PLATONE – Escatologia platonica
3 Febbraio 2013(1) La passione amorosa: un sospiro “in-finito” che tocca anche noi &#…
3 Febbraio 2013Riassunto
- Racconto di Er
Er, figlio di Armenio, muore in battaglia e, al dodicesimo giorno, risorge sulla pira funebre, narrando la sua esperienza nell’aldilà. Le anime, separandosi dai corpi, si dirigono a un luogo con quattro voragini: due nel cielo e due nella terra. Qui i giudici assegnano i giusti al cielo e gli ingiusti alla terra, ciascuno portando segni delle proprie azioni. - Pene e ricompense
Le anime che ascendono raccontano visioni di bellezza e beatitudine, mentre quelle che discendono riferiscono tormenti e sofferenze. Le punizioni o le ricompense sono proporzionate alle azioni compiute, con un rapporto decuplo per ogni crimine o virtù. - Il destino di Ardieo
Viene narrato il caso del tiranno Ardieo, colpevole di parricidio e altri crimini, che viene punito in modo esemplare: trascinato nel Tartaro da guardiani infernali, simbolo delle sofferenze riservate agli irreparabili. - Il Fuso di Ananke
Le anime, dopo un periodo di riposo, giungono alla luce che tiene insieme il cielo e la terra, rappresentata dal fuso di Ananke. Qui, le Moire (Lachesi, Cloto, Atropo) sovrintendono al destino: Lachesi assegna le sorti, Cloto e Atropo determinano il presente e il futuro. - Scelta delle vite
Ogni anima sceglie una nuova vita tra molte offerte: alcune vite sono ricche di virtù, altre piene di sofferenze. Le anime inesperte, come quelle provenienti dal cielo, compiono scelte avventate, mentre quelle dalla terra sono più caute. La responsabilità della scelta è individuale, non degli dèi. - Conclusione
Er osserva il viaggio delle anime verso le nuove vite e il processo della reincarnazione. Il racconto si conclude con l’esortazione a vivere virtuosamente, per evitare sofferenze future e ottenere felicità duratura.
Analisi
- Il mito e la giustizia
Platone usa il mito per ribadire il tema centrale della Repubblica: la giustizia è premiante sia in vita che dopo la morte. Le anime sperimentano un sistema retributivo perfetto che rispecchia le leggi cosmiche e morali. - Simbolismo cosmico
Il Fuso di Ananke rappresenta l’ordine universale, in cui tutto è interconnesso e regolato dalla necessità. Le Sirene e le Moire sottolineano l’armonia e l’inevitabilità del destino. - Libero arbitrio e responsabilità
Nonostante la presenza delle Moire e di Ananke, Platone sottolinea che la scelta della vita spetta all’anima, mostrando un equilibrio tra destino e libero arbitrio. - Didattica del mito
Il racconto non è solo una descrizione metafisica, ma una lezione morale: vivere con saggezza e moderazione è essenziale per ottenere la felicità terrena e celeste.
Questo mito non è solo un epilogo, ma una sintesi del pensiero platonico: l’importanza della virtù, la struttura ordinata dell’universo e la responsabilità individuale nel determinare il proprio destino. Può essere utilizzato come base per discussioni filosofiche sul rapporto tra etica, religione e cosmologia.
Testo di Platone tradotto in italiano del Mito di Er
Ecco dunque, dissi, quali sono i premi, le mercedi e i doni che il giusto ottiene da vivo dagli dèi e dagli uomini, oltre a quei beni che la giustizia procurava per se stessa. – Certo, ammise; beni belli e sicuri. – Ma questo è nulla, replicai, per quantità e per grandezza, rispetto a ciò che attende dopo la morte sia il giusto sia l’ingiusto. E bisogna parlarne, perché ciascuno dei due riceva esattamente ciò che il discorso gli deve. – Parlane pure, rispose. Ben poche sono le cose che mi offrono maggiore diletto quando le ascolto. – Non ti racconterò certo un apologo di Alcínoo, feci io, ma la storia di un valoroso, Er figlio di Armenio, di schiatta panfilia. Costui era morto in guerra e quando, dopo dieci giorni, si raccolsero i cadaveri già putrefatti, venne raccolto ancora incorrotto. Portato a casa, nel dodicesimo giorno stava per essere sepolto. Già era deposto sulla pira quando risuscitò e, risuscitato, prese a raccontare quello che aveva veduto nell’aldilà.
Ed ecco il suo racconto. Uscita dal suo corpo, l’anima aveva camminato insieme con molte altre ed erano arrivate a un luogo meraviglioso, dove si aprivano due voragini nella terra, contigue, e di fronte a queste, alte nel cielo, altre due. In mezzo sedevano dei giudici che, dopo il giudizio, invitavano i giusti a prendere la strada di destra che saliva attraverso il cielo, dopo aver loro apposto dinanzi i segni della sentenza; e gli ingiusti invece a prendere la strada di sinistra, in discesa. E anche questi avevano, ma sul dorso, i segni di tutte le loro azioni passate. Quando si era avanzato lui, gli avevano detto che avrebbe dovuto descrivere agli uomini il mondo dell’aldilà, e che lo esortavano ad ascoltare e contemplare tutto quello che c’era in quel luogo.
E lí vedeva le anime che, dopo avere sostenuto il giudizio, se ne andavano per una delle due voragini, sia del cielo sia della terra; attraverso le altre due passavano altre anime: dall’una, sozze e polverose, quelle che risalivano dalla terra; dall’altra, monde, altre che scendevano dal cielo. E quelle che via via arrivavano sembravano venire come da un lungo cammino. Liete raggiungevano il prato per accamparvisi come in festiva adunanza. E tutte quelle che si conoscevano si scambiavano affettuosi saluti: quelle che provenivano dalla terra chiedevano alle altre notizie del mondo celeste, quelle che provenivano dal cielo notizie del mondo sotterraneo.
Si scambiavano i racconti, le prime gemendo e piangendo perché ricordavano tutti i vari patimenti e spettacoli che avevano avuti nel loro cammino sotterraneo (un cammino millenario), mentre le seconde narravano i godimenti celesti e le visioni di straordinaria bellezza. Molto tempo, Glaucone, occorrerebbe per i molti particolari, ma la sostanza del suo racconto era questa: per tutte le ingiustizie commesse e per tutte le persone offese da ciascuno, avevano pagato la pena un caso dopo l’altro, e per ciascun caso dieci volte tanto (questo avveniva ogni cento anni, perché tale è la durata della vita umana).
Ciò perché il castigo subíto fosse il decuplo della colpa: perché, ad esempio, i responsabili della morte di molte persone per aver tradito città o eserciti, e coloro che molte ne avessero ridotte in schiavitú o fossero stati complici di altri misfatti, per ciascuno di tutti questi delitti riportassero sofferenze decuple; e, viceversa, perché coloro che avessero fatto dei benefíci e fossero stati giusti e pii, fossero premiati nella medesima proporzione.
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[246 a] Dell’immortalità dell’anima s’è parlato abbastanza, ma quanto alla sua natura c’è questo che dobbiamo dire: definire quale essa sia, sarebbe una trattazione che assolutamente solo un dio potrebbe fare e anche lunga, ma parlarne secondo immagini è impresa umana e più breve. Questo sia dunque il modo del nostro discorso. Si raffiguri l’anima come la potenza d’insieme di una pariglia alata e di un auriga. Ora tutti i corsieri degli dèi e i loro aurighi sono buoni e di buona razza, ma quelli degli altri esseri sono un po’ sì e un po’ no. Innanzitutto, per noi uomini, l’auriga conduce la pariglia; poi dei due corsieri uno è nobile e buono, e di buona razza, mentre l’altro è tutto il contrario ed è di razza opposta. Di qui consegue che, nel nostro caso, il compito di tal guida è davvero difficile e penoso. Ed ora bisogna spiegare come gli esseri viventi siano chiamati mortali e immortali. Tutto ciò che è anima si prende cura di ciò che è inanimato, e penetra per l’intero universo assumendo secondo i luoghi forme sempre differenti. Così, quando sia perfetta ed alata, l’anima spazia nell’alto e governa il mondo; ma quando un’anima perde le ali, essa precipita fino a che non s’appiglia a qualcosa di solido, dove si accasa, e assume un corpo di terra che sembra si muova da solo, per merito della potenza dell’anima. Questa composita struttura d’anima e di corpo fu chiamata essere vivente, e poi definita mortale. La definizione di immortale invece non è data da alcun argomento razionale; però noi ci preformiamo il dio, senza averlo mai visto né pienamente compreso, come un certo essere immortale completo di anima e di corpo eternamente connessi in un’unica natura. Ma qui giunti, si pensi di tali questioni e se ne parli come è gradimento del dio. Noi veniamo a esaminare il perché della caduta delle ali ond’esse si staccano dall’anima. Ed è press’a poco in questo modo.
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La funzione naturale dell’ala è di sollevare ciò che è peso e di innalzarlo là dove dimora la comunità degli dèi; e in qualche modo essa partecipa del divino più delle altre cose che hanno attinenza con il corpo. Il divino è bellezza, sapienza, bontà ed ogni altra virtù affine. Ora, proprio di queste cose si nutre e si arricchisce l’ala dell’anima, mentre dalla turpitudine, dalla malvagità e da altri vizi, si corrompe e si perde. Ed eccoti Zeus, il potente sovrano del cielo, guidando la pariglia alata, per primo procede, ed ordina ogni cosa provvedendo a tutto. A lui vien dietro l’esercito degli dèi e dei demoni ordinato in undici schiere: Estia rimane sola nella casa degli dèi. Quanto agli altri, tutti gli dèi, che nel numero di dodici sono stati designati come capi, conducono le loro schiere, ciascuno quella alla quale è stato assegnato. Varie e venerabili sono le visioni e le evoluzioni che la felice comunità degli dèi disegna nel cielo con l’adempiere ognuno di essi il loro compito. Con loro vanno solo quelli che lo vogliono e che possono, perché l’Invidia non ha posto nel coro divino. Ma, eccoti, quando si recano ai loro banchetti e festini, salgono per l’erta che mena alla sommità della volta celeste; ed è agevole ascesa perché per le pariglie degli dèi sono bene equilibrate e i corsieri docili alle redini; mentre per gli altri l’ascesa è faticosa, perché il cavallo maligno fa peso, e tira verso terra premendo l’auriga che non l’abbia bene addestrato. Qui si prepara la grande fatica e la prova suprema dell’anima. Perché le anime che sono chiamate immortali, quando sian giunte al sommo della volta celeste, si spandono fuori e si librano sopra il dorso del cielo: e l’orbitare del cielo le trae attorno, così librate, ed esse contemplano quanto sta fuori del cielo.
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Questo sopraceleste sito nessuno dei poeti di quaggiù ha cantato, né mai canterà degnamente. Ma questo ne è il modo, perché bisogna pure avere il coraggio di dire la verità soprattutto quando il discorso riguarda la verità stessa. In questo sito dimora quella essenza incolore, informe ed intangibile, contemplabile solo dall’intelletto, pilota dell’anima, quella essenza che è scaturigine della vera scienza. Ora il pensiero divino è nutrito d’intelligenza e di pura scienza, così anche il pensiero di ogni altra anima cui prema di attingere ciò che le è proprio; per cui, quando finalmente esso mira l’essere, ne gode, e contemplando la verità si nutre e sta bene, fino a che la rivoluzione circolare non riconduca l’anima al medesimo punto. Durante questo periplo essa contempla la giustizia in sé, vede la temperanza, e contempla la scienza, ma non quella che è legata al divenire, né quella che varia nei diversi enti che noi chiamiamo esseri, ma quella scienza che è nell’essere che veramente è. E quando essa ha contemplato del pari gli altri veri esseri e se ne è cibata, s’immerge di nuovo nel mezzo del cielo e scende a casa: ed essendo così giunta, il suo auriga riconduce i cavalli alla greppia e li governa con ambrosia e in più li abbevera di nettare.
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Questa è la vita degli dèi. Ma fra le altre anime, quella che meglio riesce a seguire le orme di un dio e ad assomigliarvi, eleva il capo del suo auriga nella regione superceleste e viene trascinata intorno con gli dèi nel giro di rivoluzione; ma, travagliata dai suoi corsieri, contempla a fatica le realtà che sono. Un’altra anima, invece, ora eleva il capo ora lo abbassa, subendo la violenza dei corsieri: di quelle realtà vede solo una parte, mentre l’altra le rimane preclusa. Le altre anime agognano tutte quell’altezza, ma, prive della forza necessaria, vengono sommerse e spinte qua e là; cadendo l’una sull’altra, si calpestano a vicenda nello sforzo di sopravanzarsi. Ne derivano scompiglio, risse ed estenuanti fatiche, e molte anime, per l’inettitudine dell’auriga, rimangono sciancate o infrangono le ali.
Alla fine, tutte, stremate dallo sforzo, si dipartono senza aver goduto della visione dell’essere e, allontanandosi, si cibano solo dell’opinione. La vera ragione per cui le anime si affannano tanto per scoprire dove sia la Pianura della Verità è che lì, in quel prato, si trova il pascolo congeniale alla parte migliore dell’anima, il quale nutre la natura delle ali, permettendo all’anima di alzarsi. Ed ecco la legge di Adrastea: qualunque anima, trovandosi a seguito di un dio, abbia contemplato qualche verità, rimane intoccata dai dolori fino al prossimo periplo, e se riesce a fare sempre lo stesso, rimarrà immune dai mali.
Quando però un’anima, incapace di seguire questo volo, non scopre nulla della verità e, a causa di qualche disgrazia, si appesantisce di smemoratezza e vizio, perde le ali e precipita sulla terra. La legge stabilisce che, durante la prima generazione, quest’anima non si trapianti in una natura ferina. Prescrive invece che, tra le anime, quella che più ha veduto si incarni in un uomo destinato a diventare un ricercatore della sapienza e del bello, un musico o un esperto d’amore; che la seconda si incarni in un re rispettoso della legge, esperto di guerra e buon governante; la terza in un uomo di stato, esperto d’affari o di finanze; la quarta in un atleta incline alle fatiche o in un medico; la quinta in un indovino o in un iniziato; la sesta in un poeta o in un artista d’arte imitativa; la settima in un operaio o in un contadino; l’ottava in un sofista o in un demagogo; e la nona in un tiranno.
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Fra tutte queste incarnazioni, chi vive con giustizia riceve una sorte migliore, mentre chi vive senza giustizia ne riceve una peggiore. Ogni anima, però, non ritorna al luogo d’origine prima di diecimila anni, poiché non riesce a sviluppare le ali in un tempo minore. Fanno eccezione le anime di chi ha perseguito con convinzione la sapienza o ha amato i giovani secondo quella sapienza. Queste anime, se per tre periodi di un millennio scelgono sempre questa vita filosofica, al termine del terzo millennio riacquistano le ali.
Le altre, invece, dopo la prima vita, vengono sottoposte a giudizio: alcune scontano la pena nelle prigioni sotterranee, altre vengono elevate dalla Giustizia in un luogo celeste, dove vivono come meritano. Al termine del millennio, entrambe le schiere giungono al sorteggio e scelgono una seconda vita, secondo il proprio volere. In questa fase, un’anima può passare a una vita ferina, mentre un’anima di bestia che una volta fu umana può ritornare a un corpo umano.
Un’anima che non abbia mai visto la verità non può mai giungere alla forma umana, poiché è necessario che l’uomo comprenda l’Idea, passando da una molteplicità di sensazioni a un’unità organizzata dal ragionamento. Questa comprensione è una reminiscenza delle verità che l’anima ha contemplato quando seguiva un dio e dall’alto scrutava ciò che veramente è. Proprio per questo è giusto che solo il pensiero del filosofo sia alato, perché egli conserva il ricordo di quegli oggetti la cui contemplazione rende divina la divinità stessa.
Se un uomo utilizza giustamente tali ricordi e si dedica continuamente ai misteri perfetti, diventa veramente perfetto. Allontanandosi dalle faccende umane e volgendo il pensiero al divino, il filosofo viene accusato dal volgo di essere fuori di sé, ma in realtà è posseduto dalla divinità.
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Paragona la nostra natura, per ciò che riguarda educazione e mancanza di educazione, a un’immagine come questa: in una dimora sotterranea a forma di caverna, con l’entrata aperta verso la luce e ampia quanto tutta la larghezza della caverna, immagina degli uomini che vi abitano fin dall’infanzia, incatenati alle gambe e al collo, costretti a restare fermi e a guardare solo davanti a sé, incapaci di volgere il capo. Dietro di loro, in alto e distante, brilla la luce di un fuoco; tra il fuoco e i prigionieri corre una strada rialzata, lungo la quale è costruito un muricciolo, simile a quegli schermi che i burattinai pongono davanti alle persone per mostrare i burattini sopra di essi.
Immagina ora uomini che portano lungo il muricciolo oggetti di ogni genere, statue e altre figure di pietra o legno, in qualunque modo lavorate; alcuni portatori parlano, altri restano in silenzio. Strana immagine, certo, e strani prigionieri. Eppure somigliano a noi. Credi che possano vedere, di sé stessi o degli altri, altro che le ombre proiettate dal fuoco sulla parete della caverna davanti a loro? Certo che no, dato che sono costretti a tenere immobile il capo per tutta la vita. E per gli oggetti trasportati accade lo stesso: non possono vedere altro che le loro ombre.
Se questi prigionieri potessero conversare tra loro, non credi che chiamerebbero “realtà” le ombre che vedono? Certamente. E se nella caverna ci fosse un’eco che rimbalzasse sulla parete di fronte, ogni volta che uno dei portatori parlasse, i prigionieri non crederebbero che la voce provenga dall’ombra che vedono? Sì, senza dubbio. Per loro, dunque, la verità non sarebbe altro che le ombre degli oggetti artificiali.
Ora, considera come potrebbero liberarsi dalle catene e guarire dall’incoscienza. Supponiamo che uno di loro venga sciolto, costretto improvvisamente ad alzarsi, a voltare il capo, a camminare e a guardare verso la luce: non proverebbe dolore e, abbagliato, non sarebbe incapace di distinguere gli oggetti di cui prima vedeva solo le ombre? Certo, risponderebbe che ciò che vedeva prima era più chiaro rispetto a ciò che gli viene mostrato ora. Se poi lo si costringesse a guardare direttamente la luce, non gli farebbe male agli occhi, spingendolo a rifuggire la luce per tornare agli oggetti familiari? Sicuramente.
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Ma se fosse trascinato a forza fuori dalla caverna, su per il ripido sentiero verso la luce del sole, non soffrirebbe e non si irriterebbe? Una volta giunto alla luce, abbagliato, non riuscirebbe a vedere subito nulla di ciò che ora viene considerato reale. Solo con il tempo riuscirebbe ad abituarsi: inizialmente vedrebbe più facilmente le ombre, poi i riflessi delle cose nell’acqua, e infine gli oggetti stessi. A poco a poco, volgendo lo sguardo al cielo, potrebbe osservare le stelle e la luna di notte, più facilmente che il sole durante il giorno. Alla fine, arriverebbe a contemplare il sole nella sua vera natura, comprendendo che è lui a produrre stagioni, anni e tutto ciò che si vede nel mondo visibile, essendo in qualche modo la causa di tutto.
Ricordandosi della sua vita precedente e dei suoi compagni prigionieri, si sentirebbe felice per il cambiamento e proverebbe pietà per loro. Non ambirebbe più agli onori e ai premi che i prigionieri si scambiavano, come riconoscimenti per chi sapeva meglio interpretare le ombre. Anzi, preferirebbe patire ogni sofferenza piuttosto che tornare a vivere in quel modo.
Se, tuttavia, scendesse di nuovo nella caverna e si sedesse sul suo vecchio posto, provenendo direttamente dalla luce del sole, avrebbe gli occhi pieni di tenebra e non riuscirebbe subito a distinguere le ombre. Se poi tentasse di competere con gli altri prigionieri nel riconoscerle, non sarebbe forse deriso? E non direbbero che, risalendo, aveva rovinato la vista e che non valeva la pena tentare di uscire? Se qualcuno cercasse di liberarli e condurli fuori, non lo ucciderebbero, se potessero? Certamente sì.
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