Il mito del carro alato, descritto da Platone nel dialogo Fedro, è una potente allegoria che illustra la natura dell’anima, il suo rapporto con il mondo delle Idee e il viaggio verso la conoscenza e la virtù.
Attraverso immagini simboliche, Platone esplora l’eterna tensione tra razionalità e istinto, e il desiderio dell’anima di elevarsi verso il divino.
La struttura del mito
L’anima è paragonata a un carro alato guidato da un auriga e trainato da due cavalli di natura opposta:
- L’auriga rappresenta la ragione (logos), la parte razionale dell’anima che cerca di controllare e guidare i cavalli.
- Il cavallo bianco simboleggia l’aspetto nobile e razionale dell’anima (thymos), associato all’onore, alla volontà e alla virtù.
- Il cavallo nero rappresenta l’impulso irrazionale (epithymia), legato ai desideri, agli istinti e alle passioni materiali.
L’auriga cerca di mantenere l’equilibrio tra i cavalli, ma il contrasto tra loro rende il compito difficile.
L’anima e l’Iperuranio
Nel mito, tutte le anime hanno ali che consentono loro di volare fino all’Iperuranio, il regno delle Idee:
- Nell’Iperuranio si trovano le verità eterne: le Idee, la Giustizia, la Bellezza e soprattutto l’Idea del Bene, che è il culmine della realtà e della conoscenza.
- Le anime cercano di contemplare queste realtà perfette, ma il viaggio è arduo:
- Le anime dominate dalla ragione riescono a sollevarsi e a contemplare le Idee.
- Quelle dominate dal cavallo nero si appesantiscono, perdono le ali e cadono verso il mondo sensibile.
La caduta dell’anima e la reincarnazione
Le anime che non riescono a contemplare le Idee cadono nel mondo sensibile e si incarnano nei corpi:
- Il grado di conoscenza raggiunto nell’Iperuranio determina la natura della vita terrena.
- L’anima umana, che ha avuto una visione parziale delle Idee, conserva un ricordo confuso di esse. Questo ricordo (anamnesi) può essere risvegliato attraverso la filosofia, che guida l’anima verso la verità.
Eros come forza di elevazione
Platone lega il mito al tema dell’amore (eros):
- L’amore è il desiderio di bellezza, che spinge l’anima a ricordare ciò che ha contemplato nell’Iperuranio.
- L’amore terreno, quando guidato dalla ragione, può trasformarsi in un amore spirituale che conduce verso l’Idea della Bellezza e del Bene.
Il significato filosofico del mito
- L’anima come tripartita: Il mito descrive la complessità dell’anima, divisa tra impulsi irrazionali e tensioni razionali, anticipando la teoria delle tre parti dell’anima sviluppata nella Repubblica.
- La tensione tra sensibile e intelligibile: L’anima oscilla tra il mondo materiale, dominato da desideri e passioni, e il mondo delle Idee, dove si trovano la verità e la perfezione.
- La filosofia come guida: Solo attraverso la ragione e la filosofia l’anima può tornare alla contemplazione delle Idee e liberarsi dalle catene del mondo sensibile.
Conclusione
Il mito del carro alato è un’immagine straordinariamente potente della condizione umana. Platone ci invita a riconoscere la tensione tra le forze opposte che agiscono in noi e a utilizzare la ragione e la filosofia per dirigere l’anima verso la verità, la bellezza e il bene.
Schema sintetico di studio
– Mito del carro alato (spiega come è fatta l’anima umana)
» originariamente l’anima viveva presso gli dei, in comunione e condivisione con le Idee
» cade nel corpo sulla terra per una colpa originaria (ripresa della cultura orfica)
» anima è come un carro alato, in cui emerge una tripartizione dell’anima
1. auriga » simboleggia la ragione umana
2. cavallo bianco » è quello di razza pura, mansueto, buono, facile da comandare
» rappresenta la parte concupiscibile dell’uomo
3. cavallo nero » è quello di cattiva razza, cattivo, testardo, che va dove gli pare
» rappresenta la parte irascibile dell’uomo, attaccata alla materia, istintiva
» dei hanno una biga con due cavalli della stessa razza, pura, perfetta, buona (anime perfette)
» la guida della pariglia alata per gli uomini è più difficile perché l’auriga deve essere in grado di
dare retta ad entrambi i cavalli e nello stesso tempo riuscire a vedere il più possibile le Idee
» morto il corpo, l’anima si eleva al cielo come un carro alato, e seguono i carri degli dei
» dopo un tragitto volando per le strade del cielo per arrivare con gli dei fino alla sua sommità per
contemplare il mondo dell’Iperuranio (cioè la pianura della verità, come dice Platone)
» arrivati ad una salita, le anime che non riescono a governare il cavallo nero, che spinge verso il
basso, contrapposto a quello bianco che spinge verso l’alto, si ammassano e azzuffano per
risalire, ma poi ricadonosulla terra aggrappandosi di nuovo a corpi materiali
» il cavallo nero delle anime moralmente più perfette è più governabile; contemplano meglio e per
più tempo le Idee, determinando così il tenore di vita successiva, della prossima incarnazione
» nel Fedro Platone ci precisa che le anime che per tre vite consecutive hanno vissuto secondo la
filosofia, godono di una sorte privilegiata, restando tremila anni presso un luogo nell’Iperuranio,
però diverso da quello in cui le anime vivono con gli dei
Testo del mito, tratto dal Fedro
Fedro, 246 a-249d
1 [246 a] […] Dell’immortalità dell’anima s’è parlato abbastanza, ma quanto alla sua natura c’è
questo che dobbiamo dire: definire quale essa sia, sarebbe una trattazione che assolutamente solo un
dio potrebbe fare e anche lunga, ma parlarne secondo immagini è impresa umana e più breve.
Questo sia dunque il modo del nostro discorso. Si raffiguri l’anima come la potenza d’insieme di
una pariglia alata e di un auriga. Ora tutti i corsieri degli dèi e i loro aurighi [b] sono buoni e di
buona razza, ma quelli degli altri esseri sono un po’ sí e un po’ no. Innanzitutto, per noi uomini,
l’auriga conduce la pariglia; poi dei due corsieri uno è nobile e buono, e di buona razza, mentre
l’altro è tutto il contrario ed è di razza opposta. Di qui consegue che, nel nostro caso, il compito di
tal guida è davvero difficile e penoso. Ed ora bisogna spiegare come gli esseri viventi siano
chiamati mortali e immortali. Tutto ciò che è anima si prende cura di ciò che è inanimato, e penetra
per l’intero universo assumendo secondo i luoghi forme [c] sempre differenti. Cosí, quando sia
perfetta ed alata, l’anima spazia nell’alto e governa il mondo; ma quando un’anima perde le ali, essa
precipita fino a che non s’appiglia a qualcosa di solido, dove si accasa, e assume un corpo di terra
che sembra si muova da solo, per merito della potenza dell’anima. Questa composita struttura
d’anima e di corpo fu chiamata essere vivente, e poi definita mortale. La definizione di immortale
invece non è data da alcun argomento razionale; però noi ci preformiamo il dio, [d] senza averlo
mai visto né pienamente compreso, come un certo essere immortale completo di anima e di corpo
eternamente connessi in un’unica natura. Ma qui giunti, si pensi di tali questioni e se ne parli come
è gradimento del dio. Noi veniamo a esaminare il perché della caduta delle ali ond’esse si staccano
dall’anima. Ed è più o meno in questo modo.
2 La funzione naturale dell’ala è di sollevare ciò che è peso e di innalzarlo là dove dimora la
comunità degli dèi; e in qualche modo essa partecipa del divino più delle altre cose che hanno
attinenza con il corpo. Il divino è [e] bellezza, sapienza, bontà ed ogni altra virtú affine. Ora,
proprio di queste cose si nutre e si arricchisce l’ala dell’anima, mentre dalla turpitudine, dalla
malvagità e da altri vizi, si corrompe e si perde. Ed eccoti Zeus, il potente sovrano del cielo,
guidando la pariglia alata, per primo procede, ed ordina ogni cosa provvedendo a tutto. A lui vien
dietro l’esercito degli dèi e dei demoni ordinato in undici [267 a] schiere: Estia rimane sola nella
casa degli dèi. Quanto agli altri, tutti gli dèi, che nel numero di dodici sono stati designati come
capi, conducono le loro schiere, ciascuno quella alla quale è stato assegnato. Varie e venerabili sono
le visioni e le evoluzioni che la felice comunità degli dèi disegna nel cielo con l’adempiere ognuno
di essi il loro compito. Con loro vanno solo quelli che lo vogliono e che possono, perché l’Invidia
non ha posto nel coro divino. Ma, eccoti, quando si recano ai loro banchetti e festini, salgono [b] per
l’erta che mena alla sommità della volta celeste; ed è agevole ascesa perché per le pariglie degli dèi
sono bene equilibrate e i corsieri docili alle redini; mentre per gli altri l’ascesa è faticosa, perché il
cavallo maligno fa peso, e tira verso terra premendo l’auriga che non l’abbia bene addestrato. Qui si
prepara la grande fatica e la prova suprema dell’anima. Perché le anime che sono chiamate
immortali, quando sian giunte al sommo della volta celeste, si spandono fuori e si librano sopra il
dorso del cielo: e l’orbitare del cielo le trae attorno, cosí librate, ed esse [c] contemplano quanto sta
fuori del cielo.
3 Questo sopraceleste sito nessuno dei poeti di quaggiú ha cantato, né mai canterà degnamente.
Ma questo ne è il modo, perché bisogna pure avere il coraggio di dire la verità soprattutto quando il
discorso riguarda la verità stessa. In questo sito dimora quella essenza incolore, informe ed
intangibile, contemplabile solo dall’intelletto, pilota dell’anima, quella essenza che è scaturigine
della [d] vera scienza. Ora il pensiero divino è nutrito d’intelligenza e di pura scienza, cosí anche il pensiero di ogni altra anima cui prema di attingere ciò che le è proprio; per cui, quando finalmente
esso mira l’essere, ne gode, e contemplando la verità si nutre e sta bene, fino a che la rivoluzione
circolare non riconduca l’anima al medesimo punto. Durante questo periplo essa contempla la
giustizia in sé, vede la temperanza, e contempla la scienza, ma non quella [e] che è legata al
divenire, né quella che varia nei diversi enti che noi chiamiamo esseri, ma quella scienza che è
nell’essere che veramente è. E quando essa ha contemplato del pari gli altri veri esseri e se ne è
cibata, s’immerge di nuovo nel mezzo del cielo e scende a casa: ed essendo cosí giunta, il suo
auriga riconduce i cavalli alla greppia e li governa con ambrosia e in più li abbevera di nettare.
4 [248 a] Questa è la vita degli dèi. Ma fra le altre anime, quella che meglio sia riuscita a tenersi
stretta alle orme di un dio e ad assomigliarvi, eleva il capo del suo auriga nella regione superceleste,
ed è trascinata intorno con gli dèi nel giro di rivoluzione; ma essendo travagliata dai suoi corsieri,
contempla a fatica le realtà che sono. Ma un’altra anima ora eleva il capo ora lo abbassa, e subendo
la violenza dei corsieri parte di quelle realtà vede, ma parte no. Ed eccoti, seguono le altre tutte
agognanti quell’altezza, ma poiché non ne hanno la forza, sommerse, sono spinte qua e là e
cadendosi addosso si calpestano a vicenda nello sforzo di sopravanzarsi l’un l’atra. Ne conseguono
[b] scompiglio, risse ed estenuanti fatiche, e per l’inettitudine dell’auriga molte rimangono sciancate
e molte ne hanno infrante le ali. Tutte poi, stremate dallo sforzo, se ne dipartono senza aver goduto
la visione dell’essere e, come se ne sono allontanate, si cibano dell’opinione. La vera ragione per
cui le anime si affannano tanto per scoprire dove sia la Pianura della Verità è che lí in quel prato si
trova il pascolo congeniale alla parte migliore dell’anima [c] e che di questo si nutre la natura
dell’ala, onde l’anima può alzarsi. Ed ecco la legge di Adrastea. Qualunque anima, trovandosi a
seguito di un dio, abbia contemplato qualche verità, fino al prossimo periplo rimane intocca da
dolori, e se sarà in grado di far sempre lo stesso, rimarrà immune da mali. Ma quando l’anima,
impotente a seguire questo volo, non scopra nulla della verità, quando, in conseguenza di qualche
disgrazia, divenuta gravida di smemoratezza e di vizio, si appesantisca, e per colpa di questo peso
perda le ali e precipiti a terra, allora la legge vuole che questa anima non si trapianti in alcuna natura
ferina [d] durante la prima generazione; ma prescrive che quella fra le anime che più abbia veduto si
trapianti in un seme d’uomo destinato a divenire un ricercatore della sapienza e del bello o un
musico, o un esperto d’amore; che l’anima, seconda alla prima nella visione dell’essere s’incarni in
un re rispettoso della legge, esperto di guerra e capace di buon governo; che la terza si trapianti in
un uomo di stato, o in un esperto d’affari o di finanze; che la quarta scenda in un atleta incline alle
fatiche, o in un medico; che la [e] quinta abbia una vita da indovino o da iniziato; che alla sesta le si
adatti un poeta o un altro artista d’arti imitative, alla settima un operaio o un contadino, all’ottava
un sofista o un demagogo, e alla nona un tiranno.
5 Ora, fra tutti costoro, chi abbia vissuto con giustizia riceve in cambio una sorte migliore e chi
senza giustizia, una sorte peggiore. Ché ciascuna anima non ritorna al luogo stesso da cui era partita
prima di diecimila anni – giacché non mette ali in un tempo minore – tranne [249 a] l’anima di chi
ha perseguito con convinzione la sapienza, o di chi ha amato i giovani secondo quella sapienza. Tali
anime, se durante tre periodi di un millennio hanno scelto, sempre di seguito, questa vita filosofica,
riacquistano per conseguenza le ali e se ne dipartono al termine del terzo millennio. Ma le altre,
quando abbiano compiuto la loro prima vita, vengono a giudizio, e dopo il giudizio, alcune scontano
la pena nelle prigioni sotterranee, altre, alzate dalla Giustizia in qualche sito celeste, ci vivono cosí
come hanno meritato dalla loro vita, passata in forma umana. [b] Allo scadere del millennio,
entrambe le schiere giungono al sorteggio e alla scelta della seconda vita; ciascuna anima sceglie
secondo il proprio volere: è qui che un’anima può passare in una vita ferina e l’anima di una bestia
che una volta sia stata in un uomo può ritornare in un uomo. Giacché l’anima che non abbia mai
visto la verità non giungerà mai a questa nostra forma. Perché bisogna che l’uomo comprenda ciò
che si chiama Idea, passando da una molteplicità di sensazioni ad una unità organizzata dal [c]
ragionamento. Questa comprensione è reminiscenza delle verità che una volta l’anima nostra ha veduto, quando trasvolava al seguito d’un dio, e dall’alto piegava gli occhi verso quelle cose che ora
chiamiamo esistenti, e levava il capo verso ciò che veramente è. Proprio per questo è giusto che
solo il pensiero del filosofo sia alato, perché per quanto gli è possibile sempre è fisso sul ricordo di
quegli oggetti, per la cui contemplazione la divinità è divina. Cosí se un uomo usa giustamente tali
ricordi e si inizia di continuo ai perfetti misteri, diviene, egli solo, veramente perfetto; e [d] poiché
si allontana dalle faccende umane, e si svolge al divino, è accusato dal volgo di essere fuori di sé,
ma il volgo non sa che egli è posseduto dalla divinità. […]