Daniela Notarbartolo
27 Gennaio 2019This is the page
27 Gennaio 2019da “Don Candeloro e C.” (1894)
Novelle di Giovanni Verga
– Paggio Fernando sarà lei! – esclamò il signor Olinto, puntando l’indice peloso. – Lei sarà un amore di paggio, parola d’onore! –
Don Gaetanino Longo, rosso dal piacere, seguitò a tormentare i baffetti che non spuntavano ancora, e balbettò:
– Se crede… se le pare…
– E come! e come! – Il capocomico, col pugno sull’anca e il busto all’indietro, colla tuba bisunta sull’orecchio, e il mento ispido in mano, saettando un’occhiata sicura di conoscitore di fra le setole delle sopracciglia aggrottate, continuava a dire:
– Ma sicuro! Lei ha il fisico che ci vuole! Faranno una bella macchia insieme alla mia Rosmunda! –
Allora scoppiarono i malumori e le gelosie fra i dilettanti raccolti intorno al biliardo nel Casino di conversazione. Si udì prima un’osservazione timida, come un sospiro; poscia il coro delle lagnanze: Perché è figliuolo del sindaco!… Perché torna dagli studi col solino alto tre dita!…
– Eh?… Che cosa?… Dicano, dicano pure liberamente. Siam qui apposta per intenderci… fra amici… –
Si fece avanti un giovanotto magro e barbuto, sotto un gran cappellaccio nero, e cominciò:
– Io vorrei… Non dico per la distribuzione delle parti… Non me ne importa… Ma quanto alla scelta della produzione… Mi pare che sarebbe ora di finirla colla camorra…
– Eh? Che dice? Non le piace la Partita a scacchi dell’avvocato Giacosa?… Lavoro applaudito in tutte le piazze!… –
L’altro fece una spallata, e l’accompagnò con un risolino che diceva assai. Don Gaetanino, che pigliava le parti dell’avvocato Giacosa, come si sentisse già sulle spalle la responsabilità della parte affidatagli, tirava grosse boccate di fumo dal virginia lungo un palmo, col cuore alla gola.
– Vediamo. Mi trovi di meglio. Cerchi lei, signor… signor… –
Il giovanotto s’inchinò; cavò fuori dal portafogli un biglietto di visita, e lo presentò, con un altro inchino al signor Olinto.
– Ah! ah! corrispondente della Frusta teatrale e dell’Ape dei teatri?… Felicissimo! Io non domando di meglio che contentare la libera stampa e la pubblica opinione… Vediamo, dica lei. Mi suggerisca, signor… – E tornò a leggere il biglietto di visita.
– Barbetti, per servirla.
– Signor Barbetti, dice lei… Se ci ha sotto mano qualche altra cosa che si adatti meglio al gusto di questo colto pubblico… Qualche lavoro di polso… –
Barbetti si faceva pregare, masticando delle scuse, fingendo di ribellarsi all’amico Mertola, il quale moriva dalla voglia di tradire il segreto dell’amico Barbetti. Infine Mertola non seppe più frenarsi, e alzò la voce, scostandosi dall’amico, additandolo al pubblico per quel grand’uomo che egli era.
– Il lavoro di polso c’è… inedito… la sua Vittoria Colonna!… Gli è costata due anni di lavoro!…
– Ah! ah! – fece il capocomico. – Ah! ah! e me lo teneva nascosto, lei! Non sa ch’io sono ghiotto di simili primizie? –
Barbetti s’arrese infine, e tirò fuori dal soprabitino un rotolo legato con un nastro verde.
– Adesso? – rispose il signor Olinto. – Su due piedi? Che mi canzona, caro lei?… Un lavoro di polso come il suo!… Bisogna vedere… bisogna studiare… Intanto dò un’occhiata… –
Colla schiena appoggiata alla sponda del biliardo e il mento nel bavero di pelliccia, andava sfogliando le pagine, aggrottato, e borbottava:
– Bene, bene!… Effetto scenico!… Bei pensieri!… Stile elevato!… In questa parte la mia signora… Non le dico altro!…
– Con permesso! con permesso! – interruppe il cameriere del Casino, spingendosi avanti a gomitate. – Ecco qui don Angelino e il notaro Lello. Devo preparare il biliardo per la solita partita -.
Il capocomico si cacciò la mazza sotto l’ascella, e raccattò gli scartafacci e i telegrammi sparsi sul panno verde.
– Va bene, va bene, ne riparleremo. Intanto bisogna far girare la pianta -.
Fu il più difficile. I giuocatori di tressette rispondevano picche, e brontolavano contro quel forestiere che portava la iettatura. Seduta stante si dovettero ribassare i prezzi. Ma l’avvocato Longo, sentendo che c’era per aria un dramma dell’avvocato Barbetti, repubblicano e suo avversario nel Consiglio, una gherminella per togliere la parte di Paggio Fernando al suo figliuolo, dichiarò che non dava il teatro per rappresentazioni immorali e sovversive. Il signor Olinto, che andava mostrando la pianta del teatro col cappello in mano, gli disse:
– Ma che! Lei ci crede alla Vittoria Colonna? Una porcheria! Servirà per accendere la pipa. Lasci fare a me che so fare… Me ne trovo tra i piedi una ogni piazza, delle Vittorie!…
– Bene, faccia lei. Ma a buon conto sa che al sindaco spetta un palco, e un altro alla Commissione teatrale, senza contare il tanto per cento sull’introito lordo a beneficio dell’Asilo Infantile -.
Le trattative durarono otto giorni. Il signor Olinto si scappellava con tutto il paese, per rabbonire la gente, e la signorina Rosmunda aiutava dal balcone, civettando, vestita di seta, con un libro in mano, mentre la mamma badava alla cucina. Don Gaetanino Longo, oramai sicuro del fatto suo, aveva confidato all’amico Renna:
– Quella me la pasteggio io! –
E passava e ripassava sotto il balcone, succhiando il virginia, a capo chino, rosso come un pomodoro, lanciando poi da lontano occhiate incendiarie.
Il signor Olinto, che l’incontrava spesso, gli disse infine:
– Voglio presentarti alla mia signora. Così ti affiaterai pure con Jolanda -.
Il tu glielo aveva scoccato a bruciapelo, fin dal primo giorno. Ma quel tratto d’amicizia commosse davvero don Gaetanino. Trovarono la signorina Rosmunda che stava leggendo accanto al lume posato su di un cassone, colla fronte nella mano, la bella mano delicata e bianca che sembrava diafana. Aveva i capelli nerissimi raccolti e fermati in cima al capo da un pettine di tartaruga, un casacchino bianco e un cerchietto d’argento, dal quale pendeva una medaglina, al polso. Da prima alzò il capo arrossendo e fece un bell’inchino al figliuolo del sindaco. Gli occhioni scuri e misteriosi sotto le folte sopracciglia lasciarono filare uno sguardo lungo che gli cavò l’anima, a lui! Ma in quella comparve la mamma infagottata in una vecchia pelliccia, coll’aria malaticcia, un fuoco d’artificio di ricciolini inanellati sulla fronte, e le mani, nere di carbone, nei mezzi guanti.
– Da artisti, alla buona, senza cerimonie – disse il signor Olinto. E cominciò a parlare dei suoi trionfi e delle famose candele che gli dovevano tanti autori che adesso andavano tronfi e pettoruti; e delle birbonate che aveva salvato da un fiasco sicuro, e passavano ora per capolavori.
– Anche quella Vittoria Colonna, vedi, se mi ci mettessi!…
Don Gaetanino assentiva col viso e con tutta la persona. Ma intanto guardava di sottecchi la figliuola, che aveva il viso lungo e il naso del babbo, ingentiliti da un pallore delicato, da una trasparenza di carnagione che sembrava vellutata, dalla polvere di cipria abbondante, e da una peluria freschissima che agli angoli della bocca metteva l’ombra di due baffetti provocanti. Essa di tratto in tratto gli saettava addosso di quelle occhiate luminose che lo irradiavano internamente.
– Ah! anche il signore si occupa?…
– Sì. Non hai inteso? Lui è Paggio Fernando…
Essa allora gli piantò addosso gli occhi e non li mosse più, perché egli vedesse ch’erano proprio belli. Il babbo colse giusto quel momento per passare in cucina; e don Gaetanino, sentendo di dover spifferare qualche cosa, balbettò col cuore che battevagli forte:
– Signorina!… son fortunato!… davvero!…
– Oh! Che dice mai?… Piuttosto io!…
– Il bicchiere dell’amicizia! – interruppe il signor Olinto tornando con una bottiglia in mano e gli occhi già accesi. – Da artisti, alla buona. Scuserai… Non abbiamo mica il buon vino che bevete voi altri proprietari del paese… –
La ragazza non volle bere. Il giovanetto, per cortesia, bagnò appena le labbra in quell’aceto, dicendole:
– Alla sua salute! –
Essa alzò gli occhi su di lui, e lo ringraziò con quella sola occhiata.
– Divino!… Squisito! – sentenziò don Gaetanino, che non sapeva più quel che si dicesse. – Vi manderò domani un po’ di quel vecchio… Questo qui è eccellente… Non c’è che dire… Ma domani… –
La mamma voleva protestare. Il marito le chiuse la parola in bocca:
– Per qualche bottiglia di vino… Non è un gran male. Non è un regalo di valore. Fra amici… pel bicchiere dell’amicizia. Già verrai a berlo anche tu… la sera, quando non avrai altro da fare… intanto vi affiaterete con Jolanda -.
Jolanda appoggiò l’invito con un’altra occhiata, e Paggio Fernando balbettò:
– Sì!… certamente!… felicissimo!… –
Stava poi per rompersi l’osso del collo quando imboccò la botola della scaletta. Fuori c’era un bel chiaro di l’una, una striscia d’argento fredda e silenziosa che divideva la strada in due. Egli camminava in quella striscia d’argento, col piede leggiero, il cervello spumante, il virginia rivolto al cielo, il cuore che batteva a martello, e gli diceva: – E’ tua! è tua! –
A casa trovò una lavata di capo per l’ora tarda, e andò a letto senza cena. Il povero giovane passò una notte deliziosa, cogli occhi sbarrati nel buio, a veder pettini di tartaruga e occhiate lucenti che illuminavano la camera. Appena uscito, il giorno dopo, provò subito una smania di correre dall’amico Renna.
– Una divinità, caro mio! Una cosa da ammattire! –
Renna, ch’era indiscreto, volle sapere a che punto fossero le cose, e lo costrinse a inventare dei particolari.
– Benone! – conchiuse. – Sai però cosa ti dico? Alla lesta! Non perdere il tempo a filare il sentimento. Già è donna di teatro; non ti dico altro!
– Io?… Filare il sentimento?… – borbottò Gaetanino, quasi reputandosi offeso. – Vedrai!…
Ma il signor Olinto era lì ogni sera, a fumare la pipa e centellinare il vino dell’amicizia. Quando lui usciva a prender aria poi, la mamma, che stava appisolata in un cantuccio, collo scaldino sotto le sottane, apriva un occhio. Filavano le occhiate, del resto, che era uno struggimento, e le pedate sotto la tavola, e il fuoco e l’accento di certe frasi, alle prove:
Io ti guardo negli occhi che son tanto belli!!!
– Così – esclamava il capocomico, picchiando della mazza per terra. – Faremo saltare in aria il teatro! –
Intanto quel briccone di Barbetti metteva dei bastoni nelle ruote. Erano giunte due copie della Frusta teatrale con un articolaccio che diceva ira di Dio della camorra letteraria ed artistica, e fecero il giro del paese. La pianta del teatro rimaneva mezzo vuota. Don Gaetanino, per onore di firma, dovette prendere un palco ad insaputa del genitore. C’erano pure delle altre nubi in quel cielo azzurro. Il vino vecchio scorreva com’olio; e l’amico Olinto qualche volta, conducendolo a braccetto per le strade remote, gli faceva delle confidenze:
– Sono sulle spese… Otto giorni inoperoso sulla piazza… La recita non va… – Don Gaetanino dovette carpire le chiavi del magazzino e vendere del grano di nascosto.
Intanto il capocomico, per rabbonire il corrispondente della Frusta teatrale e dell’Ape dei teatri, aveva tirato in casa pur lui, a studiare Vittoria Colonna, insieme alla sua signora e alla ragazza. Quando don Gaetanino trovò anche Barbetti installato accanto alla Rosmunda, col cappellaccio in testa e il bicchiere in mano, fece tanto di muso, e andò a sedere in disparte.
– Lei mi deve fare entrare Vittoria alla terza scena – stava dicendo il capocomico. – C’è più interesse e movimento. Un valletto solleva la tenda, giusto all’ultima battuta mia: «sulla tua corona superba, il mio piede sovrano di pezzente!…» e comparisce lei, bella, maestosa, imponente… –
E così dicendo additò la sua signora. Costei al richiamo spalancò gli occhi di botto, e si rizzò sulla vita, col viso di tre quarti, e un sorriso sospeso all’angolo della bocca. Rosmunda finse di dover andare di là, e passando vicino a don Gaetanino disse piano:
– Che seccatore!…
– No! – ribatté Barbetti solennemente. – Non muto neppure una virgola! Mi farei tagliare la mano piuttosto!
– Ah! Bene! bene! Questo si chiama aver coscienza artistica! Non come tanti altri che magari vi aggiungono o tagliano degli atti intieri… quasi fosse un giuoco di bussolotti!… Mi pareva soltanto… pel movimento scenico… per l’interesse… per la pratica che ci ho!… Ma già, lei è il miglior giudice. Alla sua salute! –
Don Gaetanino vedeva nell’altra stanza lampeggiare al buio gli occhi della Rosmunda, la quale si voltava a guardarlo di tanto in tanto. Poi essa ritornò con un lavoro all’uncinetto e gli si mise allato.
– Che hai, Paggio Fernando?… – gli chiese sottovoce, con una musica deliziosa nella voce, e i begli occhi chini sul lavoro.
Allora senza curarsi di Barbetti, senza curarsi di nessuno, egli le disse il suo segreto, col viso acceso, colle parole calde che le balbettava all’orecchio come una carezza. Essa chinavasi sempre più sul lavoro, quasi vinta, scoprendo la nuca bianca. Poscia si sollevò con un sospiro lungo di cui non si udì il suono, appoggiando le spalle alla seggiola, colle mani abbandonate sul grembo, la testa all’indietro, il viso pallido, la bocca semiaperta, gli occhi languidi di dolcezza che si fissavano su di lui.
Ma quello sfacciato di Barbetti non se ne dava per inteso. Sembrava anzi che si pigliasse da sé la sua parte di confidenza e d’intimità in casa dei comici. Era lì ogni sera, stuzzicando la ragazza a fare il chiasso, bevendo il vino di don Gaetanino, giuocando a briscola col signor Olinto, sparlando di questo e di quello. – Da artisti! Una vita quieta e tranquilla, che si sarebbe dimenticato volentieri di cercar le piazze e le scritture, in quell’angolo del mondo! – diceva il capocomico. Quando non c’era l’amico Barbetti, faceva dei solitari, o si esercitava in certi giuochi di mano coi quali aveva messo sossopra dei teatri. Don Gaetanino, purché lo lasciassero quieto nel suo cantuccio, portava nelle tasche del cappotto salsicciotti e altri salumi, che piacevano tanto alla mamma, felicissimo quando poteva starsene insieme alla Rosmunda, colle mani intrecciate, guardandosi negli occhi, spasimando di desiderio, e volgendo le spalle agli altri.
– Eh? a che punto siamo? – chiedeva il Renna di tanto in tanto. Don Gaetanino rispondeva con un sorriso che voleva sembrar discreto.
– Ma c’è sempre Barbetti?
– Ci vado di notte… – confessò finalmente Gaetanino facendosi rosso, – dalla finestra!… –
Tutto il paese sapeva ch’egli era l’amante della «prima donna» e papà Longo sequestrò le chiavi della dispensa, vedendo diradare i salsicciotti appesi al solaio, e avendo anche dei sospetti quanto al grano e al vino vecchio. Fu un affare serio, poiché l’orologio d’argento messo in pegno non durò neanche quarantott’ore. Per giunta il povero don Gaetanino era geloso di quella bestia di Barbetti, il quale colla Rosmunda si pigliava troppa libertà, senza educazione, subito in confidenza, con quelle manacce sudice sempre per aria, e le barzellette salate che facevano ridere la ragazza. Due o tre volte, giungendo prima dell’ora solita, li aveva trovati a tavola tutti quanti, mangiando e bevendo alla sua barba. Vero è che Rosmunda si era alzata subito, con un pretesto, ed era venuta a dirgli in un cantuccio:
– Quel seccatore!… L’ho sempre fra i piedi! –
Le prove tiravano in lungo, come la vendita dei biglietti per la serata. Il signor Olinto passava le giornate dal barbiere, al caffè, nelle spezierie, dando anche la sera una capatina nel Casino di conversazione, cavando fuori ogni momento la pianta, fermando la gente per le strade col cappello in mano. Aveva pure radunata una Commissione, «senza colore politico», per proteggere la serata, il presidente della Società operaia insieme al vice pretore, i quali avevano accettato soltanto per godersi la Partita a scacchi gratis. A Barbetti poi diceva, con una strizzatina d’occhi che doveva chetarlo:
– Abbi pazienza! Prima bisogna adescare il pubblico con quella roba lì! Più tardi poi… se abboccano… fuoco alla grossa artiglieria! E diamo mano all’arte sul serio! –
Perciò ogni mattina alle 10, tutti in teatro per le prove: lui gesticolando colla canna d’India in mano e predicando dentro il bavero di pelo; la sua signora, come una marmotta, colla sciarpa di lana intorno al capo; Rosmunda col nasino rosso sul manicotto di pelle di gatto, e la veletta imperlata dal freddo.
– Là! Fatemi suonare quei versi! –
Oh! Ma non sai, Jolanda, che ho giuocato la vita?
– Flon! flon! flon! La gamba un po’ più avanti! La mani sul petto! Viva quella mano, perdio! che palpiti e frema! Tu sei innamorato della mia ragazza… –
Il fatto è che a dirglielo in versi dinanzi a tanta gente, don Gaetanino diventava un minchione. C’erano pure gli altri dilettanti, in posizione, ad aspettare la loro battuta colla bocca mezzo aperta, e il cappellaccio di Barbetti che andava svolazzando al buio per la platea, come un uccello di malaugurio.
Jolanda al contrario, padrona di sé e del palcoscenico, si muoveva come una regina, agitava drammaticamente il manicotto, si piantava sull’anca, col seno palpitante, il torso audace, gli occhi stral’unati sotto la veletta.
Tu giungesti, Fernando, tu che sei forte e bello.
E una voce nell’anima mi gridò tosto: E’ quello!…
– Perdio! Porca fortuna! – il babbo picchiava con forza il bastone sulle tavole. – Un insieme come questo!… Il pubblico balzerà in piedi, vi dico!… Dove me lo trovate?… Li tengo negli stivali tutti quei cavalieri e commendatori, quanto a saper mettere in scena!… E’ che la fortuna!… –
Allora se la pigliava colla cabala, col gusto corrotto del pubblico, coi tempi che non dicevano, e deplorava che ora si corra dietro all’apparato, ai vestiti delle prime attrici, roba che non ha nulla a fare coll’arte, anzi che la corrompe. Un’artista, per contentare tutti al giorno d’oggi deve fare quel mestiere!
Don Gaetanino, mortificato, scusavasi col dire:
– Sicuro… quando avrò il costume… Adesso, con questi abiti… mi sento tutto… –
Finalmente, papà Longo sequestrò anche le chiavi del magazzino. Allora il signor Olinto accorciò le prove. A Barbetti, che gli ronzava sempre intorno colla Vittoria Colonna, disse chiaro e tondo:
– Mio caro, se mi dai teatro pieno, volentieri… Ma se no, salutami tanto donna Vittoria. Da tre settimane son qui sulle spese! –
Sembrava che la sera della recita alla Rosmunda le parlasse il cuore. Nervosa, irrequieta, correndo ogni momento dinanzi allo specchio per darsi un po’ di cipria, o per accomodarsi meglio la parrucca bionda.
Appena i tre violini della Filarmonica attaccarono il valzer di Madama Angot, essa stessa si buttò singhiozzando nelle braccia di Paggio Fernando, il quale aspettava dietro una quinta, irrigidito, e lo baciò sulla bocca, lievemente, tenendolo discosto per non sciupare il belletto.
– Che hai, Rosmunda?…
– Ora andremo via… fra qualche giorno!… Non ci vedremo più! –
Comparve all’improvviso il babbo, come uno spettro, infarinato, bianco di pelo, colle calze bianche della moglie tirate sulle polpe, e due ditate nere sotto gli occhi: – Ragazzi! attenti! Fuori di scena! –
Andò a rotta di collo la Partita a Scacchi. Sia che ci fosse «il partito contrario»; sia che Paggio Fernando, con quei stivaloni e quella penna di struzzo dinanzi agli occhi, perdesse la tramontana. Incespicò, s’impaperò, batté i piedi in terra, tornò da capo: insomma un precipizio. L’amico Olinto, bestemmiando nel barbone di bambagia, gli faceva degli occhiacci terribili. Jolanda fu lì lì per isvenire. Barbetti e tre o quattro amici suoi dal cappellaccio repubblicano, in piedi addirittura fischiavano come locomotive. La mamma di don Gaetanino e tutto il parentado se ne andarono prima che calasse la tela. Il Sindaco, furibondo, voleva fare arrestare tutti quanti.
Ma fu peggio il giorno dopo, quando il povero innamorato, di sera, pigliando le strade fuori mano, andò a trovare la Rosmunda, con tanto di muso e bisbetica, che gli fece appena la carità di un’occhiata e di una parola. Meno male l’amico Olinto, che non ne parlava più e badava soltanto a fare i conti dello spesato, e con Barbetti, il quale prometteva mari e monti, e aveva di nuovo intavolato il discorso della Vittoria.
– Se avessi dato retta a me!… Quella è roba che fa ridere oramai… Non parlo per l’esecuzione… –
Più di una volta, in quella sera disgraziata, don Gaetanino accarezzò l’idea del suicidio. Girovagò sin tardi per le strade buie come l’inferno. Andò a chinarsi sul parapetto del Belvedere, scivolando sui mucchi di sterro, colla morte nell’anima. Da per tutto, nella vallata scura e sinistra, nel cielo nuvoloso, sugli usci neri, vedeva il viso di lei rigido e chiuso; la vedeva ancora colla parrucca bionda e il bacio sulle labbra di carminio. Non chiuse occhio tutta la notte, tormentato da quella visione implacabile, colle stesse parole di Paggio Fernando che gli martellavano le tempie, ridicole, simili agli sghignazzamenti della platea, che gli facevano cacciare il capo disperatamente fra i guanciali.
Poi, come tutto passa, anche Rosmunda si calmò; il padre stesso di lei venne a cercarlo sin nella strada. Ricominciarono a far girare la pianta, e parlare di un’altra recita con un «lavoro originale di penna paesana».
Il capocomico e Barbetti tornarono a passar la sera discorrendo di Vittoria Colonna, egli e Rosmunda parlando di tutt’altro, a quattr’occhi, in un cantuccio, tenendosi le mani, benedicendo a quella Vittoria che tratteneva ancora in paese papà Olinto e la sua ragazza. Ma la gente non voleva più saperne di mettere mano alla tasca per simili sciocchezze. Il teatro rimaneva quasi vuoto. Barbetti seguitava a pigliarsela colla camorra, e don Gaetano era indebitato sino agli occhi. Infine suo padre, vedendo che quella musica non cessava, ed egli rischiava davvero di perdere il figliuolo che già gli si ribellava contro, tanto era innamorato, prese un partito eroico: salassò il bilancio comunale di un centinaio di lire, raccolse un altro gruzzolo per contribuzione, e mandò i denari ai comici per le spese del viaggio.
Che agonia l’ultima sera! Che schianto mentre Rosmunda preparava i bauli colle mani tremanti, e la mamma faceva friggere in cucina un po’ di pesce per la cena d’addio! Don Gaetanino seguì la Rosmunda anche lì, dinanzi alla mamma che voltava le spalle, tenendola per mano, appoggiati al muro tutti e due, la ragazza singhiozzando forte come una bambina, nei brevi istanti che la mamma discretamente li lasciava soli.
– Addio!… per sempre!… Non ci vedremo più!… Sempre così!… sempre così!… –
Ora gli parlava a cuore aperto, lamentandosi a voce alta, a rischio d’essere udita dal Barbetti. Che gliene importava? Non si sarebbero visti mai più! così era stato sempre, tutta la sua vita, da un paese all’altro, ogni due o tre settimane uno strappo al cuore, appena il cuore si attaccava a qualcuno…
– Ti ho voluto bene, sai! Tanto bene! tanto! – E lo guardava fisso, accennando anche col capo, cogli occhi pieni di lagrime.
L’amico Olinto, baciandolo sulle due guance, coi baffi ancora umidi di salsa, gli disse all’ultimo momento:
– Arrivederci, Paggio Fernando! Le montagne sole non si muovono. Chissà!… Rammentati l’amico Olinto, in giro pel mondo, e viva l’allegria! –
Don Gaetanino Longo rimase Paggio Fernando: nel paese, all’Università, più tardi, quando vinse il concorso di notaio, consigliere comunale, maritato, padre di famiglia: Paggio Fernando! E la moglie, per giunta, gelosa come una tigre per quel soprannome che gli faceva sospettare non so che infedeltà.
Dopo un gran pezzo, a Roma, dove aveva accompagnato il Sindaco per certo affare del municipio, rivide in teatro la Rosmunda, accl’amata, festeggiata, tutti gli occhi su di lei, tutte le mani che l’applaudivano. Provò un tuffo nel cuore, soffiandosi il naso come una trombetta, coi lucciconi di tanti anni addietro che gli tornavano agli occhi. Ma Renna, segretario comunale, ch’era con lui nello stesso palco, se la rideva invece nella barba grigia; e Severino, il suo ragazzo, di già alto così, gli fece capire quant’era sciocco.
– Guarda, papà che piange! Se è tutta una finzione!… –
I ragazzi al giorno d’oggi hanno più giudizio dei vecchi.