Dio c’è, anche se non esiste.
27 Gennaio 2019Anna di Niccolò Ammaniti
27 Gennaio 2019Matteo Maria Boiardo
LIBRO TERZO
LIBRO TERZO DE ORLANDO INAMORATO, NEL QUALE SE CONTIENE LE PRODEZE DE MANDRICARDO ED ALTRI CAVALLIERI CON LA LIBERAZIONE DE ORLANDO ED ALTRI PALAINI, GENEALOGIE DE RUGIERO, ASSEDIO DE PARIGI ED AMORE VANO DE FIORDESPINA CON BRADAMANTE.
CANTO PRIMO
1.
Come più dolce a’ naviganti pare,
Poi che fortuna li ha battuti intorno,
Veder l’onda tranquilla e queto il mare,
L’aria serena e il cel di stelle adorno;
E come il peregrin nel caminare
Se allegra al vago piano al novo giorno,
Essendo fuori uscito alla sicura
De l’aspro monte per la notte oscura;
2.
Così, dapoi che la infernal tempesta
De la guerra spietata è dipartita,
Poi che tornato è il mondo in zoia e in festa
E questa corte più che mai fiorita,
Farò con più diletto manifesta
La bella istoria che ho gran tempo ordita:
Venite ad ascoltare in cortesia,
Segnori e dame e bella baronia.
3.
Le gran battaglie e il trïomfale onore
Vi contarò di Carlo, re di Franza,
E le prodezze fatte per amore
Dal conte Orlando, e sua strema possanza;
Come Rugier, che fu nel mondo un fiore,
Fosse tradito; e Gano di Maganza,
Pien de ogni fellonia, pien de ogni fele,
Lo uccise a torto, il perfido crudele.
4.
E seguirovi, sì come io suoliva,
Strane aventure e battaglie amorose,
Quando virtute al bon tempo fioriva
Tra cavallieri e dame grazïose,
Facendo prove in boschi ed ogni riva,
Come Turpino al suo libro ce espose.
Ciò vo’ seguire, e sol chiedo di graccia
Che con diletto lo ascoltar vi piaccia.
5.
Nel tempo che il re Carlo de Pipino
Mantenne in Franza stato alto e giocondo,
Uscì di Tramontana un Saracino,
Che pose quasi lo universo al fondo;
Né dove il sol se leva a matutino,
Né dove calla, né per tutto il mondo,
Fo mai trovato in terra un cavalliero
Di lui più franco e più gagliardo e fiero.
6.
Mandricardo appellato era il Pagano,
Qual tanta forza e tale ardire avia,
Che mai non vestì l’arme il più soprano,
Ed era imperator di Tartaria;
Ma fo tanto superbo ed inumano
Che sopra alcun non volse segnoria,
Che non fosse in battaglia esperto e forte:
A tutti gli altri facea dar la morte.
7.
Onde fo il regno tutto disertato,
Abandonò ciascuno il suo paese.
Ora trovosse un vecchio disperato,
Qual, non sapendo fare altre diffese,
Passando avanti al re preso e legato
Con alti cridi a terra se distese,
Facendo sì diverso lamentare
Che ogni om trasse intorno ad ascoltare.
8.
– Mentre ch’io parlo, – disse il vecchio – aspetta,
E poi farai di me quel che ti pare.
L’anima del tuo patre maledetta
Non può il mal fiume allo inferno passare,
Perché scordata se è la sua vendetta.
Sopra alla ripa stassi a lamentare:
Stassi piangendo e tien la testa bassa,
Ché ogni altro morto sopra li trapassa.
9.
Il tuo patre Agrican, non so se ‘l sai,
O nol saper te infingi per paura,
Dal conte Orlando occiso fo con guai:
A te del vendicar tocca la cura.
Tu fai morir chi non te offese mai,
E meni per orgoglio tanta altura;
Non è stimato, datelo ad intendere,
Chi offende quel che non si può deffendere.
10.
Va, trova lui, che ti potrà respondere,
E mostra contra a Orlando il tuo furore.
La tua vergogna non si può nascondere:
Troppo è palese ogni atto de segnore.
Codardo e vile, or non ti dèi confondere
Pensando alla onta grande e il disonore
Qual ti fu fatto? E sei tanto da poco
Che hai faccia de apparire in alcun loco? –
11.
Così cridava il vecchio ad alta voce,
Come io vi conto, e più volea seguire;
Se non che Mandricardo, il re feroce,
A lo ascoltar non puote sofferire.
Una ira sì rovente il cor li coce,
Che se convenne subito partire,
E ne la zambra se serrò soletto,
Di sdegno ardendo tutto e de dispetto.
12.
Dopo molto pensar prese partito
Suo stato e tutto il regno abandonare.
Per non esser da altrui mostrato a dito
Giurò nella sua corte mai tornare,
Ma reputar se stesso per bandito
Sin che il suo patre possa vendicare;
Né a sé ritenne tal pensiero in petto,
Ma palesollo e poselo ad effetto.
13.
Avendo a tutto il regno proveduto
Di bon governo de ottima persona,
Nel tempio de’ suoi dei ne fo venuto,
E sopra al foco offerse la corona;
Poi se partì la notte scognosciuto,
Ed a fortuna tutto se abandona:
Senza arme, a piede, come peregrino
Verso ponente prese il suo camino.
14.
Arme non tolse e non mena destriero,
Per non voler che al mondo fosse detto
Che alcuno aiuto a lui facea mestiero
Per vendicar sua onta e suo dispetto.
E lui prosume molto de legiero
De acquistarse arme e un bon destrier eletto,
Sì che ponga ad effetto el suo disegno
Sol sua prodezza, e non forza di regno.
15.
Così, soletto sempre caminando,
Passò gli Armeni ed altra regïone,
E da un colletto un giorno remirando
Presso a una fonte vidde un paviglione.
Là giù se calla, nel suo cor pensando,
Se vi trova arme dentro né ronzone,
Per forza o bona voglia a ogni partito
Non se levar de là se non fornito.
16.
Poiché fu gionto in su la terra piana,
Ne la cortina entrò senza paura.
Non vi è persona prossima o lontana,
Che abbia del pavaglion guarda né cura;
Solo una voce uscì de la fontana,
Qual gorgogliava per quella acqua pura,
Dicendo: – Cavallier, per troppo ardire
Fatto èi pregione, e non te poi partire. –
17.
O che lui non odette, o non intese,
Alle parole non pose pensiero,
Ma per il pavaglione a cercar prese,
Se ivi trovasse né arme né destriero.
L’arme a un tapete tutte eran distese,
Ciò che bisogna aponto a un cavalliero;
E lì fuori ad un pino in su quel sito
Legato era un ronzon tutto guarnito.
18.
Quello ardito baron senza pensare
L’arme se pose adosso tutte quante.
Preso è il destriero e, via volendo andare,
Subito un foco a lui sorse davante.
Nel pino prima si ebbe a divampare,
E, quello acceso sin sotto le piante,
Per ogni lato il foco se trabocca,
Ma sol la fonte e il pavaglion non tocca.
19.
Gli arbori e l’erbe e pietre di quel loco
Tutte avamparno a gran confusïone;
La fiamma cresce intorno a poco a poco,
Tanto che dentro chiuse quel barone.
A lui se aventa lo incantato foco
Ne l’elmo, el scudo, ed ogni guarnisone,
E lo usbergo de acciaro e piastre e maglia
Gli ardeano a cerco, come arida paglia.
20.
El cavallier per cosa tanto istrana
Lo usato orgoglio ponto non abassa;
Smonta de arcion quella anima soprana,
Per mezo il foco via correndo passa.
Come fu gionto sopra alla fontana,
Dentro vi salta e al fondo andar si lassa;
Né più potea campare ad altra guisa:
Arso era tutto insino alla camisa.
21.
Ché, come io dissi, e piastre e maglia e scudo
Gli ardeano atorno come foco di esca;
Arse la giuppa, e lui rimase ignudo
Sì come nacque, in mezo a l’onda fresca;
E mentre che a diletto il baron drudo
Per la bella acqua se solaccia e pesca,
Parendo ad esso uscito esser de impaccio,
Ad una dama se ritrova in braccio.
22.
Era la fonte tutta lavorata
Di marmo verde, rosso, azurro e giallo
E l’acqua tanto chiara e riposata,
Che traspareva a guisa de cristallo;
Onde la dama che entro era spogliata,
Così mostrava aperto senza fallo
Le poppe e il petto e ogni minimo pelo,
Come de intorno avesse un sotil velo.
23.
Questa ricolse in braccio quel barone,
Basandoli la bocca alcuna fiata,
E disse ad esso: – Voi seti pregione,
Come molti altri, al Fonte de la Fata;
Ma, se sereti prodo campïone,
Cotanta gente fia per voi campata,
Tanti altri cavallieri e damigelle,
Che vostra fama passarà le stelle.
24.
Perché intendiati il fatto a passo a passo,
Fece una fata ad arte la fontana,
Che tanti cavallieri ha posti al basso,
Che nol potria contar la gente umana.
Quivi pregione è il forte re Gradasso,
Quale è segnor di tutta Sericana;
Di là da la India grande è il suo paese:
Tanto è potente, e pur non se diffese!
25.
Seco pregione è il nobile Aquilante
E lo ardito Grifon, che è suo germano,
Ed altri cavallieri e dame tante,
Che a numerarli me affatico invano.
Oltre a quel poggio che vedeti avante,
Edificato è un bel castello al piano,
Ove rinchiuse dentro ha quella fata
L’arme di Ettorre, e mancavi la spata.
26.
Ettor di Troia, il tanto nominato,
Fu la eccellenzia di cavalleria,
Né mai si trovarà né fu trovato
Chi il pareggiasse in arme o in cortesia.
Ne la sua terra essendo assedïato
Da re settanta ed altra baronia,
Dece anni a gran battaglie e più contese:
Per sua prodezza sol se la difese.
27.
Mentre ch’egli ebbe il grande assedio intorno,
Se può donar tra gli altri unico vanto
Che trenta ne sconfisse in un sol giorno,
Che de battaglia avea mandato il guanto;
Poi d’ogni altra virtù fu tanto adorno,
Che il par non ebbe il mondo tutto quanto,
Né il più bel cavallier, né il più gentile;
A tradimento poi lo occise Achile.
28.
Come fu morto, andò tutta a roina
Troia la grande e consumosse in foco.
Or dir vi vo’ di sua armatura fina
Come se trovi adesso in questo loco.
Prima la spata prese una regina
Pantasilea nomata; e in tempo poco,
Essendo occisa in guerra, perse il brando;
Poi l’ebbe Almonte; adesso il tiene Orlando.
29.
Tal spata Durindana è nominata
(Non so se mai la odesti racordare),
Che sopra a tutti e brandi vien lodata.
Or de l’altre arme vi voglio contare.
Poi che fu Troia tutta dissipata,
Gente da quella se partì per mare
Sotto un lor duca nominato Enea;
Lui tutte l’arme eccetto il brando avea.
30.
De Ettorre era parente prossimano
El duca Enea, che avea quella armatura;
E questa fata, per un caso istrano,
Trasse tal duca de disaventura,
Che era condotto a un re malvaggio in mano,
Che ‘l tenea chiuso in una sepoltura:
Stimando trar da lui tesoro assai,
Lo tenea chiuso e preso in tanti guai.
31.
La fata con incanto lo disciolse,
Per arte il trasse fuor del monumento,
E per suo premio le belle arme volse,
E il duca de donarle fu contento.
Lei poscia a questo loco se racolse
E fece l’opra de lo incantamento
Onde io vi menarò, quando vi piacia,
E provarò se in core aveti audacia.
32.
Ma quando non ve piaccia de venire
E vinto vi trovati da viltate,
Contro a mia voglia me vi convien dire
Quel che serà di voi la veritate:
In questa fonte vi convien perire,
Come perita vi è gran quantitate;
De quai memoria non serà in eterno,
Ché il corpo è al fondo e l’anima a lo inferno. –
33.
A Mandricardo tal ventura pare
Vera e non vera, sì come si sogna;
Pur rispose alla dama: – Io voglio andare
Ove ti piace e dove mi bisogna;
Ma così ignudo non so che mi fare,
Ché me ritiene alquanto la vergogna. –
Disse la dama: – Non aver pavento,
Ché a questo è fatto bon provedimento. –
34.
E soi capegli a sé sciolse di testa,
Ché ne avea molti la dama ioconda,
Ed abracciato il cavallier con festa
Tutto il coperse de la treccia bionda;
Così, nascosi entrambi di tal vesta,
Uscîr di quella fonte la bella onda,
Né ferno al dipartir lunga tenzone,
Ma insieme a braccio entrarno al pavaglione.
35.
Non lo avea tocco, come io disse, il foco,
Pieno è di fiori e rose damaschine.
Loro a diletto se posarno un poco
Entro un bel letto adorno de cortine.
Già non so dir se fecero altro gioco,
Ché testimonio non ne vide el fine;
Ma pur scrive Turpin verace e giusto
Che il pavaglion crollava intorno al fusto.
36.
Poi che fôr stati un pezo a cotal guisa
Tra fresche rose e fior che mena aprile,
La damigella prese una camisa
Ben perfumata, candida e sotile;
Poi de una giuppa a più color divisa
Di sua man vestì il cavallier gentile;
Calcie gli diè vermiglie e speron d’oro,
Poi lo armò a maglia de sotil lavoro.
37.
Dopo lo arnese lo usbergo brunito
Gli pose in dosso, e cinse il brando al fianco,
E uno elmo a ricche zoie ben guarnito
Li porse e cotta d’arme e scudo bianco;
Indi condusse un gran destriero ardito,
E Mandricardo non parve già stanco,
Né che lo impacci l’arme o guarnisone:
D’un salto armato entrò sopra allo arcione.
38.
La damigella prese un palafreno
Che ad un verde genevre era legato,
E caminando un miglio o poco meno
Passarno il colle e gionsero al bel prato,
Dicendo a lui la dama: – Intendi appieno,
Ché tutto il fatto ancor non te ho contato:
Acciò che intenda ben quel che hai a fare,
Col re Gradasso converrai giostrare.
39.
Adesso del castello è campïone
E diffensore il re tanto membruto;
Cotale impresa prima ebbe Grifone,
Qual da lui poco avanti fu abattuto.
Se quel te vince, restarai pregione
Sin che altro cavallier ti doni aiuto;
Ma se lui getti sopra alla pianura,
Te provarai a l’ultima ventura.
40.
Provar convienti al glorïoso acquisto
Di prender l’arme che fôrno di Ettòre;
Più forte incanto il mondo non ha visto,
E sino a qui ciascun combattitore
Ce è reuscito a tale impresa tristo,
Né par che gionga alcuno a tanto onore;
E tu la proverai, poiché èi venuto:
Fortuna o tua virtù ti darà aiuto. –
41.
Così parlando gionsero al castello.
Mai non se vidde il più ricco lavoro:
Le mura ha de alabastro, e il capitello
De ogni torre è coperto a piastre d’oro.
Verdeggiava davanti un praticello
Chiuso de mirto e de rami de aloro
Piegati insieme a guisa di steccato,
E stavi dentro un cavalliero armato.
42.
– El re Gradasso è quel che avanti appare –
Disse la dama – dentro a quel ridotto.
Ora con me non averai a fare,
Che sempre teco mi trovai di sotto. –
E Mandricardo, odendo tal parlare,
La vista a l’elmo se chiuse di botto;
Spronando a tutta briglia e gran tempesta,
A mezo il corso l’asta pose a resta.
43.
Da l’altra parte il forte re Gradasso
Contra di lui se mosse con gran fretta.
Alcun de’ duo corsier non mostra lasso,
Anci sembravan folgore e saetta,
E se incontrarno insieme a tal fraccasso,
Che par che nello inferno il cel si metta
E la terra profondi e la marina:
Odita non fu mai tanta ruina.
44.
Ni quel ni questo se mosse de arcione,
E sì fiaccarno l’una e l’altra lanza,
Che sino a l’aria andava ogni troncone:
Un palmo integro d’esse non avanza.
Or veder se conviene il parangone
De’ cavallieri e l’ultima possanza,
Perché, voltati con le spade in mano,
Se razuffarno insieme in su quel piano.
45.
Cominciâr la battaglia orrenda e scura:
Già non mostrava un scherzo il crudo gioco,
Ché pure a riguardarlo era paura,
Perché a ogni colpo se avampava el foco.
A pezzi si ne andava ogni armatura,
Già ne era pieno il prato in ogni loco;
E lor pur drieto, e non guardano a quella:
Ciascuno a più furor tocca e martella.
46.
Duo guerrier son costor di bona raccia,
E ben lo dimostravan ne lo aspetto:
Cinque ore e più durò tra lor la traccia;
Pervennero alla fine in questo effetto,
Che Mandricardo il re Gradasso abraccia
Per trarlo de lo arcione al suo dispetto,
E il re Gradasso a lui se era afferrato,
Sì che ne andarno insieme in su quel prato.
47.
Non so se fu fortuna o fusse caso,
Quando caderno entrambi de lo arcione
Di sopra Mandricardo era rimaso,
E convenne a Gradasso esser pregione.
Già se ne andava il sol verso l’occaso
Allor che se finì la questïone,
E la donzella di cui vi ho parlato,
Con piacevol sembiante entrò nel prato;
48.
Ed a Gradasso disse: – O cavalliero,
Vetar non pôsse quel che vôl fortuna;
Lasciar questa battaglia è di mestiero,
Perché la notte vene e il cel se imbruna.
Ma a te che hai vinto, tocca altro pensiero;
E dir ti so che mai sotto la luna
Fo sì strana ventura in terra o in mare,
Come al presente converrai provare.
49.
Come di novo il giorno sia apparito,
Vedrai l’arme di Ettorre e chi le guarda;
Ora che il sole all’occidente è gito,
Entrar non pôi, ché l’ora è troppo tarda.
In questo tempo pigliaren partito
Che tua persona nobile e gagliarda
Qua sopra a l’erba prenda alcun riposo,
Sin che il sol se alci al giorno luminoso.
50.
Dentro alla rocca non potresti entrare
(Di notte mai non se apre quella porta);
Tra fiori e rose qua pôi riposare,
Ed io vegliando a te farò la scorta.
Ben, se ti piace, te posso menare
Ove una dama grazïosa e accorta
Onora ciascaduno a un suo palagio,
Ma temo che ivi avresti onta e dannagio.
51.
Perché un ladron, che Dio lo maledica!
Quale è gigante e nome ha Malapresa,
Alla donzella, come sua nemica,
Fa gran danno ed oltraggio ed ogni offesa;
Onde non pigliarai questa fatica,
Ché converresti seco aver contesa,
Né a te bisogna più briga cercare,
Perché domane avrai troppo che fare. –
52.
Rispose Mandricardo: – In fede mia,
Tutto è perduto il tempo che ne avanza,
Se in amor non si spende o in cortesia,
O nel mostrare in arme sua possanza;
Onde io ti prego per cavalleria
Che me conduci dentro a quella stanza
Qual m’hai contata; e farem male, o bene,
Se Malapresa ad oltraggiar ce viene. –
53.
Per compiacere adunque al cavalliero
La damigella se pose a camino.
Lei era a palafreno, esso a destriero,
Sì che in poca ora gionsero al giardino
Ove è posto il palagio del verziero,
Qual lustreggiava tutto quel confino;
Cotanti lumi accesi avea de intorno,
Che si cerniva come fusse il giorno.
54.
Sopra alla porta del palagio altano
Era un verone adorno a meraviglia,
Ove si stava giorno e notte un nano,
Che di far guarda molto se assotiglia.
Come suonato ha il corno, a mano a mano
Corre de intorno tutta la famiglia;
E se egli è Malapresa, il rio ladrone,
Saette e sassi tran da ogni balcone.
55.
Se egli è barone, o cavalliero errante,
Dece donzelle, ad onorare avezze,
Apron la porta e con lieto sembiante
Al cavallier fan festa e gran carezze;
E notte e giorno il servon tutte quante,
Con sì bon viso e tal piacevolezze
E con tanto piacere e tanta zoglia,
Che indi a partirse mai non li vien voglia.
56.
Dunque a tal modo tra le dame accolto
Fu Mandricardo con faccia serena.
La dama del verzier con lieto volto
A braccio seco festeggiando il mena;
Né passeggiarno per la l’oggia molto,
Che con diletto se assettarno a cena,
Serviti alla real di banda in banda
De ogni maniera de ottima vivanda.
57.
A lor davanti cantava una dama,
E con la lira a sé facea tenore,
Narrando e gesti antichi e di gran fama,
Strane aventure e bei moti d’amore;
E mentre che de odire avean più brama,
Odirno per la corte un gran romore.
– Ahimè! ahimè! – dicean – che cosa è questa,
Che ‘l nano suona il corno a tal tempesta? –
58.
Così dicean le dame tutte quante,
E ciascuna nel viso parea morta.
Già Mandricardo non mutò sembiante,
Ché era venuto a posta per tal scorta.
Perché intendiati il tutto, quel gigante
De cui vi dissi, avea rotta la porta,
E del romore e gran confusïone
Che ora vi conto, lui ne era cagione.
59.
Entrò cridando quel dismisurato:
Parean tremar le mura alla sua voce;
De una spoglia di serpe ha il busto armato,
Che spata o lancia ponto non vi nôce.
Portava in mano un gran baston ferrato
Con la catena il malandrin feroce;
In capo avea di ferro un bacinetto,
Nera la barba e grande a mezo il petto.
60.
Quando egli entrava ne la l’oggia aponto,
Tratto avea Mandricardo il brando apena;
Né stette a calcular la posta o il conto,
Ma nel primo arivare assalta e mena,
Ed ebbe nella cima il baston gionto,
E via tagliò di netto la catena.
Ricopra il colpo e tira un manroverso,
E tagliò tutto il scudo per traverso.
61.
Per questo colpo il gigante adirato
Menò del suo baston, che a due man prese;
E il cavallier de un salto andò da lato,
E ben de gioco a quella posta rese;
A ponto gionse dove avea segnato,
Sotto al ginocchio, al fondo de lo arnese,
E spezzò quello e le calcie di maglia,
Sì che le gambe ad un colpo gli taglia.
62.
Quel cade a terra. A voi lascio pensare
Se le donzelle ne menavon festa.
Più Mandricardo nol volse toccare,
Onde un sergente li partì la testa.
Fuor del palagio il fecer trasinare,
E longi il sepellirno alla foresta;
Le gambe gettâr seco in quella fossa:
Di lui più mai non si parlò da possa.
63.
Come se stato mai non fosse al mondo,
Di lui più non si fa ragionamento.
Le dame cominciarno un ballo in tondo,
Suonando a fiato, a corde ogni instromento,
Con voci vive e canto sì iocondo,
Che ciascun qual ne avesse intendimento,
Essendo poco a quel giardin diviso,
Giurato avria là dentro il paradiso.
64.
Così durando il festeggiar tra loro,
Bona parte di notte era passata,
E stando incerco come a consistoro,
Venne di dame una nova brigata:
Chi ha frutti, chi confetti e coppe d’oro,
E ciascuna fu presto ingenocchiata,
E la dama cortese e il cavalliero
Se renfrescarno senza altro pensiero.
65.
De bianche torze vi è molto splendore,
E girno a riposar senza sospetti.
Parate eran le zambre a grande onore
De fina seta e bianchissimi letti;
Rame de aranci intorno a molto odore,
E per quei rami stavano ocelletti,
Che a’ lumi accesi se levarno a volo.
Ma qua non stette il cavallier lui solo,
66.
Perché una dama il rimase a servire
De ciò che chieder seppe, più ni meno.
La notte ivi ebbe assai che fare e dire,
Ma più ne avrà nel bel giorno sereno,
Come tornando potereti odire
Lo orrendo canto e di spavento pieno,
Che il maggior fatto mai non fo sentito.
Addio, segnori: il canto è qui finito.
CANTO SECONDO
1.
Il sol, de raggi d’oro incoronato,
Trasse il bel viso fuor de la marina,
E il cel depinto di color rosato
Già nascondea la stella matutina;
Sentiasi entro il palagio in ogni lato
Cantar la rondinella peregrina,
E li augelletti nel giardino intorno
Facean bei versi a lo apparir del giorno;
2.
Quando dal sonno Mandricardo sciolto
Uscì di zambra e nel prato discese;
Ad una fonte renfrescosse il volto,
E prestamente se vestì lo arnese.
Combiato avendo da le dame tolto,
Là dove era venuto, il camin prese,
E quella dama che l’avea guidato,
Non l’abandona e sempre gli è da lato.
3.
Ragionando con seco tuttavia
De arme e de amore e cose dilettose,
Lo ricondusse in quella prataria
Ove eran l’opre sì maravigliose.
Lo alto edificio avanti se vedia,
Candido tutto a pietre luminose,
Con torre e merli, a guisa di castello:
Mai vide al mondo un altro tanto bello.
4.
Un quarto avea de miglio ad ogni fronte,
Ed era quadro aponto di misura;
Dritto a levante avea la porta e il ponte,
Ove se puote entrar senza paura:
Ma come ariva cavalliero o conte
Sopra alla soglia dell’entrata, giura
Con perfetta leanza e dritta fede
Toccar quel scudo che davante vede.
5.
Posto è il bel scudo in mezo a la gran piaza,
A ricontarvi el come non dimoro;
Avea la corte intorno ad ogni faza
Logie dipinte con sotil lavoro;
Gran gente era ritratta ad una caza,
E un gentil damigello era tra loro:
Più bel di lui tra tutti non si vede,
Ed avea scritto al capo: ‘Ganimede.’
6.
Tutta la istoria sua vi era ritratta
Di ponto in ponto, che nulla vi manca:
Come, cacciando alla selva disfatta,
Lo portò sino al cel l’acquila bianca,
Qual poi sempre fo insegna di sua schiatta,
Sino al giorno che Ettòr, l’anima franca,
Occiso fu nel campo a tradimento;
Cangiò Priamo e l’arme e il vestimento.
7.
L’acquila prima avea bianche le piume,
Ché candida dal celo era mandata;
Ma poi che Troia fie’ de pianti un fiume,
Ne la crudele e misera giornata
Quando fu morto Ettorre, il suo gran lume,
La lieta insegna allor fu tramutata:
Per somigliarse a sua scura fortuna,
L’acquila bianca travestirno a bruna.
8.
Benché el scudo d’Ettòr, che io vi ho contato,
Quale era posto in mezo alla gran corte,
Non era in parte alcuna tramutato;
Ma tal quale il portava il baron forte,
Ad un pilastro d’oro era chiavato,
Ed avea scritto sopra in lettre scorte:
‘ Se un altro Ettòr non sei, non mi toccare:
Chi me portò, non ebbe al mondo pare.’
9.
Di quel color che mostra il cel sereno
Avea il scudo, ch’io dico, appariscenzia.
La dama dismontò del palafreno
E fece in su la terra riverenzia,
E Mandricardo fece più né meno;
Poi passò dentro senza resistenzia.
Essendo gionto in mezo a quel bel loco,
Trasse la spada e toccò el scudo un poco.
10.
Come fu tocco il scudo con la spada,
Tremò de intorno tutto il territoro,
Con tal romor che par che il mondo cada;
Indi se aperse il campo del tesoro.
Questo era un campo folto de una biada
Che avea tutte le paglie e spiche de oro:
Quel campo se mostrò senza dimora
Per una porta che se aperse alora.
11.
Ma l’altra da levante, ove era entrato
Il cavallier, se chiuse tutta quanta.
La dama disse a lui: – Baron pregiato,
Uscir de quindi alcun mai non se vanta,
Se la biada che vedi in ogni lato,
Prima non tagli, e se la verde pianta
Qual vedi in mezo a quel campo felice,
Prima non schianti in fin dalla radice. –
12.
E Mandricardo senza altro pensare
Entrò nel campo con la spada in mano,
E, cominciando la biada a tagliare,
Lo incanto apparve ben palese e piano;
Ché ogni granetto se ebbe a tramutare
In diverso animale orrendo e strano,
Or leonza, or pantera, ora alicorno:
Al baron tutti se aventarno intorno.
13.
Come cadeva il grano in su la terra,
In diverso animal se tramutava;
Per tutto intorno Mandricardo serra,
E sua prodezza poco gli giovava,
Ché non se vidde mai sì strana guerra.
La folta sempre più multiplicava
De lupi, de leoni e porci ed orsi:
Qual con graffi lo assalta, e qual con morsi.
14.
Durando aspra e crudel quella contesa
Quasi era posto il cavalliero al basso,
E restava perdente de la impresa,
Tanto era de le fiere il gran fracasso;
Né potendo più quasi aver diffesa,
Chinosse a terra e prese in mano un sasso.
Quel sasso era fatato; e non sapea
Già Mandricardo la virtù che avea.
15.
Questa pietra ch’io dico, avea segnali
Verdi, vermigli, bianchi, azuri e de oro,
E, come tratta fu tra gli animali,
Tra quelli apportò zuffa e gran martoro;
Perché e tauri selvatici e’ cingiali
E l’altre bestie cominciâr tra loro
Sì gran battaglia e morsi aspri e diversi,
Che in poco d’ora fôr tutti dispersi.
16.
Le bestie fôr disperse in poco de ora,
Ché l’una occise l’altra incontinente;
E Mandricardo non fece dimora,
Ché a ciò che far conviene, avia la mente.
L’altra aventura vi restava ancora,
Dico la pianta lunga ed eminente,
Che ha mille rami, e ogni ramo è fiorito;
A quella presto il cavalliero è gito.
17.
Di tutta forza al tronco s’abbracciava,
E pone a radicarla ogni vigore,
Ma dibattendo forte la crollava,
Onde a ogni foglia si spiccava il fiore,
E giù cadendo per l’aria volava.
Odeti se mai fu cosa maggiore:
Cadendo foglie e fiori a gran fusone,
Qual corbo diveniva, e qual falcone.
18.
Astori, aquile e guffi e barbagianni
Con seco cominciarno a far battaglia;
A benché non potean stracciarli e panni,
Ché armato è il cavalliero a piastre e maglia,
Pur eran tanti, che davano affanni
D’intorno a gli occhi e sì fatta travaglia,
Che non potea fornire il suo lavoro
De trare il tronco alle radice d’oro.
19.
Ma come quel che avea molto ardimento,
Non teme impaccio e la forza radoppia,
Sì che in fin la divelse a grave istento,
E nel stirparla parbe tuon che scoppia.
Con orribil romore uscitte un vento,
E tutti quelli ocelli a l’aria soffia:
Il vento uscitte, come Turpin dice,
Dal buco proprio ove era la radice.
20.
For di quel buco il gran vento rimbomba
Gettando con romor le pietre in sue
Come fossero uscite de una fromba;
E riguardando il cavallier là giue,
Vide una serpe uscir di quella tomba;
Indi li parbe non una, ma due,
Poi più de sei e più de otto le crede,
Cotante code invilupate vede.
21.
Or, perché sia la cosa manifesta,
Era la serpe di quel buco uscita,
Quale avea solo un busto ed una testa,
Ma dietro in dece code era partita;
E Mandricardo ponto non se arresta,
Ché volea sua ventura aver finita;
Col brando in mano alla serpe se accosta,
E il primo colpo a mezo il collo aposta.
22.
Ben gionse il tratto dove era apostato,
Dietro alla testa, a ponto nella coppa;
Ma quel serpente aveva il coio fatato.
Sì come un scoglio al legno che se intoppa,
Adosso al cavallier se fu lanciato;
E con due code alle gambe lo agroppa,
Con altre il busto e con altre le braccia,
Sì che legato a forza in terra il caccia.
23.
Lungo ha il drago il mostaccio e il dente bianco,
E l’occhio par un foco che riluca;
Con quello azaffa il cavalliero al fianco,
La piastra come pasta se manduca.
Lui se rivolge assai, ben che sia stanco,
E rivolgendo cade in quella buca
Ove uscia quel gran vento oltre misura:
Non è da dimandar s’egli ha paura.
24.
Ma sua ventura nel cader fu questa,
Ché in altro modo da la morte è preso:
Cadendo nel profondo con tempesta,
Fiaccò il capo al serpente col suo peso,
Sì che schiantar gli fie’ gli occhi di testa,
Onde se sciolse e tutto s’è disteso;
Dibattendo le code tutte quante,
Rimase a terra morto in uno istante.
25.
Morto il serpente, or guarda il cavalliero
La scura grotta de sopra e de intorno
(Lucea un carbonchio a guisa de doppiero,
Qual rendea lume come il sole al giorno):
La tomba era de un sasso tutto intiero,
Ma quello era coperto e tanto adorno
De ambra e corallo e de argento brunito,
Che non si vede di quel sasso un dito.
26.
Avea nel mezo un palco edificato,
De uno avorio bianchissimo e perfetto,
E sopra un drapo azuro ad ôr stellato,
Posto come dossiero o capoletto.
Parea là sopra un cavalliero armato,
Che se posasse senza altro sospetto:
Parea, dico, e non vi era; ogniom ben note:
Sol vi eran l’arme, e dentro eran poi vote.
27.
Queste arme fôr de la franca persona
Che viene al mondo tanto racordata,
De Ettor, dico io, che ben fu la corona
De ogni virtute al mondo apregïata.
Sua guarnison, di cui mo se ragiona,
Priva è del scuto e priva de la spata.
Ove stia il scuto, poco su se spiana;
La spata ha Orlando, e quella è Durindana.
28.
Forbite eran le piastre e luminose,
Che apena soffre l’occhio di vederle,
Frissate ad oro e pietre prezïose,
Con rubini e smiraldi e grosse perle.
Mandricardo ha le voglie disïose,
Mille anni a lui pare de indosso averle;
Guarda ogni arnese e lo usbergo d’intorno,
Ma sopra a tutto l’elmo tanto adorno.
29.
Questo avea de oro alla cima un leone,
Con un breve d’argento entro una zampa;
Di sotto a quel pur d’oro era il torchione,
Con vinti sei fermagli de una stampa;
Ma dritto nella fronte avea il carbone,
Qual reluceva a guisa de una lampa.
E facea lume, com’è sua natura,
Per ogni canto de la grotta oscura.
30.
Mentre che il cavallier stava a mirare
L’arme, che eran mirande senza fallo,
Sentì dietro alle spalle risuonare
Ne lo aprir de una porta di metallo.
Voltosse, e vidde a sé più dame intrare,
Che a copia ne venian menando un ballo,
Vestite a nova gala e strane zacare,
Suonando dietro a lor zuffoli e gnacare.
31.
Lor, scambiettando ad ogni lato, sguinceno,
Con salti dritti se innalciano a l’aria;
Così danzando, una canzon comincieno
Di nota arguta, consonante e varia;
E con le voci, ch’e stormenti vinceno,
Fan rintonar la tomba solitaria;
Poi ne la fin, tacendo tutte quante,
Se ingienocchiarno al cavalliero avante.
32.
Quindi se fu levata una di quelle,
E Mandricardo comincia a lodare,
Ponendo sua virtù sopra alle stelle
Per questa impresa tanto singulare.
Come ella tacque, e due altre donzelle
Apresero il barone a disarmare,
E disarmato sotto alla sua scorta
Fuor de la tomba il misero alla porta.
33.
Adosso poi gli posero un bel manto
De fina seta, ricamato a ziffere,
E perfumârlo apresso tutto quanto
De odor suavi e con acque odorifere;
E con festa ioconda e dolce canto,
Suonando tamburini e trombe e piffere,
Per una scala di marmoro ad aggio
Con lui se ritornarno entro al palaggio:
34.
Nel bel palaggio, quale io ve contai,
Che avea il scudo di Ettorre alla gran piaza.
Quivi eran cavallieri e dame assai,
Chi canta e danza, e chi ride e sollaza:
Più regal corte non se vidde mai;
Ma, come apparve Mandricardo in faza,
Gli andarno contra, e a sumissimo onore
Lo riceverno a guisa de segnore.
35.
Nel mezo a ricco seggio era la fata,
Che a sé davante Mandricardo chiede,
E disse: – Cavallier, questa giornata
Tal tesoro hai, che il simil non si vede.
Or se conviene agiongervi la spata,
E ciò mi giurarai su la tua fede:
Che Durindana, lo incantato brando,
Torai per forza de arme al conte Orlando.
36.
E sin che tale impresa non sia vinta,
Giamai non posarà la tua persona,
Nulla altra spada portarai più cinta,
Né adornarai tua testa di corona;
L’aquila bianca a quel scudo dipinta,
Nulla alta enchiesta mai non la abandona,
Ché quella arma gentile e quella insegna
Sopra ad ogni altra de trïomfi è degna. –
37.
Re Mandricardo allor con riverenzia,
Sì come piace a quella fata, giura;
E l’altre dame ne la sua presenzia
Tutte il guarnirno a ponto de armatura.
Come fu armato, allor prese licenzia,
Avendo tratta a fin l’alta aventura,
Per la qual più baron de summo ardire
Eron là presi, e non potean partire.
38.
Ora uscirno le gente tutte quante,
Che gran cavalleria vi era pregione:
Isolieri il spagnolo e Sacripante,
Il re Gradasso e il giovane Grifone,
E sieco uscitte il fratello Acquilante.
Gente di pregio e di condizïone
Vi erano assai, e nomi de alta gloria,
Che non accade a dire in questa istoria.
39.
Però che il re Gradasso e Mandricardo
Insieme se partirno in compagnia,
Né a ricontarvi molto serò tardo
Ciò che intravenne a loro in questa via.
Ben vi so dir che un par tanto gagliardo
Non fu in quel tempo in tutta Pagania;
Però faran gran cose e peregrine,
Prima che in Francia sian condotti a fine.
40.
Ma Grifone e Aquilante altro camino
Presero insieme, perché eran germani,
E sapendo il lenguaggio saracino
Securi andarno un tempo tra’ Pagani.
Or, cavalcando un giorno a matutino,
Due dame ritrovarno con duo nani;
L’una di quelle a bruno era vestita,
L’altra di bianco, candida e polita.
41.
E similmente e nani e’ palafreni
Di neve e di carbone avean colore;
Ma le donzelle avean gli occhi sereni,
Da trar col guardo altrui di petto il core,
Accoglimenti di carezze pieni,
Parlar suave e bei gesti d’amore;
Ed è tra queste tanta somiglianza,
Che l’una l’altra de nïente avanza.
42.
E cavallier le dame salutaro
Chinando il capo con atto cortese:
Ma quelle l’una a l’altra se guardaro,
E la vestita a nero a parlar prese,
Dicendo alla compagna: – Altro riparo
Far non si può, ni fare altre diffese
Contra di quel che il cel destina e il mondo,
Come infinito è il suo girare a tondo.
43.
Ma pur se puote il tempo prolungare
E far col senno forza a la fortuna:
Chi fece il mondo, lo potrà mutare,
E porre il sole in loco de la luna. –
– Prendiam dunque partito, se ti pare, –
Disse la bianca alla donzella bruna
– De ritener costor, poi che la sorte
Or gli conduce in Francia a prender morte. –
44.
Queste parole insieme ragionando
Avean le dame, e non erono intese
Da quei duo cavallieri, insino a quando
La bianca verso de essi a parlar prese,
Dicendo loro: – Io me vi racomando:
Se la ragion per voi mai se diffese,
Se amate onore e la cavalleria,
Esser vi piaccia alla diffesa mia. –
45.
Ciascun de’ duo baron quasi ad un tratto
Proferse a quelle aiuto a suo potere.
Disse la bruna: – Ora intenditi il fatto,
Poi che inteso abbiam noi vostro volere.
Fermar vogliamo a fede questo patto,
Che una battaglia avrete a mantenere,
Insin che un cavallier sia al tutto morto
Il qual ce offende e villaneggia a torto.
46.
Quel disleale è nominato Orilo,
E non è in tutto il mondo il più fellone;
Tiene una torre in su il fiume del Nilo,
Ove una bestia a guisa de dragone,
Che là viene appellata il cocodrilo,
Pasce di sangue umano e di persone.
Per strano incanto è fatto il maledetto,
Che de una fata nacque e de un folletto.
47.
Com’io vi dico, nacque per incanto
Quella persona di mercè ribella,
Che questo regno ha strutto tutto quanto,
Perché ogni cavalliero o damigella,
Qual quivi gionga o passi in ogni canto,
Fa divorare a quella bestia fella.
Cercato abbiamo de un barone assai,
Che tragga il regno e noi de tanti guai.
48.
Ma sino a qui rimedio non si trova
Né alcun riparo a tal destruzïone,
Ché quel da morte a vita se rinova
Per alta forza d’incantazïone.
Ora de voi se vederà la prova,
Ché ciascun mostra d’essere campïone
Per trare a fine ogn’impresa eminente,
Se a vostra vista lo animo non mente. –
49.
A quei duo cavallier gran voglia preme
De provar questa cosa tanto istrana;
E, caminando con le dame insieme,
Girno alla torre, e poco era lontana.
Già se ode il maledetto che là freme
Come fa il mar quando esce tramontana;
Fremendo batte Orilo in forma e denti,
Che sembra un mar turbato a suon de venti.
50.
Avea ne l’elmo per cimero un guffo
Cornuto, a penne e con gli occhi di foco,
E lui soffiava con orribil buffo;
Ma quei duo cavallieri il stimon poco,
Perché altre volte han visto il lupo in zuffo,
E stati sono a danza in altro loco,
Né stimono il periglio una vil paglia;
Onde il sfidarno presto alla battaglia.
51.
Ma quel superbo non fece risposta,
Mosse con furia e la sua mazza afferra;
Né più fece Aquilante indugia o sosta,
Ma la sua lancia lascia andare a terra,
E poi col brando in mano a lui se accosta;
E tra lor cominciarno una aspra guerra,
Dando e togliendo e di sotto e di sopra,
E quel la maccia e questo il brando adopra.
52.
Di quel ferir Grifone ha poca cura,
Ché era guarnito a piastre fatte ad arte,
Ma lui taglia al pagano ogni armatura,
Come squarciasse tegole di carte.
Gionselo un tratto a mezo la cintura,
E in duo cavezzi aponto lo diparte;
Così andò mezo a terra quel fellone,
Dal busto in giù rimase ne lo arcione.
53.
Quel che è caduto, già non vi è chi lo alci,
Ma brancolando stava ne l’arena;
E il suo destrier traea terribil calci,
Facea gran salti e giocava di schiena,
Onde convien che il resto al prato balci.
Ma non fu gionto in su la terra apena,
Che un pezo e l’altro insieme se sugella,
E tutto integro salta ne la sella.
54.
Se a quei baron parea la cosa nova,
Quale è incontrata, a dir non è bisogno,
Ché, avengaché Turpino a ciò me mova,
Io stesso a racontarla mi vergogno.
Disse Aquilante: – Io vo’ veder la prova,
Se io faccio dadovero o pur insogno. –
Così dicendo adosso a quel si caccia,
E Orilo adosso a lui con la sua maccia.
55.
E l’uno e l’altro a bon gioco lavora,
Benché disavantagio ha quel pagano,
Ché il gagliardo Aquilante in poco de ora
L’arme gli ha rotte e poste tutte al piano;
Essendo destinato pur che ei mora,
Abandona un gran colpo ad ambe mano
Sopra le spalle, alla cima del petto,
E il collo e il capo via tagliò di netto.
56.
Ora ascoltati che stupendo caso:
La persona incantata e maledetta,
Colui, dico, che in sella era rimaso,
Par che la mazza a lato se rimetta,
E prende la sua testa per il naso,
E nel suo loco quella se rassetta;
Indi sua mazza ha presto in man ritolta,
E torna alla battaglia un’altra volta.
57.
La bianca dama cominciava a ridere,
E disse ad Aquilante: – Bello amico,
Lascia costui, ché non lo puoi conquidere,
E credi a me che vero è quel ch’io dico:
Se in mille parte l’avesti a dividere,
E più minuto il tagli che il panìco,
Non lo potrai veder del spirto privo:
Spezato tutto, sempre sarà vivo. –
58.
Disse Aquilante: – E’ non fia mai sentito
Questo nel mondo o tal vergogna intesa,
Che ogni mio assalto non abbi finito,
Se ben me consumassi in fiama accesa;
E benché a questo non veda partito,
Sino alla morte seguirò la impresa.
Fia de mia vita poi quel che a Dio piace,
Ma con costui non vo’ tregua ni pace. –
59.
Così dicendo e turbato nel volto
Voltò ad Orril, ed hallo in terra a porre;
Ma quel ribaldo è già del campo tolto,
E rifuggito dentro da la torre.
Lo orrendo cocodrilo avea disciolto:
Fuor della porta quella bestia corre,
E dietro Orilo in sul cavallo armato:
Ben par che il campo tremi in ogni lato.
60.
Come vide Grifon quello animale,
Qual vien correndo a quel fellone avante,
Mossesi ratto, come avesse l’ale,
Per dare aiuto al germano Aquilante.
Altra battaglia non fu mai cotale
Di tanto affanno e di fatiche tante
Quanto se puote in zuffa sostenire;
Ma ciò riserbo in l’altro canto a dire.
CANTO TERZO
1.
Tra bianche rose e tra vermiglie, e fiori
Diversamente in terra coloriti,
Tra fresche erbette e tra soavi odori
De gli arboscelli a verde rivestiti,
Cantando componea gli antichi onori
De’ cavallier sì prodi e tanto arditi,
Che ogni tremenda cosa in tutto il mondo
Fu da lor vinta a forza e posta al fondo;
2.
Quando mi venne a mente che il diletto
Che l’om se prende solo, è mal compiuto.
Però, baroni e dame, a tal cospetto
Per dilettarvi alquanto io son venuto;
E con gran zoia ad ascoltar vi aspetto
L’aspra battaglia de Grifone arguto
E de Aquilante, il tanto apregïato,
La qual lasciai nel canto che è passato.
3.
Contai del cocodrilo in che maniera
Da la torre de Orrilo a furia n’esce.
A meraviglia grande è questa fiera,
Che molto vive e sempre in vita cresce;
Ora sta in terra ed or nella riviera,
Le bestie al campo, a l’acqua prende il pesce;
Fatto è come lacerta, over ramaro,
Ma di grandezza già non sono al paro;
4.
Ché questo è lungo trenta braccia, o piue,
Il dosso ha giallo e maculoso e vario;
La mascella di sopra egli apre in sue,
Ed ogni altro animal fa pel contrario.
Tutta una vacca se ingiottisce, o due,
Ché ha il ventre assai maggior de un grande armario,
E denti ha spessi e lunghi de una spana:
Mai fu nel mondo bestia tanto istrana.
5.
Ora Grifon, che lo vidde venire,
Come detto è di sopra, a tal tempesta,
Mosse con gran possanza e molto ardire
Verso di quello e la sua lancia arresta.
Più bello incontro non se potria dire:
Tra gli occhi il colse, a mezo de la testa.
Grossa era l’asta, e il ferro era pongente,
Ma l’uno e l’altro vi giovò nïente.
6.
Fiaccosse l’asta come una cannuza
E poco fece il ferro alla percossa,
Ché a quella bestia non passò la buza,
Tanto era aspra e callosa e dura e grossa.
Ora apizata è ben la scaramuza,
E la fiera orgogliosa, ad ira mossa,
Aperse la gran bocca; e senza fallo
Integro se il sorbiva esso e ‘l cavallo.
7.
Se non che a tempo vi gionse Aquilante,
Che avea già Orilo in due parte tagliato,
E veggendo il germano a sé davante
A tal periglio e quasi devorato,
Mena un gran colpo del brando trinciante
Sopra al mostaccio, che era rilevato.
Fatato è il brando, ed esso avea gran forza,
Ma a quella bestia non taccò la scorza.
8.
Il cocodrilo ad Aquilante volta,
Ma tanto spaventato è il suo destriero
Che già non lo aspettò per quella volta,
Né di aspettarlo gli facea mestiero,
Ché in bocca non gli avria dato una volta,
Ma travalciato in un boccone intiero:
L’omo, il cavallo, l’arme e’ paramenti
Giù serian giti e non toccati e denti.
9.
Ma, come io dico, il destriero è smarito,
Fugge correndo e ponto non galoppa;
Quello orrendo animal l’avea seguito,
E quasi il tocca spesso ne la groppa.
Essendogli vicino a men de un dito,
Altro che fare ad Aquilante intoppa,
Ché Orrilo è suscitato e non soggiorna,
Ma con la mazza alla battaglia torna.
10.
Ora Grifone a terra era smontato,
E salta al cocodrilo in su le rene,
E sì pel dosso è via correndo andato,
Che per la coppa al capo se ne viene.
Saltava il cocodrilo infurïato,
Ma Grifone attaccato a lui se tiene,
Ché ad ambe man l’ha preso per il naso:
Mai non fu visto il più stupendo caso.
11.
Da l’altra parte Orrilo ed Aquilante
Ripresa insieme avean cruda battaglia,
Quale era pur come l’altre davante.
Non giovano al pagan piastre né maglia,
Ché in pezzi vanno a terra tutte quante.
Ecco il gionge alla spalla e quella taglia,
Credendo darli a quella volta il spaccio;
La spalla via tagliò con tutto il braccio.
12.
Va il braccio dritto a terra col bastone:
Non sta queto Aquilante, il sire arguto,
Ché ben sapea di sua condizïone;
Veggendol morto, non l’avria creduto.
Da l’altro lato mena un roversone,
E monca il manco braccio e tutto ‘l scuto;
Poi salta dell’arcione in molta fretta,
Prende le braccia e quelle al fiume getta.
13.
Nel fiume le scagliò da mezo miglio:
Grande in quel loco è il Nilo, e sembra un mare.
Disse Aquilante: – Or va, ch’io non te piglio,
E fami el peggio ormai che mi pôi fare.
La mosca mal te cacciarai dal ciglio,
E potrai peggio e gambari mondare,
Malvaggio truffator, che con tuo incanto
M’hai retenuto in tal travaglia tanto. –
14.
Voltosse Orilo e parve una saetta,
Tanto correndo va veloce e chiuso,
E da la ripa nel fiume se getta:
Col capo innanti se ne andò là giuso.
Corse Aquilante a Grifon che lo aspetta,
Che il cocodrilo avea preso nel muso;
Non bisognava che indugiasse un anno,
Ché là stava il germano in grande affanno.
15.
Come io vi dissi su poco davante,
Grifon quello animale al naso ha preso,
E sopra al capo vi tenea le piante,
Facendo a forza il muso star disteso;
E così stando, vi gionse Aquilante,
Qual prestamente fu de arcion disceso,
E prese la sua lancia, che era in terra,
Ché non l’aveva oprata in questa guerra.
16.
Con quella in mano allo animal s’accosta,
Ponendo a tal ferire ogni possanza,
E tra la aperta bocca il colpo aposta,
E dentro tutta vi cacciò la lanza.
Via per il petto e per la prima costa
Fece apparir la ponta per la panza,
Però che sotto al corpo e ne le aselle
Il cocodrilo ha tenera la pelle.
17.
Ben vi so dir che il tratto a Grifon piacque,
Perché già più non lo potea tenire;
Mai lieto fu cotanto poi che nacque.
Ora comincia Orilo ad apparire,
Che su venìa natando per quelle acque.
Quando Aquilante lo vidde venire,
– Può far – diceva – il celo e tutto il mondo
Che abbi pescati e monchi in su quel fondo? –
18.
Lui l’uno e l’altro de’ bracci menava
E l’onda con le mano avanti apriva;
Come una rana quel fiume notava,
Tanto che gionse armato in su la riva.
Grifon verso Aquilante ragionava:
– Se questa bestia fosse ancora viva,
Quale abbiam morta con affanno tanto,
Di tale impresa non avremo il vanto. –
19.
Disse Aquilante: – Io non so certo ancora
Che onor ce seguirà questa aventura;
Far non so io tal prova che mai mora
Quella incantata e falsa creatura.
Del giorno avanza poco più de un’ora:
Che faren ne la notte a l’aria scura?
A me par di vedere, e già il discerno:
Quel ce trarà con seco nello inferno. –
20.
Grifon diceva: – Adunque ora si vôle,
Mentre che è il giorno, la spada menare,
Prima che al monte sia nascoso il sole:
Per me la notte non sapria che fare. –
E quasi al mezo di queste parole
Volta ad Orilo e vallo ad afrontare;
Ciascun da dover tocca e non minaccia,
L’un con la spada e l’altro con la maccia.
21.
Molto vi era da far da ciascun lato,
Ché quello a questo e questo a quel menava,
Avenga che Grifone è bene armato,
E di mazzate poco se curava.
Durando la contesa in su quel prato,
Un cavalliero armato vi arivava,
Che avea preso in catena un gran gigante.
Ma di tal cosa più non dico avante.
22.
Ben poi ritornarò, come far soglio,
E questa impresa chiara conterò,
Ché, quando de una cosa è pieno il foglio,
Convien dar loco a l’altra; ed imperò
De Mandricardo racontar vi voglio,
Qual con Gradasso in Franza menerò.
Ma, prima che sian gionti, assai che fare
Avranno entrambi e per terra e per mare.
23.
Partiti da la fata del castello,
Ove l’arme di Ettòr già star suoleano,
Sorìa, Damasco e quel paese bello
Senza travaglia già passato aveano.
Sendo gionti sul mare ad uno ostello,
Perché era tardi al’oggiar vi voleano,
Ma quello è aperto ed è disabitato,
Né appar persona intorno in verun lato.
24.
Guardando giuso al lito il re Gradasso,
Verso una ripa a pietre dirocata,
Ove la batte l’onde e il mare al basso
Stava una dama ignuda e scapigliata,
Che era legata con catene al sasso,
Chiedendo morte la disconsolata.
– Morte, – diceva – o tu, morte, me aiuta,
Ché ogn’altra spene è ben per me perduta! –
25.
E cavallier callarno incontinente
Giuso nel fondo di quel gran petrone
Per saper meglio l’aspro conveniente
Di quella dama, e chi fosse cagione;
Ma lei piangeva sì dirottamente,
Ch’e sassi mossi avria a compassïone,
Dicendo a quei baron: – Deh! per pietate
Tagliatime qua tutta con le spate.
26.
E se il celo o fortuna vôl che io pèra,
Per le man de omo almen possa perire,
Né divorata sia da quella fiera,
Ché peggio assai è il strazio che il morire. –
Volean saper la cosa tutta intiera
E duo baron, ma lei non potea dire,
Sì forte in voce singiociva, e tanto
Tra le parole gli abondava il pianto.
27.
E pur dicea piangendo: – Se io mi doglio
Più che io non mostro, n’ho cagione assai.
Se il tempo bastarà, dir la vi voglio:
Odeti se una al mondo è in tanti guai.
Dimora uno orco là sotto a quel scoglio:
Non so se altro orco voi vedesti mai,
Ma questo è sì terribile alla faccia,
Che al ricordarlo il sangue mi se agiaccia.
28.
Apena apena che parlar vi posso,
Ché il cor mi trema in petto di paura.
Grande non è, ma per sei altri è grosso,
Riccia ha la barba e gran capigliatura;
In loco de occhi ha due cocole de osso,
E bene a ciò providde la natura,
Ché, se lume vedesse, a tondo a tondo
Avria disfatto in poco tempo il mondo.
29.
Né vi è diffesa, a benché non gli veda,
Ché, come io dissi, il perfido è senza occhi.
Io già lo vidi (or chi fia che lo creda?)
Stirpar le quercie a guisa de finocchi;
E tre giganti che avea presi in preda,
Percosse a terra qua come ranocchi;
Le cosse dispiccò dal busto tosto,
E pose il casso a lesso e il resto a rosto.
30.
Però che sol se pasce a carne umana,
E tien de sangue de omo a bere un vaso.
Ma gite voi in parte più lontana,
Che quel malvagio non vi senta a naso;
A benché giace adesso nella tana,
Che per dormir là dentro si è rimaso;
Ma come se resvegli, incontinente
Al naso sentirà che quivi è gente.
31.
E come un bracco seguirà la traccia;
Non valerà diffesa, né fuggire,
Ché cento miglia vi darà la caccia,
E converravi in tutto al fin perire.
Onde vi prego che partir vi piaccia,
E me lasciati misera morire,
Ma sol chiedo di grazia e sol vi prego
Che a una dimanda non facciati nego;
32.
E questa fia: se forse tra camino
Avesti un giovinetto a riscontrare,
Re di Damasco (e nome ha Norandino;
Non so se mai lo odesti racordare),
A lui contati il mio caso tapino
(So ben che lo fareti lacrimare),
Dicendo: La tua dama te conforta,
Che te amò viva ed ama ancora morta.”
33.
Ma ben guardàti, e non prendesti errore,
De dir ch’io viva più tra tante pene,
Però che lui mi porta tale amore,
Che nol potrian tener mille catene;
E la mia doglia poi saria maggiore,
Veggendo perir meco ogni mio bene;
E più mi doleria che la mia morte,
Che se a lui fosser sol due dita torte.
34.
Direti adunque come sotterrata
M’avete istessi a canto alla marina;
Ma lui dimandarà de la contrata
Per trovar morta almen la sua Lucina.
Direti che l’aveti smenticata
Come se chiami, e il loco che confina;
Poi confortati lui con tal parole
Che stia contento a quel che ‘l mondo vôle. –
35.
Così ragiona, e la faccia serena
Piangendo bagna quella sventurata.
Tenea Gradasso le lacrime apena,
E già dal fianco avea tratta la spata
Per rompere e tagliar quella catena,
Con la qual quivi al sasso era legata;
Ma la dama cridò: – Per Dio, non fare!
Morto serai, né me potrai campare.
36.
Questa catena, misera! dolente!
Per entro al sasso passa nella tana;
Come toccata fosse, incontinente
Scocca uno ordegno e suona una campana;
E se quel maledetto se risente,
Ogni speranza del fuggire è vana.
Per piani e monti e ripe e lochi forti
Mai non vi lasciarà, sin che vi ha morti. –
37.
A Mandricardo molta voglia tocca
De odir se la campana avea bon suono.
La dama non avea chiusa la bocca,
Che è scosso la catena in abandono.
Ben vi so dir che dentro là si chiocca:
Sembra nel sasso risuonare un tuono;
E la donzella pallida e smarita
– Ahimè! – cridava – ahimè! mia vita è gita!
38.
Sol de la tema tutta me distorco:
Adesso qua serà quel maledetto. –
Eccoti uscir de la spelonca lo orco,
Che ha la gozaglia grande a mezo il petto;
E denti ha for di bocca, come il porco,
Né vi crediati che abbi il muso netto,
Ma brutto e lordo e di sangue vermiglio;
Longhi una spanna ha e peli in ogni ciglio.
39.
Quanto una gamba ha grosso ciascun dito
E negre lungie e piene di sozzura.
Ora Gradasso già non è smarito
Per tanto istrana ed orrida figura.
Col brando in mano adosso a quello è gito,
Ma l’orco del suo brando ha poca cura,
Nel scudo il prende e via strappò del braccio,
E quel stringendo franse come un giaccio.
40.
Se così preso avesse nella testa,
L’elmo avria rotto e trito come cenere,
Serìa compita ad un tratto la festa.
Come se schiazzan le nociole tenere,
Come se fiacca un ziglio alla tempesta,
O vero un fongo che al fango se genere,
Sì sciolto il capo avria, senza dissolvere
Le fibbie a l’elmo, e fatto tutto in polvere.
41.
Ma lui non vede ove ponga la mano,
Per questo a caso l’ha nel scudo preso;
E dette un scosso sì crudo e villano,
Che a terra il re Gradasso andò disteso.
L’orco il prese a traverso a mano a mano,
Alla spelonca lo portò di peso;
Ben se dibatte invano e se dimena,
Pur l’orco il lega e pone alla catena.
42.
Come legato l’ebbe, incontinente
Fuor de la tana di novo è venuto;
E Mandricardo si stava dolente,
Ché il suo caro compagno avia perduto.
Non avea brando il cavallier valente,
Però che aveva in sacramento avuto
Mai non portare alla sua vita brando,
Se non acquista quel del conte Orlando.
43.
Chinosse e prese una gran pietra e grossa:
Bene è cinquanta libre, vi prometto;
E trasse quella di tutta sua possa,
E gionse lo orco proprio a mezo il petto.
Ma quel non teme ponto la percossa,
Anci l’ira gli crebbe e il gran dispetto;
Ove ebbe il colpo, con la man se tocca,
E, come un verro, ha la schiuma alla bocca.
44.
E dietro al cavallier par che se metta,
Come un seguso a l’orme de una fiera.
Già Mandricardo ponto non lo aspetta,
Ché avea persona destra, atta e legiera.
Su corre al poggio, e sembra una saetta;
Quindi, fermato a megio la costiera,
Tra’ un gran sasso tratto fuor del monte,
E quel percosse dritto nella fronte.
45.
Quel sasso in mille parte se spezzò,
Ma fece poco male a quel perverso,
E già per questo non lo abandonò,
Ché non l’aveva mai di naso perso.
Mandricardo ne va quanto più può,
Cercando il monte a dritto ed a traverso,
Tanto che gionse a quello in su la cima,
E lo orco apresso; e quasi ancora in prima.
46.
Non sa più che si fare il cavalliero,
Né a questa cosa sa prender partito;
Per ogni balza e per ogni sentiero
Questa malvagità l’avea seguito,
Né far bisogna ponto di pensiero
Aver con esso de diffesa un dito;
Ben gli tra’ sassi e tronchi aspri e robesti,
Ma non ritrova cosa che lo aresti.
47.
Torna correndo in giù, verso il vallone,
A benché indietro se voltava spesso,
Ed ecco avanti trova un gran burone:
Da cima al fondo tutto il monte è fesso.
Alor se tenne morto quel barone,
E per spazzato al tutto se è già messo;
Sopra alla balza a corso pieno è mosso,
Di là de un salto andò con l’arme in dosso.
48.
Ed era larga più de vinti braccia,
Sì come altri estimar puote alla grossa;
Ma quel brutto orco che seguia la traccia,
Perch’era cieco non vidde la fossa,
Onde per quella a piombo giù tramaccia.
De intorno ben se odette la percossa,
Ché, quando gionse in su le lastre al fondo,
Parve che il cel cadesse e tutto il mondo.
49.
Non dette la percossa sopra al letto,
Perché quella aspra ripa era molto alta,
E ben tre coste se fiaccò nel petto,
E quelle pietre del suo sangue smalta.
Diceva Mandricardo con diletto:
– Chi ponto stecca al segno mal si salta.
Or là giù ti riman in tua malora! –
Così dicendo più non se dimora.
50.
E giù callando lieto e con gran festa,
Al mar discese e venne alla spelonca.
Qua vede un braccio, e là meza una testa,
Colà vede una man co’ denti monca.
Per tutto intorno è piena la foresta
Di qualche gamba o qualche spalla tronca
E membri lacerati e pezzi strani,
Come di bocca tolti a lupi e a cani.
51.
Ciò riguardando varca di bon passo;
E gionse a quella tana in su la intrata,
Qual molto è grande dentro da quel sasso,
E riccamente d’oro è lavorata.
Poi che ebbe sciolto quindi il re Gradasso,
E la dama che al scoglio era legata,
Tutti se revestirno a nove spoglie,
Ché veste ivi trovarno e ricche zoglie.
52.
Montarno, e ciascadun forte camina;
Seco è la dama dal viso soprano:
E via passando a canto alla marina
Iscorsero una nave di lontano.
Viddero in quella, quando se avicina,
L’alta bandiera del re Tibïano:
Qual era parte di questa donzella,
Tolta da loro alla fortuna fella.
53.
Re de Cipri in quel tempo e de Rodi era
Quel Tibïano ed altre terre assai,
E va cercando per ogni rivera
De la filiola, e non la trova mai;
Onde di doglia in pianto se dispera,
E mena la sua vita in tristi guai.
Come la dama la bandiera vide,
Per allegrezza a un tratto piange e ride.
54.
Già meglio se comincia a discernire
La nave e la sua gente tutta quanta;
E la donzella non può sofferire,
Ma con la veste a quella nave amanta;
E, senza più tenirvi in lungo dire,
Salirno al legno; e la zoia fo tanta
Quanto a sì fatto caso esser credia,
Trovando lei che morta esser tenìa.
55.
E già le poppe voglion rivoltare,
Tirando con le corde alte le antene.
Eccoti lo orco che nel poggio appare,
E verso il mare a corso se ne viene;
Ben vi so dir che ogniom si dà che fare,
Ché la più parte alor morta se tiene;
Ciascun de’ marinari era parone
A tirar presto e volgere il temone.
56.
Pur giù vien lo orco e verso il mar se calla.
La barba a sangue se gli vedea piovere,
Un gran pezzo de monte ha in su la spalla,
Che dentro vi eran pruni e sterpi e rovere;
Legier lo porta lui come una galla,
Né cento boi l’avrian potuto movere.
Correndo vien la orrenda creatura:
Già dentro al mare è sino alla cintura.
57.
E tanto passa, che va come il buffolo,
Che il muso ha fuori e i piedi in su la sabbia;
Movere odendo e remi al suon del zuffolo,
Trasse là verso il monte con gran rabbia.
Gionsine presso; e l’onda diè dal tuffolo,
Che saltar fece l’acqua in su la gabbia;
Ma se più avanti un poco avesse agionto,
Sfondava il legno e li omini ad un ponto.
58.
Se e marinari alora ebber spavento,
Non credo che bisogni racontare,
Ché qual di loro avea più de ardimento
Nascoso è alla carena e non appare.
Ora levosse da levante il vento,
L’onda risuona e grosso viene il mare;
Già rotto il celo e l’acqua insieme han guerra:
Più non se vede lo orco né la terra.
59.
De l’orco, dico, ormai non han paura,
Ma morte han più che prima in su la testa,
Però che orribilmente il celo oscura,
Il vento cresce ogniora e gran tempesta.
Pioggia meschiata de grandine dura
Giù versa con furore, e mai non resta:
Ora fulgore, or trono ed or saetta,
Che l’una l’altra apena non aspetta.
60.
Per tutto intorno bursano e delfini,
Donando di fortuna il tristo annoncio;
Non sta contento il mare a’ suoi confini,
Che in nave ne entra assai più d’un bigoncio:
Da far vi fia per grandi e piccolini.
Ma non vi vo’ tenir tanto a disconcio,
E nel presente canto io ve abandono,
Ché ogni diletto a tramutare è bono.
CANTO QUARTO
1.
Segnor, se voi potesti ritrovare
Un che non sappia quel che sia paura,
O se volesti alcun modo pensare
Per sbigottire una anima sicura,
Quando è fortuna quel poneti in mare,
E si non se spaventa o non se cura,
Toglietelo per paccio, e non ardito,
Perché ha con morte il termine de un dito.
2.
Orribil cosa è certo il mar turbato,
E meglio è odirlo dir che farne prova,
Però creda ciascuno a chi gli è stato,
E per provar di terra non si mova,
Come io contava al canto che è passato,
Di quella nave che entro al mar se trova,
Sì combattuta da prora e da poppa,
Che l’acqua ve entra ed escine la stoppa.
3.
Mandricardo era in quella e il re Gradasso,
Re Tibïano e sua figlia Lucina.
Ora se rompe l’onda a gran fraccasso,
E mostra un gregge tutta la marina:
Un gregge bianco, che si pasca al basso,
Ma sempre mugge e sembra una ruina;
Stridon le corde e il legno se lamenta:
Gemendo al fondo, par che ‘l suo mal senta.
4.
Or questo vento ed or quell’altro salta,
Non san che farsi e marinari apena;
Tra’ nivoli talor è la nave alta,
E talor frega a terra la carrena.
Sopra a ogni male e sopra a ogni difalta
Fu quando gionse un colpo ne la antena;
Piegosse il legno e giù dette alla banda:
Ciascun cridando a Dio si racomanda.
5.
Più de due miglia andò la nave inversa,
Che a ponto in ponto sta per affondare,
La gente che vi è dentro è tutta persa:
Se fa de’ voti, non lo adimandare.
Ecco da canto gionse una traversa,
Che a l’altra banda fece traboccare;
Ciascadun crida e non se ode persona,
Sì muggia il mare e il vento sì risona.
6.
Questo se cangia e muta in uno istante,
Ora batte davanti, or ne le sponde;
Spiccosse al fine un groppo da levante
Con furia tal, che il mar tutto confonde.
Gionse alla poppa e pinse il legno avante,
E fece entrar la prora sotto l’onde;
Sotto acqua via ne andò più d’una arcata,
Come va il mergo e l’oca alcuna fiata.
7.
Pur fuore uscitte, e va con tal ruina
Qual fuor de la balestra esce la vera.
Da quella sera insino alla matina
E da quella matina a l’altra sera,
Via giorno e notte mai non se raffina,
Sin che condotta è sopra alla riviera,
Ove quel monte in Acquamorta bagna
Il qual divide Francia dalla Spagna.
8.
Quivi ad un capo che ha nome la Oruna,
Smontarno con gran voglia in su la arena,
E sì sbattuti son dalla fortuna,
Che sendo in terra nol credono apena.
Passò il mal tempo e quella notte bruna,
Con l’alba insieme il cel se raserena,
E già per tutto essendo chiaro il giorno,
Deliberarno andar cercando intorno.
9.
Cercar deliberarno in che paese
Sian capitati e chi ne sia segnore,
E tratto fuor di nave ogni suo arnese,
Ciascadun se arma e monta il corridore.
Ma lor vïaggio poco se distese,
Ché oltra ad un colle odirno un gran rumore,
Corni, tamburi ed altre voce e trombe,
Che par che ‘l suono insino al cel rimbombe.
10.
Il franco re Gradasso e Mandricardo
Fecer restar la dama e Tibïano.
Possa alcun de essi a mover non fu tardo,
Sin che fôr sopra al colle a mano a mano;
E giù facendo a quel campo riguardo
Vider coperto a genta armata il piano,
Che era afrontata insieme a belle schiere
Sotto a stendardi e segni di bandiere.
11.
Perché sappiati il tutto, il re Agramante
Contro al re Carlo avea questa battaglia,
Come io contai nel libro che è davante:
Un’altra non fu mai di tal travaglia.
Quivi era il re Marsilio e Balugante,
Tanti altri duci e tanta altra canaglia,
Che in alcun tempo mai né alcuna guerra
Maggior battaglia non se vidde in terra.
12.
Orlando qua non è, ni Feraguto:
Stava il pagano ad un fiume a cercare
De l’elmo, qual là giù gli era caduto,
Sì come io vi ebbi avanti a ricontare.
Al conte era altro caso intravenuto
Troppo stupendo e da meravigliare:
Ché lui, qual vincer suole ogni altra prova,
Tra dame vinto e preso se ritrova.
13.
Di lui poi dirò il fatto tutto intiero,
Ma non se trova adesso in queste imprese;
Ben vi è Ranaldo e il marchese Oliviero,
èvi Ricardo e Guido e ‘l bon Danese,
Come io contava alor, quando Rugiero
Tanti baroni alla terra distese
Di nostra gente, e tal tempesta mena
Come fa il vento al campo de l’arena.
14.
Come si frange il tenero lupino
O il fusto de’ papaveri ne l’orto,
Cotal fraccasso mena il paladino;
Condotta è nostra gente a tristo porto.
Roverso a terra se trova Turpino,
Uberto, el duca di Baiona, è morto;
Avino e Belengiero e Avorio e Ottone
Sono abattuti, e seco Salamone.
15.
Gualtieri ebbe uno incontro ne la testa,
Che il sangue gli schiattò per naso e bocca,
E cade trangosciato alla foresta.
Il giovane Rugiero a gli altri tocca,
Né se potria contar tanta tempesta:
Qual tramortito e qual morto trabocca.
Via va correndo e scontrasi a Ricardo
Quel duca altiero, nobile e gagliardo.
16.
Ispezza il scudo e per la spalla passa,
Di dietro fore andò il pennon di netto;
La lancia a mezo l’asta se fraccassa,
Urtarno e duo corsier petto per petto.
Rugier quivi Ricardo a terra lassa
E tra’ la spada, il franco giovanetto,
La spada qual già fece Falerina,
Che altra nel mondo mai fu tanto fina.
17.
Comincia la battaglia orrenda e fiera,
Che quasi è stata insino adesso un gioco;
Sembra Rugier tra gli altri una lumiera,
Trono e baleno e folgore di foco.
Or questa abatte ed or quell’altra schiera,
Par che si trovi a un tratto in ogni loco;
Volta e rivolta e, come avesse l’ale,
Per tutto agiongie il giovane reale.
18.
La nostra gente fugge in ogni banda:
Non è da dimandar se avean paura,
Ché a ciascun colpo un morto a terra manda:
Sembraglia non fu mai cotanto oscura.
Già Sinibaldo, il bon conte de Olanda,
Partito avea dal petto alla cintura,
E Daniberto, il franco re frisone,
Avea tagliato insino in su l’arcione.
19.
E il duca Aigualdo, il grande e sì diverso,
Qual fu Ibernese e nacque de gigante,
Fo da Rugiero agionto in su il traverso,
E tutto lo tagliò dietro e davante.
Non è il marchese de Vïena perso,
Se l’altre gente fuggon tutte quante;
Se ben gli altri ne vanno, ed Oliviero
Sol lui se affronta e voltase a Rugiero.
20.
Alor se incominciò l’alta travaglia,
Né questa zuffa come l’altre passa;
La spada de ciascun così ben taglia,
Che io so che dove giongie, il segno lassa.
Ecco il Danese ariva alla battaglia,
Ecco Ranaldo ariva, che fraccassa
Tutta la gente e mena tal polvino
Come il mondo arda e fumi in quel confino.
21.
Quando Rugier, che stava alla vedetta,
Se accorse che sua gente in volta andava,
Come dal cel scendesse una saetta,
Con tal furore ad Olivier menava.
Menava ad ambe mano, e per la fretta,
Come a Dio piacque, il brando se voltava;
Colse di piatto, e fo la botta tanta,
Che l’elmo come un vetro a pezzi schianta.
22.
Ed Olivier rimase tramortito
Per il gran colpo avuto a tal tempesta;
Senza elmo apparve il suo viso fiorito,
E cadde de lo arcione alla foresta.
Quando il vidde Rugiero a tal partito,
Che tutta a sangue gli piovea la testa,
Molto ne dolse al giovane cortese,
Onde nel prato subito discese.
23.
Essendo sopra al campo dismontato
Raccolse nelle braccia quel barone
Per ordinar che fusse medicato,
Sempre piangendo a gran compassïone.
In questo fatto standosi occupato,
Ecco alle spalle a lui gionse Grifone:
Grifone, il falso conte di Maganza,
Vien speronando e aresta la sua lanza.
24.
Di tutta possa il conte maledetto
Entro alle spalle un gran colpo gli diede,
Sì che tomar lo fece a suo dispetto:
Tomò Rugiero e pur rimase in piede;
Mai non fu visto un salto così netto.
Ora presto si volta e Grifon vede,
Che per farlo morir non stava a bada:
Rotta la lancia, avea tratta la spada.
25.
Ma Rugier se voltò con molta fretta,
Cridando: – Tu sei morto, traditore! –
Grifone il falso ponto non lo aspetta,
Come colui che vile era di core.
Ove è più folta la battaglia e stretta,
In quella parte volta il corridore;
Tra gente e gente e tra l’arme se caccia,
Né può soffrir veder Rugiero in faccia.
26.
Questo altro il segue a piede, minacciando
Che lo farà morir come ribaldo;
E quel fuggendo, e questo seguitando,
Gionsero al loco dove era Ranaldo,
Quale avea fatto tal menar del brando,
Che ‘l campo correa tutto a sangue caldo.
Parea di sangue il campo una marina:
Veduta non fu mai tanta ruina.
27.
Grifon cridava: – Aiutame per Dio!
Aiutame per Dio! ché più non posso;
Ché questo saracin malvaggio e rio
Per tradimento a morte me ha percosso. –
Quando Ranaldo quella voce odìo,
Voltò Baiardo e subito fu mosso
Per urtarsi a Rugiero a corso pieno;
Ma, veggendolo a piè, ritenne il freno.
28.
Sappiati che il destrier del paladino
Era rimaso là dove discese.
Là presso sopra il campo era Turpino
Che da’ Pagani un pezzo se diffese;
Essendo a quel destrier dunque vicino,
A lui se accosta e per la briglia il prese;
E destramente ne lo arcion salito
Ritorna alla battaglia il prete ardito.
29.
Rugiero adunque, come ebbi a contare,
Se ritrovava a piedi in su quel piano.
Fuggito è via Grifone e non appare,
E lui affronta il sir di Montealbano;
Il qual nol volse con Baiardo urtare,
Però che ad esso parve atto villano,
Ma de arcion salta alla campagna aperta
Col scudo in braccio e con la sua Fusberta.
30.
Tra lor se cominciò zuffa sì brava,
Che ogni om per meraviglia stava muto;
Né già Ranaldo stracco si mostrava,
Benché abbia combattuto il giorno tuto;
E l’uno e l’altro a tal furia menava,
Che meraviglia è che non sia destruto.
Non che il scudo a ciascuno e l’elmo grosso,
Ma un monte a quei gran colpi serìa mosso.
31.
Durando aspra e crudel quella contesa,
Ecco Agramante ariva a la battaglia,
Che caccia e Cristïani alla distesa,
Come fa il foco posto ne la paglia.
Re Carlo e’ nostri non pôn far diffesa,
Tanta è la folta di quella canaglia,
Che sembra un fiume grosso che trabocca:
Per un de’ nostri, cento e più ne tocca.
32.
Avanti a gli altri el re di Garamanta,
Io dico il dispietato Martasino,
Qual vien cridando, a gran voce se vanta
Di prender vivo il figlio de Pipino.
Tanto è il romore e la gente cotanta,
Che il campo trema per ogni confino,
E tale è il saettar fuor di misura,
Che al nivolo de’ dardi il cel se oscura.
33.
La gente nostra fugge in ogni lato,
E quella che se arresta riman morta.
Quivi è Sobrino, il vecchio disperato,
Che per insegna il foco a l’elmo porta;
E Balifronte, in su un gambelo armato,
Taglia a due mano ed ha la spada torta;
E Barigano e Alzirdo e Dardinello
Ciascun de’ Cristïan fa più macello.
34.
Oh! chi vedesse in faccia il re Carlone
Guardare il cielo e non parlar nïente:
E sassi mossi avria a compassïone,
Veggendol lacrimar sì rottamente.
– Campati voi, – diceva al duca Amone
– Campati, Naimo e Gano, il mio parente,
Campati tutti quanti, e me lassati,
Ché qua voglio io purgare e mei peccati.
35.
Se a Dio, che è mio segnor, piace ch’io mora,
Fia il suo volere, io sono apparecchiato;
Ma questa è sol la doglia che mi accora,
Che perir veggio il popul battezato
Per man di gente che Macone adora.
O re del celo, mio segnor beato,
Se il fallir nostro a vendicar ti mena,
Fa che io sol pèra e sol porti la pena. –
36.
Ciascun di quei baron che Carlo ascolta,
Piangono anco essi e risponder non sano.
Già la schiera reale in fuga è volta,
E boni e tristi in frotta se ne vano.
La folta grande è già tutta ricolta
Ove Rugiero e ‘l sir de Montealbano
Facean battaglia sì feroce e dura,
Che de questi altri alcun de lor non cura.
37.
Ma tanto è la ruina e il gran disvario
Di quella gente, e chi fugge e chi caccia,
Chi cade avanti, e chi per il contrario,
E chi da un lato e chi d’altro tramaccia;
Onde a que’ dui baron fu necessario
Spartir la zuffa, e sì grande la traccia
Gli urtava adosso e tanta la zinia,
Che alcun di lor non sa dove si sia.
38.
Partito l’un da l’altro e a forza ispento,
Ché una gran frotta a lor percosse in mezo,
Rimase ciascun de essi mal contento,
Che non si discernia chi avesse el pezo;
Ma pur Ranaldo è quel dal gran lamento,
Dicendo: – O Dio del cel, ch’è quel ch’io vezo?
La nostra gente fugge in abandono,
Ed io che posso far che a piedi sono? –
39.
Così dicendo se pone a cercare,
E vede il suo Baiardo avanti poco.
A lui se accosta, e, volendo montare,
Il destrier volta e fugge di quel loco.
Ranaldo si voleva disperare
Dicendo: – Adesso è ben tempo da gioco!
Deh sta, ti dico, bestia maledetta! –
Baiardo pur va inanti e non lo aspetta.
40.
E lui, pur seguitando il suo destriero,
Se fu condutto entro una selva scura,
Onde lasciarlo un pezo è di mestiero,
Ch’egli incontrò in quel loco alta ventura.
Ora torno a contarvi di Rugiero,
Qual pure è a piedi in su quella pianura,
E ben se augura indarno il suo Frontino:
Eccoti avanti a lui passa Turpino.
41.
Turpino era montato a quel ronzone,
Ché il suo tra’ Saracini avea smarito,
Come io contai alor quando Grifone
Ne le spalle a Rugiero avea ferito;
Or correndo venìa per un vallone.
Quando lo vidde il giovanetto ardito,
Dico Rugiero avanti a sé lo vide,
Non dimandar se de allegrezza ride.
42.
E così a piede se il pone a seguire
Cridando: – Aspetta, ché il cavallo è mio! –
E il bon Turpin, che vede ogni om fuggire,
Non avea de aspettarlo alcun desio;
Ma per la pressa avanti non può gire,
Tanta è la folta di quel popul rio;
Sì sono e nostri stretti e inviluppati,
Che forza fo a fuggir da l’un de’ lati.
43.
Fugge Turpino, e Rugiero a le spalle,
Sin che condotti fôrno a un stretto passo,
Ove tra duo colletti era una valle;
La giù cade Turpino a gran fraccasso.
Rugiero a meza costa per un calle
Vide il prete caduto al fondo basso,
Ove l’acqua e il pantano a ponto chiude;
Embragato era quello alla palude.
44.
Rugier ridendo del poggio discese
E il vescovo aiutò, che se anegava.
Poi che for l’ebbe tratto, il caval prese;
A lui davante quello appresentava,
E proferiva con parlar cortese,
Che lo prendesse, se gli bisognava.
– Se Dio me aiuti, – disse a lui Turpino
– Tu non nascesti mai di Saracino.
45.
Né credo mai che tanta cortesia
Potesse dar natura ad un Pagano:
Prendi il destriero e vanne alla tua via:
Se lo togliessi, ben serìa villano! –
Così gli disse, e poi si dispartia
Correndo a piedi, e ritornò nel piano,
E trovò un Saracin fuor di sentiero:
Tagliolli il capo e prese il suo destriero.
46.
E tanto corse, che gionse la traccia
De’ Cristiani che ogniom fuggia più forte;
Non ve si vede chi diffesa faccia:
Chi non puotè fuggire, ebbe la morte.
Sei giorni e notti sempre ebber la caccia
Sino a Parigi, e sino in su le porte
Occisa fo la gente sbigotita:
Maggior sconfitta mai non fu sentita.
47.
Tra’ Cristïani sol Danese Ogiero
Fe’ gran prodezze, la persona degna,
Ché di quel stormo periglioso e fiero
Riportò salva la reale insegna.
Preso rimase il marchese Oliviero,
Ottone ancor, che tra gli Anglesi regna,
Re Desiderio e lo re Salamone,
Duca Ricardo fo seco pregione.
48.
De gli altri che fôr presi e che fôr morti
Non se potria contar la quantitate,
Cotanti campïon valenti e forti
Fôr presi, o posti al taglio de le spate.
Chi contarebbe e pianti e’ disconforti,
Che a Parigi eran dentro alla cittate?
Ciascadun crede e dice lacrimando
Che gli è morto Ranaldo e il conte Orlando.
49.
Fanciulli e vecchi e dame tutte quante
La notte fier’ la guardia a’ muri intorno;
Ma de Parigi più non dico avante.
Torno a Rugiero, il giovanetto adorno,
Qual gionse al loco dove Bradamante
La gran battaglia avea fatta quel giorno
Con Rodamonte, come io vi contai;
Non so se vi ricorda ove io lasciai.
50.
Nel libro che più giorni è già compito,
Narrai questa gran zuffa, e come il conte
Rimaso era de un colpo tramortito,
Quando percosso fo da Rodamonte;
E come stando ad estremo partito,
Quella donzella, fior di Chiaramonte,
Io dico Bradamante la signora,
Fece la zuffa che io contava alora.
51.
Da poi se dipartitte il paladino,
Ed incontrolli ciò che io vi ebbi a dire;
Tra Bradamante adunque e il Saracino
Rimase la battaglia a diffinire.
Non stava alcuno a quel loco vicino,
Né vi era chi potesse dipartire
L’aspra contesa e il grande assalto e fiero,
Sin che vi gionse il giovane Rugiero.
52.
Gionto sopra a quel colle il giovanetto
Vista ebbe la battaglia giù nel fondo,
E fermosse a mirarla per diletto,
Ché assalto non fu mai sì furibondo;
Perocché chi in quel tempo avesse eletto
Un par de bon guerreri in tutto il mondo,
Non l’avria avuto più compiuto a pieno
Che Bradamante e il figliol de Ulïeno.
53.
E ben ne dimostrarno esperïenza
A quel che han fatto e quel che fanno ancora;
Par che la zuffa pur mo si comenza,
Sì frescamente ciascadun lavora,
E se quel coglie, questo non va senza.
Da un colpo a l’altro mai non è dimora,
E nel colpir fan foco e tal fiammelle,
Che par che il lampo gionga nelle stelle.
54.
Rugiero alcun de’ duo non cognoscia,
Ché mai non gli avea visti in altro loco,
Ma entrambi li lodava, e discernia
Che tra lor di vantaggio era assai poco.
Mirando l’aspre offese ben vedia
Cotal battaglia non esser da gioco,
Ma che è tra Saracino e Cristïano,
Onde discese subito nel piano.
55.
– Se alcun de voi – disse egli – adora Cristo,
Fermesi un poco e intenda quel ch’io parlo,
Ché annunzio gli darò dolente e tristo:
Sconfitto al tutto è il campo del re Carlo,
Ciò ch’io vi dico, con questi occhi ho visto.
Onde, se alcun volesse seguitarlo,
A far lunga dimora non bisogna,
Ché alle confine è forse di Guascogna. –
56.
Quando la dama intese così dire,
Dal fren per doglia abandonò la mano,
E tutta in faccia se ebbe a scolorire,
Dicendo a Rodamonte: – Bel germano,
Questo che io chiedo, non me lo disdire:
Lascia che io segua il mio segnor soprano,
Tanto che a quello io me ritrovi apresso,
Ché il mio volere è di morir con esso. –
57.
Diceva Rodamonte borbottando:
– A risponderti presto, io nol vo’ fare.
Io stava alla battaglia con Orlando:
Tu te togliesti tal rogna a grattare.
Di qua non andarai mai, se non quando
Io stia così che io nol possa vetare:
Onde, se vôi che ‘l tuo partir sia corto,
Fa che me getti in questo prato morto. –
58.
Quando Rugier cotal parlare intese,
Di prender questa zuffa ebbe gran voglia,
E Rodamonte in tal modo riprese
Dicendo: – Esser non può ch’io non me doglia,
Se io trovo gentil omo discortese,
Però che bene è un ramo senza foglia,
Fiume senza onda e casa senza via
La gentilezza senza cortesia. –
59.
A Bradamante poi disse: – Barone,
Ove ti piace ormai rivolgi il freno,
E se costui vorà pur questïone,
De la battaglia non gli verrò meno. –
La dama se partì senza tenzone,
E Rodamonte disse: – Io vedo a pieno
Che medico debbi esser naturale,
Da poi che a posta vai cercando il male.
60.
Or te diffendi, paccio da catena,
Da poi che per altrui morir te piace. –
Non minaccia Rugier, ma crida e mena,
E l’altro a lui ritocca e già non tace.
Ciascun di questi è fiero e di gran lena,
Onde battaglia orrenda e pertinace
Ed altre belle cose dir vi voglio,
Se piace a Dio ch’io segua come io soglio.
CANTO QUINTO
1.
Còlti ho diversi fiori alla verdura,
Azuri, gialli, candidi e vermigli;
Fatto ho di vaghe erbette una mistura,
Garofili e vïole e rose e zigli:
Traggasi avanti chi de odore ha cura,
E ciò che più gli piace, quel se pigli;
A cui diletta il ziglio, a cui la rosa,
Ed a cui questa, a cui quella altra cosa.
2.
Però diversamente il mio verziero
De amore e de battaglia ho già piantato:
Piace la guerra a l’animo più fiero,
Lo amore al cor gentile e delicato.
Or vo’ seguir dove io lasciai Rugiero
Con Rodamonte alla zuffa nel prato,
Con sì crudeli assalti e tal tempesta,
Che impresa non fu mai simile a questa.
3.
E’ se tornarno con le spade adosso
Gli animosi baroni a darsi morte.
Rugier primeramente fu percosso
Sopra del scudo a meraviglia forte,
Che tre lame ha di ferro e quattro d’osso;
Ma non è resistenzia che comporte:
Di Rodamonte la stupenda forza
Tagliò quel scudo a guisa de una scorza.
4.
Su da la testa alla ponta discende,
Più de un terzo ne cade alla campagna;
Rugier per prugna acerba agresto rende,
Ne la piastra ferrata lo sparagna.
Il scudo da la cima al fondo fende,
Come squarciasse tela d’una aragna;
Né a quel ni a questo l’armatura vale:
Un’altra zuffa mai non fu cotale.
5.
E veramente morte se avrian data
E l’uno e l’altro a sì crudo ferire,
Ma non essendo l’ora terminata
Né ‘l tempo gionto ancora al suo morire,
Tra lor fu la battaglia disturbata,
Ché Bradamante gli venne a partire,
Bradamante, la dama di valore,
Qual dissi che seguia l’imperatore.
6.
E già bon pezzo essendo caminata,
Né potendo sua gente ritrovare,
La qual fuggiva a briglia abandonata,
Ne la sua mente se pose a pensare,
Tra sé dicendo: O Bradamante ingrata,
Ben discortese te puote appellare
Quel cavallier che non sai chi se sia,
Ed ha’ gli usata tanta villania.
7.
La zuffa prese lui per mia cagione,
E le mie spalle il suo petto diffese.
Ma, se io vedesse quivi il re Carlone
E le sue gente morte tutte e prese,
Tornar mi converrebbe a quel vallone,
Sol per vedere il cavallier cortese.
Sono obligata a l’alto imperatore,
Ma più sono a me stessa ed al mio onore.”
8.
Così dicendo rivoltava il freno,
E passò prestamente il monticello,
Ove Rugiero e il figlio de Ulïeno
Faceano alla battaglia il gran flagello.
Come ella ariva a ponto, più né meno,
Gionse Rugiero, il franco damigello,
Un colpo a Rodamonte a tal tempesta,
Che tutta quanta gli stordì la testa.
9.
Fuor di se stesso in su lo arcion si stava
E caddeli di mano il brando al prato;
Rugier alora adietro se tirava,
Ché a cotale atto non l’avria toccato;
E Bradamante, che questo mirava,
Dicea: – Ben drittamente aggio io lodato
Di cortesia costui nel mio pensiero;
Ma che io il cognosca, al tutto è di mestiero. –
10.
E come gionta fo gioso nel piano,
Alta da l’elmo si levò la vista,
E voltata a Rugier con atto umano
Disse: – Accetta una escusa, a benché trista,
De lo atto ch’io te usai tanto villano;
Ma spesso per error biasmo se acquista:
E certo che io commessi questo errore
Per voglia di seguire il mio segnore.
11.
Non me ne avidi alora se non quando
Fu la doglia e il furor de me partito;
Ora in gran dono e grazia te adimando
Che questo assalto sia per me finito. –
Mentre che così stava ragionando,
E Rodamonte si fo risentito,
Qual, veggendosi gionto a cotale atto,
Quasi per gran dolor divenne matto.
12.
Non se trovando ne la mano il brando,
Che, com’io dissi, al prato era caduto,
Il celo e la fortuna biastemando
Là dove era Rugier ne fu venuto.
Con gli occhi bassi a la terra mirando,
Disse: – Ben chiaramente aggio veduto
Che cavallier non è di te migliore,
Né teco aver potrebbi alcun onore.
13.
Se tal ventura ben fosse la mia,
Ch’io te vincessi il campo alla battaglia,
Non sono io vinto già di cortesia?
Né mia prodezza più vale una paglia.
Rimanti adunque, ch’io me ne vo via,
E sempre, quanto io possa e quanto io vaglia,
Di me fa il tuo parere in ogni banda,
Come il maggiore al suo minor comanda. –
14.
Senza aspettar risposta via fu tolto,
In men che non se coce a magro il cavolo;
Il brando su dal prato avea racolto,
Il brando qual già fo de suo bisavolo.
In poco de ora longi era già molto,
Ché sì camina che sembra un dïavolo;
Né mai se riposò quel disperato
Sin che la notte al campo fu arivato.
15.
Rimase Bradamante con Rugiero,
Dapoi che il re di Sarza fie’ partenza,
E la donzella avea tutto il pensiero
A prender di costui la cognoscenza.
Ma non trovando ben dritto sentiero
Né via di ragionar di tale essenza,
Temendo che non fosse a lui disgrato,
Senza più dimandar prese combiato.
16.
Disse Rugiero, il giovane cortese:
– Che vadi solo, io nol comportaria.
Di Barbari è già pien tutto il paese,
Che assaliranno in più lochi la via.
Da tanti non potresti aver diffese:
Ma sempre serò teco in compagnia;
Via passaren, quand’io sia cognosciuto,
Se non, coi brandi ce daremo aiuto. –
17.
Piacque alla dama il proferire umano,
E così insieme presero il camino,
Ed essa cominciò ben da lontano
Più cose a ragionar col paladino;
E tanto lo menò di colle in piano,
Che gionse ultimamente al suo destino,
Chiedendo dolcemente e in cortesia
Che dir gli piaccia de che gente sia.
18.
Rugiero incominciò, dal primo sdegno
Che ebbero e Greci, la prima cagione
Che adusse in guerra l’uno e l’altro regno,
Quel de Priamo e quel di Agamenòne;
E ‘l tradimento del caval di legno,
Come il condusse il perfido Sinone,
E dopo molte angoscie e molti affanni
Fo Troia presa ed arsa con inganni.
19.
E come e Greci poi sol per sua boria
Fierno un pensier spietato ed inumano,
Tra lor deliberando che memoria
Non se trovasse del sangue troiano.
Usando crudelmente la vittoria,
Tutti e pregion scanarno a mano a mano,
Ed avanti a la matre per più pena
Ferno svenar la bella Polissena.
20.
E cercando Astianatte in ogni parte,
Che era di Ettorre un figlio piccolino,
La matre lo scampò con cotale arte:
Che in braccio prese un altro fanciullino,
E fuggette con esso a la disparte.
Cercando i Greci per ogni confino,
La ritrovarno col fanciullo in braccio,
E a l’uno e a l’altro dier di morte spaccio.
21.
Ma il vero figlio, Astïanatte dico,
Era nascoso in una sepoltura,
Sotto ad un sasso grande e molto antico,
Posto nel mezo de una selva oscura.
Seco era un cavallier del patre amico,
Che se pose con esso in aventura,
Passando il mare; e de uno in altro loco
Pervenne in fine alla Isola del Foco.
22.
Così Sicilia se appellava avante,
Per la fiamma che getta Mongibello.
Or crebbe il giovanetto, ed aiutante
Fu di persona a meraviglia e bello;
E in poco tempo fie’ prodezze tante,
Che Argo e Corinto pose in gran flagello;
Ma fu nel fine occiso a modo tristo
Da un falso Greco, nominato Egisto.
23.
Ma prima che morisse, ebbe a Misina
(De la qual terra lui n’era segnore)
Una dama gentile e pellegrina,
Che la vinse in battaglia per amore.
Costei de Saragosa era regina,
Ed un gigante chiamato Agranore,
Re de Agrigento, la oltraggiava a torto;
Ma da Astianatte fu nel campo morto.
24.
Prese per moglie poscia la donzella,
E fece contra e Greci il suo passaggio,
Insin che Egisto, la persona fella,
Lo occise a tradimento in quel rivaggio.
Non era gionta ancora la novella
De la sconfitta e di tanto dannaggio,
Che e Greci con potente e grande armata
Ebber Misina intorno assedïata.
25.
Gravida era la dama de sei mesi,
Quando alla terra fu posto lo assedio,
Ma a patti se renderno e Misinesi,
Per non soffrir di guerra tanto tedio.
Poco o nïente valse essersi resi,
Ché tutti morti fôr senza rimedio,
Poi che promesso a’ Greci avean per patto
Dar loro la dama, e non l’aveano fatto.
26.
Ma essa, quella notte, sola sola
Sopra ad una barchetta piccolina
Passò nel stretto, ove è l’onda che vola
E fa tremare e monti alla ruina;
Né si potrebbe odire una parola,
Tant’alto è quel furor de la marina;
Ma la dama, vargando come un vento,
A Regio se ricolse a salvamento.
27.
E Greci la seguirno, e a lor non valse
Pigliar la volta che è senza periglio,
Perché un’aspra fortuna a l’onde salse
Sumerse ed ispezzò tutto il naviglio,
E fôr punite le sue voglie false.
Ora la dama a tempo ebbe un bel figlio,
Che rilucente e bionde avia le chiome,
Chiamato Polidoro a dritto nome.
28.
Di questo Polidoro un Polidante
Nacque da poi, e Flovïan di quello.
Questo di Roma si fece abitante
Ed ebbe duo filioli, ogniun più bello,
L’un Clodovaco, l’altro fu Constante,
E fu diviso quel sangue gemello;
Due geste illustre da questo discesero,
Che poi con tempo molta fama apresero.
29.
Da Constante discese Costantino,
Poi Fiovo e ‘l re Fiorello, il campïone,
E Fioravante e giù sino a Pipino,
Regal stirpe di Francia, e il re Carlone.
E fu l’altro lignaggio anco più fino:
Di Clodovaco scese Gianbarone,
E di questo Rugier, paladin novo,
E sua gentil ischiatta insino a Bovo.
30.
Poi se partitte di questa colona
La nobil gesta, in due parte divisa;
Ed una di esse rimase in Antona,
E l’altra a Regio, che se noma Risa.
Questa citade, come se ragiona,
Se resse a bon governo e bona guisa,
Sin che il duca Rampaldo e’ soi figlioli
A tradimento fôr morti con dôli.
31.
La voglia di Beltramo traditore
Contra del patre se fece rubella;
E questo fu per scelerato amore
Che egli avea posto alla Galacïella;
Quando Agolante con tanto furore,
Con tanti armati in nave e ne la sella,
Coperse sì di gente insino in Puglia,
Che al vòto non capea ponto de aguglia.
32.
Così parlava verso Bradamante
Rugier, narrando ben tutta la istoria,
Ed oltra a questo ancor seguiva avante,
Dicendo: – Ciò non toglio a vanagloria,
Ma de altra stirpe di prodezze tante,
Che sia nel mondo, non se ne ha memoria;
E, come se ragiona per il vero,
Sono io di questi e nacqui di Rugiero.
33.
Lui de Rampaldo nacque, e in quel lignaggio
Che avesse cotal nome fu secondo;
Ma fu tra gli altri di virtute un raggio,
De ogni prodezza più compiuto a tondo.
Morto fu poscia con estremo oltraggio,
Né maggior tradimento vidde il mondo,
Perché Beltramo, il perfido inumano,
Traditte il patre e il suo franco germano.
34.
Risa la terra andò tutta a ruina,
Arse le case, e fu morta la gente;
La moglie di Rugier, trista, tapina,
Galacïella, dico, la valente,
Se pose disperata alla marina,
E gionta sendo al termine dolente
Che più il fanciullo in corpo non si porta,
Me parturitte, e lei rimase morta.
35.
Quindi mi prese un negromante antico,
Qual di medolle de leoni e nerbi
Sol me nutritte, e vero è quel ch’io dico.
Lui con incanti orribili ed acerbi
Andava intorno a quel diserto ostìco,
Pigliando serpe e draghi più superbi,
E tutti gli inchiudeva a una serraglia;
Poi me ponea con quelli alla battaglia.
36.
Vero è che prima ei gli cacciava il foco
E tutti e denti fuor de la mascella:
Questo fo il mio diletto e il primo gioco
Che io presi in quell’etate tenerella;
Ma quando io parvi a lui cresciuto un poco,
Non me volse tenir più chiuso in cella,
E per l’aspre foreste e solitarie
Me conducea, tra bestie orrende e varie.
37.
Là me facea seguir sempre la traccia
Di fiere istrane e diversi animali;
E mi ricorda già che io presi in caccia
Grifoni e pegasei, benché abbiano ali.
Ma temo ormai che a te forse non spiaccia
Sì lunga diceria de tanti mali:
E, per satisfar tosto a tua richiesta,
Rugier sono io; da Troia è la mia gesta. –
38.
Non avea tratto Bradamante un fiato,
Mentre che ragionava a lei Rugiero,
E mille volte lo avea riguardato
Giù dalle staffe fin suso al cimero;
E tanto gli parea bene intagliato,
Che ad altra cosa non avea il pensiero:
Ma disiava più vederli il viso
Che di vedere aperto il paradiso.
39.
E stando così tacita e sospesa,
Rugier sogionse a lei: – Franco barone,
Volentier s’aprebbi io, se non ti pesa,
Il nome tuo e la tua nazïone. –
E la donzella, che è d’amore accesa,
Rispose ad esso con questo sermone:
– Così vedestù il cor, che tu non vedi,
Come io ti mostrarò quel che mi chiedi.
40.
Di Chiaramonte nacqui e di Mongrana.
Non so se sai di tal gesta nïente,
Ma di Ranaldo la fama soprana
Potrebbe essere agionta a vostra gente.
A quel Ranaldo son sôra germana;
E perché tu mi creda veramente,
Mostrarotti la faccia manifesta -;
E così lo elmo a sé trasse di testa.
41.
Nel trar de l’elmo si sciolse la treccia,
Che era de color d’oro allo splendore.
Avea il suo viso una delicateccia
Mescolata di ardire e de vigore;
E’ labri, il naso, e’ cigli e ogni fateccia
Parean depenti per la man de Amore,
Ma gli occhi aveano un dolce tanto vivo,
Che dir non pôssi, ed io non lo descrivo.
42.
Ne lo apparir dello angelico aspetto
Rugier rimase vinto e sbigotito,
E sentissi tremare il core in petto,
Parendo a lui di foco esser ferito.
Non sa pur che si fare il giovanetto:
Non era apena di parlare ardito.
Con l’elmo in testa non l’avea temuta,
Smarito è mo che in faccia l’ha veduta.
43.
Essa poi cominciò: – Deh bel segnore!
Piacciavi compiacermi solo in questo,
Se a dama alcuna mai portasti amore,
Ch’io veda il vostro viso manifesto. –
Così parlando odirno un gran rumore;
Disse Rugiero: – Ah Dio! Che serà questo? –
Presto se volta e vede gente armata,
Che vien correndo a lor per quella strata.
44.
Questi era Pinadoro e Martasino,
Daniforte e Mordante e Barigano,
Che avean posto uno aguato in quel confino
Per pigliar quei che in rotta se ne vano.
Come gli vidde il franco paladino,
Verso di lor parlando alciò la mano,
E disse: – Stati saldi in su il sentiero!
Non passati più avanti! Io son Rugiero. –
45.
In ver da la più parte e’ non fu inteso,
Perché cridando uscia de la foresta.
E Martasin, che sempre è de ira acceso,
Subito gionse e parve una tempesta.
A Bradamante se ne va disteso,
E ferilla aspramente nella testa;
Non avea elmo la meschina dama,
Ma sol guardando al celo aiuto chiama.
46.
Alciando il scudo il capo se coperse,
Ché non volse fuggir la dama vaga.
Re Martasino a quel colpo lo aperse,
E fece in cima al capo una gran piaga.
Già Bradamante lo animo non perse,
E riscaldata a guisa d’una draga
Ferisce a Martasin di tutta possa;
Ma Rugier gionse anch’esso alla riscossa.
47.
E Daniforte cridava: – Non fare!
Non far, Rugier, ché quello è Martasino! –
Già Barigano non stette a cridare,
Ché odio portava occulto al paladino,
Ed avea voglia di se vendicare,
Però che un Bardulasto, suo cugino,
Fo per man di Rugier di vita spento;
Ma lui lo avea ferito a tradimento.
48.
Se vi racorda, e’ fu quando il torniero
Se fece sotto al monte di Carena.
Scordato a voi debbe esser de legiero,
Ché io che lo scrissi, lo ramento apena.
Ora, tornando Barigano il fiero,
Sopra a Rugiero un colpo a due man mena;
Sopra la testa a lui mena a due mano,
E ben credette di mandarlo al piano.
49.
Ma il giovanetto, che ha soperchia possa,
Non se mosse per questo dello arcione;
Anci, adirato per quella percossa,
Tornò più fiero, a guisa di leone.
Già Bradamante alquanto era rimossa
Larga da loro; e, stracciato un pennone
Di certa lancia rotta alla foresta,
Con fretta avea legata a sé la testa.
50.
L’elmo alacciato e posta la barbuta,
Tornò alla zuffa con la spada in mano.
La ardita dama aponto era venuta
Quando a Rugier percosse Barigano.
Lei speronando de arivar se aiuta,
E gionse un colpo a quel falso pagano;
Non par che piastra, o scudo, o maglia vaglia:
A un tratto tutte le sbaraglia e taglia.
51.
Rugiero aponto si era rivoltato
Per vendicar lo oltraggio ricevuto,
E vidde il colpo tanto smisurato,
Che de una dama non l’avria creduto.
Barigano in duo pezzi era nel prato,
Né a tempo furno gli altri a darli aiuto,
A benché incontinente e destrier ponsero;
Ma, come io dico, a tempo non vi gionsero.
52.
Onde adirati, per farne vendetta
Contra alla dama tutti se adricciarno.
Rugier de un salto in mezo a lor se getta
Per dipartir la zuffa, a benché indarno;
Non val che parli, o che in mezo se metta,
E Martasino e Pinador cridarno:
– Tu te farai, Rugier, qua poco onore:
Contra Agramante èi fatto traditore. –
53.
Come quella parola e oltraggio intese
Il giovanetto, non trovava loco,
E sì nel core e nel viso se accese,
Che sfavillava gli occhi come un foco;
E messe un crido: – Gente discortese,
Lo esser cotanti vi giovarà poco.
Traditor sete voi; io non sono esso,
E mostrarò la prova adesso adesso. –
54.
Tra le parole il giovane adirato
Urta il destriero adosso a Pinadoro.
Or vedereti il campo insanguinato,
E de duo cori arditi il bel lavoro.
Chi gli assalta davanti e chi da lato,
Ché molta gente avean seco coloro;
Dico gli cinque re, de che io contai,
Avean con seco gente armata assai.
55.
De’ suoi scuderi in tutto da cinquanta
Avean seco costoro in compagnia.
El resto di sua gente, ch’è cotanta,
Era rimaso adietro per la via;
Ma se qui ancora fosse tutta quanta,
Già Bradamante non ne temeria;
Mostrar vôle a Rugier che cotanto ama,
Che sua prodezza è assai più che la fama.
56.
Né già Rugiero avia voglia minore
Di far vedere a quella damigella
Se ponto avea di possa o di valore,
E lampeggiava al cor come una stella.
Ragione, animo ardito e insieme amore
L’un più che l’altro dentro lo martella;
E la dama, ferita a tanto torto,
L’avrebbe ad ira mosso essendo morto.
57.
Dunque adirato, come io dissi avante,
Se adriccia a Pinadoro il paladino;
Né più lenta se mosse Bradamante,
Che fuor de gli altri ha scorto Martasino.
Ma questo canto non serìa bastante
Per dir ciò che fu fatto in quel confino,
Onde io riservo al resto il fatto tutto,
Se Dio ce dona, come suole, aiutto.
CANTO SESTO
1.
Segnor, se alcun di voi sente de amore,
Pensati che battaglia avranno a fare
Que’ duo, che insieme agionto aveano il core,
Né volevan l’un l’altro abandonare.
La fulmina del cel con suo furore
Non gli potrebbe a forza separare;
Né spietata fortuna e non la morte
Può disgiongere amor cotanto forte.
2.
Come io contava, il nobile Rugiero
Sopra de Pinador forte martella;
L’elmo gli ruppe e spennacchiò il cimiero:
Quasi a quel colpo lo trasse di sella.
Da l’altra parte Martasino il fiero
Non avantaggia ponto la donzella,
La qual sempre cridava: – Ascolta! ascolta!
Non me trovi senza elmo a questa volta. –
3.
Così dicendo a duo man l’ha ferito
De un colpo tanto orrendo e smisurato,
Che sopra de lo arcion è tramortito:
E veramente lo mandava al prato,
Ma in quel Mordante, il saracino ardito,
Correndo alla donzella urtò da lato,
Ferendola a duo man de un roversone
Che fu per trarla fuora de lo arcione.
4.
Ma Rugier presto venne ad aiutare,
Lasciando Pinador che aveva avante;
Però che, benché assai abbia da fare,
Sempre voltava gli occhi a Bradamante.
Or sembra il giovanetto un vento in mare:
Spezza in due parte il scudo di Mordante,
Taglia le piastre e usbergo tutto netto,
Ed anco alquanto lo ferì nel petto.
5.
Ma Pinadoro, che lo avea seguito,
Percosse a mezo il collo il paladino,
E tagliò la gorziera più de un dito:
Tenne il camaglio el brando, ché era fino.
Non si spaventa il giovanetto ardito:
Tondo de un salto rivoltò Frontino,
E mena a Pinadoro in su la testa;
E Martasino a lui, che già non resta.
6.
Mentre che questa zuffa se scompiglia,
Daniforte se afronta e viene in tresca
Con circa a trenta della sua famiglia,
Con targhe e lancie armati alla moresca.
Bradamante ver loro alciò le ciglia:
Come starà cotal canaglia fresca,
Che armati son di sàmito e di tela!
Oh che squarcioni andran per l’aria a vela!
7.
Urta tra lor la dama e il brando mena,
E gionse un moro in su un gianetto bianco,
Che coda e chioma avia tinto de alchena;
Lei tagliò il nero dalla spalla al fianco.
Non era a terra quel caduto apena,
Che afronta uno Arbo, e fece più ni manco;
La spada adosso in quel modo gli calla,
Sì che il partì dal fianco in su la spalla.
8.
Quasi che insieme tutti ebber la morte;
Chi qua chi là per el campo cascava,
E quando il primo bussava alle porte
Giù dello inferno, lo ultimo arivava.
Più fiate la assalitte Daniforte;
Ma, come Bradamante a lui voltava,
Quel fugge e sguincia, e ponto non aspetta,
E torna e volta, e sembra una saetta.
9.
Egli avea sotto una iumenta mora,
Di pel di ratta, con la testa nera,
Che in su la terra mai non se dimora
Con tutti e piedi, tanto era legiera.
Vero è che in dosso avia poche arme ancora,
Ché non portava usbergo né lamiera:
La tòcca ha in testa, e la lancia e la targa,
E cinta al petto una spadazza larga.
10.
Armato come io dico, il saracino
Tenea sovente la dama aticciata;
Or corre, e volta poi che gli è vicino,
Or da traverso mena una lanciata.
Ecco la dama ha visto Martasino,
Che al suo Rugier ferisce della spata:
Di dietro il tocca, sopra delle spalle,
E ben si crede di mandarlo a valle.
11.
Ma Bradamante vi gionse a quel ponto
Che Rugiero ebbe il colpo smisurato;
Balordito era e sì come defonto
Al col del suo destrier stava abracciato.
Or bene a tempo è quel soccorso agionto,
Perché certo altrimente era spacciato;
Ma come gionse, la dama felice
Parve un falcone entrato a le pernice.
12.
Insieme Martasino e Pinadoro
A lei voltarno, e gionsevi Mordante
E Daniforte, e molti altri con loro:
Chi la tocca di dietro, e chi davante.
Ma lei, che di prodezza era un tesoro,
Dispreza l’altre gente tutte quante;
Tocca sol Martasino e quel travaglia,
Né cura il resto che de intorno abaglia.
13.
Tanto adirata è la dama valente,
Che Martasin conduce a rio partito;
La sua prodezza a lui giova nïente,
Spezzato ha l’elmo e nel petto è ferito.
Né vi giova il soccorso de altra gente;
La dama nel suo core ha statuito
Che ad ogni modo in questa zuffa e’ mora,
E ben col brando a cerco gli lavora.
14.
Al fin turbata e con molta tempesta
De coprirse col scudo non ha cura,
E ferillo a due man sopra alla testa:
Divide il capo e parte ogni armatura.
Quella tagliente spada non se arresta,
Ché tutto il fende insino alla centura;
Nel tempo che a quel modo lo divide,
Rugier rivenne e quel bel colpo vide.
15.
Torna alla zuffa il giovanetto forte,
Sì rosso in vista che sembrava un foco:
Guardative, Pagan, ché el vien la morte!
A zaro il resto, ormai non vi è più gioco.
E ben se avide il falso Daniforte
Che il contrastar più qua non avea loco:
Già morto è Martasino e Barigano,
Quaranta e più de gli altri sono al piano.
16.
Esso è rimaso e seco Pinadoro,
Circa ad otto altri ancora, con Mordante.
Tagliava allora il capo a un barbasoro
La dama, e gli altri avea morti davante.
Intanto insieme consigliâr costoro
Che Daniforte attenda a Bradamante
E conducala via, mostrando fuggere,
Gli altri Rugiero attendano a destruggere.
17.
Era già gionto il giovanetto al ballo,
E stranamente incominciò la danza,
Ché incontrò un rebatin sopra al cavallo,
E tutto lo partì sino alla panza.
Non avea intorno pezzo di metallo,
Perché era armato pure a quella usanza,
Moresca, dico, essendo Genoese:
Ma con la fede avea cambiato arnese.
18.
Rugier lo occise, e un altro a canto ad esso.
Né Bradamante ancora se posava;
Ma Daniforte occultamente apresso
Di lei se fece e sua lancia menava.
Là dove il sbergo alla giontura è fesso,
Colse, ma poco dentro ve ne entrava,
Ché forte mai non mena quel che dubita:
La dama se voltò turbata e subita.
19.
Già Daniforte ponto non la aspetta,
Né star con seco a fronte gli bisogna;
Lei con li sproni il suo destriero afretta,
Ché voglia ha di grattare a quel la rogna.
Serìa scappato come una saetta,
Ma non volea, quel pezzo di carogna,
Che va trottone e lamentase ed urla,
Mostrando stracco sol per via condurla.
20.
Gli altri a Rugiero intorno combattevano,
Io dico Pinadoro e il re Mordante,
Che circa a sei de’ suoi ancor vi avevano,
E di dietro il toccavano e davante,
Usando ogni vantaggio che sapevano.
Ma lascio loro e torno a Bradamante,
Che dietro a Daniforte invelenita
Lo vôl seguire a sua vita finita.
21.
E quel malvaggio spesso se rivolta,
Aspettala vicino, e poi calcagna,
E per un pezzo fugge alla disciolta,
Poi va galoppo e il corso risparagna,
Tanto che di quel loco l’ebbe tolta,
E furno usciti fuor de la campagna,
Che tutta è chiusa de monti de intorno,
Ove era stata la battaglia il giorno.
22.
Il falso saracin monta a la costa
E scende ad un bel pian da l’altro lato.
Bradamante lo segue, ché è disposta
Non lo lasciar se non morto o pigliato;
E non prendendo al lungo corso sosta,
Il suo destriero afflitto ed affannato,
Sendo già in piano, al transito d’un fosso,
Non potendo più andar gli cade adosso.
23.
E Daniforte, che sentì il stramaccio,
Presto se volta, e stracco non par più,
Dicendo: – Cristïan, di questo laccio
Ove èi caduto, non uscirai tu. –
Or Bradamante col sinistro braccio
Pinse il ronzon da lato, e levò su,
E forte crida: – Falso saracino,
Ancor non m’hai legata al tuo domìno. –
24.
Pur Daniforte de intorno la agira,
E de improviso spesso la assalisse;
Or mostra de assalirla, e se ritira,
Ed a tal modo il falso la ferisse.
La dama gionta a l’ultimo se mira,
E tacita parlando fra sé disse:
Io spargo il sangue e l’anima se parte,
Se io non colgo costui con la sua arte.”
25.
Così con seco tacita parlava,
Mostrandosi ne gli atti sbigotita,
Né molta finzïon gli bisognava,
Però che in molte parte era ferita,
E il sangue sopra l’arme rosseggiava.
Or, mostrando cadere alla finita,
Andar se lascia e in tal modo se porta,
Che giuraria ciascun che fusse morta.
26.
E quel malicïoso ben se mosse,
Ma de smontare a terra non se attenta,
E prima con la lancia la percosse
Per veder se de vita fusse ispenta;
La dama lo sofferse e non se mosse,
E quello smonta e lega la iumenta;
Ma come Bradamante in terra il vede,
Non par più morta e fu subito in piede.
27.
Ora non puote il pagan maledetto,
Come suoleva, correre e fuggire;
La dama il capo gli tagliò di netto
E lasciòl possa a suo diletto gire.
La ombra era grande già per quel distretto,
E cominciava il celo ad oscurire:
Non sa quella donzella ove se sia,
Ché condotta era qua per strana via.
28.
Per boschi e valle, e per sassi e per spine
Avea correndo il pagan seguitato,
E non vedeva per quelle confine
Abitacolo o villa in verun lato.
Salitte sopra la iumenta in fine,
E caminando uscitte di quel prato;
Ferita e sola, a lume de la luna
Abandonò la briglia alla fortuna.
29.
Lasciamo andare alquanto Bradamante,
Poi di lei seguiremo e soa ventura,
E ritorniamo ove io lasciai davante
Rugier lo ardito alla battaglia dura.
Il re di Constantina con Mordante,
Che non han di vergogna alcuna cura,
Gli sono intorno per farlo cadere,
E ciascun de essi tocca a più potere.
30.
Oh chi vedesse il giovanetto ardito,
Come a ponto divide il tempo a sesto,
Che non ne perde nel ferire un dito!
Or quinci or quindi tocca, or quello or questo;
Apena par che l’uno abbia ferito,
Che volta a l’altro, e mena così presto
Che con minor distanzia e tempo meno
Fulmina a un tratto e seguita il baleno.
31.
E per non vi seguir sì lunga traccia,
La cosa presto presto vi disgroppo.
Mordante, che assalirlo se procaccia,
Ebbe tra questo assalto un strano intoppo:
Fu ferito a traverso nella faccia,
E via volò de l’elmo tutto il coppo;
Meza la testa è ne lo elmo che vola,
Rimase il resto al busto con la gola.
32.
Non avea fatto questo colpo apena,
Che a Pinador voltò, che era da lato,
E nel voltarse lo assalisce e mena;
Ma quello era già tanto spaventato,
Che parea un veltro uscito di catena,
Fuggendo a tutta briglia per il prato.
Fuggito essendo per sassi e per valle,
Rugier gli tolse il capo dalle spalle.
33.
Era già il sole allo occidente ascoso,
Quando finita è la battaglia dura;
Allor guardando il giovane amoroso
Di Bradamante cerca e di lei cura,
Né trova nel pensiero alcun riposo.
Per tutto a cerco è già la notte oscura:
Veder non può colei che cotanto ama,
Ma guarda intorno e ad alta voce chiama.
34.
Passando per costiere e per valloni,
Trovò duo cavallieri ad un poggetto,
E sentendo il scalpizzo de’ ronzoni
Prese alcuna speranza il giovanetto;
Ma come a lui parlarno que’ baroni,
Che il salutarno de animo perfetto,
Tanto cordoglio l’animo gli assale,
Che non rispose a lor ni ben ni male.
35.
– Costui certo debbe esser un villano,
Che avrà spogliato l’arme a qualche morto! –
Disser que’ duo; ma il giovanetto umano
Rispose: – Veramente io ebbi il torto.
Amor, che ha del mio cor la briglia in mano,
Me ha da lo intendimento sì distorto,
Che quel che esser soleva, or più non sono,
E del mio fallo a voi chiedo perdono. –
36.
Disse un de’ duo baroni: – O cavalliero,
Se inamorato sei, non far più scusa:
Tua gentilezza provi de legiero,
Perché in petto villano amor non usa;
E se di nostro aiuto hai de mestiero,
Alcun di noi servirti non recusa. –
Rispose a lui Rugiero: – Ora mi lagno,
Perché ho perduto un mio caro compagno.
37.
Se lo avesti sentito indi passare,
Mostratimi il camin per cortesia;
Per tutto il mondo lo voglio cercare:
Senza esso certo mai non viveria. –
Così dicea Rugiero, e palesare
Altro non volse, sol per zelosia;
Però che il dolce amore in gentil petto
Amareggiato è sempre di sospetto.
38.
Negarno e duo baroni aver sentito
Passare alcuno intorno a quel distretto,
E ciascadun di lor si è proferito
De accompagnar cercando il giovanetto;
Ed esso volentier prese lo invito,
Ché se trovava in quel loco soletto,
Dico in quel monte diserto e salvatico,
Ed esso del paese era mal pratico.
39.
Tutti e tre insieme adunque cavalcando,
Avosavano intorno spessamente,
Per ogni loco del monte cercando
Tutta la notte, e trovarno nïente.
E già veniva l’alba reschiarando,
La luce rosseggiava in orïente,
Quando un de quei baron tutto se affisse
Mirando il scudo de Rugiero, e disse:
40.
– Chi vi ha concessa, cavallier, licenzia
Portar depenta al scudo quella insegna?
Il suo principio è di tanta eccellenzia,
Che ogni persona de essa non è degna.
Ciò vi comportarò con pacïenzia,
Se tal virtù nel corpo vostro regna,
Che alla battaglia riportati lodo
Contro di me, che l’ho acquistata e godo. –
41.
Disse Rugiero: – Ancor non mi ero accorto
Che quella insegna è fatta come questa;
E veramente la portati a torto,
Se non siamo discesi de una gesta;
Onde vi prego molto e vi conforto
Che tal cosa facciati manifesta:
Ove acquistasti tale insegna e come,
E quale è vostra stirpe e vostro nome. –
42.
Disse colui: – Da parte assai lontane
A vostra stirpe credo esser venuto;
Tartaro sono e nacqui de Agricane,
Mio nome ancora è poco cognosciuto.
Per forza de arme ed aventure istrane
In Asia conquistai questo bel scuto;
Ma a che bisogna dare incenso a’ morti?
Chi ha più prodezza, quello scudo porti. –
43.
Rugier, poi che lo invito ebbe accettato,
Giva il nimico a cerco rimirando:
Vide che spata non avea a lato,
E disse a lui: – Voi sete senza brando:
Come faremo, ché io non sono usato
Giocare a pugni? E però vi adimando
Quale esser debba la contesa nostra:
Brando non vi è né lancia per far giostra. –
44.
Rispose il cavallier: – Mai non vien manco
Fortuna de arme a franco campïone;
Le vostre acquistarò, se io non mi stanco:
Acquistar le voglio io con un bastone.
Portar non posso brando alcuno al fianco,
Se io non abatto il figlio di Melone,
Però che Orlando, la anima soprana,
Tien la mia spata, detta Durindana. –
45.
L’altro compagno di quel cavalliero
(Che era Gradasso, ed esso è Mandricardo)
Presto rispose: – E’ vi falla il pensiero,
Perché quel brando del conte gagliardo
Sì non acquistareti de legiero,
Ché gionto seti a tale impresa tardo,
E serìa vostra causa disonesta:
Prima di voi io venni a questa inchiesta.
46.
Cento cinquanta millia combattanti
Condussi in Francia fin de Sericana;
Tante pene soffersi, affanni tanti,
Per acquistare il brando Durindana!
Par che il mercato sii fatto a contanti,
Così faceti voi la cosa piana;
Ma prima che il pensier vostro se adempia,
Farò scadervi l’una e l’altra tempia.
47.
Né vi crediati senza mia contesa
Aver per zanze quel brando onorato. –
E Mandricardo di collera accesa
Disse: – Io so che di zanze è bon mercato:
Or vi aconciati e prendeti diffesa. –
Così dicendo ad uno olmo in quel prato
Un grosso tronco tra le rame scaglia,
E quel sfrondando viene alla battaglia.
48.
Gradasso il brando pose anco esso in terra,
E spiccò presto un bel fusto di pino;
L’un più che l’altro gran colpi disserra
E fuor de l’arme scuoteno il polvino.
Stava Rugiero a remirar tal guerra
E scoppiava de riso il paladino,
Dicendo: – A benché io non veda chi màsini,
Quel gioco è pur de molinari e de asini. –
49.
Più fiate volse la zuffa partire:
Come più dice, ogniom più se martella.
Eccoti un cavalliero ivi apparire
Accompagnato da una damigella.
Rugier da longi lo vidde venire;
Fassegli incontro e con dolce favella
Espose a lui ridendo la cagione
Perché faceano e duo quella tenzone.
50.
Dicea Rugiero: – Io gli ho pregati in vano,
Ma di partirli ancor non ho potere.
Per la spata de Orlando, che non hano,
E forse non sono anco per avere,
Tal bastonate da ciechi se dano,
Che pietà me ne vien pur a vedere:
E certo di prodezza e di possanza
Son due lumiere agli atti e alla sembianza.
51.
Ma voi diceti: onde seti venuto?
Perché, se io non me inganno nel sembiante,
Mi pare altrove avervi cognosciuto:
Se bene amento, in corte de Agramante. –
Rispose il cavalliero: – Io ve ho veduto
Di certo quando io venni di Levante.
Io ve vidi a Biserta, questo è il vero;
Son Brandimarte, e voi seti Rugiero. –
52.
Incontinente insieme se abbracciarno,
Come se ricognobbero e baroni,
E parlando tra lor deliberarno
De ispartir quella zuffa de bastoni.
Ebbero un pezzo tal fatica indarno,
Ché sì turbati sono e campïoni,
Che per ragione o preghi non se voltano:
L’un l’altro tocca, e ponto non ascoltano.
53.
Pur Brandimarte, a cenni supplicando,
Fece che sue parole furno odite,
Dicendo a lor: – Se desïati il brando
Per il quale è tra voi cotanta lite,
Condur vi posso ov’è al presente Orlando:
Là fìen vostre contese diffinite.
Or sì ve ha tolto l’ira il fren di mano,
Che per nïente combattete in vano.
54.
Ma se traeti il campïon sereno
Di certa incantason dolente e trista,
Lui di battaglia a voi non verrà meno;
Sia Durindana poi di chi l’acquista.
Se il mondo è ben di meraviglia pieno,
Una più strana mai non ne fu vista
Di questa ove ora vado, per provare
Se indi potessi Orlando liberare. –
55.
Gradasso e Mandricardo, odendo questo,
Lasciâr la pugna più che volentiera,
Pregando Brandimarte che pur presto
Gli volesse condurre ove il conte era.
Esso rispose: – Ora io vi manifesto
Che vicino a due leghe è una riviera,
Qual nome ha Riso, e veramente è un pianto;
Dentro vi è chiuso Orlando per incanto.
56.
Uno indovino, a cui molto è creduto,
In Africa m’ha questo apalesato;
E perciò in questo loco ero venuto
A liberarlo, come disperato.
Bastante non ero io; ma il vostro aiuto,
Come io comprendo, il cel me ha destinato,
E so che ogniom di voi passaria il mare
Per tuore impresa tanto singulare. –
52.
Ciascun de’ duo baroni ha più desio
Di ritrovarsi presto alla fiumana.
Dicea Rugiero: – E dove rimango io,
Se ben non cheggio Orlando o Durindana? –
Più non dico ora. Il grave incanto e rio
Farò palese e la aventura istrana,
E come tratto for ne fosse Orlando;
Cari segnori, a voi me racomando.
CANTO SETTIMO
1.
Più che il tesoro e più che forza vale,
Più che il diletto assai, più che l’onore,
Il bono amico e compagnia leale;
E a duo, che insieme se portano amore,
Maggior li pare il ben, minore il male,
Potendo apalesar l’un l’altro il core;
E ogni dubbio che accada, o raro, o spesso,
Poterlo ad altrui dir come a se stesso.
2.
Che giova aver de perle e d’ôr divizia,
Avere alta possanza e grande istato,
Quando si gode sol, senza amicizia?
Colui che altri non ama, e non è amato,
Non puote aver compita una letizia;
E ciò dico per quel che io vi ho contato
Di Brandimarte, che ha passato il mare
Sol per venire Orlando ad aiutare.
3.
Di Biserta è venuto il cavalliero
Per trare il conte fuor de la fiumana;
Il re Gradasso e Mandricardo altiero
Avea richiesti a quella impresa strana.
– Ma dove rimango io? – dicea Rugiero
– Se ben non chieggio a Orlando Durindana,
Se ben seco non voglio aver contesa,
Venir non debbo a sì stupenda impresa? –
4.
– Esser conviene il numero disparo, –
Rispose Brandimarte – a quel che io sento;
Condurvi tutti quanti avrebbi a caro,
Ma nol concede questo incantamento;
Ed io non vedo a ciò meglior riparo
Che per la sorte fare esperimento.
Ecco una pietra bianca ed una oscura:
Chi avrà la nera, cerchi altra ventura. –
5.
Ciascun de stare a questo fo contento,
Così gettarno la ventura a sorte,
E Mandricardo fuor rimase ispento,
E quindi se partì dolente a morte.
Turbato se ne va, che sembra un vento,
Per piano e monte caminando forte.
Tanto andò, che a Parigi gionse un giorno,
Ove Agramante ha già lo assedio intorno.
6.
Di fuor ne l’oste, io dico de Agramante,
Fu ricevuto a grandissimo onore.
Ma di lui non ragiono ora più avante,
Perché io ritorno nel primo tenore
A ricontarvi del conte de Anglante,
Che se ritrova preso in tanto errore
Tra le Naiàde al bel fiume del Riso;
Or odeti la istoria che io diviso.
7.
Queste Naiàde ne l’acqua dimorano
Per quella solacciando, come il pesce,
E per incanto gran cose lavorano,
Ché ogni disegno a lor voglia rïesce.
De’ cavallier sovente se inamorano,
Ché star senza uomo a ogni dama rencresce,
E di tal fatte assai ne sono al mondo;
Ma non si veggion tutti e fiumi al fondo.
8.
Queste ne l’acque che il Riso se appella,
Avean composto de oro e di cristallo
Una mason, che mai fu la più bella,
E là si stavon festeggiando al ballo.
Già vi contai di sopra la novella,
Quando discese Orlando del cavallo
Per rinfrescarse a l’onde pellegrine;
Ciò vi contai de l’altro libro al fine.
9.
E come tra le dame fu raccolto
Con molta zoia e grande adobamento;
Quivi poi stette libero e disciolto,
Preso de amore al dolce incantamento,
A l’onde chiare specchiandosi il volto,
Fuor di se stesso e fuor di sentimento;
E le Naiàde, allegre oltra misura,
Solo a guardarlo aveano ogni lor cura.
10.
Però di fuora, in cerco alla rivera,
Per arte avean formato un bosco grande,
Ove stava di pianta ogni mainera,
Ilice e quercie e soveri con giande:
L’arice e teda e l’abete legera
Di grado in grado al ciel le fronde spande,
Che sotto a sé facean l’aere oscuro;
Poi for del bosco se agirava un muro.
11.
Questa cinta era fabricata intorno
Di marmi bianchi, rossi, azurri e gialli,
Ed avea in cima un veroncello adorno
Con colonnette di ambre e de cristalli.
Ora a quei cavallier faccio ritorno,
Che vengon senza suoni a questi balli,
Né san de le Naiàde la mala arte:
Dico Rugier, Gradasso e Brandimarte,
12.
E Fiordelisa, che seco favella
Di questa impresa e molto li conforta.
Gionsero in fine a la muraglia bella,
Qual di metallo avea tutta la porta.
Sopra alla soglia stava una donzella,
Come a guardarla posta per iscorta,
E tenea un breve, scritto da due bande,
Con tal parole e con lettere grande:
13.
‘ Desio di chiara fama, isdegno e amore
Trovano aperta a sua voglia la via.’
Questi duo versi avea scritti di fuore,
Poi dentro in cotal modo se leggia:
‘Amore, isdegno e il desïare onore
Quando hanno preso l’animo in balìa,
Lo sospingon avanti a tal fraccasso,
Che poi non trova a ritornare il passo.’
14.
Gionti quivi e baron, come io vi ho detto,
La dama con la mano il breve alciava,
E fo da tutti lor veduto e letto
Da quella banda che se dimostrava.
Adunque e cavallier senza sospetto
Passâr, ché alcun la strata non vetava;
Con Fiordelisa entrarno tutti quanti,
Ma per la selva andar non ponno avanti.
15.
Però che quella molto era confusa
De arbori spessi ed alti oltra misura;
La porta alle sue spalle era già chiusa,
Che più facea parer la cosa scura;
Ma Fiordelisa, tra gli incanti adusa,
– Non abbiati – dicia – de ciò paura;
A ogni periglio e loco ove si vada,
Il brando e la virtù fa far la strada.
16.
Smontati de li arcioni, e con le spate
Tagliando e tronchi, fative sentiero;
E se ben sorge alcuna novitate,
Non vi turbati ponto nel pensiero.
Vince ogni cosa la animositate,
Ma condurla con senno è di mestiero. –
Così dicea la dama; onde e baroni
Smontano al piano e lasciano e ronzoni.
17.
Smontati tutti e tre, come io vi disse,
Rugier nel bosco fo il primo ad entrare,
Ma un lauro il suo camin sempre impedisse,
Né a’ folti rami lo lascia passare;
Onde la mano al brando il baron misse
E quella pianta se pose a tagliare,
Dico del lauro, che foglia non perde
Per freddo e caldo, e sempre se rinverde.
18.
Poi che soccisa fu la pianta bella
E cadde a terra il trïomfale aloro,
Fuor del suo tronco sorse una donzella,
Che sopra al capo avia le chiome d’oro,
E gli occhi vivi a guisa de una stella;
Ma piangendo mostrava un gran martoro,
Con parole suave e con tal voce,
Che avria placato ogni animo feroce.
19.
– Serai tanto crudel, – dicea – barone,
Che il mio mal te diletti e trista sorte?
Se qua me lasci in tal condizïone,
Le gambe mie seran radice intorte,
El busto tramutato in un troncone,
Le braccie istese in rami seran porte;
Questo viso fia scorza, e queste bionde
Chiome se tornaranno in foglie e in fronde.
20.
Perché cotale è nostra fatasone,
Che trasformate a forza in verde pianta
Stiamo rinchiuse, insin che alcun barone
Per sua virtute a trarcene se avanta.
Tu m’hai or liberata de pregione,
Se la pietate tua serà cotanta,
Che me accompagni quivi alla rivera;
Se non, mia forma tornarà qual era. –
21.
Il giovanetto pien di cortesia
Promesse a quella non la abandonare,
Sin che condotta in loco salvo sia.
La falsa dama con dolce parlare
Alla riviera del Riso se invia;
Né vi doveti già meravigliare
Se còlto fu Rugiero a questo ponto,
Ché il saggio e il paccio è da le dame gionto.
22.
Come condotto fu sopra a la riva,
La vaga ninfa per la mano il prese,
E de lo animo usato al tutto il priva,
Sì che una voglia nel suo cuor se accese
De gettarsi nel fiume a l’acqua viva.
Né la donzella questo gli contese;
Ma seco, così a braccio, come istava,
Ne la chiara onda al fiume se gettava.
23.
Là giù nel bel palazo de cristallo
Fôrno raccolti con molta letizia.
Orlando e Sacripante era in quel stallo
E molti altri baroni e gran milizia.
Le Naiàde con questi erano in ballo;
Ciuffali e tamburelli a gran divizia
Sonavano ivi, e in danze e giochi e canto
Se consumava il giorno tutto quanto.
24.
Gradasso era rimaso alla boscaglia,
Né trova al suo passar strata o sentiero,
E sempre avanti il varco gli travaglia
Tra l’altre piante un frassino legiero.
Lui questo con la spata intorno taglia,
Subito uscitte al tronco un gran destriero;
Leardo ed arodato era il mantello:
Natura mai ne fece un così bello.
25.
La briglia che egli ha in bocca è tutta d’oro,
E così adorno è ‘l ricco guarnimento
Di pietre e perle, e vale un gran tesoro.
Gradasso non vi pone intendimento
Che per inganno è fatto quel lavoro;
Anci se accosta con molto ardimento
E dà di mano a quella briglia bella
Senza contrasto, e salta ne la sella.
26.
Subito prese quel destriero un salto,
Né poscia in terra più se ebbe a callare;
Per l’aria via camina e monta ad alto,
Come tal volta un sogna di volare.
Battaglia non fu mai né alcuno assalto,
Qual potesse Gradasso ispaventare;
Ma in questo, vi confesso, ebbe paura,
Veggendose levato in tanta altura;
27.
Perché ne l’aria cento passi o piue
L’avia portato quella bestia vana.
Il baron spesso riguardava in giue,
Ma a scender gli parea la scala strana.
Quando così bon pezzo andato fue
E ritrovosse sopra alla fiumana,
Cader si lascia la incantata bestia;
Nel fiume se atuffò senza molestia.
28.
Così Gradasso al fondo se atuffoe,
E ‘l gran caval natando a sommo venne,
Poi per la selva via si deleguoe
Sì ratto come avesse a’ piè le penne.
Ma il cavallier, che a l’acqua si trovoe,
Subito un altro nel suo cor divenne;
Scordando tutte le passate cose,
Con le Naiàde a festeggiar se pose.
29.
A suon de trombe quivi se trescava
Zoiosa danza, che di qua non se usa:
Nel contrapasso l’un l’altro baciava,
Né se potea tener la bocca chiusa.
A cotale atto se dimenticava
Ciascun se stesso; ed io faccio la scusa,
E credo che un bel baso a bocca aperta
Per la dolcezza ogni anima converta.
30.
In cotal festa facevan dimora
Tutti e baroni in suoni e balli e canti;
Sol Brandimarte se affatica ancora,
Né per la selva può passare avanti,
Benché col brando de intorno lavora
Tagliando il bosco; e da diversi incanti
Era assalito, ed esso alcun non piglia,
Ché Fiordelisa sempre lo consiglia.
31.
Lui tagliò de le piante più che vinte,
E de ciascuna uscia novo lavoro,
Or grandi occelli con penne depinte,
Or bei palagi, or monti de tesoro;
Ma queste cose rimasero estinte,
Ché Brandimarte ad alcuna di loro
Mai non se apiglia e dietro a sé le lassa,
E per la selva sino al fiume passa.
32.
Come alla riva fu gionto il barone,
Divenne in faccia di color di rosa
E tutto se cangiò de opinïone
Per trabuccarse ne l’acqua amorosa;
E per gran forza de incantazïone
Non se amentava Orlando né altra cosa,
E gioso se gettava ad ogni guisa,
Se a ciò non reparava Fiordelisa.
33.
Perché essa già composti avea per arte
Quattro cerchielli in forma di corona
Con fiori ed erbe acolte in strane parte,
Per liberar de incanti ogni persona;
E pose un de essi in capo a Brandimarte,
Quindi de ponto in ponto li ragiona
Lo ordine e il modo e il fatto tutto quanto
Per trare Orlando fuor di quello incanto.
34.
Il franco cavalliero incontinente
Fa tutto ciò che la dama comanda;
Nel fiume se gettò tra quella gente,
Che danza e suona e canta in ogni banda.
Ma lui non era uscito di sua mente,
Come eron gli altri, per quella ghirlanda
Che Fiordelisa nel capo gli pose,
Fatta per arte de incantate rose.
35.
Come fo gionto giù tra quella festa
Nel bel palagio de cristallo e de oro,
Un de’ cerchielli al conte pose in testa,
E li altri a li altri duo senza dimoro.
Così la fatason fu manifesta
Subitamente a tutti quattro loro;
E le dame lasciarno e ogni diletto,
Uscendo fuor del fiume a lor dispetto.
36.
Sì come zucche in su vennero a galla;
Prima de l’acqua sorsero e cimieri,
Poi l’elmo apparve e l’una e l’altra spalla,
Ed alla riva gionsero legieri.
Quindi, levati a guisa di farfalla
Che intorno al foco agira volentieri,
Sospesi fuôr da un vento in poco de ora,
Qual li soffiò di quella selva fuora.
37.
Chi avesse chiesto a lor come andò il fatto,
Non l’avrebbon saputo racontare,
Come om che sogna e se sveglia di tratto,
Né può quel che sognava ramentare.
Eccoti avanti a lor ariva ratto
Un nano, e solo attende a speronare;
E, come presso e cavallier si vede,
– Segnor, – cridava – odeti per mercede!
38.
Segnor, se amati la cavalleria,
Se adiffendeti il dritto e la iustizia,
Fati vendetta de una fellonia
Maggior del mondo e più strana nequizia. –
Disse Gradasso: – Per la fede mia!
Se io non temessi di qualche malizia
E de esser per incanto ritenuto,
Io te darebbi volentieri aiuto. –
39.
Il nano allora sacramenta e giura
Che non è a questa impresa incantamento.
– Oh! – disse il conte, – e chi me ne assicura?
Tanto credetti già, che io me ne pento.
Lo augel ch’esce dal laccio, ha poi paura
De ogni fraschetta che se move al vento;
Ed io gabbato fui cotanto spesso,
Che, non che altrui, ma non credo a me stesso. –
40.
Disse Rugier: – Non è solo un parere,
E ciascun loda la sua opinïone.
Direbbe altrui che fosser da temere
L’opre de’ spirti e queste fatagione;
Ma se il bon cavallier fa el suo dovere
Non dee ritrarse per condizïone
Di cosa alcuna; ogni strana ventura
Provar se deve, e non aver paura.
41.
Menami, o nano, e nel mare e nel foco,
E se per l’aria me mostri a volare,
Verrò teco a ogni impresa, in ogni loco:
Che io mi spaventi mai, non dubitare. –
Gradasso e ‘l conte se arrossirno un poco
Odendo in cotal modo ragionare;
E Brandimarte al nano prese a dire:
– Camina avanti, ogniom ti vôl seguire. –
42.
Il nano aveva un palafreno amblante:
Via se ne va per la campagna piana.
Dicea Gradasso verso il sir de Anglante:
– Se questa impresa fia sublime e strana,
E per sorte mi tocca il gire avante,
Io voglio adoperar tua Durindana,
Anci pur mia, però che il re Carlone
Me la promisse, essendo mio pregione. –
43.
– Se lui te la promisse, e lui te attenda! –
Rispose il conte, in collera salito
– Ben parlo chiaro, e vo’ che tu me intenda,
Che non è cavallier cotanto ardito,
Dal qual mia spata ben non mi diffenda;
E se a te piace mo questo partito
Di guadagnarla in battaglia per forza,
Eccola qua: ma guàrdati la scorza. –
44.
Così dicendo avea già tratto il brando,
A cui piastra né usbergo non ripara;
Gradasso d’altra parte fulminando
Trasse del fodro la sua simitara.
Araldo non vi è qua che faccia il bando,
Né re che doni il campo chiuso a sbara;
Ma senza cerimonie e tante ciacare
Ben se azufarno, e senza trombe e gnacare.
45.
E cominciano il gioco con tal fretta,
Con tanta furia e con tanta ruina,
Che l’una botta l’altra non aspetta;
De intorno al capo l’elmo gli tintina,
E ciascun colpo fuoco e fiama getta.
Come sfavilla un ferro alla fucina,
Come chiocca le fronde alla tempesta,
Cotal l’un l’altro mena e mai non resta.
46.
Menò a due mano il conte un colpo crudo,
Con tal furor che par che il mondo cada;
Gradasso il vidde e riparò col scudo,
Ma non giova riparo a quella spada:
La targa e usbergo in fino al petto nudo
Convien che ‘n pezzi a la campagna vada,
E la gorzera e parte del camaglio
Ne portò seco a terra de un sol taglio.
47.
Quando il re franco del colpo se avvide,
Mena a due mano e il fren frangendo rode;
Sino alla carne ogni arma li divide,
E ‘l gran rimbombo assai de intorno se ode.
Dice Gradasso, e tutta fiata ride:
– Se ben ti rado, fàcciati bon prode!
In questa volta più non te ne toglio,
Perché a mio senno il pel non è ancor moglio. –
48.
Diceva il conte: – Che bufonchie, che?
Prima che quindi te possi dividere,
Tante te ne darò che guai a te,
E insegnarotti in altro modo a ridere. –
Rispose a lui Gradasso: – Per mia fè!
Se omo del mondo me avesse a conquidere,
Esser potrebbe che fusti colui;
Ma in verità né te stimo né altrui.
49.
Quando un tuo pare avessi alla centura,
Non restarei di correre a mia posta.
Se pur te piace, prova tua ventura:
Vieni oltra, vieni, e a tuo piacer te accosta. –
Orlando se avampò fuor di misura,
Dicendo: – Poco lo avantar ti costa;
Ma tra fatti e parole è differenzia,
Del che vedremo presto esperïenzia. –
50.
Tuttavia parla e mena Durindana,
Ad ambe mano un gran colpo gli lassa;
Manda il cimiero a pezzi in terra piana,
E ‘l copo col torchion tutto fraccassa.
Risuonò l’elmo come una campana,
E il re chinò giù il viso a terra bassa;
Di sangue ha il naso e la bocca vermiglia,
Perse una staffa e abandonò la briglia.
51.
Ma non perciò perdette la baldanza
Quel re superbo, e divenne più fiero;
Parea di foco in faccia alla sembianza.
Mena a duo mani e gionse nel cimiero
Con tanto orgoglio e con tanta possanza,
Che il coppo e il torchio manda nel sentiero.
Risuonò l’elmo, ed accerta Turpino
Che un miglio o più se odette in quel confino.
52.
E fu per trabuccar de lo arcion fuore
Il franco conte a quel colpo diverso;
La sembianza proprio ha d’un om che more,
E piedi ha fuor di staffe e ‘l freno ha perso.
Fuggendo via ne ‘l porta il corridore
Per la campagna, a dritto ed a traverso,
E ‘l re Gradasso il segue con la alfana,
Per darli morte e tuorli Durindana.
53.
Pur ne la istoria il ver se convien dire:
A suo dispetto li dava de piglio;
Ma Brandimarte non puote soffrire
Vedere Orlando posto in tal periglio,
Onde correndo se ‘l pose a seguire.
Voltò Gradasso il viso, alciando il ciglio,
E disse: – Anco tu vai cercando noglia?
Io ne ho per tutti; venga chi ne ha voglia. –
54.
Ma in questo Orlando se fu risentito,
E ver Gradasso vien col brando in mano.
Rugiero allora, el giovane fiorito,
Fra lor se pose con parlare umano,
Cercando de accordargli ogni partito;
E similmente ancor faceva il nano
Pregando per pietate e per mercede
Che vadano alla impresa che lui chiede.
55.
E tanto seppon confortare e dire,
Che tra lor fu la zuffa raquetata;
Ma ben la compagnia voglion partire,
E ciascadun ha sua strata pigliata.
Gradasso con Rugier presero a gire
Ove il nano una torre ha dimostrata;
E Brandimarte e il conte paladino
Verso Parigi presero il camino.
56.
Quel che Rugier facesse e il re Gradasso,
Vi fia poi racontato in altra parte,
Perché al presente a dir di lor vi lasso,
E seguo come il conte e Brandimarte
Vennero in Francia caminando a passo,
Con Fiordelisa, maestra in tutte l’arte;
E una mattina, al cominciar del giorno,
Vidder Parigi, che ha lo assedio intorno.
57.
Perché Agramante, come io vi contai,
Sconfitto avendo in campo Carlo Mano
E morta e presa di sua gente assai,
Se era atendato a cerco per quel piano.
Tanta ciurmaglia non se vidde mai
Quanta adunata avea quello africano;
Ben sette leghe il campo intorno tiene,
Che valle e monti e le campagne ha piene.
58.
Quei de la terra stavano in diffese,
E notte e giorno attendono alle mura,
Ché sol de’ paladin vi era il Danese,
Che a far beltresche e riparar procura.
Ma quando il conte mirando comprese
Cotal sconfita e tal disaventura
Sì gran cordoglio prese e dolor tanto,
Che for de gli occhi li scoppiava il pianto.
59.
– Chi se confida in questa vita frale –
Diceva lui – e in questo mondo vano,
Lasci gli alti pensieri e chiuda l’ale,
Prendendo esempio dal re Carlo Mano,
Che sì vittorïoso e trïonfale
Facea tremar ciascun presso e lontano;
Or l’ha del tutto la fortuna privo
In un momento, e forse non è vivo. –
60.
Ma, mentre che dicea queste parole,
Nel campo si levò sì gran romore,
Che par che il cel risuoni insino al sole,
E sempre il crido cresce e vien maggiore.
Or, bella gente, certo assai mi dole
Non poter mo chiarir tutto il tenore;
Ma apresso il contarò ne l’altra stanza,
Ché in questo canto abbiam detto a bastanza.
CANTO OTTAVO
1.
Dio doni zoia ad ogni inamorato,
Ad ogni cavallier doni vittoria,
A’ principi e baroni onore e stato,
E chiunque ama virtù, cresca di gloria:
Sia pace ed abundanzia in ogni lato!
Ma a voi, che intorno odeti questa istoria,
Conceda il re del cel senza tardare
Ciò che sapriti a bocca dimandare.
2.
Donevi la ventura per il freno,
E da voi scacci ogni fortuna ria;
Ogni vostro desio conceda a pieno,
Senno, beltade, robba e gagliardia,
Quanto è vostro voler, né più né meno,
Sì come per bontate e cortesia
Ciascun di voi ad ascoltare è pronto
La bella istoria che cantando io conto.
3.
La qual lasciai, se vi racorda, quando
Sorse il gran crido al campo de’ Pagani,
Talabalachi e timpani suonando,
Corni di brongio ed instrumenti istrani,
Alor che Brandimarte e il conte Orlando,
Gionti ne’ poggi e riguardando e piani,
Vider cotanta gente e tante schiere
Che un bosco par di lancie e di bandiere.
4.
Perché sappiati il fatto tutto quanto,
L’ordine è dato a ponto per quel giorno
Di combatter Parigi in ogni canto,
E lo assalto ordinato intorno intorno.
De li Africani ogni om se dà più vanto,
L’un più che l’altro se dimostra adorno;
Chi promette a Macone, e chi lo giura,
Passar de un salto sopra a quella mura.
5.
Scale con rote e torre aveano assai,
Che se movean tirate per ingegno.
Più nove cose non se vidder mai:
Gatti tessuti a vimine e di legno,
Baltresche di cor’ cotto ed arcolai,
Ch’erano a rimirare un strano ordegno,
Qual con romor se chiude e se disserra,
E pietre e foco tra’ dentro alla terra.
6.
Da l’altra parte il nobile Danese,
Che fatto è capitan per lo imperiere,
Fa gran ripari ed ordina in diffese
Saettamenti e mangani e petriere.
Con gli occhi suoi veder vôl lui palese,
Ché con li altrui non guarda volentiere,
E sassi e travi e solfo e piombo e foco
Per torre e merli assetta in ciascun loco.
7.
Sopra a ogni cosa egli ordina e procura
La gente armata a piede ed a cavallo;
Mo qua mo là scorrendo per le mura,
Non pone a l’ordinar tempo o intervallo.
Già se odeno e Pagani alla pianura
Con tamburacci e corni di metallo,
Sonando sifonie, gnacare e trombe,
Che l’aria trema e par che ‘l cel rimbombe.
8.
O re del celo! O Vergine serena!
Che era a veder la misera citate!
Già non mi credo che il demonio apena
Se rallegrasse a tanta crudeltate.
De strida e pianti è quella terra piena:
Piccoli infanti e dame scapigliate
E vecchi e infermi e gente di tal sorte
Battonsi il viso, a Dio chiedendo morte.
9.
Di qua di là correa ciascuno a guaccio,
Pallidi e rossi, e timidi è li arditi;
Triste le moglie con figlioli in braccio,
Sempre piangendo, pregano e mariti
Che le diffendan da cotanto impaccio;
E disperate a li ultimi partiti,
Caccian da sé la feminil paura,
Ed acqua e pietre portano alle mura.
10.
Suonano a l’arme tutte le campane;
De cridi e trombe è sì grande il rumore,
Che nol potrian contar le voce umane.
Va per la terra Carlo imperatore:
Ogni omo il segue, alcun non vi rimane,
Che non voglia morir col suo segnore;
E lui qua questo e là quell’altro manda,
Provede intorno ed ordina ogni banda.
11.
Lo esercito pagano è già vicino,
Che intorno se distende a schiera a schiera:
Alla porta San Celso è il re Sobrino
Con Bucifar, il re de la Algazera;
E Baliverzo, il falso saracino,
Là dove entra di Senna la riviera
Se sforza entrar con sua gente perversa;
E seco è il re de Arzila e quel de Fersa.
12.
A San Dionigi il re di Nasamona
Col re de la Zumara era accostato:
E il re di Cetta e quel di Tremisona
Combatteno alla porta del mercato;
L’aria fremisce e la terra risona,
Ché la battaglia è intorno ad ogni lato,
E foco e ferri e pietre con gran fretta
Da l’una parte a l’altra se saetta.
13.
Non sorse più giamai furor cotale
Tra Cristïani e gente saracina:
Ciascun tanto più fa quanto più vale.
Giù vengon travi e solforo e calcina,
E se sentiva un fraccassar di scale,
Un suon de arme spezzate, una roina,
E fumo e polve, e tenebroso velo,
Come caduto il sol fosse dal celo.
14.
Ma non per tanto par che satisfaccia
La gran diffesa contra a quei felloni.
Come la mosca torna a chi la scaccia,
O la vespe aticciata, o i calavroni:
Cotal parea la maledetta raccia,
Da’ merli trabuccata e da’ torroni,
Che dirupando al fondo giù ne viene;
Già son de morti quelle fosse piene.
15.
Onde era fatto su per l’acqua un ponte,
Orribile a vedere e sanguinoso.
Quivi era Mandricardo e Rodamonte,
Ciascun più di salir voluntaroso;
Ni Feraguto, quella ardita fronte,
Né il re Agramante si stava ocïoso:
L’un più che l’altro di montar se afreza
Tra frizze e dardi, e sua vita non preza.
16.
Orlando, che attendeva il caso rio,
Quasi era nella mente sbigotito;
Forte piangendo se acomanda a Dio,
Né sa pigliare apena alcun partito.
– Che deggio fare, o Brandimarte mio, –
Diceva lui – che il re Carlo è perito?
Perso è Parigi ormai! Che più far deggio,
Che ruïnato in foco e fiama il veggio?
17.
Ogni soccorso, al mio parer, si è tardo:
Su per le mura già sono e Pagani. –
Brandimarte dicea: – Se ben vi guardo,
Là se combatte, e sono anco alle mani.
Deh lasciami callar, ché nel core ardo
Di fare un tal fraccasso in questi cani,
Che, se Parigi aiuto non aspetta,
Non fia disfatta almen senza vendetta! –
18.
Orlando alle parole non rispose,
Ma con gran fretta chiuse la visiera,
E Brandimarte a seguitar se pose,
Che vien correndo giù per la costiera.
Fiordelisa la dama se nascose
In un boschetto a canto alla riviera,
E quei duo cavallier menando vampo
Passarno il fiume e gionsero nel campo.
19.
Ciascun di lor fu presto cognosciuto:
Sua insegna avea scoperta e suo penone.
– Arme! arme! – se cridava – aiuto! aiuto! –
Ma già son gionti al mastro pavaglione,
Che era di scorta assai ben proveduto.
Il re Marsilio vi era e Falsirone,
Molta sua gente e re de altri paesi,
Per far la guardia a’ nostri che son presi.
20.
Come sapeti, il nobile Olivieri
Quivi è legato e il bon re di Bertagna,
Ricardo e ‘l conte Gano da Pontieri,
E ‘l re lombardo e molti de Alemagna.
Or qua son gionti e franchi cavallieri:
Ben dir vi so che alcun non se sparagna.
Chi se diffende, e chi fugge, e chi resta:
Tutti li mena al paro una tempesta.
21.
Al pavaglione, ove era la battaglia,
Non puote il re Marsilio aver diffese;
Gran parte è morta de la sua canaglia,
Lui bon partito via fuggendo prese.
Orlando il pavaglion tutto sbaraglia,
Squarzato in pezi a terra lo distese;
Ma quando quei pregion viddero il conte,
Per meraviglia se signâr la fronte.
22.
Oh che spezzar de corde e di catene
Faceva Brandimarte in questo stallo!
De arme e ronzoni ivi eron tende piene,
Onde èno armati e montano a cavallo.
L’un più che l’altro a gran voglia ne viene
Per seguitare Orlando in questo ballo,
Qual ver Parigi a corso se distese,
E seco è Gano e Oliviero el marchese;
23.
Re Desiderio e lo re Salamone
E Brandimarte (che era dimorato
Alquanto per disciorre ogni pregione),
Ricardo e Belengieri apresïato.
Seguiva apresso Avorio, Avino e Ottone,
Il duca Namo e il duca Amone a lato,
Ed altri, tutti gente da gorzera,
Che più di cento sono in una schiera.
24.
E’ già son gionti presso a quelle mura,
Ove la zuffa è più cruda che mai,
Che era cosa a vedere orrenda e scura,
Come di sopra poco io ve contai.
Grande era quel rumor fuor di misura
De cridi estremi e de istrumenti assai,
E facevan tremar de intorno il loco,
Né altro se odìa che morte e sangue e foco.
25.
Già Mandricardo avea pigliato un ponte,
Rotte le sbarre e spezzata la porta,
Ed avea gente a seguitar sì pronte,
Che ciascun dentro molto se sconforta.
Da un’altra parte il crudo Rodamonte
Su per le mura ha tanta gente morta
Con dardi e sassi, e tanta n’ha percossa,
Che vien da’ merli il sangue nella fossa.
26.
Guarda le torre e spreza quella altezza,
Battendo e denti a schiuma come un verro.
Non fu veduta mai tanta fierezza:
Il scudo ha in collo e una scala di ferro
E pali e graffie e corde fatte in trezza,
E il foco acceso al tronco de un gran cerro;
Vien biastemando e sotto ben se acosta,
La scala apoggia e monta senza sosta.
27.
Come egli andasse per la strata a passo,
Cotal saliva quel pagano arguto.
Quivi era il ruïnare e il gran fraccasso:
Adosso a lui ciascun cridava aiuto.
Se Lucifero uscito o Satanasso
Fosse giù da lo abisso e qua venuto
Per disertar Parigi e ogni sua altura,
Non avria posto a lor tanta paura.
28.
E nondimanco in tanti disconforti
Se adiffendiano per disperazione,
Ché ad ogni modo se reputan morti,
Né stiman più la vita o le persone.
Poi che, condotti a dolorosi porti,
Veggion palese sua destruzïone,
E pali e dardi tranno a più non posso
Con sassi e travi a quel gigante adosso.
29.
Lui pur salisce e più de ciò non cura,
Come di penne o paglia mosse al vento;
Già sopra a’ merli è sino alla cintura,
Né ‘l contrastar val, forza né ardimento.
Come egli agionse in cima a quelle mura,
E nella terra apparve il gran spavento,
Levossi un pianto e un strido sì feroce,
Sino al cel, credo io, gionse quella voce.
30.
Ma quel superbo una gran torre afferra,
E tanta ne spiccò quanta ne prese;
Quei pezzi lancia dentro dalla terra,
Dissipa case e campanili e chiese.
Orlando non sapea di tanta guerra,
Ché in altra parte stava alle contese;
Ma la gran voce che di là si spande
Venir lo fece a quel periglio grande.
31.
Gionse correndo ove è l’aspra battaglia:
Non fo giamai da l’ira sì commosso.
La gran scala di ferro a un colpo taglia,
E Rodamonte roinò nel fosso,
E dietro a lui gran pezzi de muraglia,
Ché gli è caduta meza torre adosso;
E un merlo gionse Orlando nella testa,
Qual lo distese a terra con tempesta.
32.
Fo Rodamonte sviluppato e presto.
Tanta fierezza avea il forte pagano,
Che non mostrava più curar di questo,
Come se stato fosse un sogno vano.
Ma il franco conte non era ancor desto,
Qual tramortito se trovava al piano;
Or Rodamonte già non se ritiene,
Esce dal fosso e contro a i nostri viene.
33.
De esser gagliardo ben li fa mestiero,
Ché a lui de intorno sta la nostra gente:
Su l’orlo aponto è Gano da Pontiero.
Benché sia falso e tristo della mente,
Purché esser voglia è prodo e bon guerrero;
Ma la sua forza alor giovò nïente,
Ché Rodamonte, che de l’acqua usciva,
De un colpo a terra il pose in su la riva.
34.
Questo abandona e ponto non se arresta.
Ché sopra ‘l campo afronta Rodolfone;
Parente era di Namo e di sua gesta:
Tutto il fende il pagan sino allo arcione.
Poi mena al re lombardo ne la testa:
Come a Dio piacque, colse di piatone,
Ma pur cadde di sella Desiderio
A gambe aperte e con gran vituperio.
35.
La gente saracina, che è fuggita
Per la gionta de Orlando, ora tornava,
Più assai che prima mostrandosi ardita;
Ché Rodamonte sì se adoperava,
Che ciascuno altro volentier lo aita.
Di qua di là gran gente se adunava:
Balifronte di Mulga e il re Grifaldo
E Baliverzo, il perfido ribaldo.
36.
Quivi era Farurante di Maurina
E il franco Alzirdo, re di Tremisona,
Il re Gualciotto di Bellamarina
Ed altri assai che ‘l canto non ragiona;
Tutti non giongeranno a domatina,
Ché Brandimarte, la franca persona,
Ne mandarà qualcun pur allo inferno,
E qualcuno Olivier, se ben discerno.
37.
Stati ad odire il fatto tutto a pieno,
Ché or se incomincia da dover la danza.
Salamon vide il figlio de Ulïeno,
Qual più de un braccio sopra alli altri avanza:
Ove il colpo segnò, né più né meno,
A mezo il petto il colse con la lanza;
Quella se ruppe, e ‘l Pagan non se mosse,
Ma con la spada il Cristïan percosse.
38.
Il scuto gli spezzò quel maledetto,
Le piastre aperse, come fosser carte,
E crudelmente lo piagò nel petto;
Gionse allo arcione e tutto lo disparte,
Il collo al suo ronzon tagliò via netto.
Ora a quel colpo gionse Brandimarte,
E, destinato di farne vendetta,
Sprona il destriero e la sua lancia assetta.
39.
A tutta briglia il cavallier valente
Percosse Rodamonte nel costato,
Che era guarnito a scaglie di serpente;
Quel lo diffese, e pur giù cade al prato.
Come il romor d’uno arboro si sente,
Quando è dal vento rotto e dibarbato,
Sotto a sé frange sterpi e minor piante:
Tal nel cader suonò quello africante.
40.
Or Brandimarte volta al re Gualciotto,
Poi che caduto è il franco re di Sarza;
Ad ambe man lo percosse di botto,
Per mezo il scudo lo divide e squarza.
Lo usbergo e panciron che egli avea sotto
Partitte a guisa de una tela marza;
Per il traverso il petto li disserra,
E in duo cavezzi il fece andare a terra.
41.
Ed Olivieri, il franco combattente,
Mostra ben quel che egli era per espresso;
Alla sua gesta il cavallier non mente,
Ché il re Grifaldo insino al petto ha fesso.
In questo tempo Orlando se risente;
Stato gli è sempre Brigliadoro apresso,
Tanto era savio, quella bestia bona!
Sta col suo conte e mai non lo abandona.
42.
Onde salito è subito a destriero,
Esce del fosso la anima sicura.
Quando quei dentro videro il quartiero,
Levase il crido intorno a quelle mura.
Fu reportato insino allo imperiero
Come apparito è Orlando alla pianura,
E che scampati sono e Cristïani
Da’ Saracini, e son seco alle mani.
43.
Non domandati se lo imperatore
Di tal novella zoia e festa prese;
A tutti quanti sfavillava il core,
Brama ciascun de uscire alle contese.
Aperta fu la porta a gran furore,
E salta fuori armato il bon Danese,
E Guido de Borgogna è seco in sella,
Duodo de Antona e Ivone de Bordella.
44.
Avanti a tutti è il figlio de Pipino,
Ché non vôl restar dentro il re gagliardo;
Solo in Parigi rimase Turpino,
Per aver della terra bon riguardo.
Or torniamo al Danese paladino,
Che sopra al ponte scontra Mandricardo,
Qual, come io dissi su, poco davante,
Là combatteva, e seco era Agramante.
45.
Correndo viene Ogier con l’asta grossa,
E gionse Mandricardo, che era a piede;
Gettar se ‘l crede de urto nella fossa,
Ma quello è ben altro om che lui non crede.
Fermosse il saracin con tanta possa,
Che al scontro della lancia già non cede;
Via passava Rondello a corso pieno,
Ma quel pagan gli dà di man a freno.
46.
Ed Agramante, che era lì da lato,
Se sforza scavalcarlo a sua possancia;
Ma Carlo Mano, che ivi era arivato,
Percosse il re Agramante con la lancia
Trabuccandolo a terra riversato,
E passolli il destrier sopra la pancia.
Or qua la zuffa grossa se rinova,
Ché ogniom se affronta e vôl vincer la prova.
47.
Raportato era già di voce in voce
Come abattuto se trova Agramante,
Onde ciascun se aduna in quella foce:
Lo un più che l’altro vôl ficcarse avante.
Quivi è Grandonio, il saracin feroce,
E seco è Feraguto e Balugante;
Ma sopra tutti Mandricardo è quello
Che fa diffesa e mena gran flagello.
48.
Sol fu quel lui che Agramante riscosse
Per sua prodezza e ‘l trasse di travaglia.
Oh quanti morti andarno in quelle fosse,
Perché era sopra al ponte la battaglia,
E l’acque dentro diventorno rosse
Per tanto sangue che la vista abaglia;
Re Carlo, Ogieri e li altri tutti insieme
Adosso a quei pagan con furia preme.
49.
E già cacciati for gli avea del ponte:
Pur tra le sbarre ancor se contrastava;
Ecco alle spalle de’ Pagani il conte
E Brandimarte, che lo seguitava,
Con l’altre gente vigorose e pronte.
Or la baruffa terribile e brava
Qua se radoppia, e tanto dispietata
Che simigliante mai non fu contata.
50.
Però che Rodamonte, quello altiero,
Sempre ha seguìto Orlando alla spiegata;
Più non si tien né strata né sentiero,
Tutta la zuffa è in sé ramescolata;
Né adoperarse ormai facea mestiero:
Tanto è la gente stretta ed adunata,
Che Rodamonte solo e solo Orlando
Fan piazza larga quanto è lungo il brando.
51.
Ma fusse o per quel populo devoto
Che in Parigi pregava con lamento,
O per altro destino al mondo ignoto,
Ne l’aria se levò tempesta e vento,
E sopra al campo sorse un terremoto,
Dal qual tremava tutto il tenimento;
Terribil pioggia e nebbia orrenda e scura
Ripieno aveano il mondo di paura.
52.
E già chinava il giorno ver la sera,
Che più facea la cosa paventosa;
Di qua, di là se ritrasse ogni schiera,
E mancò la battaglia tenebrosa.
Ma Turpin lascia qua la istoria vera,
Che in questi versi ho tratto di sua prosa,
E torna a ragionar di Bradamante,
De la qual vi lasciai poco davante,
53.
Quando ella occise al campo Daniforte,
Quello avisato e falso saracino
Che a tradimento la feritte a morte:
Ma lui perse la vita, essa il camino,
Ché era la notte ombrosa e scura forte.
Lei sempre via passò sera e matino
Per quel deserto inospite e selvaggio,
Ove atrovò nel mezo un romitaggio.
54.
E gran bisogno avendo di riposo,
Per molto sangue che perduto avia,
E per il camin lungo e faticoso,
Smontava a terra e alla porta battia;
E quel romito, che stava nascoso,
Signosse il viso e disse: – Ave Maria!
Chi condotto ha costui? O che miracolo
Fa che omo arivi al povero abitacolo? –
55.
– Io sono un cavallier, – disse la dama –
Ch’ier me smaritti in questa selva oscura,
Ed ho de riposar bisogno e brama,
Ché son ferito e stracco oltra misura. –
Rispose quel romito: – In questa lama
Mai non discese umana creatura;
Da sessanta anni in qua che vi son stato,
Non vidi una sol volta uno omo nato.
56.
Ma spesse fiate il demonio me appare,
In tante forme ch’io non s’aprei dirti,
E poco avante io presi a dubitare
Che fosti quello, e stei per non aprirti.
Questa matina qua viddi passare
Una barchetta carica de spirti,
Che ne andava per l’aria alla seconda
Battendo e remi come fusse in onda.
57.
Colui che stava in poppa per nocchiero,
Mi disse: “Fratacchione, al tuo dispetto
Partito è già di Francia il bon Rugiero,
Qual serìa stato un cristïan perfetto.
Tolto lo abbiamo dal dritto sentiero,
Ché vòlto avria le spalle a Macometto;
Ma di sua legge ormai non credo che esca,
Ed hollo detto acciò che ti rincresca.”
58.
Passò la barca, poi che ebbe parlato
Quel tristo spirto, e più non fu veduta;
Ed io rimasi assai disconsolato,
Pensando che era l’anima perduta
Di quel baron, che morirà dannato,
Se Dio per sua pietate non lo aiuta,
O se persona non li mette in core
Di batezarse e uscir di tanto errore. –
59.
Quando queste parole udì la dama,
Tutta se accese in viso come un foco;
Pensando al cavallier che cotanto ama,
Nella sua mente non ritrova loco;
E sì desia di rivederlo e brama,
Che cura di riposo o nulla, o poco,
A benché quel romito assai la invita
A medicarse, perché era ferita.
60.
E tanto ben la seppe confortare,
Che pur al fine ella pigliò lo invito;
Ma, volendoli il capo medicare,
Vide la trezza e fo tutto smarito.
Battese il petto e non sa che si fare,
– Tapino me, – dicendo – io son perito!
Questo è il demonio, certo (il vedo a l’orma),
Che per tentarmi ha preso questa forma. –
61.
Pur cognoscendo poi per il toccare
Ch’ella avea corpo e non era ombra vana,
Con erbe assai la prese a medicare,
Sì che la fece in poco de ora sana;
Benché convenne le chiome tagliare
Per la ferita, che era grande e strana:
Le chiome li tagliò come a garzone,
Poi li donò la sua benedizione,
62.
Dicendo: – Vanne altrove a ogni maniera,
Ché donna non può star con omo onesta. –
Lei se partitte e gionse a una riviera,
Qual traversava per quella foresta.
Il sole a mezo giorno salito era:
E fame e sete e ‘l caldo la molesta,
Onde alla ripa discese per bere;
Bevuto avendo, posese a giacere.
63.
Lo elmo si trasse e il scudo se dislaccia,
Ché qua persona non vede vicina;
Prese a posar col capo in su le braccia.
Così dormendo quella peregrina,
Era venuta in questo bosco a caccia
Una dama, nomata Fiordespina,
Figliola di Marsilio, re di Spagna,
Con cani e occelli e con molta compagna.
64.
Questa cacciando gionse in su la riva
De la fiumana che io dissi primiero,
E vide Bradamante che dormiva:
Pensò che fosse un qualche cavalliero.
Mirando il viso e sua forma giuliva,
De amor se accese forte nel pensiero,
Macon – fra sé dicendo – né natura
Potria formar più bella creatura.
65.
Oh che non fosse alcun meco rimaso!
Fosse nel bosco tutta la mia gente,
O partita da me per qualche caso,
O morta ancora, io ne daria nïente,
Pur che io potessi dare a questo un baso,
Mentre che el dorme sì suavemente
Ora aver pazïenza mi bisogna,
Ché gran piacer se perde per vergogna.”
66.
Parlava Fiordespina in cotal forma,
Né se puotea mirando sazïare.
Sì dolcemente par che colui dorma,
Che non se atenta ponto a disvegliare.
Ma già vargata abbiam la usata norma
Del canto nostro, e convien riposare;
Apresso narrarò la bella istoria:
Dio ce conservi con piacere e gloria.
CANTO NONO
1.
Poi che il mio canto tanto a voi diletta,
Ché ben ne vedo nella faccia il signo,
Io vo’ trar for la citera più eletta
E le più argute corde che abbia in scrigno.
Or vieni, Amore, e qua meco te assetta,
E se io ben son di tal richiesta indigno,
Perché e mirti al mio capo non se avoltano,
Degni ne son costor che intorno ascoltano.
2.
Come nanti l’aurora, al primo albore,
Splendono stelle chiare e matutine,
Tal questa corte luce in tant’onore
De cavallieri e dame peregrine,
Che tu pôi ben dal cel scendere, Amore,
Tra queste genti angelice e divine;
Se tu vien’ tra costoro, io te so dire
Che starai nosco e non vorai partire.
3.
Qui trovarai un altro paradiso;
Or vieni adunque e spirami, di graccia,
Il tuo dolce diletto e ‘l dolce riso,
Sì che cantando a questi satisfaccia
De Fiordespina, che mirando in viso
A Bradamante par che se disfaccia
E del disio se strugga a poco a poco,
Come rugiada al sole o cera al foco.
4.
E non potea da tal vista levarsi:
Quanto più mira, de mirar più brama,
Sì come e farfallin, sin che sono arsi,
Non se sanno spiccar mai dalla fiama.
Erano e cacciatori intorno sparsi,
E qual suo cane e qual suo falcon chiama,
Con corni e cridi menando tempesta;
Onde al romor la fia de Amon se desta.
5.
Sì come gli occhi aperse, incontinente
Una luce ne uscitte, uno splendore,
Che abbagliò Fiordespina primamente,
Poi per la vista li passò nel core;
E ben ne dimostrò segno evidente,
Tingendo la sua faccia in quel colore
Che fa la rosa, alorché aprir se vôle
Nella bella alba, allo aparir del sole.
6.
Già Bradamante se era rilevata,
E perché a gli atti e allo abito comprese
Quest’altra esser gran dama e pregïata,
La salutò con modo assai cortese;
E dove la iumenta avia legata,
Quando da prima in su il fiume discese,
Ne venne, ché trovarvela vi crede;
Ma non la trova ed ove sia non vede,
7.
Perché a se stessa avia tratta la briglia,
E nel bosco più folto errando andava.
Or tal sconforto la dama se piglia,
Che quasi gli occhi a lacrime bagnava;
Ma amor, che ogni intelletto resviglia,
A Fiordespina subito mostrava
Con qual facilitate de legiero
Se trovi sola con quel cavalliero.
8.
Essa aveva un destrier de Andologia,
Che non trovava parangone al corso;
Forte e legiero, un sol diffetto avia,
Che, potendo pigliar co’ denti il morso,
Al suo dispetto l’om portava via,
Né si trovava a sua furia soccorso.
Sol con parole si puotea tenire:
Ciò sa la dama e ad altri nol vôl dire.
9.
Per questo crede lei di fare acquisto
Di Bradamante, che stima un barone,
E dice: – Cavallier, tanto stai tristo
Forse per aver perso il tuo ronzone.
Se ben non te abbia cognosciuto o visto,
La ciera tua mi mostra per ragione
Che non pôi esser di natura fello:
Alle più volte bono è quel che è bello.
10.
Onde non credo poter collocare
In altrui meglio una mia cosa eletta;
Però questo destrier ti vo’ donare,
Che non ha il mondo bestia più perfetta.
Sol colui dà, qual dà le cose care;
Ciascun privar se sa de cosa abietta:
E, per stimarme di poco valore,
Io non ardisco di donarti il core. –
11.
Così dicendo salta della sella
E il corsier per la briglia li presenta.
Bradamante, che vide la donzella
Nel viso di color de amor dipenta,
E gli occhi tremolare e la favella,
Dicea tra sé: Qualche una mal contenta
Serà de noi e ingannata alla vista,
Ché gratugia a gratugia poco acquista.”
12.
Così tra sé pensando, Bradamante
Disse alla dama: – Questo dono è tale
Che a meritarlo io non serìa bastante:
Se ben tutto mi dono, poco vale.
Ma il dar per merto è cosa di mercante,
E voi, che aveti lo animo regale,
Degnareti accettarmi quale io sono,
Che il corpo insieme e l’anima vi dono. –
13.
– Ciò non rifiuto, – disse Fiordespina –
Né di cosa ch’io tengo, più me esalto;
Non fece mai, che io creda, un don regina,
Che ne pigliasse guidardon tanto alto. –
Bradamante tacendo a lei se inclina,
E sì come era armata prese un salto,
Che avria passato sopra una ziraffa;
Salì a destriero, e non toccò la staffa.
14.
La Saracina a quello atto se affisse,
Con gli occhi fermi e di mirar non saccia,
Poi chiamando e compagni intorno, disse:
– Per me, non per voi fatta è questa caccia.
Se al mio comando alcun disobidisse,
Serà caduto nella mia disgraccia,
Che meglio vi serà cader nel foco:
Vo’ che ciascun stia fermo nel suo loco.
15.
Stativi quieti e come gente mute,
E lasciate venir le bestie fuora,
Però che io sola le vo’ seguir tute;
E tu, barone, apresso a me dimora.
Piacer non ho maggior, se Dio m’aiute,
Che quando un forastier per me se onora,
E non è cosa, a mia fè te prometto,
Che io non facessi per darti diletto. –
16.
Acquetossi ciascun per obedire:
Chi stende lo arco, e chi suo cane agroppa;
Già tutto il bosco si sentia stromire
De corni e abagli, e ‘l gran romor se incoppa.
Eccoti un cervo de la selva uscire,
Che avea le corne insino in su la groppa,
Un cervo per molti anni cognosciuto,
Perché il maggior giamai non fu veduto.
17.
Questo uscì al prato de un corso sì subito,
Che non par che lo aresti pruno o lapola,
E venne presso a Fiordespina un cubito,
Sì che aponto alla coda e can li scapola;
E fra se stessa diceva: Io me dubito
Che costui resti e non senti la trapola,
Se, pregando che segua, non impetro”;
E poi se volse e disse: – Vienmi dietro. –
18.
Nel fin de le parole volta il freno,
Seguendo il cervo, e pur costui dimanda.
Benché avesse uno amblante palafreno
(Quale era nato nel regno de Irlanda,
E correa come un veltro, o poco meno,
Come tutti i roncin di quella banda;
Non già che fosse in corso simigliante
A l’altro, che avea dato a Bradamante),
19.
Quello andaluzo correva assai più
Che non volea il patrone alcuna fiata.
Ora apena nel corso posto fu,
Che varcò Fiordespina de una arcata.
Già se pente la dama esservi su,
E vede ben che la bocca ha sfrenata;
Ora tira di possa, or tira piano,
Ma a retenerlo ogni remedio è vano.
20.
Era davanti un monte rilevato,
Pien di cespugli e de arboscelli istrani,
Ma non ritenne il cavallo affogato:
Questo passò, come ha passato e piani.
Il cervo alle sue spalle avia lasciato;
Ben lo ha vicino, e presso a questo e cani,
E poco longe a’ cani è Fior de spina,
Che studia il corso e quanto può camina.
21.
Nella scesa del monte a ponto a ponto
Fo preso il cervo da un can corridore;
E come fu da questo primo agionto,
Li altri poi lo aterrarno a gran furore.
Ora faceva Fiordespina conto
De non lasciar più gire il suo amatore,
E scridando al destrier, come far suole,
Fermar lo fa ben presto come vôle.
22.
Non dimandar se Bradamante alora,
Vedendo il destrier fermo, se conforta,
E smontò de lo arcion senza dimora,
Che quasi già se avea posta per morta,
Tanto che li batteva il core ancora.
E Fiordespina, che è di questo accorta,
Gli disse: – O cavallier, vo’ che tu imagine
Che un fal commesso ho sol per smenticagine.
23.
Ben si suol dir: non falla chi non fa.
Non so come mi sia di mente uscito
Di farti noto che il destrier, che te ha
Quasi condutto di morte al partito,
Qual’unche volta se gli dice: “Sta!”
Non passarebbe più nel corso un dito;
Ma, come io dissi, me dimenticai
Farlo a te noto, e ciò mi dole assai. –
24.
Rimase Bradamante satisfatta
Per le parole ed anco per le prove,
Ché, correndo il cavallo a briglia tratta,
Come odiva dir: “Sta!” più non se move.
La esperïenza fo più volte fatta;
Al fin smontarno in su l’erbette nove,
Sottesso l’ombra del fronzuto monte,
Ove era un rivo e sopra a quello un ponte.
25.
Quivi smontarno le due damigelle.
Bradamante avia l’arme ancora intorno,
L’altra uno abito biavo, fatto a stelle
Quale eran d’oro, e l’arco e i strali e ‘l corno;
Ambe tanto legiadre, ambe sì belle,
Che avrian di sue bellezze il mondo adorno.
L’una de l’altra accesa è nel disio,
Quel che li manca ben s’apre’ dir io.
26.
Mentre che io canto, o Iddio redentore,
Vedo la Italia tutta a fiama e a foco
Per questi Galli, che con gran valore
Vengon per disertar non so che loco;
Però vi lascio in questo vano amore
De Fiordespina ardente a poco a poco;
Un’altra fiata, se mi fia concesso,
Racontarovi il tutto per espresso.
– Fine –