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Pippo Fava
Con rare eccezioni, Catania è una città che, un po’ per calcolo un po’ per orgoglio, non accetta l’evidenza della supremazia mafiosa e lo dimostra il comportamento tenuto in occasione del delitto Fava (5 gennaio 1984). Giuseppe Fava è un giornalista alle soglie dei sessant’anni. L’hanno definito il «poeta con il pallone» a causa di uno smisurato amore per il calcio. Fava non è un poeta, anzi è un siciliano di forte temperamento, calato nella realtà. Gli piace la vita, gli piacciono la Sicilia, le sue spiagge, il mare, il sole, quei profumi intensi che sollecitano passioni altrettanto intense. E stato a lungo il capocronista di un giornaletto del pomeriggio (Espresso sera). Tra il 1967 e il 1968 una sua inchiesta sulla mafia, ospitata da La Sicilia, ha scatenato nei licei cittadini travolgenti dibattiti e tormentate prese di coscienza. Fava ha scritto romanzi, saggi, opere teatrali. Ha l’alone dell’uomo di successo, conta ammiratori nella Catania popolare e nella Catania colta, che rimpiange l’epoca di Verga e Brancati. La maturità lo ha condotto su posizioni di accanita contestazione. Dopo l’esperienza di un quotidiano (Il Giornale del Sud) vissuto poco e male – il vero proprietario era uno dei Cavalieri del Lavoro, Graci -, Fava ha fondato un periodico (I siciliani) sul quale conduce battaglie spericolate e solitarie. La sua forza non sono le inchieste o gli approfondimenti, non possiede la pazienza necessaria per le ricerche, ma la straordinaria capacità di dare spessore alle denunce. Con Fava la mafia catanese da problema locale diviene problema nazionale.
In quell’inizio dell’84, Catania è lontanissima da Palermo, dal pool di Caponnetto, dagli implacabili sceriffi, Cassarà e Montana. Vive la sua stagione dell’ambiguità, nessuno ha voglia di rompere la crosta che protegge la città e soprattutto le tresche degli imprenditori, dei politici, del clan Santapaola. I nemici di Fava lo sbeffeggiano dicendo che le sue sono cantate alla luna. Fosse anche vero, e non lo è, significa che la città che ama gli «sperti» diventa estremamente permalosa persino per un’innocua cantata alla luna. Fava non è un poliziotto, non è un magistrato, non ha prove, tuttavia capta la morsa che sta strangolando la «sua» Catania, di cui lui continua a coltivare un’idea romantica, legata a un passato che forse, neppure in questo caso, è mai esistito. Il Tempo Galantuomo si è incaricato di dargli ragione su quasi tutto, persino sulle denunce che parevano più avventate, come quelle sulle infiltrazioni mafiose nelle basi NATO. Fava, al pari di La Torre, aveva segnalato il pericolo che gli appalti miliardari di Comiso, dove furono dispiegati i Cruise in risposta agli SS20 sovietici, ingrassassero le finanze di Cosa Nostra. Gli arresti del dicembre ’97 hanno dimostrato che a Sigonella, rimasta in funzione dopo la chiusura di Comiso, agiva una lobby composta da funzionari statunitensi e da uomini del clan Santapaola.
I cinque colpi di pistola che in una sera piena di pioggia e di freddo spengono Fava spezzano in due la città. I pochi amici, gli scatenati ragazzi della redazione, quanti accettano l’evidenza e respingono le favole, tutti costoro, che sono poi un’esigua minoranza, intuiscono e gridano a squarciagola che è un delitto mafioso. La Catania ufficiale traccheggia. II palazzo di giustizia, il municipio, la questura, il comando dei carabinieri, con la scusa che le indagini non escludono alcuna pista, cercano altro. Cercano un appiglio, il quale consenta di stabilire che la mafia non c’entra niente, non fosse altro perché “a Catania la mafia non esiste”. Ciò che dieci anni dopo diventerà verità incontrovertibile nell’84 è lontanissimo da ogni accertamento. Nelle tante cronache dell’omicidio non una volta appare il nome di Nitto Santapaola, che poi sarà riconosciuto mandante della morte di un giornalista, che però aveva dato fastidio ad altri, i cui nomi restano nell’ombra.
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