Il mandato di parroco di don Savino a Corsico è stato segnato per più della metà, e cioè per due anni, dalla malattia che lui ha voluto fin da subito condividere con la comunità che era chiamato a guidare, tanto da rendere questa condizione il nutrimento del suo ministero. Da questa esperienza don Savino ha tratto la fecondità e la ricchezza di una predicazione e di un insegnamento “incarnati” in questo vissuto doloroso, che ci ha condotti, durante quei due anni, ad approfondire sempre di più la domanda, per certi aspetti misteriosa, sul significato e il valore della sofferenza.
Per questo vorrei iniziare il mio intervento ricordando l’ultima notte di don Savino. Quelle ultime ore ci sono state testimoniate dal suo carissimo amico don Mario Peretti che lo ha accompagnato proprio in quella notte. Parto da lì perché proprio quando si è davanti alla morte si svela ciò che si è veramente, la verità emerge in tutta la sua nudità, in quel momento infatti si rivela drammaticamente la consistenza del cammino che è durato una vita intera. Riporto brevemente il dialogo che don Mario ebbe con don Savino:
“Ma cosa mi sta chiedendo il Signore con tutto questo?”
“Ti sta chiedendo di dargli la tua vita” .
“Ma cosa se ne fa della mia vita così povera e piccola?”
“La vuole come un innamorato vuole la vita della persona che ama. E vuole farne il brandello della sua croce, che salva il mondo e ciascuno di noi” .
“Allora cercherò di dirgli il mio sì con piena coscienza e amore. Anzi, glielo chiedo, perché io non ne sono capace. Gesù fammi trovare pronto, come te, sulla croce, a dire il mio sì, come lo hai detto Tu, affinché non la mia, ma la tua volontà si compia” .
La certezza che in don Savino si è rivelata sempre di più in quegli ultimi due anni è che solo nell’adesione totale e incondizionata alla volontà del Signore noi possiamo trovare la nostra felicità, perché solo il Signore conosce il nostro vero bene. Noi il nostro vero bene possiamo intravederlo, forse intuirlo, ma solo Dio lo conosce veramente.
Ricordo che durante un’omelia disse che era dovuto arrivare a 70 anni per comprendere in tutta la sua portata la ragione per la quale Gesù nel Padre Nostro dice: “sia fatta la Tua volontà” . Durante quella stessa omelia mi colpirono le seguenti parole: “Quando si è ammalati si è costretti a dipendere, finalmente. Finalmente siamo costretti a ricordarci che dipendiamo, che abbiamo bisogno di tutto, persino di una mano per alzarci dal letto, per fare le cose più semplici ed elementari. Questa cosa mi ha fatto scoprire che abbandonarci, abbandonarmi al Suo volere, è ciò che mi rende veramente lieto. Come un bambino che quando si abbandona nelle braccia di sua madre non piange più, ma sorride” .
Ciò che mi ha sempre interrogata, in modo quasi provocatorio, è il fatto che in lui si è evidenziata sempre di più la convinzione che ogni accadimento e circostanza ed ogni incontro sono occasioni nelle quali sperimentare la paternità di Dio e la maternità della Chiesa: la luce e la serenità che irradiava la sua persona quando, parlando della sua condizione di sofferenza, non mancava di riconoscere la cura e la premura che il Signore, proprio attraverso quella dolorosa circostanza, gli stava riservando, hanno lasciato un segno profondo in coloro che in questo modo hanno toccato con mano il miracolo che Dio compie in chi a Lui si affida totalmente.
Diceva spesso: “Mai come in questo anno (di malattia) mi sono accorto di quanto Gesù mi vuole bene. Sapete, ogni tanto nella vita ci viene il sospetto che non siamo più amati; mi è venuto questo sospetto quando è morta mia mamma e poi mio papà e dicevo: adesso chi mi vorrà così bene, come mia mamma e mio papà? Nessuno. E invece non è vero!!! Perché è proprio durante la malattia che io ho scoperto come mi volete bene, ma la cosa ancora più commovente è che io sono voluto bene proprio attraverso la mia miseria, la mia fragilità, il mio niente, attraverso il mio peccato. L’affetto che Gesù ha per me e per te è un affetto che attraversa qualsiasi cosa, non è fermato da niente, niente lo può fermare” .
La convinzione che ciò che gli stava accadendo fosse “grazia” era talmente radicata in lui da indurlo a leggere questa condizione come una seconda vocazione, la seconda chiamata di Dio. E “grazia” non perché viene da Dio, ma in quanto modalità con la quale Dio ti conduce nel cammino dell’obbedienza, vissuta da don Savino non come sforzo moralistico o volontaristico, ma come espressione del legame di paternità e di amore che passa anche attraverso la fatica e la prova. Gesù non è andato eroicamente a scegliersi la croce, ma quando è arrivata ha detto “Padre sia fatta la Tua volontà” , volontà che è possibile compiere solo perché chi la chiede è il Padre. In Gesù vince l’obbedienza perché vince il legame con il Padre. Questo convincimento ha costantemente permesso a don Savino di leggere lo svolgersi della sua esistenza con la certezza che tutto ciò che ci è chiesto di vivere è ultimamente un bene per noi, Dio lo permette per la nostra maturità, per la maturazione di coloro che Egli ha chiamati, per il raggiungimento di una pienezza e di una felicità più grandi che sono la “resurrezione” che ogni giorno si compie nella nostra vita. E la maturazione, attraverso la circostanza della prova, per don Savino, è passata anche da una sempre più approfondita comprensione che è solo la “grazia” che opera attraverso di noi fino al punto di dire: “mi sento uno straccio, ma straccio di Dio; ho scoperto ultimamente che Gesù vuole avere bisogno del mio niente, per poter finalmente agire Lui, tanto da poter dire che non ho mai fatto il prete come adesso, che non riesco a fare il prete” . Certo l’uomo di fronte al mistero di questo “strano” operare di Dio si sente piccolo e umile, ma serve fermarsi proprio qui per ritrovare forse l’unica domanda che deve orientare il nostro cuore, quella domanda che è di fatto ricerca instancabile e incessante di Dio, è cioè, nella sua essenza, “mendicanza” di Dio.
A me, che ho accompagnato don Savino negli ultimi due anni, rimane l’invito a non stancarmi mai nel riconoscere in ogni circostanza, anche la più dolorosa e faticosa, e in ogni incontro l’iniziativa di amore che sempre Dio prende verso ciascuno di noi.
L’altro grande insegnamento che mi ha lasciato è proprio il tentativo di risposta da lui dato alla domanda, posta all’inizio, sul misterioso significato dell’esperienza della sofferenza nella nostra vita: è infatti questa la circostanza che costituisce l’orizzonte privilegiato nel quale con maggior evidenza si rivela ciò che è l’essenziale per ciascuno di noi, è lì che meglio comprendiamo ciò che per noi conta davvero, ciò che rimane quando tutto è perduto. E’ proprio questo l’orizzonte nel quale siamo chiamati a riconoscere l’abbraccio di Dio, il quale ci viene incontro attraverso coloro che ci ha messo accanto nel cammino della vita.
Vorrei chiudere il mio intervento leggendovi una riflessione di don Savino sul misterioso legame tra amore e dolore:
“Per l’esperienza che sto vivendo, mi sono accorto, in modo quasi prepotente, che c’è un grido che emerge inesorabile dal cuore di ogni uomo e che mi accomuna a tutti, scoprendoli sorelle e fratelli miei: perché il dolore? Perché la sofferenza? Perché la morte?
Questo grido, quando parte dall’esperienza, facilmente si fa domanda e attesa di una risposta che dia senso a ciò che si sta vivendo.
Gesù, per farmi capire come ama proprio me, si presenta Crocifisso: perché NON SI PUÒ AMARE SENZA SOFFRIRE!
Questo abbraccio tra dolore e amore non potrebbe essere forse la strada per incontrare e raggiungere ogni uomo nelle periferie della esistenza e nel più profondo del suo essere oggi?
Quel Gesù che ci abbraccia dalla Croce non è forse il vero crocevia dell’incontro con l’uomo contemporaneo così smarrito, ma così assetato di un senso, di un significato che risponda all’interrogativo più vero: per che cosa vale la pena vivere? E come si fa a vivere? Intervento di Giuliana Sala all’incontro Il racconto di una sofferenza vissuta alla luce della pasqua di Cristo. Presentazione del libro “Don Savino Gaudio abbracciato da Cristo” Cesano Boscone 7 aprile 2017