Daniela Notarbartolo
27 Gennaio 2019This is the page
27 Gennaio 2019da “Racconti e bozzetti” (1880-1922)
Novelle di Giovanni Verga
Qui, quando la città è più festosa e la folla più allegra, penso alla campagna lontana, laggiù, fra i miei monti, dietro il mare azzurro.
Penso ai sentieri verdeggianti, alle siepi odorose, alle lodole che brillano al sole, alla canzone solitaria che sale dai campi, monotona e triste come un ricordo d’altre patrie.
Penso a quell’ora dolce del tramonto, quando l’ultimo raggio indora le nevi della montagna, e il fumo svolgesi dai casolari, e le campane degli armenti risuonano nella valle, e la campagna si nasconde lentamente nella notte.
Penso a quell’ora calda di luglio quando il sole innonda la pianura riarsa, e il cielo fosco di caldura sembra pesare sulla terra, e il grillo nelle stoppie canta la canzone dell’ora silenziosa.
Penso alle notti profonde, alle lucciole innamorate, al coro dei vendemmiatori, al rumore lontano dei carri che sfilano nella pianura odorosa di fieno, ai cespugli immobili e neri come spettri nel raggio misterioso della luna.
Penso alle lunghe notti d’inverno spazzate dal vento e dagli acquazzoni, agli alberi che gemono nel temporale, e vi raccontano fantastiche storie cui sorridono gli occhi dei vostri cari, raccolti intorno alla lampada domestica.
Penso alla mia fanciullezza, che sembra sia tutta trascorsa in quella nota campagna; penso a quei colli, a quei valloni, a quei sentieri, a quella fontana, davanti alla quale è passata tanta gente, che veniva da lontano, a quel cespuglio su cui moriva il sole d’autunno quel giorno in cui vi passaste anche voi, con me, per l’ultima volta.
Quest’ultimo raggio di sole che mi è rimasto in cuore come un addio, come la vaga angoscia dei giorni spensierati dell’infanzia, che ci fa presentire le amarezze della vita, con un senso di vaga e dolorosa dolcezza.
Penso a quel sasso in cui ho segnato il primo amore de’ miei tredici anni, quando non conoscevo ancora altri dolori all’infuori di quelli creatimi dalla mia fantasia.
Ora che il dolore so cosa sia, il dolore vero, quelle che vi immerge le unghie nella carne viva e vi ricerca le fibre del cuore, quello che vi divorava le lagrime, le sensazioni e le idee, quando la morte entrò nella vostra casa…; penso ancora a quei luoghi, a quelle scene serene che vi tornano dinanzi agli occhi feroci come un’ironia nell’ora terribile di quell’angoscia; penso al muricciolo di quella fontana al quale si sono appoggiati quelli che non son più, a quell’erba che si è piegata sotto i loro passi, a quelle pietre sulle quali si sono messi a sedere.
Ora l’erba è morta anch’essa, ed è risorta tante volte. Il sole l’ha bruciata, e la pioggia fatta rinascere. Quando le nuove gemme hanno verdeggiato nella siepe lì accanto, ne’ bei giorni d’aprile, essi non sapevano più nulla di voi, miei cari!
Io che sono rimasto, penso a quell’erba che non è più la stessa, a quelle pietre che dureranno ancora, mentre voi siete passati su di loro – e per sempre; penso che dell’altra erba spunta e muore fra le pietre della vostra fossa; e quando penso che lo strazio feroce di questo dolore non è più così vivo dentro di me, che ogni strappo dell’anima lentamente va rimarginandosi, mi viene uno sconforto amaro, un senso desolato del nulla, d’ogni cosa umana, se non dura nemmeno il dolore, e vorrei sdraiarmi su quell’erba, sotto quei sassi, anch’io nel sonno, nel gran sonno.