, e il mio parlare ascolta,
Accioché sappi la cosa compiuta,
Perché la cuccia al corno sia venuta.
9.
Morgana, della quale io t’ho parlato,
Quale è regina delle cose adorne,
Ha per il mondo un suo cervo mandato,
Che ha bianco il pelo e d’oro ambe le corne.
Quel per incanto a modo è fabricato,
Che in alcun loco mai non si soggiorne,
Ma sempre, via fuggendo a meraviglia,
Cerca la terra e non trova chi ‘l piglia.
10.
Né se potrebbe per forza pigliare,
Senza l’aiuto di quella cuccietta;
Lei primamente lo sa ritrovare,
Poi lo caccia cridando con gran fretta.
Conviensi quella voce seguitare,
Perché lor van legier come saetta;
La cuccia il caccia in pista con tempesta
Sei giorni integri, e al settimo s’arresta.
11.
Perché quel giorno, giongendo alla fonte
Dove se tuffa il cervo pauroso,
Quivi si prende senza oltraggio ed onte,
E fa il suo cacciatore aventuroso,
Però che muta e corni dalla fronte
Sei volte il giorno, e ciascuno è ramoso
Di trenta bronchi; e la rama distesa
Con bronchi insieme cento libre pesa.
12.
Sì che tanto tesoro adunarai,
Come abbi preso quel cervo afatato,
Che ne serai contento sempre mai,
Se la ricchezza fa l’omo beato.
Forse che ancor l’amore acquisterai
Di quella fata che t’aggio contato:
Dico Morgana da quel viso adorno,
Più bella assai che ‘l sole in mezo il giorno. –
13.
Orlando sorridendo l’ascoltava
Ed a gran pena la lasciò finire,
Perché esso le ricchezze non curava,
Qual gli ebbe la donzella a proferire,
Sì che rispose: – Dama, non mi grava
Avermi posto a rischio de morire,
Però che di periglio e di fatica
L’onor de cavallier sol se nutrica.
14.
Ma l’acquisto de l’oro e de l’argento
Non m’avria fatto mai il brando cavare;
Però chi pone ad acquistar talento,
Lui se vôl senza fine affaticare;
E come acquista più, manco è contento,
Né si può lo appetito sazïare;
Ché qual’unche n’ha più, più ne desia:
Adunque senza capo è questa via.
15.
Senza capo è la strata ed infinita,
De onore e de diletto al tutto priva.
Chi va per essa, a caminar s’aita,
Ma dove gionger vôl, mai non ariva;
Sì che la voglio al tutto aver smarita,
Né gli vo’ caminar per sin ch’io viva;
E accioché meglio intendi il mio parlare,
Dico che ‘l cervo non voglio cacciare.
16.
Prendi il tuo corno, ch’io lascio ad altrui
Questa ventura di tanta ricchezza,
Perch’io ora non sono e mai non fui
Da cortesia partito e gentilezza;
E vile e discortese è ben colui
Qual la sua dama più che ‘l cor non prezza;
Ed io so che m’aspetta or la mia dama,
E parmi odir la voce che mi chiama.
17.
(Ben me ricorda come io la lasciai
Con guerra nella rocca assedïata:
Ora che indovinar me sapria mai
Come sia quella zuffa aterminata?
Il campo e la battaglia abandonai
Per seguire Agrican quella giornata;
E combatteva l’una e l’altra gente,
Sì che non so di lor chi sia perdente.) –
18.
Così con seco istesso ragionava
Il conte, assai pensoso ne la ciera,
E la donzella alla croppa invitava,
La qual pur vi salì mal volentiera.
Lasciò quell’altra, e già via caminava;
Ecco ad un ponte, sopra una rivera,
Passava un cavalliero in vista arguta:
Cortesemente Orlando lo saluta.
19.
Ma il cavallier, che vide la donzella,
Ben presto la cognobbe nel sembiante,
Che questa è Leodilla, quella bella,
Quale è figliola del re Manodante;
Onde ad Orlando subito favella
Con minaccevol voce ed arrogante:
– Questa è mia dama, che robbata m’hai!
Presto la lascia, o presto morirai. –
20.
– Se l’è tua, – disse il conte – e tua si sia,
Ché già per lei non voglio prender brica;
Totila, per Macone! e vanne via,
Che me pare alle spalle aver l’ortica;
E te ringrazio di tal cortesia,
Poi che me assolvi di tanta fatica.
Con essa ove te piace ne puoi gire,
Pur che con meco non voglia venire. –
21.
Il cavalliero, odendo il ragionare
Che facea Orlando, di tanta viltade,
Qual ne la vista sì feroce appare,
Gran meraviglia ne ebbe in veritade.
Prese la dama, e senza altro parlare
Via caminarno per diverse strade;
L’uno a levante ad Albraca ne gia,
L’altro a ponente verso Circasia.
22.
Ordauro era nomato il cavalliero,
Questo che al conte la donzella tolse,
Né tolta già l’avria per esser fiero,
Ma perché Orlando contrastar non volse,
Quale avea ad Angelica il pensiero;
Però dalla battaglia se disciolse,
E parli più d’uno anno ciascuna ora,
Che arivi dove Angelica dimora.
23.
Lasciamo lui che ben forte camina,
Ch’io vo’ seguir la zuffa dolorosa,
Qual più sempre s’accende a gran ruina,
Né mai se vide più terribil cosa.
Vedevasi Marfisa la regina
Di qua di là voltar sì furïosa,
Perché Aquilante e ‘l suo fratel pregiato
La combatteano atorno in ciascun lato.
24.
E vedeasi il feroce fio de Amone,
Ferito crudelmente e sanguinoso,
Cacciare il re Adrïano e Chiarïone;
Vedevasi Torindo valoroso
Combatter contra Oberto dal Leone:
Stavasi Trufaldin solo in riposo.
Questo ne l’altro canto io vi contai:
Ora voglio finir quel ch’io lasciai.
25.
Come andasse la cosa in su quel piano
De le tre zuffe, vi voglio contare.
Sì come io dissi, Trufaldin villano
Stava da parte la guerra a guardare;
E quando Chiarïone ed Adrïano
Cominciâr per Ranaldo a rinculare,
Come colui che avea molta paura
Ne la rocca fuggì dentro alle mura.
26.
Ranaldo non lo vide in su quel ponto,
Ché certamente non serìa campato,
Ben presto Rabican l’avrebbe gionto;
Ma tanto era alla zuffa riscaldato,
Che nol vide partir, come io vi conto;
Ma solo il vide alla porta arivato,
E, vòlto ai duo baron, con gran furore
Disse: – Fuggito è pur quel traditore.
27.
Sì che ascoltati quel che vi vo’ dire,
E procurati metterlo ad effetto,
Se non voleti al presente morire,
Ché ben ve occiderò senza rispetto;
Ma se me prometteti far venire
Con voi doman nel campo il maledetto,
Voglio che questa guerra cominciata
Or sia fornita per questa giornata.
28.
E tutti voi, che aveti la difesa
Del vostro glorïoso Trufaldino,
Come serà del sol la luce accesa,
Verriti giù nel campo al bel matino
E quivi finirà nostra contesa,
E morirà quel perfido assassino;
O veramente ch’io vi serò morto,
Se Dio dal dritto non riguarda il torto. –
29.
Queste parole diceva Ranaldo,
Ed altro ch’io non curo arricontare;
Onde l’accordo fo fatto di saldo,
A benché con Marfisa fo da fare,
Perché essa aveva il core acceso e caldo,
Né la battaglia mai volse lasciare,
Sin che Aquilante non giura e Grifone
Tornar per l’altro giorno alla tenzone,
30.
E mantener battaglia per un giorno,
Sin che serà nel mare il sole ascoso.
Così dentro alla rocca fier’ ritorno
Ciascun barone afflitto e doloroso,
E non avevan pezzo d’arme intorno
Che non fosse percosso e sanguinoso;
Né stavan quei di fuori ad altra guisa,
Ranaldo e il Turco e la forte Marfisa.
31.
Ciascuno attese con solenne cura
A sua persona ed a sua guarnisone.
Quei della rocca tutti avean paura,
Fuor che Aquilante e l’ardito Grifone;
E ragionavan della guerra dura,
Come era stato ciascun compagnone.
Diceva Astolfo: – Orlando è stravestito;
In tal forma ha ogniom de voi schernito. –
32.
– Non, – rispose Aquilante, – tu non sai
Che ‘l cavalliero è il sir de Montealbano.
Noi lo pregammo con parole assai
Che non venisse con noi alle mano;
Ma lui non se lasciò parlar giamai,
Tanto è feroce e di cor subitano;
E così domattina a l’altra guerra
O noi, on esso andrà morto alla terra. –
33.
Rispose Astolfo: – E’ t’è male incontrato,
Ché ad ogni modo rimarrai perdente,
Perché io me trovarò da l’altro lato,
E vado da Ranaldo incontinente.
Quando nel campo me vedriti armato,
So ben che non voriti per nïente,
Né serà alcun di voi tanto sicuro,
Che esca tre passi fuor longe dal muro. –
34.
Rise Aquilante che lo cognoscia,
Ed al duca rispose: – Alla bon’ora,
Dapoi che esser convene, e così sia! –
Astolfo non fie’ già lunga dimora,
Ché della rocca fuora se ne uscia;
Né oscurato era in tutto il giorno ancora,
Quando e cugini insieme se trovaro,
E con gran festa insieme se abracciaro.
35.
Lasciamo questi insieme al pavaglione,
Che se posarno insino alla matina,
E ritornamo al fïo di Melone,
Qual con gran voluntà sempre camina,
Tanto che ad Albracà gionse al girone;
E già il sole alla sera se dichina,
Quando quel cavallier cotanto forte
Gionse alla rocca dentro dalle porte.
36.
E già non par che venga dalla danza;
L’arme ha spezzato ed è senza cimiero,
Arsa è la sopravesta, e non ha lanza
E non ha scudo l’ardito guerrero;
Ma pur mostrava ancor grande arroganza,
Tanto superbo avea lo aspetto fiero,
E qual’unche il mirasse in su Baiardo
Direbbe: Questo è il fior d’ogni gagliardo.
37.
Come fo gionto dentro a l’alta rocca,
Angelica la bella l’incontrava.
Lui salta de l’arcion, che nulla tocca;
La dama di sua mano il disarmava,
E nel trargli de l’elmo il bacia in bocca:
Non dimandati come Orlando stava;
Ché, quando presso si sentì quel viso,
Credette esser di certo in paradiso.
38.
Avea la dama un bagno apparecchiato,
Troppo gentile e di suave odore,
E di sua mano il conte ebbe spogliato,
Baciandol spesse fiate con amore.
Poi lungiva d’uno olio delicato,
Che caccia de la carne ogni livore;
E quando la persona è afflitta e stanca,
Per quel ritorna vigorosa e franca.
39.
Stavasi ‘l conte quieto e vergognoso,
Mentre la dama intorno il maneggiava;
E benché fosse di questo gioioso,
Crescere in alcun loco non mostrava.
Intra nel fine in quel bagno odoroso,
E sé dal collo in giù tutto lavava,
E poi che asciutto fu, con gran diletto
Per poco spazio se colca nel letto.
40.
E dopo questo la donzella il mena
Intro una ricca zambra ed apparata,
Dove posarno con piacere a cena,
Ché vi era ogni vivanda delicata.
Nel fin la dama con faccia serena,
Standosi al collo a quel conte abracciata,
Lo prega e lo scongiura con bel dire
Che d’una cosa la voglia servire.
41.
– D’una sol cosa, il mio conte, – dicia
– Fammi promessa, e non me la negare,
Se vôi che più sia tua ch’io non son mia,
Ché a tal servigio me puoi comparare;
Né creder che aggia tanta scortesia,
Che da te voglia quel che non puoi fare;
Ma sol cheggio da te che per mio amore
Mostri ad un giorno tutto il tuo valore.
42.
E che non abbi al mondo alcun riguardo,
Ma ch’io veda di te l’ultima prova,
Perch’io starò a veder se sei gagliardo,
Né creder che d’adosso occhio te mova,
Sin che a terra non vada ogni stendardo
De la gente che in campo se ritrova;
E ben so che farai ciò, se tu vôi,
Perché io conosco quel che vali e pôi.
43.
Una dama feroce, arabïata,
Qual venne col mio patre in mia diffesa,
Senza cagione alcuna è ribellata,
Di mal talento e di furore accesa;
Come vedi, m’ha quivi assedïata,
E, se tu non me aiuti, io serò presa
Da la crudel, che tanto odio mi porta
Che con tormento e strazio serò morta. –
44.
Così disse la dama, e lacrimando
Il viso al cavallier tutto bagnava.
Apena se ritenne il conte Orlando
Che alor alora tutto se armava;
E rispondea nïente, e fulminando
Gli occhi abragiati d’intorno voltava.
Poi che la furia fu passata un poco
Il volto a lei rivolse, e parea foco:
45.
Né già puote la dama sofferire
Di riguardare alla terribil faccia.
Dissegli il conte: – Dama, a te servire
Mi reputo dal cel a tanta graccia;
E quella dama che me avesti a dire,
Fia da me morta, o presa, o messa a caccia;
E quando fosse il mondo tutto quanto
Con seco armato, ancor de ciò me vanto. –
46.
Rimase assai contenta la donzella
Veggendo il proferir di quel barone,
Ché ben sapea quel che lui vale in sella.
Frutti e confetti di molta ragione
Furno portati a quella zambra bella;
Gionsero in questa Aquilante e Grifone,
E ciascun con Orlando fo abracciato;
Angelica di poi tolse combiato.
47.
Ella se parte zoiosa e festante
Per la promessa di quel cavalliero,
Tanto superba di cotale amante,
Che di Marfisa più non ha pensiero.
Come partita fu, disse Aquilante
Al conte Orlando: – Il ti farà mestiero
Domane esser gagliardo sopra il piano,
Perché avrai contra il sir de Montealbano.
47.
Egli è venuto e non so la cagione,
Ma fuor de l’intelletto al tutto pare,
Ché tutti quanti qua dentro al girone
Ci ha preso con vergogna a disfidare.
Io lo pregai, ed ancora Grifone,
Ma lui non si lasciò giamai parlare,
Né dir se li può mai ragion che vaglia,
Onde c’è forza far seco battaglia. –
48.
– Sai certo che ‘l sia desso, – disse Orlando
– E che per lui non abbi altro avisato? –
Disse Aquilante: – A Dio mi racomando,
Stato son seco a fronte e gli ho parlato,
E combattei con lui brando per brando;
E tu me stimi tanto smemorato,
E sì fuor d’intelletto e di ragione,
Ch’io non cognosca Ranaldo d’Amone? –
49.
Grifone quel medesimo dicia,
Che senza dubio alcun l’ha cognosciuto;
E quando il conte tal cosa intendia,
Tutto cambiosse nel sembiante arguto,
E prese nel pensier gran zelosia,
Che qua non fusse Ranaldo venuto
Sol per amor de Angelica la bella;
Onde gran doglia dentro il cor martella.
50.
Presto dette combiato ai duo germani,
E ne la zambra se chiuse soletto,
E giva intorno stringendo le mani,
Ardendo di gran sdegno e di dispetto;
E con lamenti e con sospiri insani
Senza spogliarse se gettò sul letto,
Ove con pianti e dolente parole
In cotal forma si lamenta e dole:
51.
Ahi vita umana, trista e dolorosa,
Nella qual mai diletto alcun non dura!
Sì come a la giornata luminosa
Vien drieto incontinente notte oscura;
Così non fu giamai cosa gioiosa,
Che non fusse meschiata di sventura;
Ma ogni diletto è breve e via trapassa,
La doglia sempre dura e mai non lassa.
53.
E questo si può dir per me, tapino,
Qual con tanto piacere e tanto onore
Accolto fui da quel viso divino,
Ch’io non credetti aver più mai dolore;
Ma poi fu ciò per farme più meschino,
E che la pena mia fusse maggiore;
Ché perder l’acquistato è maggior doglia,
Che il non acquistar quel de che s’ha voglia.
54.
Io son venuto nella fin del mondo
Per l’amor d’una dama conquistare,
Ed ebbi iersira un giorno sì iocondo,
Quanto m’avria saputo imaginare:
Non vôl Fortuna ch’io gionga al secondo,
Perché Ranaldo me viene a sturbare.
E ben cognosce Iddio, ch’egli ha gran torto:
Ma certo l’un de noi rimarrà morto.
55.
Sempre a mia possa l’aggio favorito
Nella gran corte de lo imperatore;
E mille volte che è stato bandito,
L’ho ritornato in grazia al mio segnore.
Lui amato non m’ha né reverito;
Pur, a sua onta, io son di lui maggiore,
Ché egli è di piccol terra castellano,
Ed io son conte e senator romano.
56.
Lui non mi porta amore o riverenza,
Bench’io m’abbia de ciò poco a curare,
E sempre io volsi che la mia prudenza
La sua pacìa dovesse temperare;
Or romper mi convien la pacïenza,
Ché a tal taglier non puon duo giotti stare,
Sì che finirla io son deliberato,
Ché compagnia non vôle amor né stato.
57.
Se lui campasse, egli ha tanta malizia,
Ch’io resterebbi di mia vita privo;
Lui sa del lusingare ogni tristizia,
E più che alcun demonio egli è cattivo;
E se io volessi alciare una pelizia
Di donna, io non serìa morto né vivo:
Se lei non m’insegnasse o desse ardire,
Cominciar non s’aprebbi io né finire.
58.
Ché! dico io, adunque fia abattuta
La lunga parentezza ed amistade,
Che fu da’ nostri antiqui mantenuta?
Mal faccio, e lo cognosco in veritade;
Ma da dritta ragione amor mi muta,
E fia partita al tutto con le spade
Nostra amistade antiqua e parentella,
E l’amor nostro di questa donzella.”
59.
Così col cor di doglia tutto ardente
Il conte seco stesso ragionava,
E quella notte non dormì nïente,
Ma spesso a ciascun lato si voltava.
Il tempo via trapassa e lui non sente,
Ma la luna e le stelle biasimava,
Che al suo occidente non faccian ritorno
Per donar loco al luminoso giorno.
60.
Più de tre ore avanti al matutino
Il conte a gran ruina fu levato;
Una tempesta sembra il paladino,
Passeggiando d’intorno tutto armato.
L’elmo ha d’Almonte, che fu tanto fino,
E Durindana il suo buon brando a lato;
Giù nella stalla va il conte gagliardo,
E ben guarnisce il bon destrier Baiardo.
61.
E su ritorna nella rocca ancora,
Guardando se il giorno esce a l’orïente,
E non può comportar nulla dimora,
Ma rodendo si va l’ongie col dente.
Ora andati, segnori, alla bona ora,
Perché io riservo nel canto sequente
Un smisurato assalto ed inumano,
Qual fu tra il conte e il sir de Montealbano.
CANTO VENTESIMOSESTO
1.
Sin qui battaglie e colpi smisurati,
Che fôr tra l’uno e l’altro cavalliero,
E terribili assalti aggio contati;
Or salir sopra ‘l cel mi fa mestiero,
Ché duo baroni a fronte sono armati,
Che me fanno tremar tutto il pensiero.
Se vi piace, segnori, oditi un poco
De’ duo guerreri uno animo di foco.
2.
Di sopra vi contai sì come Orlando
Solo aspettando il giorno si dispera;
Di qua di là va sempre fulminando,
E batte e denti quella anima fiera;
Trasse con ira Durindana il brando,
Come davante a lui fosse la ciera
Del re Agolante e del figliol Troiano,
Sì furïoso mena ad ambe mano.
3.
Dice la istoria che a lui era davante
Un gran Macon di pietra marmorina:
Era intagliato a guisa d’un gigante.
In questo gionse il conte a gran ruina,
Sì che dal capo insin sotto le piante
Tutto il fraccassa Durindana fina;
Tanti colpi li dà dritto e a roverso,
Che a terra in pezzi lo mandò disperso.
4.
Con questa furia il senator romano
Stava aspettando il giorno luminoso;
Ma giù nel campo il sir de Montealbano
Non prende già di lui maggior riposo,
Ché è tutto armato ed ha Fusberta in mano,
E tempestando va quel furïoso:
Arbori e piante con la spada taglia,
Tanto desire avea di far battaglia.
5.
Era ancora la notte molto oscura,
Né in alcun lato si mostrava il giorno,
Quando Ranaldo, ch’è senza paura,
Monta a destriero e pone a bocca il corno.
Ben par che ‘l monte tremi e la pianura,
Sì forte suona quel barone adorno;
E ‘l conte Orlando cognobbe di saldo
A quel suonare il corno di Ranaldo.
6.
E tanta fiamma li soggionse al core,
Che più non pose a l’ira indugio o sosta,
E prese il corno; e con molto romore
Gli fece minacciando aspra risposta,
Dicendo nel suonar: – Can traditore,
Come te piace ormai vieni a tua posta,
Ch’io smonto al piano, e ben te sazio dire
Che di tua gionta ti farò pentire. –
7.
Già l’aria se rischiara a poco a poco,
E vien l’alba vermiglia al bel sereno;
Le stelle al sol nascente donan loco,
De le quali era il ciel prima ripieno.
Alora il conte, come avesse il foco
Veduto intorno a sé, né più né meno,
Battendo e denti e crollando la testa
L’elmo s’allaccia con molta tempesta.
8.
Prese Baiardo alla sella ferrata,
Sopra gli salta con molta arroganza;
E tanta fretta avea quella giornata,
Che seco non portò scudo né lanza.
Venne alla porta, e quella era serrata,
Perché la rocca avea cotale usanza,
Che ponte non callava o porta apriva,
Sin che il sol chiaro il giorno non usciva.
9.
Avrebbe il conte quel ponte reciso
E spezzata la porta e misso al piano,
Se non che la sua dama n’ebbe aviso,
E venne ad esso con sembiante umano.
Quando lui vide l’angelico viso,
Quasi li cadde il bon brando di mano,
E poi che fu saltato della sella
Ingenocchiosse avanti alla donzella.
10.
Lei abbracciava quel franco guerriero,
Dicendoli: – Baron, dove ne vai?
Tu m’hai promesso, e sei mio cavalliero;
Questo giorno per me combattarai,
E per l’amor di me questo cimiero
E questo ricco scudo portarai.
Abbi sempre il pensiero a cui te ‘l dona,
Ed opra ben per lei la tua persona. –
11.
Così dicendo gli donava un scudo,
Che ‘l campo è d’oro e l’armelino è bianco,
E un bel cimier, che è un fanciulletto nudo
Con l’arco e l’ale, e le saette al fianco.
Quel conte, che pur mo fu tanto crudo,
Mirando la donzella venìa manco,
E tanta zoia sentì e tal disire,
Che d’allegrezza si sente morire.
12.
In questo ragionar gionse Grifone
Per gire alla battaglia, tutto armato;
Ed Aquilante è seco e Chiarïone,
Il re Adrïano a l’elmo incoronato.
Venir non puote Oberto dal Leone,
Perché la piaga il viso avea gonfiato,
E per non la curare e farne stima
Più noia n’ebbe ne la fin che prima.
13.
Or lui restava. E venne Trufaldino,
Per cui far si dicea la gran battaglia.
Smarito era nel volto il malandrino,
Ma non sa ritrovar scusa che vaglia,
Ché pur gli convien fare il mal camino
Là giù nel piano, alla aperta prataglia;
E pensando di sé l’oltraggio e il torto,
Parea nel volto sfigurato e morto.
14.
Lasciàn costor, che del forte girone
Aprian la porta, e il ponte fan callare;
E ritornamo a Ranaldo de Amone,
Qual cognosciuto ha Orlando a quel suonare;
E, benché egli abbia il dritto e la ragione,
Già non voria con lui battaglia fare,
Perché lo amava di coraggio fino,
Come germano e suo carnal cugino.
15.
E nel suo cor pensoso era turbato
Come dovesse terminar la impresa,
Ché occider Trufaldino avea giurato,
E il conte l’avea tolto in sua diffesa.
Mentre lui pensa, ecco Astolfo arivato
E la regina di valore accesa;
Seco Prasildo ed Iroldo venìa,
Con lor Torindo, re della Turchia.
16.
Come fôr giunti dove era Ranaldo,
– Su, – disse Astolfo – non prendiam dimora!
Batter si vôle il ferro, mentre è caldo. –
Disse il principe: – Pian ben se lavora.
Stati, cugin mio bello, un poco saldo,
Che voi non seti ove credeti ancora;
Perch’io ve aviso che a noi qui davante
Vedreti armato il fier conte de Anglante. –
17.
Marfisa a quel parlare alciò la fronte,
Quasi ridendo, con vista sicura,
E disse al fio d’Amon: – Chi è questo conte,
Qual non è gionto e già ti fa paura?
Se proprio fosse quel che occise Almonte
Con tutti e paladin, non ne do cura;
Ma quel conte d’Angante che detto hai,
Io non lo oditi nominar più mai. –
18.
Non rispose Ranaldo al suo parlare,
Che ad altra cosa avea maggior pensiero,
Perché vedea del monte giù callare
Que’ sei baroni: Orlando era il primero,
Che terribil parea solo a guardare,
Aspro ne gli atti e ne l’aspetto fiero.
Quando Marfisa a lui fece riguardo,
Disse: – Quel primo ha vista di gagliardo. –
19.
Rispose Astolfo a lei: – Non fare estima,
Che ogni zuffa che hai fatta, è stata un scherzo.
Benché èi d’ardire e di prodezza in cima,
Io ti saggio acertar ch’egli è un mal guerzo.
Tu, se te piace, andrai contra a lui prima,
Questo serà il secondo, io serò il terzo.
So che seriti a terra riversati,
Ma ben vi scoderò, non dubitati. –
20.
Disse Marfisa: – Certo assai mi pesa
Ch’io non possa provarme a quel valetto,
Perché mi convien fare altra contesa.
Ma sopra la mia fede io ti prometto,
Se io non son da quei duo morta ni presa,
Ch’io vederò de lui l’ultimo effetto. –
Così stan questi ragionando in vano,
Ma il conte Orlando è già gionto nel piano.
21.
Come fu gionto alla ripa del prato,
Sua lancia arresta, che è grosso troncone.
Stava Aquilante da lui al destro lato,
Ed al sinistro veniva Grifone.
Trufaldin che color avea mutato
Per la paura, e possa Chiarïone,
Tutti di para insieme, e il re Adrïano
Vengon spronando con le lance in mano.
22.
Da l’altra parte Marfisa se mosse:
Seco Ranaldo, ed un gran fuste arresta;
Prasildo e Iroldo, che hanno estreme posse,
Torindo e il duca Astolfo con tempesta.
Tutti han le lancie smisurate e grosse:
La giostra se incomincia, aspra e robesta.
Ad uno ad uno e scontri vi vo’ dire,
E tutto il fatto, come ebbe a seguire.
23.
Marfisa se scontrò con Aquilante,
Ciascun parve di pietra una colona;
Né a drieto se riversa o piega avante,
Tanto avevan quei duo franca persona:
Le lancie fraccassarno tutte quante.
Il duca Astolfo ratto se abandona,
E quella lancia che è tutta d’ôr fino,
Spronando abassa contra a Trufaldino.
24.
Ma lui, che d’ogni inganno sapea l’arte,
Come l’un l’altro al scontro se avicina,
Malvagiamente se piegò da parte;
Poi da traverso, quella mala spina
(Come scrive Turpino alle sue carte)
Feritte Astolfo con tanta roina,
Che suo ardir non gli valse né sua possa,
Ma cadde al prato con grave percossa.
25.
Lasciamo Astolfo, che è rimaso in terra,
Ch’io voglio adesso agli altri seguitare,
Poi che contar convien tutta la guerra.
Prasildo al re Adrïan s’ebbe a incontrare;
Contra de Iroldo Chiarïon si serra,
Né bon iudicio si potrebbe dare
Se tra lor quattro fu vantaggio alcuno,
Ma ben sua lancia ruppe ciascaduno.
26.
Torindo fo colpito da Grifone,
E netto se n’andò fuor della sella;
Il franco Orlando e il forte fio d’Amone
Se vanno addosso con tanta flagella,
Che profondar l’un l’altro ha opinïone.
Ora ascoltate che strana novella:
Il bon Baiardo cognobbe di saldo,
Come fu gionto, il suo patron Ranaldo.
27.
Orlando il guadagnò, come io ve ho detto,
Allor che il re Agrican fece morire;
E quel destrier, come avesse intelletto,
Contra Ranaldo non volse venire;
Ma voltasi a traverso a mal dispetto
De Orlando, proprio al contro del ferire.
Sua lancia cadde al conte in su l’arcione,
Ranaldo lo colpì sopra al gallone;
28.
E fu per roversarlo a l’altro lato.
Or chi s’aprebbe a ponto ricontare
L’alto furor di quel conte adirato?
Ché, quando a più tempesta mugia il mare,
E quando a maggior foco è divampato,
E quando se ode la terra tremare,
Nulla serebbe a l’ira smisurata
Che in sé raccolse Orlando in quella fiata.
29.
Non vedea lume per li occhi nïente,
Benché gli avesse come fiamma viva;
E sì forte battea dente con dente,
Che di lontan il gran romor se odiva.
Del naso gli uscia fiato sì rovente,
Che proprio il riguardar foco appariva.
Or più di ciò contar non è mestiero:
Con ambi sproni afferra il bon destriero.
30.
Ed a quel tempo ben ricolse il freno,
Credendolo a tal guisa rivoltare;
Non si muove Baiardo più ni meno,
Come fosse nel prato a pascolare.
Poi che Ranaldo vidde il fatto a pieno,
Comincia al conte in tal modo a parlare:
– Gentil cugin, tu sai che a Dio verace
Ogni iniustizia e mal fatto dispiace.
31.
Ove hai lasciata quella mente pura
E l’animo gentil che avevi in Franza,
Diffensor di bontade e di drittura,
E di fraude nemico e dislïanza?
Caro mio conte, io ho molta paura
Che cambiato non sii per mala usanza,
E che questa malvaggia meretrice
T’aggia stirpato il cor de la radice.
32.
Voresti mai che si sapesse in corte
Che hai la diffesa per un traditore?
Or non te serìa meglio aver la morte,
Che avere in fronte tanto disonore?
Deh lascia Trufaldino, o baron forte,
E di quella ribalda il falso amore!
Che in veritate, a non dirti menzogna,
Non so de qual acquisti più vergogna. –
33.
Orlando gli dicea: – Ecco un ladrone,
Che è divenuto bon predicatore.
Or può ben star sicuro ogni montone,
Da poi che il lupo si è fatto pastore.
Tu mi conforti con bella ragione
Abandonar de Angelica lo amore;
Ma guardar die’ ciascun d’esser ben netto,
Prima che altrui riprenda de diffetto.
34.
Io non venni già qui per dir parole,
A ben ch’io non mi possa adoperare,
E sopra ogni sventura ciò mi dole;
Ma fami al peggio ormai che tu pôi fare,
Ché non serà nascoso il giorno il sole,
Che molta pena ti farò portare
Di quel villan parlare e discortese,
Qual de mia dama avesti ora palese. –
35.
Così parlando ogniun sta dal suo lato.
Non era il conte a dismontare ardito:
Ché, prima a terra fosse dismontato,
Via ne serebbe Baiardo fuggito.
Sendo bon pezzo ciascun dimorato,
Che l’uno a l’altro non avea ferito,
Ranaldo, riguardando in quel confino,
Ebbe veduto il falso Trufaldino,
36.
Che aveva Astolfo abattuto nel piano.
Esso a destriero d’intorno il feriva:
Quel se deffende con la spada in mano;
Ecco Ranaldo che sopra gli ariva.
Quando venire il vidde quel villano,
Che avea d’ogni virtù l’anima priva,
Come fugge il colombo dal falcone
Così prese a fuggir dal fio d’Amone.
37.
Esso fuggendo a gran voce cridava:
– Aiuto! aiuto! o franchi cavallieri –
E la promessa fede adimandava;
E ben soccorso gli facea mestieri,
Ché già quasi Ranaldo lo arivava.
Ma tutti quanti quelli altri guerreri
Abandonarno sua prima tenzone,
Tirando tutti adosso al fio d’Amone.
38.
Orlando nol seguia, come io vi conto,
Perché Baiardo non puotea guidare;
Ma ben gionse Grifone a ponto a ponto
Che apena Trufaldin dovea campare.
Come Ranaldo lo vidde esser gionto,
Subitamente se ebbe a rivoltare,
E ferisce a Grifon sì gran riverso,
Che quello ha il spirto e l’intelletto perso.
39.
Qua non se indugia, e segue Trufaldino,
Che tuttavia fuggiva per quel piano;
Ma fece in quel fuggir poco camino,
Ché ebbe a le spalle il destrier Rabicano,
E venuto era di morte al confino:
Ma soccorso gli dava il re Adrïano.
Ranaldo lo ferì con tanta possa,
Che a terra lo fe’ andar quella percossa.
40.
Trufaldin se ne andava tuttavia
Ben mezo miglio a Ranaldo davante;
Ma Rabicano a tal modo seguia,
Come avesse ale in loco delle piante.
Ranaldo gionto il traditore avia,
Ma di traverso ancor gionse Aquilante,
E l’un ferisce l’altro con tempesta.
Ranaldo colse lui sopra la testa,
41.
Sì che alle croppe lo mandò roverso,
Fuor di se stesso e pien di stordigione;
Né ancora ha Trufaldin di vista perso,
Quando alla zuffa è gionto Chiarïone.
Menò Ranaldo un colpo sì diverso,
Che gettò quel ferito de l’arcione;
E segue Trufaldin con tanta fretta,
Che apena è più veloce una saetta.
42.
Mentre che così caccia quel ribaldo,
Il conte con Marfisa s’azuffava,
Però che, mentre che non vi è Ranaldo,
A suo piacer Baiardo governava.
Ciascuno alle percosse era più saldo,
Né alcun vantaggio vi se iudicava;
Vero è che ‘l conte avea suspizïone,
Non se fidando al tutto del ronzone.
43.
E però combattea pensoso e tardo,
Usando a suo vantaggio ciascuna arte:
E benché se sentisse ancor gagliardo,
Chiese riposo e trassese da parte.
Mentre che intorno faceva riguardo,
Vidde nel campo gionto Brandimarte,
E ben se rallegrò nel suo pensiero,
Ché Brigliadoro ha questo, il suo destriero.
44.
Subitamente a lui se ne fu andato;
Ciascun raconta la sua disventura,
E fu tra loro alfin deliberato
(Ché Brandimarte ha rotto l’armatura)
Che nella rocca lui sia ritornato,
E là meni Baiardo a bona cura.
Su Brigliadoro il conte valoroso
è già montato, e non vôl più riposo.
45.
Non vôl riposo più quel sir d’Anglante,
Anci si mosse con molta roina;
E con parlar superbo e minacciante
Isfida a morte la forte regina.
L’un mosse verso l’altro lo afferrante,
Ciascun morire o vincer se destina:
Questa zuffa dirò poi tutta aponto,
Ma torno a Trufaldin, ch’era già gionto.
46.
Ranaldo il gionse a la rocca vicino,
E non crediati che ‘l voglia pregione,
Benché vivo pigliò quel malandrino,
E legòl stretto con bona ragione;
Indi con le gambe alto e il capo chino
Alla coda lo attacca del ronzone;
Poi per il campo corre a gran furore
Cridando: – Or chi diffende il traditore? –
47.
Era il franco Grifon già risentito,
E Chiarïon montato e il re Adrïano,
Quando Ranaldo fu da loro odito,
E posensi a seguirlo per quel piano.
Ma sì presto ne andava ed espedito,
Ch’era seguìto da costoro in vano;
Così ne andava Rabicano isteso,
Come alla coda non avesse il peso.
48.
Sempre Ranaldo a gran voce cridava:
– Ove son quei che avean cotanto ardire,
Che de un sol cavallier non li bastava,
Ma volean tutto il mondo sostenire?
Or vedon Trufaldino, e non li grava
Che in sua presenzia lo faccio morire?
Se alcun v’è ancora a cui piaccia l’impresa,
Venga a staccarlo e prenda sua diffesa. –
49.
Così diceva il barone animoso,
Via strasinando Trufaldino al basso,
Che era già mezo morto il doloroso,
Percotendo la testa ad ogni sasso;
Ed era tutto il campo sanguinoso,
Dove correa Ranaldo a gran fraccasso;
Ed ogni pietra acuta e ciascun spino
Un pezzo ritenia de Trufaldino.
50.
Moritte quel malvaggio a cotal guisa,
E ben lo meritava in veritate,
Come la istoria sopra vi divisa,
Ch’era d’inganni pieno e falsitate.
Or torno al conte Orlando ed a Marfisa,
Che nel secondo assalto a nude spate
Fan sì crudel battaglia e sì diversa,
Che par che ‘l celo e il mondo se sumersa.
51.
A disusato modo e troppo orribile
Tra loro era inasprita la battaglia;
Ed al contar serìa cosa incredibile
Quelle arme che Marfisa al conte taglia.
Lui d’altra parte ognior vien più terribile,
Benché romper non può piastra, né maglia;
Pur mena colpi di tanta roina,
Che a forza fa piegar quella regina.
52.
Cresce ogni ora lo assalto più diverso,
E’ crudel colpi fuor d’ogni misura.
Ecco passar Ranaldo in sul traverso,
Proprio davanti alla battaglia scura;
E Trufaldino avea tutto disperso
La testa e il busto insino alla cintura;
Ché per le spine e’ sassi in quel distretto
Rimase eran le braccia, il capo e il petto.
53.
A gran furor Ranaldo trapassava,
Cridando sì che intorno è bene inteso;
E dicea: – Cavallieri, or non vi grava
Che non abbiati questo re diffeso,
Qual di bontate vi rasomigliava?
Ove è lo ardire e quello animo acceso
Che dimostraste ne l’estremo vanto,
Quando sfidasti il mondo tutto quanto? –
54.
Orlando intese quel parlare altiero,
Che lo spronava in tanta villania,
Onde a Marfisa disse: – Cavalliero
(Perché altramente non la cognoscia),
Io me sfidai con quello altro primiero,
Compir voglio con lui l’impresa mia;
Come io lo occido, se ‘l mio Dio mi vaglia,
Con teco fornirò l’altra battaglia. –
55.
Disse Marfisa a lui: – Tu sei errato,
Se presto credi occider quel barone,
Perché io, che l’uno e l’altro aggio provato,
Di te nol tengo in manco opinïone.
Tu de la vita altrui hai bon mercato,
E senza l’oste fai questa ragione;
Ma tu pôi ben vantarti ed aver caro
Se questa sera vi trovati al paro.
56.
Or vanne, ch’io mi fermo a riguardare
Qual abbia di voi duo maggior possanza;
Ma se i compagni tuoi per aiutare
Vengano a te, come è la lor usanza,
Quell’alta rocca vi farò trovare,
Né so se avreti ben tempo a bastanza:
Se tu combatti come il dritto chiede,
Offeso non serai su la mia fede. –
57.
Non so se Orlando il tutto puote odire,
Che già dietro a Ranaldo è posto in caccia;
Sempre cridando l’aveva a seguire:
– Aspetta, ché chi fugge mal minaccia;
E chi desidra gli altri sbigotire,
Non die’ voltar le spalle, ma la faccia;
Ma tu sei ben gagliardo a questo ponto,
Ché hai bon destriero e non credi esser gionto. –
58.
A quel cridar del conte il fio d’Amone
Iratamente se ebbe a rivoltare,
Dicendo: – Io non vo’ teco questïone,
E tu per ogni modo la vôi fare;
Unde te dico che, avendo ragione,
Omo del mondo non voglio schiffare;
Ma siami testimonio Dio verace
Che aver guerra con te m’incresce e spiace. –
59.
– Ben ne son certo, – disse il sir d’Anglante
– Che te rincresce di tal guerra assai,
Ché non avrai a far con mercadante,
Né un pover forastier dispogliarai.
Or non usiamo parole cotante:
Mostra pur tuo valor, se ponto n’hai;
Perché io te acerto e sazote ben dire
Che a te bisogna vincere o morire. –
60.
Dicea Ranaldo a lui: – Guerra non aggio,
Né voglio aver con teco, il mio cugino;
Perdon ti cheggio, s’io t’ho fatto oltraggio,
Ben ch’io nol feci mai, per Dio divino!
E se onta ti repùti o ver dannaggio
Ch’io abbia preso e morto Trufaldino,
A ciascun tuo piacer farò palese
Che non te ritrovasti in sue diffese. –
61.
Rispose il conte ad esso: – Animo vile,
Che ben de chi sei nato hai dimostranza,
Mai non fusti figliol d’Amon gentile,
Ma del falso Genamo di Maganza.
Pur mo te dimostravi sì virile
E ragionavi con tanta arroganza:
Or che condutto al paragon ti vedi,
Mercé piangendo e perdonanza chiedi. –
62.
Perse la pazïenza a quel parlare
Il fio de Amone, e con terribil guardo
Verso de Orlando gli occhi ebbe a voltare,
Ed a lui disse: – Tanto sei gagliardo,
Che ogni om ti teme e convienti onorare;
Ma se tu non mi rendi il mio Baiardo,
Presto potrai veder, come io ti dico,
Ch’io non ti temo e non te stimo un fico.
63.
Come l’abbi robbato io non ho cura:
Rendime il mio destriero, e sìate onore.
Tu ne l’hai via mandato per paura,
Ché di tenerlo non ti dava il core;
Ma, se egli avesse de intorno le mura
Tutte de acciaro, lo trarò di fore;
Ed odi come io parlo chiaro e sodo:
Io lo voglio per forza ad ogni modo. –
64.
– La prova vederemo incontinente –
Rispose Orlando, sorridendo un poco:
E non avea già faccia de ridente,
Ma battea labre e gli occhi come foco.
Or, bei Segnori, io vi lascio al presente,
E se voi tornareti in questo loco,
Dirò questa battaglia dove io lasso,
Che un’altra non fu mai di tal fraccasso.
CANTO VENTESIMOSETTIMO
1.
Chi mi darà la voce e le parole,
E un proferir magnanimo e profondo?
Ché mai cosa più fiera sotto il sole
Non fu mirata a lo universo mondo.
L’altre battaglie fôr rose e vïole:
A ricontar di questa io mi confondo,
Perché il valor e il pregio della terra
A fronte son condutti in questa guerra.
2.
Era ciascun di lor tanto adirato,
Che facean sbigotir chi gli guardava;
E molti se partîr senza comiato,
E poca gente se gli avicinava;
Uscia rovente fuor de gli elmi il fiato,
E nel suo ragionar l’aria tremava;
E chiunque stava di lontano un poco,
Giurava che lor volti eran di foco.
3.
E si facean l’un l’altro orribil guardi,
Parlando con voce aspra e minacciante;
E benché al cominciar paresser tardi,
Come io ve dimostrai nel dir davante,
Ciò fu che di persona sì gagliardi
E di cor fu ciascun tanto arrogante,
Che ragionando si stavano adaggio,
Mostrando non curar alcun vantaggio.
4.
Ma poi che Orlando trasse Durindana
Forte cridando: – Or se vedrà la prova,
Se a tua prodezza, che è tanto soprana,
Un altro pare in terra se ritrova! –
La cosa più non va suave e piana;
Ponto è Ranaldo: convien che si mova.
Però prende Fusberta ad ambe mano,
E verso il conte sprona Rabicano.
5.
E menò un colpo terribile e fiero,
Come colui che ha forza oltra misura;
Il dio d’amor, che ha il conte per cimiero,
Volò con l’ale rotte alla pianura.
L’elmo d’Almonte ben gli fie’ mestiero,
Ché qua la affatason non lo assicura,
Poi che Ranaldo a tanta furia il tocca,
Che gli avria posto le cervelle in bocca.
6.
Ma il conte, che d’orgoglio è troppo caldo,
Quella percossa non cura un lupino;
E, stretto come un scoglio a l’onde saldo,
Che non se crolla dal vento marino,
Lui con gran forza percosse Ranaldo
Sopra de l’elmo, che fu de Mambrino;
Ma lui, che è tanto fiero e sì possente,
Per quel gran colpo se mosse nïente.
7.
E risposene un altro con roina,
Dov’è il scudo e la lancia discoperta,
E piastra non vi valse, o maglia fina,
Ché via la tagliò tutta con Fusberta;
Seco la giuppa alla terra dechina,
Sì che fece mostrar la carne aperta.
Per questo d’ira il conte più s’accese,
Ed a Ranaldo un gran colpo distese.
8.
Gionse a traverso del manco gallone,
E misse a terra gran parte del scudo,
E usbergo e piastra e grosso pancirone
Fraccassa con roina il brando crudo;
Portò seco la giuppa e il camisone,
Sì che mostrar li fece il fianco nudo.
Ciascun de ira se accende e di mal fele,
E la battaglia ognior vien più crudele.
9.
Ranaldo prese un cruccio sì diverso,
Che alla sua vita mai n’ebbe cotanto;
E menò ad ambe mano un gran roverso,
Tal che, se l’elmo non fosse de incanto,
Tutto l’avrebbe spezzato e disperso;
E per quel colpo orribile e tamanto
Orlando se stordì per tal maniera,
Che non sapea quel loco dove egli era.
10.
Il suo destrier correndo andava intorno,
Portandol stramortito in su la sella.
Dicea Ranaldo: – Io so che al terzo giorno
Non durarà fra noi questa novella. –
E per darli di morte ultimo scorno
Un altro colpo adosso li martella;
Io non s’aprebbi ben dir la cagione,
Ma il conte alora uscì de stordigione.
11.
E risentito, cognobbe Ranaldo,
Qual gli era sopra per farlo morire.
Turbato lo scridò: – Giotton ribaldo,
Mala ventura te ha fatto venire,
Però che morto sei se tu stai saldo,
E vergognato se prendi a fuggire.
Or te diffendi, s’hai cotanto orgoglio,
Ché averti alcun riguardo più non voglio. –
12.
Così dicendo il conte a due man prese,
Forte turbato, Durindana dura,
E percosse ne l’elmo, e quel se accese
A foco e fiamma con molta paura.
Ranaldo su le croppe se distese
Per quel gran colpo fuor d’ogni misura:
Pendon le braccia ed ha aperta ogni mano;
Via ne l’arcione il porta Rabicano.
13.
Ma non fu giamai drago ni serpente,
Che racogliesse in sé tanto veleno,
Quanto Ranaldo alor che si risente:
Il cor avea di foco e il viso pieno.
Verso de Orlando iniquitosamente
Prende a due mano il brando e lascia il freno;
E similmente il senator romano
Contra lui vene, e mena ad ambe mano.
14.
Ferîr l’un l’altro con alto romore,
Ciascun più furïoso e disperato;
E sempre cresce la zuffa maggiore,
E l’arme a pezzi a pezzi vanno al prato;
Né scorger ben se può chi aggia il megliore,
Ché in poco tempo cangiasi il mercato;
Or se veggion ferir de animo accesi,
Or su le croppe andar morti e distesi.
15.
E si feriano con tanta nequizia
Che a vendetta crudel serìa bastante,
E con aspro parlar l’un l’altro astizia.
Diceva al fio d’Amone il sir d’Anglante:
– Oggi hai trovato il brando di iustizia!
Confessa le tue amende tutte quante;
Che sei per fama publico ladrone,
Io vo’ che tu ‘l confessi, e far ragione. –
16.
– Tu te credi tuttora essere in Franza, –
Disse Ranaldo – e gli altri minacciare.
Chi cambia terra, die’ cambiare usanza;
Re Carlo quivi non può comandare.
Tu me di’ villania con arroganza,
E credi ch’io te ‘l voglia comportare?
Ed a farne la prova in ogni loco,
Io son meglior di te molto, e non poco.
17.
Di che hai superbia, dimme, bastardone?
Perché occidesti Almonte alla fontana,
Che era legato in braccio al re Carlone,
Ora te vanti, e porti Durindana
Come acquistata per dritta ragione.
Ben sei proprio figliol d’una puttana,
Qual, perso che ha l’onor, più non lo stima
E più sfacciata è dopo il fal che in prima.
18.
Datte forse arroganza il re Troiano?
Né ti vergogni di quella novella,
Che, ancor ferito a morte e senza mano,
Te trasse a tuo dispetto de la sella?
Tu insieme lo occidesti in su quel piano:
Va, ti nascondi, va, vil feminella!
Tra gli omini apparere hai ardimento,
E sei condutto a tanto tradimento? –
19.
Diceva Orlando a lui: – Non fa mestiero
De la nostra bontade disputare;
Ché tu sei ladro, ed io son cavalliero,
E tutto il mondo lo sa iudicare;
E bene aggio ragion s’io sono altiero
De Almonte e de Troian, che hai a contare,
Che fur di tanto pregio e di tal raccia,
Che non gli avresti tu guardati in faccia.
20.
Fovi meco Rugiero e quel don Chiaro
Che era corona d’ogni paladino,
Quai stati non serian con un tuo paro,
Ché alcun di lor non era malandrino.
Or tu te vanti, e pôi bene aver caro,
De avere occiso il forte re Mambrino;
Ma non sa dir alcun come andò il fatto,
Perché tu pur fuggisti al primo tratto.
21.
Quella battaglia fu molto nascosa
Là dopo il monte, e senza testimonio;
Chi giurarà come andasse la cosa,
E se il tuo Malagise col demonio
Te dette la vittoria sì pomposa?
Ed odito aggio ancora, o ch’io me insonio,
Che il fratel Constantin pur fu ferito
Dopo le spalle, e fu da te tradito. –
22.
Così l’un l’altro con grave rampogna
Se oltraggiavano insieme e cavallieri;
Ora altro che parole ivi bisogna,
Perché dal ragionare a i colpi fieri
Eran venuti, e l’ira e la vergogna
Gli avea spronati e fatti tropp’altieri;
E se ferian con tanta crudeltade,
Che ad ogni colpo fan foco le spade.
23.
Ferì con ira Orlando ad ambe mano,
Sopra Ranaldo gran colpo martella;
Poco mancò che non andasse al piano
E stramortito uscisse de la sella.
Come rivenne il sir de Montealbano,
Non se accese mai lampa né facella,
Che non sembrasse del suo lume priva,
Tant’ha di foco lui la faccia viva.
24.
Ad Orlando ferì con gran furore
Sopra di l’elmo, a forza sì diversa,
Che ‘l paladin, che avea tanto vigore,
Ha il sentimento e la memoria persa;
E per la passïone e gran dolore
Sopra le croppe tutto si riversa;
E for de l’arcion tanto se disserra,
Che ogniom credette che l’andasse a terra.
25.
E non fu più giamai leon ferito,
Né drago acceso tanto velenoso
Come divenne Orlando risentito;
E ben mostrava in viso furïoso,
Ché non era a quel colpo sbigotito,
Ma più fier divenuto ed animoso;
Verso Ranaldo lasciò un colpo crudo,
E più del terzo gli tagliò del scudo.
26.
Rotto a traverso il scudo andò nel prato,
Né in questo resta la tagliente spada,
Ma la maglia gli strazia dal costato,
E convien che ogni piastra a terra vada.
La zuppa e il camison tutto è straziato,
Par che ogni cosa Durindana rada,
Sì spezza usbergo ed ogni guarnisone;
E feritte nel fianco il fio de Amone.
27.
Ma non se avide alor de la ferita,
Tanto era riscaldato alla battaglia;
Ferisce al conte quella anima ardita,
De cima al fondo il scudo gli sbaraglia.
Ogni piastra de usbergo ebbe partita,
E tutto il panciron fraccassa e smaglia;
E se non fusse che il conte è fatato,
Gran piaga gli avria fatto nel costato.
28.
S’io conto tutti i colpi ad uno ad uno,
Che facean sempre foco e le faville,
Verrà la sera e il cel si farà bruno,
Perché furon i colpi più di mille;
Sì ch’io nol dico, e può pensar ciascuno
Che non Ettor di Troia e non Achille,
Né Ercole il grande, né il forte Sansone
Potrian con questi star al parangone.
29.
E qual misér Tristano e qual Gallasso,
Qual altro cavallier de la ventura
D’un tanto travagliar non serìa lasso,
Per l’estrema battaglia orrenda e dura?
Ché sempre combattero a gran fraccasso
Da sol nascente insino a notte oscura,
Né mai chiesen riposo a quel furore,
Ché l’un de l’altro crede esser megliore.
30.
Ed era il ciel de stelle tutto pieno
Prima che alcun parlasse del partire,
Però che aveano al cor tanto veleno,
Che se credean l’un l’altro far morire.
Poi che la luce venne al tutto meno,
Restarno, per vergogna, di ferire,
Perché in quel tempo combattere al scuro
Opra non era di baron sicuro.
31.
Diceva Orlando: – Pôi ringrazïare
Il giorno che è partito, e il vivo sole,
Che alquanto t’ha la morte a indugïare,
E certamente me ne incresce e dole. –
Dice Ranaldo: – Ciò lasciamo andare:
Io vo’ che meco vinci di parole;
Ma già di fatto vantaggio non hai,
Né creder, fin ch’io viva, averlo mai.
32.
E fino ad ora io sono apparecchiato
(Per mostrar ch’io non ho di te paura)
Di trare al fin lo assalto cominciato,
Ch’io non te stimo, o giorno, o notte oscura. –
Rispose il conte: – Ladro, scelerato,
Che pur convien mostrar la tua natura,
Come sei uso, tristo, doloroso,
Far guerra al scuro, nel bosco nascoso.
33.
Io vo’ teco azzuffarme al giorno chiaro,
Perché tu vedi il tuo dolor palese,
E che prender non possi alcun riparo,
Né fuggirti da me, né far diffese. –
Disse Ranaldo: – Adunque e’ m’è ben caro
Esser tanto lontano al mio paese,
Per non dar quel dolore al duca Amone,
Poi che morir convengo a ogni rasone.
34.
Io so combatter nel bosco nascoso,
E nel monte alto e all’aperta pianura,
E fo battaglia al giorno luminoso,
Matina e sera e ne la notte scura.
Or tu sei solo al mondo glorïoso,
Ed hai de l’onor tuo cotanta cura,
Che non combatti se no’ al sole altiero,
Credendo altrui smarir col tuo quartiero. –
35.
Stavan gli altri baroni a lor d’intorno,
Quei de la rocca e quei de la regina,
Che avean lasciata sua battaglia il giorno
Per mirar de costor l’alta ruina.
Tra questi fo ordinato far ritorno
Sopra quel campo ne l’altra matina,
E diffinir la ultima battaglia,
Chi più de ardire e di possanza vaglia.
36.
Così tornorno questi nel girone,
Orlando, dico, e la sua compagnia;
E gli altri ciascadun al pavaglione.
Or suonar trombe e gran corni se odìa,
Diversi cridi de istrane persone;
Ed alti fuochi al campo se vedia,
E per le mura d’intorno alla rocca
Spesse lumere; e la campana ciocca.
37.
Angelica, di dame accompagnata,
Venne a trovare Orlando paladino
Dentro alla zambra ricca ed apparata:
Quivi ha frutti, confetti e bon vino.
La sopravesta il conte avea stracciata,
E rotto il scudo d’ôr da l’armelino,
E perduto il cimier del dio d’amore,
Unde di doglia gli crepava il core.
38.
Ed aveva tal doglia nel pensiero,
Che non sa dir se egli è morto né vivo,
Se quella dama chiedesse il cimiero,
O domandasse come ne fo privo.
Ma de ciò dubitar non fo mestiero,
Ché lei, ad antiveder troppo cativo,
Ciò che vedeva che al conte gradava,
Quel gli chiedeva, e sol di ciò parlava.
39.
Ma, così ragionando con diletto
De la battaglia che era stata al piano,
Non so come, ad Orlando venne detto,
Che là giuso era il sir de Montealbano.
La dama se commosse nello aspetto,
Odendol nominare a mano a mano;
Ma come quella che era saggia e trista,
Coperse il suo pensier con falsa vista.
40.
E disse al conte: – Io ho malenconia,
Ché oggi stetti a le mura tutto ‘l giorno,
E mai tra gli altri io non te cognoscia,
Cotanta gente ti stava d’intorno.
Ma se volesse la ventura mia
Che una sol fiata, de tutte arme adorno,
Io te vedessi bene adoperare,
Dio d’altra cosa non voria pregare.
41.
Benché spietata sia Marfisa e dura,
Io certamente pur voglio provare
Se per un giorno mi farà sicura,
Tanto ch’io possa una zuffa mirare;
E solo or penso a cui doni la cura
Che vada la salvezza ad impetrare.
Qual serà quel che a lei ne vada avante?
Io mandarò lo ardito Sacripante. –
42.
Così fu dimandato incontinente
Re Sacripante ad Angelica bella.
Questo avea il core e le medolle ardente
D’amor soperch’io per quella donzella,
Come odireti nel libro sequente.
Or, seguitando la nostra novella,
La dama, ragionando a lui, divisa
Quel che impetrar desidri da Marfisa.
43.
E lui se parte, ed al campo se accosta,
Benché sia oscuro il cel, come io vi conto;
E fece alla regina la proposta,
Come davante a lei fo prima gionto.
Ebbe subito grata e tal risposta,
Qual seppe dimandare a ponto a ponto;
La littra è suggillata, e con bel dire
Fu ogniom securo al ritornare e al gire.
44.
Ogni stella del celo era partita,
Fuor quella che va sempre al sol davante;
E la rugiada per l’aria fiorita
Se vedea cristallina e lustrigiante;
Il celo, a la bell’alba ora apparita,
D’oro e di rose avea preso sembiante;
E, per dir questo in simplice parole,
La notte è gita e non è gionto il sole,
45.
Quando la dama, mossa di quel caldo
Che agiaccia l’intelletto ed arde il core,
De Angelica dico io, che per Ranaldo
Se consumava nel foco d’amore,
Fuora del letto se levò di saldo;
E non aspetta il giorno o il suo splendore,
Ché ogni altro tempo li par speso invano
Fuor che a vedere il sir de Montealbano.
46.
E poi che seppe, come io ve contai,
Che esso nel campo al basso dimorava,
Tutta la notte non dormì giamai,
Né prese possa, e sol di lui pensava.
Sperando in zoia e sospirando in guai
L’alba serena e il bel giorno aspettava,
Però che ogni sua voglia e suo desire
è di veder Ranaldo, e poi morire.
47.
Ma il conte Orlando, senza altro pensiero,
Era dormendo nel letto colcato,
E sempre, in sogno, quello animo fiero
Stava alla zuffa del giorno passato;
Né credo che sia al mondo cavalliero
Che non si fosse alquanto spaventato
Mirando il conte in quel sonno dissolto,
Tanto feroce e orribile è nel volto.
48.
La damigella venne a lui soletta,
E ponto non l’ardiva risvegliare;
Ma come fa qual’unche il tempo aspetta,
Che l’ora un giorno, e il giorno un mese pare,
Così la dama, che avea maggior fretta
Che ‘l conte Orlando assai de cavalcare,
Or col viso suave, or con la mano,
Svegliò, toccando, il cavallier soprano.
49.
– Su, – disse ella – baron! Non più dormire,
Ché da ogni parte già se scopre il giorno;
Io me levai, ché me parve de odire
Là giù nel campo al basso uno alto corno;
E perché io voglio con teco venire
E, se a Dio piace, far teco ritorno,
Son venuta a svegliarti per me stessa;
E da te voglio un dono in tua promessa. –
50.
Il conte al suo bel viso remirando
Tutto se accese de amoroso foco,
E la dama abracciò tutto tremando,
Benché soletti fussero in quel loco.
Dicea la dama: – Io son al tuo comando;
Ma se me ami, barone, aspetta un poco,
Ché quel ch’io dico per farti sicuro,
Su la mia fede ti prometto e giuro.
51.
Io ti prometto che a ogni tuo volere
Soletta in questo loco, come io sono,
Ti lasciarò di me prender piacere,
Se me prometti ed attendi un sol dono,
Perch’io voglio comprendere e vedere
Stu me ami come mostri in abandono;
E quel ch’io voglio e quel ch’io ti dimando,
è una battaglia sola al mio comando.
52.
Ma se tu forse sei tanto inumano,
Che prenda il tuo piacere al mio dispetto,
Tenuto ne sarai sempre villano,
E tornarate in pianto quel diletto,
Perch’io me occiderò con la mia mano,
E passaromme in tua presenza il petto;
Sì ch’in te solo e in tuo arbitrio dimora
Se vôi ch’io mora, o vôi che viva ancora. –
53.
Al fin delle parole lacrimando
Abassò il viso con molta pietate;
Non puotè più soffrire il conte Orlando,
Ma più di lei piangeva in veritate;
E con somessa voce ragionando,
Sempre chiedea perdon con umiltate,
Dando la colpa del passato errore
Al core ardente ed al superch’io amore.
54.
Poi l’un promesse a l’altro in sacramento
Di servar le dimande tutte a pieno.
Il lume della luna era già spento,
E il sole uscia del mare al ciel sereno,
Quando quel cavallier pien de ardimento,
Che mai di sua bontà non venne meno,
Per provvederse alla cruda battaglia
Tutto di piastra si copre e di maglia.
55.
E benché fusse d’animo virile
E non temesse il mondo tutto quanto,
Pur tutte l’arme guarda per sotile,
Ambedue le scarpette e ciascun guanto,
Ché ben cognosce il cavallier gentile
Che ‘l suo inimico si donava il vanto
D’alta prodezza in ogni baronaggio;
Però non vôl ch’egli abbia alcun vantaggio.
56.
Poi che di piastra fu tutto coperto
Ed ebbe il suo bon brando al fianco cinto,
Angelica la bella gli ebbe offerto
Un cimiero alto e un scudo d’ôr destinto.
Era il cimiero uno arboscello inserto,
E il scudo a tale insegna ancor dipinto.
L’elmo s’allaccia quel baron soprano,
Monta a destriero e prende l’asta in mano.
57.
Li altri, per fare ad esso compagnia,
Senza arme in dosso giù calarno al piano;
Quivi Aquilante e Grifon se vedìa,
Brandimarte vien presso e il re Ballano;
Il conte dopo questi ne venìa,
Ed Angelica seco a mano a mano
Sopra d’un palafren bianco ed amblante;
Il re Adrïan vien dietro e Sacripante.
58.
Rimase nella rocca Galafrone,
E seco Chiarïon, che era ferito.
Or diciamo de Orlando campïone:
Come fo gionto nel prato fiorito,
Sonando il corno sfida il fio d’Amone,
Qual già nella campagna era apparito
Tutto coperto a piastra e maglia fina;
E seco al par Marfisa la regina.
59.
Lei senza l’elmo el viso non nasconde:
Non fu veduta mai cosa più bella.
Rivolto al capo avea le chiome bionde,
E gli occhi vivi assai più ch’una stella;
A sua beltate ogni cosa risponde:
Destra ne gli atti, ed ardita favella,
Brunetta alquanto e grande di persona:
Turpin la vide, e ciò di lei ragiona.
60.
Angelica a costei già non somiglia,
Che era assai più gentile e delicata:
Candido ha il viso e la bocca vermiglia,
Suave guardatura ed affatata,
Tal che a ciascun mirando il cor gli empiglia:
La chioma bionda al capo rivoltata,
Un parlar tanto dolce e mansueto,
Ch’ogni tristo pensier tornava lieto.
61.
Questa ne andava con Orlando a mano,
Come poco di sopra io ve ho contato;
E quella col segnor de Montealbano,
Che incontra gli venìa da l’altro lato,
Con l’arme in dosso sopra Rabicano.
Torindo e il duca Astolfo disarmato,
Prasildo e Iroldo pien di vigoria,
Fanno a Ranaldo onore e compagnia.
62.
Ma poi che fôrno gionti a i verdi prati,
Ciascun si stette dal suo lato alquanto;
Suonando il corno si fôrno sfidati
Quei duo che han di prodezza al mondo il vanto.
Pregovi, bei segnor, che ritornati
Ad ascoltarme nel seguente canto,
Perché de l’altre zuffe ch’io contai
Questa è più fiera ed è maggior assai.
CANTO VENTESIMOTTAVO
1.
Chi provato non ha che cosa è amore,
Biasmar potrebbe e due baron pregiati,
Che insieme a guerra con tanto furore
E con tanta ira se erano afrontati,
Dovendosi portar l’un l’altro onore,
Ch’eran d’un sangue e d’una gesta nati:
Massimamente il figlio di Melone,
Che più della battaglia era cagione.
2.
Ma chi cognosce amore e sua possanza,
Farà la scusa di quel cavalliero;
Ché amore il senno e lo intelletto avanza,
Né giova al provedere arte o pensiero.
Giovani e vecchi vanno alla sua danza,
La bassa plebe col segnore altiero;
Non ha remedio amore, e non la morte;
Ciascun prende, ogni gente ed ogni sorte.
3.
E ciò se vide alora manifesto,
Ché Orlando, qual di senno era compito,
Di sua natura si cangiò sì presto,
E venne impazïente allo appetito;
Ed a Ranaldo se fece molesto,
Col qual fu de amistà già tanto unito.
Ora nel campo a morte lo desfida,
Suonando il corno ad alta voce crida:
4.
– Non hai vicino il forte Montealbano,
Che possa con sue mure ora camparte;
Non è teco il fratel de Vivïano,
Qual ti possa giovar con sua mala arte.
Chi te potrà levar dalla mia mano?
Come andarai fuggendo ed in qual parte?
Non è citade al mondo o tenimento,
Ove non abbi fatto un tradimento.
5.
Belisandra robbasti in Barbaria,
Quando gli andasti come mercadante.
Vôi tu forse tornar per quella via,
O fuggir per il regno de Levante
Dove sette fratei per tua folìa
E per le fraude tue, che son cotante,
A tradimento son condutti a morte?
Forse in Tesaglia andar te riconforte?
6.
Re Pantasilicor da te fo preso,
Né usata fu più mai tanta viltate,
Perché, essendo pregion, da te fu impeso,
Sì che non passarai per sue contrate.
E già non posso a pieno aver inteso
Tutte le tue magagne e crudeltate;
Ma so che a Montalbano a notte scura
Né al chiaro giorno è la strata sicura.
7.
So che robbasti il tesoro indïano,
Che a me toccava per dritta ragione,
Perché il re de India, Durastante, al piano
Fu da me morto, e non da te, ladrone.
Sotto la tregua del re Carlo Mano
Robbasti al re Marsilio il suo Macone.
Ora te penti, e fa che ben m’intenda:
Oggi di tanto mal farai l’amenda. –
8.
Ranaldo fece al conte aspra risposta,
Forte suonando il suo corno bondino,
Dicendo dopo il suon: – Vieni a tua posta,
Ché or sei vasso ed eri paladino,
E poi che la tua mente è pur disposta
Far la vendetta d’ogni Saracino,
Di qualunque sia morto in ogni lato,
Preso o disfatto, o sia da me robbato.
9.
Ma a te ramento che aggio a vendicare
La morte iniqua d’ogni cristïano.
Don Chiaro il paladin vo’ ricordare,
Che l’occidesti in campo di tua mano;
Perciò se ebbe Girardo a disperare,
E per tua colpa divenne pagano.
Ascolta, renegato e maledetto:
Chi dà cagione al mal, lui n’ha il diffetto.
10.
Il padre de Olivier, malvaggio cane,
Venne per tua cagion da Carlo occiso;
Ranaldo di Bilanda per tue mane
Avanti al vecchio patre fo diviso.
E tu quando ti levi la dimane,
Credi acquistar zanzando il paradiso
Con croce e patrinostri? Altro ci vôle
Che per rei fatti dar bone parole.
11.
Ricordate, crudel, che a Monteforte,
Per prender quel castello a tradimento,
Il franco re Balante ebbe la morte,
E ciò fu ben di tuo consentimento,
Ché stavi apresso a Carlo Magno in corte;
Né ti bastando il core o l’ardimento
Di scontrarti con lui sopra al sentiero,
Altrui mandasti, e fu morto Rugiero. –
12.
Queste parole ed altre più diverse
Dicea Ranaldo con voce rubesta.
Ora più oltra il conte non sofferse,
Ma contra lui se mosse a gran tempesta;
Ciascadun sotto il scudo si coperse,
E con alto furor la lancia arresta,
E vengonsi a ferir con ardimento:
Sembrâr quei duo destrier folgor e vento.
13.
Come nel celo o sopra la marina
Duo venti fieri, orribili e diversi
Scontrano insieme con molta roina,
E fan conche e navigli andar roversi;
E come un rivo dal monte declina,
Con sassi rotti ed arbori dispersi;
Così quei duo baron pien di valore
Se urtarno con altissimo rumore.
14.
Non fu piegato alcun di loro un dito,
A benché delle lancie smisurate
Ciascun troncone insino al celo è gito.
Già son rivolti ed han tratto le spate;
Né intorno fu pagan cotanto ardito
Che non se sbigotisse in veritate,
Quando l’un l’altro rivoltò la faccia
Piena de orrore e de ira e de minaccia.
15.
Non vide il mondo mai cosa più cruda
Che il fiero assalto di questa battaglia,
E ciascun sol mirando trema e suda:
Pensati che fa quel che se travaglia!
In più parte avean lor la carne nuda,
Ché mandate han per terra piastra e maglia.
Ranaldo sopra al conte se abandona,
Nel forte scudo il gran colpo risuona.
16.
Il scudo aperse e il brando dentro passa:
Sopra la spalla gionse al guarnimento,
La piastra del braccial tutta fraccassa.
Sente a quel colpo il conte un gran tormento;
Adosso de Ranaldo andar se lassa,
E ben sembra al soffiar tempesta e vento;
A man sinestra gionge il brando crudo,
Sino alla spalla rompe e parte il scudo.
17.
A poco a poco più l’ira s’accende:
Ranaldo sopra l’elmo gionse il conte;
Taglio del brando a questo non offende,
Però che era incantato e fu de Almonte,
Ma il cavallier stordito se distende
Per quel colpo superbo che ebbe in fronte,
E rivenne in se stesso in poco d’ora;
Ira e vergogna al petto lo divora.
18.
Stringendo e denti, il forte paladino
Mena a Ranaldo un colpo nella testa:
Gionse ne l’elmo che fu de Mambrino;
Non fu veduta mai tanta tempesta.
Quel baron tramortito andava e chino,
Via fugge Rabicano, e non s’arresta,
Intorno al campo, e par che metta l’ale;
Al conte Orlando il suo spronar non vale.
19.
Non fu veduto mai tanto peccato,
Quanto era di Ranaldo valoroso,
Ch’era sopra l’arcione abandonato,
E strasinava il brando al prato erboso;
Fuor de l’elmo uscia il sangue da ogni lato,
Però che a quel gran colpo furïoso
Tanta angoscia sofferse e tanta pena,
Che ‘l sangue gli crepò fuor d’ogni vena.
20.
Fuor della bocca usciva e fuor del naso,
Già ne era l’elmo tutto quanto pieno;
Spirto nel petto non gli era rimaso,
Correndo il suo destriero a voto freno.
E così stette in quel dolente caso
Quasi una ora compita, o poco meno;
Ma non fu giamai drago ni serpente
Quale è Ranaldo, allor che se risente.
21.
Non fu ruina al mondo mai maggiore,
Ché l’altre tutte quante questa passa;
Strazia dal petto il scudo, e con rumore
Contro alla terra tutto lo fraccassa.
Fusberta, il crudo brando, a gran furore
Stringe a due mane e le redine lassa,
E ferisce cridando al forte conte:
Proprio lo gionse al mezo della fronte.
22.
Non puotè il colpo sostenire Orlando,
Ma su le croppe la testa percosse;
Le braze a ciascun lato abandonando,
Già non mostra d’aver l’usate posse.
Di qua di là se andava dimenando,
Ed ambe l’anche di sella rimosse;
Poco mancò che ‘l stordito barone
Fuor non uscisse al tutto de l’arzone.
23.
Ma come quel che avea forza soprana,
Ben prestamente uscì di quello affanno,
E, riguardando la sua Durindana,
Dicea: Questo è il mio brando, o ch’io m’inganno;
Questo è pur quel ch’io ebbi alla fontana,
Che ha fatto a’ Saracin già tanto danno.
Io me destino veder per espresso
S’io son mutato o pur se ‘l brando è desso.”
24.
Così diceva: ed intorno guardando,
Vidde un petron di marmore in quel loco;
Quasi per mezo lo partì col brando
Persino al fondo, e mancòvi ben poco.
Poi se volta a Ranaldo fulminando;
Torceva gli occhi, che parean di foco,
D’ira soffiando sì come un serpente;
Mena a due mani e batte dente a dente.
25.
O Dio del celo, o Vergine regina,
Diffendete Ranaldo a questo tratto,
Ché ‘l colpo è fiero e di tanta ruina,
Che un monte de diamanti avria disfatto.
Taglia ogni cosa Durindana fina,
Né seco ha l’armatura tregua o patto;
Ma Dio, che campar volse il fio d’Amone,
Fece che ‘l brando colse di piatone.
26.
Se gionto avesse la spada di taglio,
Tutto il fendeva insino in su l’arcione;
Sbergo ni maglia non giovava uno aglio,
Ed era occiso al tutto quel barone.
Ma fu di morte ancora a gran sbaraglio,
Ché il colpo gli donò tal stordigione,
Che da l’orecchie uscia il sangue e di bocca;
Con tanta furia sopra l’elmo il tocca.
27.
Tutta la gente che intorno guardava
Levò gran crido a quel colpo diverso;
E Marfisa tacendo lacrimava,
Perché pose Ranaldo al tutto perso.
Il conte ad ambe mano anco menava
Per tagliar quel baron tutto a traverso;
E ben puoteva usar di cotal prove:
Ranaldo è come morto e non se move.
28.
Quel colpo sopra lui già non discese,
Ché Angelica alla zuffa era presente.
Lei tenne il conte, e per il braccio il prese,
Ed a lui volta con faccia ridente,
Disse: – Barone, egli è chiaro e palese
Che tra gentile e generosa gente
Solo a parole se osserva la fede:
Senza giurare l’uno a l’altro crede.
29.
Questa matina promisi e giurai
Per una volta di farti contento,
E come e quando tu comandarai;
Ma prima tu dèi trare a compimento
Una impresa per me, come tu sai,
La qual comandar posso a mio talento;
Sì che io te dico, franco paladino,
Incontinente pòneti a camino.
30.
Prendi la strata per questa campagna,
Né te curar de indugia né de posa,
Sin che sei gionto nel regno de Orgagna,
Là dove trovarai mirabil cosa;
Ché una regina piena di magagna
(Così Dio ne la faccia dolorosa!)
Ha fabricato un giardin per incanto,
Per cui destrutto è il regno tutto quanto.
31.
Perché alla guarda del falso giardino
Dimora un gran dragone in su la porta,
Qual ha deserto intorno a quel confino
Tutta la gente del paese, e morta;
Né passa per quel regno peregino,
Né dama o cavalliero alla sua scorta,
Che non sian presi per quelle contrate,
E dati al drago con gran crudeltate.
32.
Onde te prego, se me porti amore,
Come ho veduto per esperïenza,
Che questa doglia me levi del core,
De la qual più non posso aver soffrenza;
E so ben che cotanto è il tuo valore
E ‘l grande ardire e l’alta tua potenza,
Che, abenché il fatto sia pericoloso,
Pur nella fin serai vittorïoso. –
33.
Orlando alla donzella presto inchina,
Né se fece pregar più per nïente,
E con tanto furor ratto camina,
Che uscito è già di vista a quella gente.
Or, menando fraccasso e gran roina,
Il fio d’Amon turbato se risente;
Strenge a due mano il furïoso brando
Credendo vendicarse al conte Orlando.
34.
Ma quello è già lontan più de una lega:
Ranaldo se ‘l destina di seguire,
Ché mai non vôl con lui pace né trega,
Sin che l’un l’altro non farà morire.
Marfisa, Astolfo e ciascuno altro il prega,
E tanto ogniom di lor seppe ben dire,
Che Ranaldo, che avea la mente accesa,
Pur fu acquetato e lasciò quella impresa.
35.
Questo fin ebbe la battaglia fella.
Tornò Ranaldo a farse medicare;
Parlar li volse Angelica la bella,
Lui per nïente la volse ascoltare,
Ché tanto odio portava a la donzella,
Che apena la puoteva riguardare.
Or lei si parte e vien sopra al girone;
Ranaldo in campo torna al paviglione.
36.
Su nella rocca ritornò la dama,
E de amor si lamenta e di fortuna;
Piange dirottamente e morte chiama,
Dicendo: Or fo giamai sotto la luna
Per l’universo una donzella grama,
O nello inferno passò anima alcuna,
Che avesse tanta pena e tale ardore,
Quale io sostengo a l’affannato core?
37.
Quel gentil cavallier l’alma m’ha tolta,
Né vôl ch’io campa, e non mi fa morire,
Ed è tanto crudel, che non m’ascolta.
Che al manco gli potessi io fare odire
Li affanni che sostengo, una sol volta,
E di poi presto mia vita finire!
Ché dopo morte ancor sarei contenta,
Se egli ascoltasse il dôl che mi tormenta.
38.
Ma ciascuna alma disdegnosa e dura
Amando e lacrimando al fin se piega,
Sì che speranza ancor pur mi assicura
Che a un tempo mi darà quel che or mi niega;
E sol di quello è la bona ventura,
Che pacïenzia segue e piange e priega;
E, s’io son fuor di tal condizïone,
Pur stato non serà per mia cagione.
39.
Io vincerò la sua discortesia;
Ancor se placherà, se ben fia tardo,
Faràgli ancor pietà la pena mia,
E ‘l fuoco smisurato ove io dentro ardo.
Poi che seguir conviensi questa via,
Io vo’ mandarli adesso il suo Baiardo,
Ché, come intendo e per ciascun se nara,
Cosa del mondo a lui non è più cara.
40.
Orlando più non tornarà giamai,
Ché non giovarà forza né sapere,
Allo estremo periglio ove il mandai:
Far posso del destriero il mio parere.
Ahi re del cel! come forte fallai
A far perir colui che ha tal potere!
Ma Dio lo sa ch’io non puote’ soffrire
Quel che tanto amo vederlo morire.
41.
Ora fia morto il bon conte di Brava,
Sol per campar la vita al fio d’Amone.
Quel molto più che sua vita me amava,
Questo non ha di me compassïone;
E certo conscïenza assai me grava,
E vedo ch’io fo pur contra ragione:
Ma la colpa è d’Amor, che senza legge
E soi subietti a suo modo corregge.”
42.
Così dicendo chiede una donzella,
Che fu con lei creata piccolina,
Di aria gentile e di dolce favella;
Alla sua dama davanti se inchina.
Disse Angelica a lei: – Va, monta in sella
Calla nel campo di quella regina,
Qual per suo orgoglio, contra ogni ragione,
Sta nello assedio di questo girone.
43.
Tu montarai sopra il tuo palafreno:
Baiardo, quel destrier, menalo a mano.
Di tende e paviglioni il campo è pieno:
Cerca tu quel del sir de Montealbano.
A lui del bon destrier dà in mano il freno,
E digli, poi ch’egli è tanto inumano
Che comporta ch’io pèra in tante brame,
Non vo’ che il suo ronzon mora di fame.
44.
Io non potrebbi mai già comportare,
Che ‘l suo destrier patisse alcun disaggio,
A benché lui mi venne assedïare,
E femmi oltra al dover cotanto oltraggio.
Sol d’una cosa me può biasimare:
Ch’io l’amo oltra misura; ed ameraggio
Sin che avrò spirto in core e sangue adosso,
O voglio o non, però che altro non posso.
45.
A lui ragionarai in cotal guisa,
Ed a trarne risposta abbi lo ingegno;
Ché tanto è la pietà da quel divisa,
Che forse di parlarti avria disdegno.
Partendoti da lui, vanne a Marfisa,
Né far de onore o reverenzia un segno;
Senza smontar d’arcione a lei te accosta,
E da mia parte fa questa proposta.
46.
Diragli ch’io credetti che Agricane
Dovesse per suo esempio spaventare
E le genti vicine e le lontane
Dal non dover con me guerra pigliare;
Ma da poi ch’essa ancor non se rimane,
Che gli altri se potranno ammaestrare
Per lo esempio di lei, che tanto è paccia,
Che bisogno ha d’aiuto e pur minaccia. –
47.
La damisella uscì di quel girone,
E giù nel campo subito discese;
La sua ambasciata fece al fio d’Amone
Con bassa voce e ragionar cortese:
Sempre parlando stette ingenocchione.
Io non so dir se ben Ranaldo intese,
Ché, come prima odì chi la mandava,
Voltò le spalle e più non l’ascoltava.
48.
Era con lui Astolfo al paviglione,
Il qual, veggendo la dama partire,
Che seco ne menava il bon ronzone,
Subitamente la prese a seguire,
Dicendo a lei che per dritta ragione
Questo destrier potrebbe ritenire
Come sua cosa, poi che era palese
Che esso l’avea condutto in quel paese.
49.
A concluder, la dama puotea meno,
E il modo non avea da contrastare,
Onde se lasciò tuor di mano il freno:
Adietro l’ebbe Astolfo a remenare.
Or per quel campo d’arme tutto pieno
La messagiera se pone a cercare:
Cerca per tutto, e mai non se rafina,
Sin che fu gionta avanti alla regina.
50.
E non se sbigotì di sua presenzia,
Ma fece sua proposta alteramente,
Con ardire mestiato di prudenzia.
Quella regina, che ha l’animo ardente,
La odìa parlar con poca pacïenzia,
E sol rispose: – Bene è tostamente
Il minacciar d’altrui; ma il fin del gioco
è di cui fa de’ fatti e parla poco. –
51.
Lasciamo il ragionar della donzella,
La qual, nel modo che aviti sentito,
Tornò davanti ad Angelica bella;
E ragionamo di quel conte ardito,
Che per li fiori e per l’erba novella
Via caminando è de una selva uscito;
Fuor della selva, a ponto in su quel piano,
Armato è un cavallier con l’asta in mano.
52.
Sopra d’una acqua un ponte marmorino
Tenìa quel cavallier in sua diffesa;
Alla ripa del fiume, ad un bel pino
Stava una dama per le chiome impesa,
La qual facea lamento sì tapino,
Che avrebbe di dolor quella acqua accesa;
Sempre soccorso e mercede domanda,
Di pianto empiendo intorno in ogni banda.
53.
Di lei molta pietà si venne al conte,
E per ella sligare al pino andava.
Ma il campïon, che armato era sul ponte,
– Non andar, cavallier! – forte cridava
– Ché fai a tutto il mondo oltraggio ed onte,
Dando soccorso a quella anima prava;
Perché l’antiqua etade e la novella
Non ebbe mai più falsa damigella.
54.
Per sua malizia sette cavallieri
Sono perduti e per sua fellonia.
Ma ciò contarti non mi fa mestieri,
Che troppo è lungo: vanne alla tua via;
Lasciala stare e prendi altri pensieri. –
Cari segnori e bella baronia,
Stati contenti a quel che aveti odito:
Per questa fiata il canto è qui finito.
CANTO VENTESIMONONO
1.
Ne l’altro canto io ve contai che Orlando
Vide il bel pino a lato alla riviera,
Dove la dama impesa lacrimando
Avria mosso a pietate un cor di fiera;
E mentre che lui stava riguardando,
Quello altro campïon con voce altiera
Gli disse: – Cavallier, va alla tua via,
Né dare aiuto a quella dama ria.
2.
La quale adesso ha ben tutta sua voglia,
Poi che sta impesa con le chiome al vento,
E voltasi leggier come una foglia;
E ben fo questo sempre il suo talento:
Or con vana speranza, or certa doglia
Tenir li amanti in estremo tormento.
Come al vento si volge per se stessa,
Così sempre rivolse ogni promessa. –
3.
Rispose il franco conte: – In veritate,
Nella mia mente non posso pensare,
Non che aprir gli occhi a tanta crudeltate;
In ogni modo la voglio campare,
Né credo che abbi in te tanta viltate,
Che a questa cosa debbi contrastare.
Se offeso sei e di vendetta hai brama,
Ciò non conviene oprar sopra a una dama. –
4.
– Questa donzella – disse il cavalliero
– Fo sempre sì crudele e dispietata,
E tanto vana e d’animo leggiero,
Che drittamente è quivi condennata.
Ma tu forse, baron, tu forastiero
Non sai la istoria di questa contrata,
Però pietà te muove a dar soccorso
A quella che è crudel più che alcuno orso.
5.
Ascolta, ch’io te prego, in qual mainera
Ben iustamente e per dritta ragione
Fosse nel pino impesa quella fiera.
Lei nacque meco in una regïone,
E fo per sua beltade tanto altiera,
Che mai non fo mirato alcun pavone
Che avesse più superbia nella coda,
Quando la sparge al sole ed ha chi ‘l loda.
6.
Origille è il suo nome, e la citade
Dove nascemmo Batria è nominata.
Io l’amai sempre dalla prima etade,
Come piacque a mia sorte isventurata;
Lei or con sdegni, or con finta pietade,
Promettendo e negando alcuna fiata,
Me incese di tal fiamma a poco a poco,
Che tutto ardevo, anzi ero io tutto un foco.
7.
Un altro giovanetto ancor l’amava;
Non più di me, ché più non se può dire,
Ma giorni e notti sempre lacrimava,
Quasi condutto a l’ultimo morire.
Locrino il cavallier si nominava,
Qual soffrea per amor tanto martìre,
Che giorno e notte, lacrimando forte,
Chiedea per suo ristor sempre la morte.
8.
Lei l’uno e l’altro con bone parole
E tristi fatti al laccio tenìa preso,
Mostrandoci nel verno le vïole,
E il giaccio nella state al sole acceso;
E benché spesso, come far si suole,
Fosse l’inganno suo da noi compreso,
Non fo l’amor d’alcuno abandonato,
Credendo più ciascuno essere amato.
9.
Più volte avante a lei mi presentai,
Formando le parole nel mio petto,
Ma poi redirle non puote’ giamai,
Ché, come io fu’ condutto al suo cospetto,
Quel che pensato avea, domenticai,
E sì perdei la voce e l’intelletto
E tutti e sentimenti per vergogna,
Ch’era il mio ragionar d’un om che sogna.
10.
Pur mi diè amore al fin tanta baldanza,
Che un tal parlare a lei da me fu mosso:
“Se voi credesti, dolce mia speranza,
Ch’io potessi soffrir quel che io non posso,
E che la vita mia fosse a bastanza
Del foco che m’ha roso insino a l’osso,
Lasciati tal pensiero in abandono,
Ché se aiuto non ho, morto già sono.
11.
Ciò vi giuro, ed è vero, e non ve inganno;
E pensar ben doveti in vostro core
Che l’uom die’ sostener l’estremo danno
Prima che ‘l provi il suo amico maggiore;
Perché essendo ingannato, ogni altro affanno,
Anci la morte, è ben pena minore,
Perché alla fine ogni martìre avanza
Trovarsi vana l’ultima speranza.
12.
Ben lo sa Dio che in altri non ho spene,
E che voi seti quella che più amo;
Soffrir non posso ormai cotante pene:
A l’estremo dolor mercè vi chiamo.
Camparme al vostro onor ben si conviene,
Ché sol per voi servir la vita bramo,
E, se aiuto non dati al mio gran male,
Io moro, e voi perdeti un cor leale.”
13.
Non fuor queste parole simulate,
Anci tratte al mio cor della radice;
Lei, che femina è ben in veritate,
(Che tutte son peggior che non se dice),
Fece risposta con gran falsitate,
Per farme più dolente ed infelice,
Dicendo: “Uldarno – (ché così mi chiamo)
– Più che ‘l mio spirto e più che gli occhi v’amo.
14.
E se io potessi mostrarne la prova,
Come io posso in voce proferire,
Cosa non ho nel cor che sì me mova,
Quanto al vostro desio poter servire;
E se alcun modo o forma se ritrova,
Ch’io possa contentar questo disire,
Io sono apparecchiata a tutte l’ore,
Pur che si servi insieme il nostro onore.
15.
Ma certamente io vedo una sol via
(Volendo, come io dico, riservare
Nel vostro onor la nominanza mia)
Che ce possiamo insieme ritrovare.
Come sapete, la fortuna ria
Fece a la morte insieme disfidare
Oringo, il cavallier tanto inumano,
Contra a Corbino, mio franco germano.
16.
E fo quel damigello al campo morto,
Dico Corbino, e contra alla ragione,
Ché ancor non era ben ne l’arme scorto,
E l’altro fo più volte al parangone.
Ora per vendicar cotanto torto
Mio patre va cercando un campïone,
Proferendo a ciascuno estremo merto,
Ed hal trovato, o trovaral di certo.
17.
Voi, che portate adunque l’arme indosso
D’Oringo e la sua insegna e il suo cimero,
Fuor de la terra vi serete mosso,
Là dove scontrarete un cavalliero.
Poi che l’un l’altro ve areti percosso,
Pigliar vi lasciareti di legiero,
E questo è solo il modo e la maniera
A far contenta vostra voglia intiera.
18.
Però che quivi sereti menato
Da l’altro cavallier, che ve avrà preso;
Sotto mia guarda stareti legato,
E non temeti già de essere offeso,
Ché a vostra posta vi darò combiato.
E benché ‘l patre mio sia d’ira acceso,
Ed abbia molta voluntate e fretta
Di far del suo figliolo aspra vendetta,
19.
Nulla di manco ho già preso il partito
Di poter vosco alquanto dimorare,
Poi mostrarò che via siati fuggito.”
Così la falsa m’ebbe a ragionare,
Ed io ben presto presi questo invito,
Né a periglio o fatica ebbi a pensare,
Ché, per trovarme seco ad un sol loco,
Passato avria per mezo un mar di foco.
20.
Addobbato mi fu’ subitamente
L’arme de Oringo ed ogni sua divisa;
Ma, come io fu’ partito, incontinente
Costei, che del mio mal facea gran risa,
Come quella che è troppo fraudolente
E perfida e crudel for d’ogni guisa,
Partito, come io dico, a lei davante,
Fece chiamare a sé quell’altro amante.
21.
Ciò fu Locrino, de chi ragionai,
Che a un tempo meco questa falsa amava,
E con promesse e con parole assai,
Come sapea ben far, lo alosingava,
Dicendo, se sperar dovea giamai
Guidardon de l’amor che gli mostrava,
Che per un giorno sia suo campïone:
Dïagli Oringo morto, o ver pregione.
22.
Il loco li raconta, ove mandato
M’avea lei stessa fuor de la citate,
E tanto fece al fin, che l’ebbe armato
De insegne contrafatte e divisate,
E fuora venne per trovarmi al prato.
Nel scudo verde ha due corne dorate
E nella sopravesta e nel cimiero,
Come portava un altro cavalliero.
23.
Quel cavallier avea nome Arïante,
Che per insegna le corne portava,
Tanto animoso e di membre aiutante
Che forse un altro par non attrovava.
Questo era d’Origille anco esso amante,
Ed averla per moglie procacciava;
E già col patre de essa stabilito
Avea per patto d’esser suo marito.
24.
Ma prima Oringo dovea conquistare,
Ed a lui presentarlo, o morto o preso.
Or, per far breve il nostro ragionare,
Questo ne venne a quel prato, disteso,
Là dove io stava armato ad aspettare:
Dopo lieve battaglia io mi fui reso.
Credendo a questa falsa esser menato,
Feci poca diffesa e fui pigliato.
25.
Locrino, in questo tempo, il giovanetto,
Nel vero Oringo a caso fu inscontrato,
Né menarno la zuffa da diletto,
Questo d’amore e quel ch’era infiammato.
Fu ferito Locrino a mezo il petto,
Oringo nella testa e nel costato;
E fu l’assalto lor sì crudo e forte,
Che ciascun d’essi quasi ebbe la morte;
26.
Abench’al fine Oringo fu pregione,
Ché uno amoroso cor vince ogni cosa.
Ora intervenne che ‘l crudo vecchione,
Il quale è patre a questa dolorosa,
Avea di far vendetta il cor fellone,
E notte e giorno mai non stava in posa.
Sempre guardando, cerca con gran pena
Se ‘l suo campione Oringo ancor li mena.
27.
Ed ecco avanti lo vide venire,
Con la man disarmata e senza brando,
Come colui ch’è preso, a non mentire.
Andogli incontra pallido e tremando,
E apena se ritenne de ferire;
Ma poi, dapresso con lor ragionando,
Cognobbe nella voce e nel sembiante
Che Locrino era quel, non Arïante.
28.
Ben sapea il vecchio che quel giovanetto
La sua figliola avea molto ad amare,
E però gli diceva: “Io ti prometto,
Se questo tuo pregion me vôi donare,
Contento ti farò di quel diletto
Qual più nel mondo mostri desïare.
Se vero è che mia figlia cotanto ami,
Io te contentarò di quel che brami.”
29.
Locrino paccio fu presto accordato,
Benché darli il pregion non gli era onore;
Tanto già lui d’amore era spronato,
Che gli avria dato parte del suo core.
Essendo già tra lor fatto il mercato,
La nostra gionta gli pose in errore,
Perché Arïante ed io, che ero pregione,
Giongemmo avanti a quel crudo vecchione.
30.
Quivi la cosa fu tutta palese
E la cagion de l’arme tramutate.
Alora Oringo molto me riprese,
Che in dosso le sue insegne avea portate;
E tra noi quattro fur molte contese,
E quasi ne venemmo a trar le spate,
Perché Arïante ancor se lamentava
Pur de Locrin, che sua insegna portava.
31.
Nel regno nostro è legge manifesta
Che chiunque porta scudo o ver cimero
D’un altro campïone o d’altra gesta,
è disfamato con gran vitupero,
E se non ha perdon, perde la testa.
Benché ‘l statuto sia crudele e fero,
Ché la pena è maggior che la fallanza,
Pur è servata per antiqua usanza.
32.
Avanti al re fu tratta la querella;
Il qual, veggendo tutta la cagione
Essere uscita da questa donzella,
Qual li avea indotto a quella guarnisone,
E con le insegne altrui montare in sella,
Prese consiglio, con molta ragione,
Che, avendo ogniom di noi fatto gran male,
Tutti dian voce a pena capitale:
33.
Oringo, perché morto avea Corbino,
Ch’era garzone, e lui già di gran fama;
Ed Arïante, sì come assassino,
Qual per avere il prezo d’una dama
Avea promesso a quel vecchio mastino
La morte di colui che tanto brama.
Così meco Locrino ad una guisa,
Ché avevamo portata altrui divisa.
34.
Sì iudicati tutti quattro a morte,
Fummo obligati sotto a sacramento
Non uscir for de Batria delle porte,
Sin che non è il iudicio a compimento;
E fece il re da poi ponere a sorte
Chi menar debba la dama al tormento,
Perché lei, che è cagion di tanto errore,
Non aggia morte, ma pena maggiore.
35.
Come tu vedi, per le chiome impesa
Sopra a quel pino al vento se trastulla,
E per farla campare è bene attesa
D’ogni vivanda, e non gli manca nulla.
La prima sorte a me dette la impresa
De stare in guardia alla falsa fanciulla,
E così già tre giorni ho combattuto
Contra a ciascun che gli vuol dare aiuto.
36.
E sette cavallieri ho tratto a fine:
E nomi tutti non te vo’ contare;
Mira quei scudi e l’armi peregrine,
Qual ciascadun di lor suolea portare.
Tutti han perduto l’anime tapine
Per voler questa dama liberare;
Il scudo de ciascuno e l’elmo e ‘l corno
Sono attaccati a quel troncon d’intorno.
37.
E se caso averrà ch’io pur sia morto,
Oringo e poi Locrino ed Arïante
Verran l’un dopo l’altro a questo porto,
Ciascun di me più fiero ed aiutante;
E però, cavalliero, io te conforto
Che non te curi di passare avante,
Perché qual’unche al ponte non se attiene,
Aver battaglia meco li conviene. –
38.
Orlando stava attento al cavalliero
Che avea contata lunga diceria;
Ma la donzella da quel pino altiero
Forte piangendo il cavallier mentia,
Dicendo che malvaggio era e sì fiero,
Che la tormenta sol per fellonia,
E perché è dama e non può far diffesa,
La tien per crudeltate al pino appesa.
39.
E che sette baroni a tradimento
Aveva occiso, e non per sua virtute,
E per dar tema agli altri e gran spavento
Tenea quei scudi in mostra e le barbute.
Così dicea la dama, e con lamento
Parlava al conte per la sua salute,
Per Dio pregando e sempre per pietate,
Che non la lasci in tanta crudeltate.
40.
Non stette Orlando già molto a pensare,
Perché pietà lo mosse incontinente,
Dicendo a Uldarno o che l’abbia a spiccare,
O che prenda battaglia di presente.
Così l’un l’altro s’ebbe a disfidare;
Ciascadun volta il suo destrier corrente,
E vengonsi a ferir con cruda guerra:
Al primo incontro Orlando il pose in terra.
41.
Poi che fu il cavallier caduto al piano,
Il conte prestamente al pino andava.
Sopra una torre a quel ponte era un nano,
Che incontinente un gran corno suonava;
Dopo quel suono apparve a mano a mano
Un cavalliero armato, che cridava,
E morte al conte e gran pena minaccia,
Se s’avicina al pino a vinte braccia.
42.
Il conte aveva integra ancor sua lanza;
Presto se volta, e quella al fianco arresta,
E ferisce al baron con tal possanza,
Che sopra al prato il fie’ batter la testa.
Ma far nova battaglia ancor gli avanza,
Ché ‘l nano suona il corno a gran tempesta,
E gionge il terzo cavalliero armato:
Sì come gli altri andò disteso al prato.
43.
Sopra la torre il nano il corno suona:
Il quarto cavallier ne vien palese.
Orlando contra lui forte sperona,
E con fraccasso a terra lo distese.
Poi tutti come morti li abandona,
E passa il ponte senza altre contese,
E gionge al pino e smonta della sella:
Salisce al tronco e spicca la donzella.
44.
Giù per le rame la portava in braccio,
E quella dama lo prese a pregare,
Poiché tratta l’avea di tale impaccio,
Che via con seco la voglia portare,
Perché di lei serìa fatto gran straccio,
Se quivi se lasciasse ritrovare.
Orlando la assicura e la conforta,
In croppa se la pone, e via la porta.
45.
Era la dama di estrema beltate,
Malicïosa e di losinghe piena;
Le lacrime teneva apparecchiate
Sempre a sua posta, com’acqua di vena.
Promessa non fie’ mai con veritate,
Mostrando a ciascadun faccia serena;
E se in un giorno avesse mille amanti,
Tutti li beffa con dolci sembianti.
46.
Come io dissi, la porta il conte Orlando;
E già partito essendo di quel loco,
Lei con dolci parole ragionando
Lo incese del suo amore a poco a poco.
Esso non se ne avide e, rivoltando
Pur spesso il viso a lei, prende più foco,
E sì novo piacer gli entra nel core,
Che non ramenta più l’antiquo amore.
47.
La dama ben s’accorse incontinente,
Come colei che è scorta oltra misura,
Che quel baron d’amore è tutto ardente,
Onde a infiamarlo più pone ogni cura;
E con bei motti e con faccia ridente
A ragionar con seco lo assicura;
Però che ‘l conte, ch’era mal usato,
D’amor parlava come insonnïato.
48.
Mille anni pare a lui che asconda il sole,
Per non avere al scur tanta vergogna;
Perché, benché non sappia dir parole,
Pur spera de far fatti alla bisogna;
Ma sol quel tempo d’aspettar gli dole,
E fra se stesso quel giorno rampogna,
Qual più de gli altri gli par longo assai,
Né a quella sera crede gionger mai.
49.
E così cavalcando a passo a passo,
Ragionando più cose intra di loro,
A mezo il prato ritrovarno un sasso,
Che è scritto tutto intorno a littre d’oro,
E trenta gradi, dalla cima al basso,
Avea tagliato con netto lavoro;
Per questi gradi in cima se saliva
A quel petron, che asembra fiamma viva.
50.
Disse la dama al conte: – Or te assicura,
Se hai, come io credo, la virtù soprana,
Che in questo sasso è la maggior ventura
Che sia nel mondo tutto, e la più strana.
Monta quei gradi e sopra quella altura:
La pietra è aperta a guisa di fontana;
Ivi te appoggia, e giù callando il viso
Vedrai l’inferno e tutto il paradiso. –
51.
Il conte non vi fece altro pensiero:
Certo il demonio e Dio veder si crede,
Ed alla dama lascia il suo destriero.
Lei, come gionto sopra il sasso il vede,
Forte ridendo disse: – Cavalliero,
Non so se seti usato a gire a piede,
Ma so ben dir che usar ve gli conviene:
Io vado in qua; Dio ve conduca bene. –
52.
Così dicendo volta per quel prato,
E via fuggendo va la falsa dama.
Rimase il conte tutto smemorato,
E sé fuor d’intelletto e paccio chiama,
Benché serìa ciascun stato ingannato,
Ché di legier si crede a quel che s’ama;
Ma lui la colpa dà pure a se stesso,
L’occhio e balordo nomandosi spesso.
53.
Non sa più che se fare il paladino,
Poi che perduto è il suo bon Brigliadoro.
Torna a guardare il sasso marmorino,
E va leggendo quelle littre d’oro.
Quivi ritrova che sepolto è Nino,
Qual fu già re di questo tenitoro,
E fece Niniv’è, l’alta citate,
Che in ogni verso è lunga tre giornate.
54.
Ma lui, che de guardare ha poca cura,
Poi che ha perduto il suo destrier soprano,
Smonta dolente della sepoltura;
E, caminando a piede per il piano,
La notte gionge e tutto il cel se oscura.
Vede una gente, e non molto lontano;
E così andando ognior più s’avicina,
Perché la gente verso lui camina.
55.
Dirovi tutta quanta poi la cosa,
Qual gli incontrò, quando fu gionto al gioco,
E serà di piacere e dilettosa;
Ma poi la contaremo in altro loco,
Perché il cantar della storia amorosa
è necessario abandonare un poco,
Per ritornare a Carlo imperatore,
E ricontarvi cosa assai maggiore.
56.
Cosa maggior, né di gloria cotanta
Fu giamai scritta, né di più diletto,
Ché del novo Rugier quivi si canta,
Qual fu d’ogni virtute il più perfetto
Di qual’unche altro che al mondo si vanta.
Sì che, segnori, ad ascoltar vi aspetto,
Per farvi di piacer la mente sazia,
Se Dio mi serva al fin la usata grazia.