Vita di Galileo
27 Gennaio 2019ATTO QUARTO
27 Gennaio 2019Giovanni Pascoli
POEMI DEL RISORGIMENTO. INNO A ROMA. INNO A TORINO [1910-1912]
EGREGIAS ANIMAS, QUAE SANGUINE NOBIS HANC PATRIAM PEPERERE SUO, DECORATE SUPREMIS MUNERIBUS.
NOTA PRELIMINARE
Avrei voluto tenere esclusivamente per me questo inizio di lavoro, e seguitare da sola su esso il mio segreto pianto. Ma ci sono dei buoni amici che aspettano, e aspettano perché avevano avuto qualche promessa. Ho risoluto perciò di pubblicare quello che c’è, come è, con la coscienza di compiere un dovere, di pagare, direi quasi, un debito d’onore contratto da Lui.
Dopo aver molto cercato e studiato sui manoscritti non ho potuto mettere insieme se non questi pochi poemi, alcuni incompiuti e alcuni compiuti sì, ma non limati. Le carte sono piene di appunti e di orditure. Per Lui era questione di un po’ di tempo, libero e tranquillo. Ma, quando sperava arrivato il momento, quella mano, pronta e sicura, s’è fermata. Tutti quei foglietti, ignari di ciò che è accaduto, sembrano in attesa! Qui c’è il programma per il tal mese, più là per la settimana, spesso spesso per il giorno. Programmi che quasi mai gli era dato di eseguire. Perché… ma è inutile che ora io mi metta a enumerare i perché. Solo chi avesse tenuto un po’ dietro a ciò che produceva e che appariva agli occhi di tutti, e agli innumerevoli fuor d’opera a cui lo costringeva la sua grande condiscendenza, potrebbe farsi un concetto di quanto vorrei dire e non dico. Il tempo non era suo: il no non sapeva dirlo.
Mi proverò a dare in poche parole un’idea de’ suoi intendimenti intorno a questo lavoro, a cui attendeva con amore e fede, e che doveva essere, come Egli diceva, il suo supremo tributo alla Patria, e agli Eroi e ai Martiri del nostro Risorgimento. Proverò.
In tre volumi Egli avrebbe costretta l’opera sua. Nel primo si doveva arrivare fino al ’48: dall’ultimo imperatore latino ai Bandiera. Mancano, quindi, secondo le sue note, Il tricolore, I templari, altri Poemi mazziniani, i poemi su Carlo Alberto, quasi tutto il ciclo di Garibaldi in America, che doveva conchiudersi col ritorno di lui in Italia con Anita e il piccolo Menotti; infine i più vibranti di passione: Nello Spielberg e I fratelli Bandiera. Via via, in mezzo ai poemi epici di vari metri, dovevano attraversare i volumi, con volo lucido e rapido, dei brevi poemetti lirici sul genere di Garibaldi vecchio a Caprera. Credo, anzi, che questo, già pronto, mentre il suo posto non l’avrebbe trovato se non alla fine dell’opera, sia stato eseguito quasi per prova o per modello.
Terminato l’Inno a Torino, Egli intendeva subito proseguire ordinatamente. Aveva già avuti in bozze e corretti una prima volta i primi due poemi: Napoleone e Il Re dei carbonari. Stava eseguendo il terzo. Un giorno, uno dogli ultimi che si levò di letto, si recò mestamente nello studio e, dopo aver guardato i suoi libri e rilette alcune sue carte, su di un foglio bianco scrisse con mano ancora sicura il titolo del poema che l’attendeva:
22 marzo 1912 – Il tricolore!
e nient’altro! Lì presso in una cartellina si leggevano i quattro primi versi e gli appunti. Il giorno dopo non si levò! Non credo che possa dispiacere di conoscere qualcuno di quei palpiti che gli vibravano in cuore anche in mezzo alle sue crudeli sofferenze.
IL TRICOLORE
Nella città che è in mezzo a quattro strade
s’odono molti plaustri cigolare.
Mugliano bovi, squillano campane,
brillano spade, luccicano lancie.
. . . . . . . . . . . . . . . . .
«Ma non sono le campane e i bovi dei carrocci… Un nuovo giuramento è stretto. Non a Pontida, non nei boschi… Nessun connubio con l’imperatore. Nessun esercito rimarrà o verrà in Italia… La lega, che sta nella sua città di paglia tra la Bormida e il Tanaro, ha inalzata la sua croce… Dove sei imperatore dalla Barba Rossa? Ecco la nuova bandiera… Salutatela, o trombe, o lancie, o bovi, o plaustri! Ella ha i colori nuovi… O tricolore d’Italia! sorto tra il nembo, tra i primi tuoni di primavera, in attesa del re, del primo re d’Italia!… Non ha più i colori del fuoco spento, del fuoco vivo, del fuoco operante… E’ un’altra. O pianura del Po! o neve dell’Alpi! o rosso dei vulcani! o veste di Beatrice! Per te quanto si morrà! quanti saranno avvolti nelle tue pieghe! Quanti ti avranno sul loro feretro!… In quante battaglie… in quante tempeste!… Non lasciatevela prendere… stracciatela piuttosto… ponetevela sul petto, inabissatevi con lei nei gorghi del mare! – O sacro vessillo! ora deve venire il tuo re. Avanti contro gli stranieri! contro i crocifissori di Prometeo. – O città, nata nell’Aprile, come Roma! asilo di esuli, come Roma! o nata di profughi, come Roma! o subito in guerra, come Roma! Non è dei boschi di carbone la bandiera che tu inalzi, essa viene da più profonde lontananze…»
E, così preparato, quanto ce n’è del lavoro! «Possibile, soleva dire, che non debba aver mai un po’ d’agio per dedicarmi alla poesia? Ne sono così pieno! ho ancora tutto da fare!» Non tutto, ma tanto sì. E questo tanto doveva dar vita a’ suoi sogni d’artista, confortare le grandi ombre, incitare i giovani, e mostrare all’Italia la sua devozione.
Ho voluto accogliere in questo volume, sebbene non appartenga ai Poemi del Risorgimento, anche la versione italiana dell’Inno a Roma e dell’Inno a Torino, perché l’uno e l’altro furono da Lui composti in latino e poi tradotti in italiano negli ultimi mesi di sua vita per onorare e glorificare la sua diletta Italia.
I volumi che avrebbero seguito questo primo (rimasto pur troppo così incompleto) non è difficile imaginare che cosa dovevano contenere. Dal ’48 in poi ce n’è della poesia da estrarre dagli avvenimenti della nostra patria! Egli l’aveva vista tutta e si riprometteva di farla vedere anche a noi.
Ed ora? Ora a me non resta che concludere con le parole ch’Egli prepose al principio del primo poema, e associare al suo nome quello del padre suo, ch’Egli voleva tener vivo nei cuori perché vittima invendicata.
«X agosto 191O – Poemi del Risorgimento.
Si comincia il poema a onore e gloria feconda d’Italia, di quell’Italia ch’Egli amò così ardentemente nei “tempi solenni” e che non diede pure uno sguardo di pietà a lui insanguinato e morto, né ai figli di lui, soli e mendichi.
Ebbene?»
Perché siano chiare queste parole occorre leggere la seguente lettera:
Repubblica Romana
COMANDO CIVICO DEL COMUNE DI S. MAURO Nr- 34
Cittadino Governatore
A pronto riscontro del vostro dispaccio d’oggi N. 573, col quale mi date comunicazione di altro dispaccio del Cittadino Preside risguardante l’arruolamento di quel maggior numero di militi di questa Compagnia Nazionale che volonterosi volessero disporsi a marciare all’occorrenza; vi significo che io porrò in opera ogni premura e fatica per giungere allo scopo; ma è duopo ch’io faccia alcune riflessioni che desidero siano a cognizione del lodato Preside.
E primamente vi faccio conoscere, che essendo questa compagnia composta nella maggior parte di campagnuoli, sarà difficile poterli persuadere ad intraprendere una marcia; d’altronde essendo questo paese in mezzo alla campagna, la quale, come è ben noto, è assai avversa all’attuale governo per le perfide insinuazioni di malevoli; è necessario soprattutto l’attività della Guardia Nazionale, massime in questi tempi solenni, onde impedire reazioni e disordini, che purtroppo potrebbero suscitarsi.
Il numero dei militi, su cui possa contarsi per impedire e reprimere una reazione, si riduce a poco, e quindi di questi non sarebbe prudenza a privarsene; poiché lasciando il paese a difesa degli altri, non sarebbe difficile si mescolassero coi reazionari, ed ai medesimi cedessero le armi come amici.
Io, ripeto, farò dal canto mio quanto mi sarà possibile, ed assicurate il Preside di tutta la mia energia.
Salute e fratellanza.
S. Mauro, 3 maggio 1849 Il Capitano Comandante
Ruggero Pascoli
Perdonino i buoni amici e tutti i buoni, che leggeranno, l’insufficienza mia. E sopra tutti mi perdoni il dolce spirito, che mi è sempre accanto, se non so corrispondere degnamente alla sua fiducia. Ci metto tutta la mia buona volontà.
Maria Pascoli
Castelvecchio, 30 aprile I913.
I
Ora egli è solo, tra le lontane acque,
sul borro solo. A che vegliate in armi
guardando lui dal Bosco della morte?
Veglia a’ suoi piè l’Oceano, lo guarda
l’Oceano insonne che notturno canta
per non dormire, ed asseconda l’onde,
alterne, eterne. E l’uomo solo ascolta
il canto e quindi il respirare uguale
del suo custode steso sulla soglia
rotta, e ne sente l’umido alito acre,
dalla invisibile isola, fumosa
d’accavallate nubi oscure.
Era per lui quell’isola da quando.
spuntò sull’ampio ondeggiamento azzurro,
unica. E il grande Spirito che ancora
irrequieto errava là, sulle acque,
vi s’avventò, stette anelando in guato
cinto di nubi, tra le bronzee rupi.
Esso attendeva l’Unico: chi fosse
per dire, nate non trovando ancora
le sue parole, – Io, come Dio, sono io -,
l’uomo promesso da che, dopo un grande
scheggiar di selci, uscì dall’antro il bruto
brandendo la sua prima scure.
Italia a lui fu madre. Essa lo fece
del suo granito dentro i suoi vulcani.
Per tre millenni lo portò nel grembo.
L’anime in una ella fondea dei grandi
Cesari, in una Parte le sue Parti
crudeli, il ferro degli Sforza e il ferro
dei Buonarroti, tutte l’arti e l’armi.
Poi, pieni i tempi, ben temprata al gelo
l’anima, in sella lo levò, gli pose
le dee Fortuna e Guerra alle due staffe,
gli pose il sogno, in mezzo al cuor, di Dante,
e grave gli mormorò: Va!
II
La nera Terra lo attendea, tremando
già del portento. Ora credé vederlo
uscir col capo di sparvier da templi
invasi d’ombra e di pensose sfingi,
ora passar con mille carri d’oro
con suvvi gli archi di barbari arcieri,
ora con infiniti dromedari
rigar le solitudini sabbiose
fulve di sole, ora venir tra un muglio
di bovi immenso, qual se al mondo un solo
gran mandriano ormai parasse tutti
gli armenti e tutti gli armentari.
Non era ancora. O forse era il divino
efebo cinto d’ellera che apparve
novello eroe con la peliade lancia,
or con la cetra or con la face in mano.
E no. Forse il Quirite era incedente
al misurato passo dei triari,
e poi sedente sull’eburnea sella
imperïoso pacificatore.
Ma no. Non era il re chiomato assiso
appiè dell’olmo, l’orifiamma al vento,
e giganteschi attorno con le spade
ignude i dodici suoi pari.
Ma quando uscì dall’isola selvaggia
piccolo, e parve scialbo e glabro in sella;
con gli occhi vuoti, vitrei, coi lunghi
capelli lisci, simile a nessuno;
ed ella udì che ad ogni sosta ansante
del suo cavallo rimbombava il tuono:
– Sei tu – gridò la nera Terra – alfine!
Dimmi il tuo nome! – Ed ella intese il nome
dove la fiera si mesceva al dio,
donde sonava l’inno dell’eterna
cetra del cielo puro ed il ruggito
della deserta immensità.
III
Ora egli è avvinto all’isola lontana
che sola spunta di tra le grandi acque;
che, sola tra la serenità calma,
è di perpetue nuvole involuta;
come se imperversasse una tempesta
là, vorticosa, interminabilmente;
una tempesta pallida e segreta,
incominciata all’albeggiar del mondo.
Tutte le nubi erranti per quel cielo
dagli alisei sono parate, a branchi,
là, con assidui sibili, e son chiuse
tra mura d’invarcabile aria.
Sbalzano su, rotolano le nubi,
s’urtano, vanno per fuggir dal chiuso,
calano per vanire entro i burroni,
s’alzano per oltrepassar li scogli,
strisciano a terra: invano, perché il vento
pur le riprende; e, reduci, le vane
lagrime loro versano sul caldo
suolo che fuma. Tornano alle nubi
le loro vane lagrime, che ancora
piovono in terra. E sempre in volta il vento
con lunghi assidui sibili minaccia
nella penombra solitaria.
E’ l’invisibile isola dei morti,
tutta fiorita d’aridi elicrisi.
Né luce v’è né buio. Una muffita
nebbia nasconde il popolo dei sogni.
Vi sono sterili alberi, curvati
come a fuggire; ma li tiene il suolo
disvincolanti. Fuggono le navi
a vele aperte, tutte per un rombo.
L’hanno veduto. Tra lo stridìo lieve,
come d’uccelli, delle pallide ombre,
volgendo gli occhi in giro, il suo fantasma,
nel mezzo, nudo l’arco, sta.
IV
Ma dall’ignoto Spirito sferzate
corrono a lui le riluttanti nubi,
strisciano appiè di lui, sorgono a un tratto,
lo velano, lo celano. E’ sparito
sotto la pioggia fumida, sparito
nel grembo grigio. Né baleno guizza
mai da due nubi frante che divida
l’oscurità. Niuno lo veda! Niuno
veda la fronte cupa, niuno veda
quegli occhi tristi, i tristi occhi veglianti,
come due tristi uccelli della notte,
sul suo terribile sorriso.
Non lampo mai; né mai rimbomba il tuono
seguace; ch’altri non lo creda il tuono
della sua secca chioccia bronzea voce,
usa a guattire sola tra il silenzio
di cupi pallidi uomini e il sommesso
loro anelare; ch’altri mai non pensi
che dalla tacita isola dei morti,
d’oltre l’Oceano e il popolo dei sogni,
sia quella voce che di tra l’eterna
penombra, sopra il sonno delle genti,
sul mondo forse immemore, passando,
scoppi e si franga all’improvviso,
e chiami e scuota, e susciti nel mondo
squilli di trombe, rulli di tamburi,
scroscio di marcie, suon di ferro, strido
di ruote, émpito e ringhio di cavalli,
polvere e fumo, e grandinar di palle,
scintillar d’armi, e rombo di cannoni,
assalti, fughe, mura umane, stagni
di sangue umano: ululi d’odio, strazi
di pianto, un pianto immenso, un campo immenso
che piange, tutto un piangere di madri;
e fuoco, sangue, orrore, morte; e un grido
solo: L’Imperatore è là!
V
Or tra gli smerghi e l’aquile marine
è là, celato; e raro e breve il sole
s’affaccia e getta, per vederlo, un raggio:
ché brama il sole di veder quel pari
a sé terrestre; ché anche il sole è solo.
Guarda, e si cela. E non appena il giorno
egli ha compiuto, subito nel buio
precipita, né roseo s’indugia
nella soave ora crepuscolare
a consolare il cielo d’una blanda
chiarità ampia che si muta in ombra,
così, più dolce che la luce.
No: ch’egli, come il simile terrestre,
precipita. Se non è dì, sia notte.
E rare a notte vengono le stelle
vergini, vengono all’Ignoto ignote,
la Croce insieme e la Corona australi,
per veder l’uomo che nella sua mano
tenne il timone dell’opaca Terra
e volle unico reggerla sul mare
del rezzo eterno. Cercano le stelle
quell’Orïone cacciator di fiere,
armato d’oro, cercano quel nuovo
divino pùgile Polluce.
Avea lottato, il Pùgile, con Dio!
Avea ghermito una sua stella a Dio!
Volea rapire una sua stella errante!
la nera Terra! E l’altre stelle erranti
già ne’ lor pii crepuscoli il pianeta
vedean, tremando, prigionier d’un uomo;
vedeano rosso al placido orizzonte
spuntare il globo, vario di grandi ombre,
soffuso forse, ogni dì più, di sangue;
nel cielo ancora ma non più del cielo.
Empia e sicura al non tuo cielo, o Terra,
montavi lentamente su.
VI
L’anima egli era, e tutto il mondo, il bruto.
Soltanto braccia egli chiedeva, e l’ebbe.
Fu come il Brahma, a cui sporgean dai lati
mille migliaia di guizzanti braccia,
mille, di mani, ognuna d’esse un ferro.
Né città v’era né deserto al mondo,
né tempio augusto, né sublime reggia,
né foro né castello né ruina;
o dove nasce o dove cade il sole,
a sud, a nord; sopra la cui parete
non apparisse; alfine un giorno, l’ombra
adunca d’una sua gran mano.
Egli era dio d’un proprio suo diviso
regno di dio. Per tutto egli era, e tutto.
Ne ripeteva, paventando, il nome
l’eco dei monti e la marea dei mari.
Empiano i suoi migranti padiglioni
le nivee steppe e le assolate arene.
Gittava al Tutto egli le braccia armate,
calmo, dal perno, e tra lo scatto enorme,
tra l’infinito riscintillamento
delle sue braccia, si vedea quel mezzo
Sorriso breve cui covava eterna
la sua tristezza di Titano.
Ed egli volle un vicedio ch’eterno,
per il dio triste, sorridesse al mondo.
Volle, e compose un idolo fasciato
di bianca seta, rilucente d’oro,
aspro di gemme, gli occhi pii, le labbra
sottili, aperte sempre al dolce assenso.
E lo vegliava, ché dovea placare
gli uomini a Dio, con la gemmata mano
benedicente, e gli uomini pregare
per l’immortale. Ond’egli cupo in vista
mostrava il placido idolo alle torve
inginocchiate sue tribù.
VII
Altri al timone siedono del mondo.
Son mozze alfine le sue mille e mille
e mille braccia, e guizzano per tutto,
cadute a terra, le convulse mani
cercando il ferro. Egli nell’aria fosca
leva, stillanti sangue, i moncherini.
E’ chiuso là nell’isola deserta
tra le grandi acque, che l’attendamento
de’ re terrestri il suo dolor non turbi
con l’alte grida. Sullo scoglio assiso
forse nel mar tuffa le braccia, e lava
le innumerabili ferite.
Credono i re di udire la selvaggia
querela atroce, l’aspro grido acuto
ch’egli dal lido getti alle fuggiasche
vele atterrite. No; ch’ei tace, o parla
soltanto a smerghi ed aquile marine.
Ei siede e tace, mentre sull’Oceano
purpureggiante le sue braccia affonda.
Tace ed assiduo, tra la nebbia, lava
il sangue inesauribile che sgorga
dai milïoni delle braccia, il sangue
che sgorga dalla pallida sua vita,
di milïoni d’altre vite.
Non è fragore ondoso di risacca
alla scogliera, non è vento urlante
nei boschi morti, non tempesta in mare
che l’isola urti, e sciacqui nell’abisso.
E’ lui che sparge sopra sé l’immenso
Oceano rosso, per lavare il sangue.
A grandi ondate abbraccia il mare, e tutto
l’attira a sé. Cupo silenzio è intorno.
Là, nell’oscurità caliginosa,
vedono l’ombra del ferito immane
i brevi re, tremando ancor dell’uomo
ch’è tutto ancora, e non è più.
VIII
Anch’egli vede nella lontananza
perduta, un altro, indissolubilmente,
tra l’acqua e l’aria, a’ suoi travagli avvinto.
Lo vede: egli solleva alte le braccia.
Egli sostiene il polo sulle spalle,
del cielo, ed allontana con le braccia
dal capo suo le costellazioni,
e la marea mugge a’ suoi piedi infranta.
Passano lente sopra lui le ruote
del Carro, e geme sotto lui l’Abisso,
e lungo lui scrosciano andando i fiumi
alle voragini profonde.
Ed anche un altro ei vede: una vedetta,
stante, ed insonne, e immobile, sospesa
al duro scoglio, attraversato il petto
dal cuneo lungo di mordace acciaio,
serrato da infrangibili catene
l’un piede e l’altro a due lontane rupi.
E tra i due piedi passano le navi,
ch’egli insegnò; ché diede all’uomo il fuoco
delle cento arti e delle cento morti.
Ora egli sta, né più goder del bene
può né vietare il male, avanti il riso
innumerevole dell’onde.
E solo, come i due Titani, è il nuovo
venuto, solo tra sé stesso e il mondo.
L’onde che s’accavallano spumando
sulle ginocchia al reggitor del cielo,
intorno ai ceppi al rapitor del fuoco,
son quelle dove tuffa le sue braccia
inutile l’uomo. E il suo pensier soggiace
all’universo, ch’egli può, l’invitto.
Ma il triste cuore e il fegato, rombando
nella penombra con le sue grandi ali,
a lacerarli senza fine scende
l’imperïale aquila giù.
IL RE DEI CARBONARI
I
Nella foresta murmuri notturni:
breve nel buio balenìo di luci.
Forse non son che lucciole e che gufi:
gufi con gli occhi tondi ne’ lor buchi.
O non son essi. Vanno attorno i lupi
con passi sordi sulle felci e i muschi.
O forse vanno per la solitudine
anacoreti con lor pii sussurri.
Bussano andando i cavi tronchi duri,
che ognun si scosti e qua o là s’occulti.
No: sono boscaioli con le scuri,
così lontani che gli ansiti lunghi
e i grandi colpi sembrano minuti
picchi di picchi e singultìo di chiù.
II
Il fuoco dorme in mezzo alla foresta
nella sua piazza. Dai cagnoli il fuoco
occhieggia e guizza. Ma di foglie mista
la terra chiude la fumante bocca.
Il fuoco è dentro: inconsumabile arde.
Nelle baracche, cui di frondi è il tetto,
i carbonari dalle lunghe barbe
su tronchi assisi, vegliano, tenendo
la scure in mano. Una lucerna brilla
sul maggior tronco con le sue tre fiamme.
Il gran maestro alza le mani al Santo
e intuona il canto nel silenzio sacro:
III
– Oh! questa è gioia, questo al mondo è bene,
in un sol luogo dimorar fratelli.
E’ come unguento sparso sui capelli,
che piove giù dal capo sulla barba.
E’ come unguento scorso sulla barba,
che scorre, e bagna l’orlo della veste.
Come sereno piovere celeste,
come rugiada che vien giù dal cielo;
rugiada che discende dal Carmelo,
discende ai colli, e poi da’ colli al piano.
Ché Dio segnò quei luoghi di sua mano,
e vita avranno fin che secol duri.
E voi le mani alzate con le scuri
stando nell’atrio, in cuor pensosi e pronti.
La notte cade. Luce è già sui monti.
Le scuri alzate contro il dì che viene. –
IV
Il gran maestro con la scure il tronco
batte tre volte. Grave parla, e dice:
«Udite, o nati da fratelli. All’uscio
d’una baracca uno picchiò notturno.
Era smarrito tra la notte e il nembo,
nella foresta. Vide il fuoco in una
radura, acceso. Vide le tre luci
nella capanna. Entrò. Giovane e bello
era, coi segni del dolore in fronte.
Era un’errante zingara sua madre.
Per lunghe strade lo traea fanciullo
meditabondo. Sempre gli occhi al cielo
teneva, fissi, per vedere un astro,
che non sorgeva. E nel suo cuore il sangue
del Conte Verde era e del Conte Rosso.
Re, per destino, egli sarà dei monti;
ma noi l’ungemmo re della foresta.
Contro lui geme ed ulula il lupatto
dell’Apennino, e l’aquila a due rostri
lo spia dall’alto senza muover l’ale,
tacita, intenta. Ma il re nostro un giorno
trarrà la spada, leverà lo scudo,
ché Dio lo vuole, con la bianca croce,
mettendo in fuga tutti i lupi e i gufi,
allor che la grande aquila ferita.
trasvolerà, rauca strillando, l’Alpi.»
V
– O Carbonari, uscite dalle porte
dell’acque, con le accette sulle spalle.
Uscite al monte, andate nella valle,
tagliate rami verdi d’oleastro.
Recate ognuno frondi d’oleastro,
rami di mirto, calami di canna.
Fatevi, come è scritto, una capanna,
un vostro asilo tacito e selvaggio.
Una capanna, usciti di servaggio,
fate di rami d’acero e di pino;
ove beviate in pace il dolce vino
e vi cibiate della pingue carne.
Ma la sua parte niuno oblii mandarne,
a chi non n’ha, ché questo è il giorno santo.
E lieti siate, ed obliate il pianto.
Gioia è di Dio che il cuore ci fa forte. –
VI
Così celati aspetteranno il giorno
d’andare incontro al gentil re crociato.
Libereranno dalle piote arsite
allor la bocca, e il carbon nero al vento
prenderà fuoco e brillerà sul filo
di mille scuri, e da quel fuoco il fumo
a grandi spire salirà nel cielo.
Nero il vessillo come carbon nero,
e rosso e azzurro come fuoco e fumo,
sia nelle vostre mani, o boscaiuoli,
o taglialegne nati da fratelli,
o carbonari, avanti al re che viene!
VII
Passano intanto i carbonati occulti
la notte, alzando le due mani ai puri
astri del cielo, tra gli scabri fusti
d’annose quercie, nei romani luchi.
Gittano sangue al lor passaggio i pruni,
scrosciano foglie, fischiano virgulti.
Sotterra il fuoco hanno sepolto muti,
siccome seme gli aratori ignudi.
Germinerà. Nei taciti interl’unii,
chiusi nei tabernacoli fronzuti,
pensano al re fanciullo, che tra i lupi
ignaro passa, che di tra le nubi
l’aquila veglia, e piomba già su lui
stringendo sempre il nero volo più.
GARIBALDI FANCIULLO A ROMA
PEPIN
I
L’isola sacra, l’isola dei morti
aveano a poggia, piena d’asfodeli.
Là bianchi i morti, volti alla marina,
sui tumoleti, tendono le mani
al sole occiduo. Ora al chiaror dell’alba
v’erano voci di piombini e chiurli.
E la tartana lontanò. Ma il vento
batté la vela e sibilò nei fiocchi;
e sorse allora un mozzo biondo, il figlio
del padron vecchio, col grondante remo;
e stette a prua guardando muto il fiume,
l’Albula chiara, del color d’argilla;
a cui d’estate non mescean le pioggie,
non i ghiacciai, ma grandi opachi laghi,
sotterra, ignoti. E contro lui correva,
fremendo al sommo, il Tevere immortale.
Ma il vento salso avea seguito a volo
dal mar tirreno il marinar fanciullo,
e fischiò tra gli stragli e arruffò fresco
la lunga sua capellatura fulva.
II
La prua solcava l’ombre ora di glauchi
canneti in fiore, ora di rade quercie.
Dove accosciata era la scrofa bianca
coi trenta bianchi suoi porcelli intorno?
Dove la reggia alta tra i boschi sacri,
nell’atrio i sacri vecchi re di cedro?
Là, da pantani pieni d’erbe e giunchi,
sporgean la testa i bufali selvaggi.
Dov’era il bosco della Dea Larenzia
co’ grandi suoi dodici figli arvali,
danzanti al sole ed invocanti il sole
con bionde spighe sulle lanee bende?
Brulla, ondulata, solitaria, mesta
vedeva il mozzo tutta la campagna,
sparsa di cippi, ruderi, muri, archi
intorno a cui pascevano le greggi,
piccole. Qualche buttero a cavallo
tra i suoi cavalli riguardava il fiume,
la bianca vela e il mozzo biondo al sole,
oh’era in lui fiso e s’appoggiava al remo.
III
A Ripa Grande a terra balzò. Roma!
Roma era sempre. E la cercò sognando
col passo ondante come su la tolda,
con gli occhi aperti come dalla coffa;
e bevve l’acqua delle sue fontane,
e mangiò il pane sulle sue rovine.
Ristette al piede, e sogguardò la cima
brillante al sole d’obelischi rossi.
Vide scogliere di muraglie e d’archi
sparire nella oscurità d’un nembo.
Errava assòrto, e la sonante pioggia
riparò sotto un arco quadrifronte.
Meriggiò stanco al parlottìo d’un fonte
nella spelonca della ninfa Egeria.
Sorseggiò, arso, l’acqua dolce a bocca
a bocca da un leone di basalto.
Salì sul clivo, e vide i due cavalli
condotti al morso dagli dei giganti.
Pl’acido, con la mano alta protesa,
cavalcò verso lui l’imperatore.
IV
E si trovò tra ruderi di templi,
mozze colonne, e grigi archi di marmo.
Crescea per tutto il caprifico e il rovo,
e s’udiva una lunga eco di mugli.
E fanciulle ciociare erano assise
presso l’ignota fonte di Iuturna;
per la Via Sacra andava lento un frate;
giaceano bovi in una piazza erbosa;
giaceano lì nel tempio della Pace
butteri all’ombra delle rosse arcate.
E si trovò presso un’immensa mole
semisepolta, rotta, ispida, sola.
E un eremita come in un deserto,
v’era, e condusse il biondo mozzo in alto.
Errò pei muti portici; ma quando
il capo sporse e riguardò da un arco,
ruggì un leone, e sorse di sotterra
il sordo urlo di mille altri leoni,
e un plauso enorme; poi tutto improvviso
lo scroscio e il crollo della città morta.
V
Ed ei fuggì con nell’orecchio il rombo
del tempo antico, verso il fiume eterno;
e passò il fiume, e s’avviò soletto
per luoghi ignoti. Egli saliva il colle
del Dio che il grande cielo apre e lo chiude.
Udì strepito d’acque e salmodie
ché già cadea la sera. Ed una porta
gli era davanti, e domandò qual era.
– Di San Pancrazio. – Uscì. Vide una villa,
il marinaio, simile a un vascello,
grande, impietrito. Agli alberi suoi neri
venian da Roma strepitando i corvi.
Ed altre ville ai quattro venti, e neri
pini e cipressi cui sfiorava il sole.
Stette: un’immensa cupola in disparte
vegliava in alto. E Roma era ai suoi piedi.
Il giovinetto udì squillare intorno
tutte le squille e ne tremava il cielo:
ed un rintocco era tra lor più cupo.
Poi fu silenzio. – E apparvero le stelle. –
GARIBALDI COI SANSIMONIANI
I DODICI ESULI
Filava la goletta ad ali aperte. Quasi
striscia di l’una ardea la scia fosforescente.
Soffiava ancora il caldo odore delle oàsi.
Era la notte luminosa d’Orïente.
*
Sovra coverta un gruppo era adagiato a tondo,
di dodici stranieri in lunghe vesti bianche.
Avean bordone al lato ed una corda all’anche.
Avanti loro, dritto e grave, era il Secondo.
Lungo, il cammino loro! Avean patito fame,
avean falciato il fieno, avean mietuto il grano,
parlato a turbe, tesa a qualche pio la mano,
e maledetto al sangue a piè del palco infame.
Rincorsi dalla plebe e dalla legge oppressi,
s’erano posti in via, pellegrinando assòrti.
Dormian nei cimiteri, in compagnia dei morti,
sul marmo dei sepolcri, al tronco dei cipressi.
Ma ora discendea la pace. Era l’avvento.
Parlavano soave al lume delle stelle.
E dalla Terra Nera ov’è la Sfinge, il vento
moriva in un ronzio di sartie e di griselle.
*
– Dio! Tutto ciò che è. Noi siamo in lui, da lui.
Nessuno è Dio, nessuno è fuor di Dio, ch’è tutto.
Che è ciascun vivente? Un seme. Il seme, il frutto.
Io sono: sarò sempre. Io sono: sempre fui.
E’ l’Universo un tempio: il tempio di Dodona.
Pendono bronzei vasi ad una selva immensa.
Uno ne tocchi, vibra ogni altro. Il Cielo pensa,
e la Terra lontana a quel pensier risuona.
Amore. sei tu, Dio! Ma solo ti riveli
pensiero e forza: l’occhio e la possente mano.
O nuovo Adamo ed Eva, o riprincipio umano,
ti sia, qual è, la Terra: una stella dei cieli!
Lavora, adora. Sappi e crea. Sempre più! Chiedi
alla messe il tuo pane, e non al mietitore.
Abbiano la tua vita, e non l’altrui, gli eredi.
E in terra sarà Dio, ché vi sarà l’amore. –
*
E David intonò l’inno di pace; e calme
sorsero su le calme onde le voci in coro.
Cantarono la Madre, Eva del tempo d’oro,
Eva aspettante al pozzo, all’ombra delle palme:
del tempo avanti noi, non dietro noi: miraggio
che sembra un sogno in cielo ed è un’oàsi in terra;
dove riposerà l’uomo che soffre ed erra,
e pace avrà dal forte, e bere avrà dal saggio.
E poi, sotto le stelle, essi giaceano vinti
dal sonno. Ed il Secondo anche restò sul ponte
e guardava, tra l’acqua e l’aria, all’orizzonte,
là, tra i presagi informi ed i ricordi estinti.
Parea di là guardarlo, allora apparso, Arturo.
E Garibaldi assòrto era nel ricordare
di qual Argo il timone esso reggea, securo,
in una sacra notte, in un ignoto mare…
A TAGANROK
IL CREDENTE
A Taganrok, nella taverna a mare,
sedean nocchieri. Uno parlava a tutti.
I
«O della sera giunti qui sui flutti,
la patria vive in un silenzio all’erta.
Pare la patria un’isola deserta,
con soltanto il gridìo dei cormorani.
Si parlano nel cavo delle mani
scrivendo il nome con le caute dita.
Presso un antico tempio è la lor vita:
ne son gli eredi ed i maestri e l’opre.
Ma il muschio al tempio non si sa se copre
i primi muri o l’ultima rovina.
Stanno in capanne d’erica e savina:
un lume brilla nella notte oscura.
Marre, squadre, il grembiule alla cintura:
vegliano muti fin che il gallo canti.
Noi tra il cielo e l’abisso, o naviganti,
possiam gettare al vento al mare un nome;
ed il vento urla e il mare sbalza, come
per afferrarlo, questo nome: Italia!»
Gridaron tutti: Italia! Italia! Italia!
Parve, in un canto, che un leon ruggisse…
II
Quegli guardò verso il ruggito; e disse:
«L’Italia è vinta, ora non v’è più guerra..
Ma non v’è pace. Cova ancor sotterra
nato dal fuoco il genitor del fuoco.
Annerisce sotterra a poco a poco:
ora si fredda perché poi più bruci.
Brilla la macchia qua e là di luci:
sono baracche in mezzo alle radure.
Vegliano i boscaioli: hanno la scure
tra i piedi, hanno la zappa, hanno la pala.
S’appoggia alla parete alta una scala.
Siedon su tronchi, verdi ancor, di querce.
La venderanno, la lor fosca merce,
allor che il sole tocchi la foresta.
Ma cantò il gallo, l’aquila s’è desta,
il toro muglia, è sorta già l’aurora.
E’ nato il sole, il sole è alto, è l’ora:
è sempre l’ora. ORA, fratelli, E SEMPRE.»
ORA – gridaron tutti a un tratto – E SEMPRE!
Sobbalzò il fulvo, le pupille fisse…
III
Quegli guardò la fulva giuba, e disse:
«E’ sorto un uomo, un messo da Dio venne.
O tu dal bosco, prendi la bipenne!
Lascia annerire il tuo carbon sotterra.
Lascia la zappa, e il grande albero atterra,
lascia la pala, e taglia doga e trave.
Esci dalla foresta e fa la nave
per questa Italia e per la sua fortuna:
giovine Italia, grande, libera, una.
Tu lascia squadre e marre: ecco la spada.
Il caval nero pasce erba e rugiada
nel cimitero, il lenzuol morto indosso.
Móntavi ancora su, monaco rosso!
Galoppa ancora, cavalier templare!
In questa Terra Santa fa volare
sul saio rosso il gran bianco mantello!
Popolo, avanti! teco è Dio!» – Fratello! –
Il giovin fulvo si lanciò, s’apprese
alla sua mano, l’abbracciò, gli chiese:
– Chi è? – Tu? – Garibaldi. – Egli, Mazzini.
GARIBALDI IN CERCA DI MAZZINI
ORA E SEMPRE
I
Mazzini e i suoi dispersi nello stesso
luogo sedeano attorno alla parete.
Giovanni al seno gli piangea sommesso.
Ei disse: – Il pianto è l’acqua per la sete
del cuore. Anela per il suo deserto
a quella fonte l’anima. Piangete.
Iacopo! Era il mio primo, era il più certo,
era il più mite. Amava l’ombra. Volle
essere, ma dall’odor suo, scoperto.
Parea quei gigli fatti di corolle
né d’altro; d’una purità di cima,
ma nati a valle, nati a piè del colle:
chino anche lui non come fior che opprima
la pioggia, ma che il solo essere fiore
pieghi sul tenue gambo, da sé, prima.
Oh! egli aveva la mestizia al cuore
di quei ch’è solo, perché primo, in via,
e vede appena Chanaàn, che muore.
Ma ei sapeva, avea già detto: «Sia!
anche s’è morto l’albero onde nacque,
il seme è buono; ed uno gittò via
il pane, ed altri lo trovò su l’acque.» –
II
Gli esuli intorno singultian pian piano.
– Male ei gittò, ciò ch’è di Dio, la vita?
Fu, come il bimbo ch’ha il suo pane in mano:
il pane e il pomo che sua madre, uscita,
diede al fanciullo che mangiasse intanto:
ed altri l’urta e fa ch’apra le dita.
O no, ma disse: «Eccomi afflitto, affranto!
Per non peccare contro i miei fratelli,
contro te pecco, che perdoni, o Santo!»
Ora il suo sangue grida ne’ lavelli
là della Torre. Un grido che si vede.
O re, più brilla, quanto più cancelli!
Vendetta! Ogni uomo è diventato erede,
Iacopo, tuo. L’Italia oggi t’adora,
martire primo d’una nuova fede.
Furon le dita rosee d’un’aurora,
con che scrivesti nella cella nera!
La nuova Italia cominciò d’allora.
E cominciò d’allora la nuova E’ra
che rivedrà nell’avvenir profondo,
con terra e cielo nella sua bandiera,
Roma al timone, placida, del mondo. –
III
Gli esuli lontanare vedean quella
gran nave. Egli, il profeta, stupì come
sbocciasse a lui dall’anima una stella.
La stella illuminava le tre Rome;
auree cupole, archi trionfali
e una città che non avea che il nome.
Erano un atrio, i ruderi immortali,
di questa. Antica su l’antica croce
quetava l’aquila il rombar dell’ali…
Egli guardava… Ed esclamò con voce
alta e profonda: – O gioventù latina,
se non è il fonte, non sarà la foce.
Dio t’urla in cuore, o gioventù: Cammina!
Ascendi il monte! Sosta sulla vetta!
Snuda la spada e butta la guaina!
O gioia mattinale! uno in vedetta
sul picco, mentre dormono i trecento
sopra le foglie morte, nella stretta
dei monti, e in mezzo la bandiera al vento
sibila e schiocca, ed egli ode lontane
della città grida e rintocchi, attento…
«All’armi! all’armi!» Tra il tumulto immane
passi la rossa schiera con la romba
della sua corsa, e sopra le campane
squilli secura lieta alta, la tromba. –
IV
Tre colpi all’uscio. Era un fratello. Avanti!
Un uom di mare entrò, larga la fronte,
bronzato, con fulvi capelli ondanti.
Stette sereno come ancor sul ponte
della sua nave, fisso alla Polare.
ORA! – sembrò parlasse il mare al monte
con un’ondata. – E SEMPRE – il monte al mare
immobilmente. – Giunsi or ora in porto…
da Taganrok… Voi siete a comandare
qui sul ponte, io… vengo a supplire un morto –
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
MAZZINI
LA TEMPESTA DEL DUBBIO
I
Mazzini, già, come Gesù trentenne,
era già solo. Un’ombra si diffuse
su la solinga anima, e il dubbio venne.
Tutto crollato: le speranze, morte,
e morti i cuori. S’erano richiuse
per sempre – con un lento addio – le porte.
II
Con ferro suo la palma volta in mano
cadea l’Italia! Ora non più risveglio.
Tutto era stato, ed ora e sempre, in vano!
Solo – e dal volgo si credea ch’esangue,
cupo, mandasse i fidi, come il veglio
della montagna, ebbri d’haschisch, al sangue.
III
Spenta la fede anche ne’ suoi più cari;
chi lontanò crollando il capo stanco,
chi lo seguiva con sorrisi amari.
Fuggiano, al verno, come morte foglie:
scendea dal ciel, non loro, il lenzuol bianco
ch’eternamente a gli occhi altrui ci toglie.
IV
Sol gli restava la sua madre, in pianto,
pianto lontano sul deserto mare,
cui esso, o madre! era dolor soltanto.
O madre! o madre! o alte mute grida
vedendo in sogno il figlio suo passare
scalzo, col velo nero – un parricida! –
V
O le altre madri ai piedi della croce
pregare udiva ed accusare a Dio
lui, col materno pianto nella voce.
E le vedeva in fila uscir dal chiostro
per dire a lei: – Che piangi? Il pianto è mio:
non voglio. Il pianto è nostro! Il pianto è nostro!
VI
E’ di noi madri, che i figliuoli appena
presti alla vita li sappiamo in grotte,
sotterra, come bestie, alta catena.
E’ di noi madri, umili ignare oscure,
cui tolse i nati, al fine della notte,
su la dolce alba, piombo corda scure. –
VII
Ed ei pensava: – E perché mai v’ho tolti:
figli, alle madri? Era di voi più morta,
o per lei morti, o dentro lei sepolti,
l’Italia. Dunque… Oh! per un mio delirio!
Fra terra e cielo io la vedea risorta
con su la chioma il tremolìo di Sirio! –
VIII
E nella notte insonne, lunga, vuota,
che aveva del giorno anche obbliato il nome,
sbalzava al suono d’una voce nota,
la voce, d’uno che passava, d’uno
che si fermava, lo chiamava – Come?…
Iacopo! – S’affacciava, ansio… Nessuno!
IX
Su tre lunghi anni avea soffiato un breve
attimo – Vive! Ha franto i ceppi! E’ meco! –
Nessuno là nel grande albor di neve.
Oh! dal sepolcro… egli credea che fosse
bianco vanito nel biancor, senz’eco.
C’erano sulla neve goccie rosse…
X
Era vanito nella forra brulla
dicendo, Vieni, in suo passaggio, e il vento
vaniva anch’esso per la via del nulla;
vaniva là con lunghe voci, e gemiti
e fremiti, urla d’ira e di spavento
e di minaccia e di rampogna – Eh? Tremi! –
XI
Oh! avesse accanto un’anima serena,
un cuore amico, per placar con esso
quei morti in ira, quelle madri in pena…
per non vedere l’altro figlio d’Eva,
il reo, l’uguale, l’altro sé, sé stesso,
cui malediva, sopra cui piangeva…
XII
E sì, qualcuno era pur giunto… Forse
quei che move all’intorno un nembo d’aria
salsa di mare, il giovane dell’Orse,
quel timoniere d’anime tranquillo
avvezzo ai gridi della procellaria,
Borel! ch’ha nella voce alta lo squillo.
XIII
Né lui, né altri. Era Borel lontano
tutto l’Oceano e le sue cento aurore.
A Cabo Frio portava ferro e grano.
La sua sumaca era agghindata a festa.
Ma il cabottiere si mangiava il cuore,
ed anelava al largo e alla tempesta.
XIV
Egli era stanco d’udir sempre il rombo
della risacca contro la scogliera,
e dove giungea l’ombra di Colombo,
di bordeggiar con una garapera.
Borel, un giorno, in mare mutò rombo;
virò di bordo, issò nuova bandiera.
XV
Dodici cacciatori di jaguari,
re delle Pampe, mulattier dell’Ande,
eran con lui, sbuffanti dalle nari
il tedio di quel navigare a rande.
Ei disse: – Siate, d’ora in poi, corsari.
La nostra Italia, ora sarà Rio Grande.
XVI
Noi più non siamo mercatanti ignavi
che in ogni rada gettino i grippini;
noi combattiamo per pezzenti e schiavi,
siamo l’Italia, o miei lupi marini.
Avanti! un guscio contro cento navi!
contro un impero, il nome tuo, Mazzini!
XVII
Mazzini un giorno si destò tranquillo,
sereno. Ognuno, non il suo destino,
ma porta dentro il cuore il suo vessillo.
Avanti! L’uomo, alta la fronte o bassa,
non è, lieto o piangente, un pellegrino:
ma è un celeste messagger che passa.
XVIII
Avanti! Tutti hanno il lor fine al mondo.
Tutti hanno un posto loro nel gran mare
dell’essere, e sia pur l’alga del fondo!
Avanti! Dice Dio: Quando son io
che mando, andate, senza mai sostare
senza mai riposare. – E dove, o Dio? –
Tu che devi morire, uomo, a morire!
Tu che devi soffrire, uomo, a soffrire!
GARIBALDI IN AMERICA
I
VIAGGIO A ESCOTERO
Torna al Rio Grande col suo pro’ compagno,
torna il Filibustiere, ora a cavallo.
Prese il cavallo nella mandra al laccio,
frenò, sellò: lo domerà stradando.
Galoppa dietro il cavalier selvaggio
tutto con un cupo tumulto il branco:
falbe giumente col puledro accanto,
stalloni in corsa inalberati al salto.
Ed egli, quando il suo cavallo è stanco,
getta le frombe sibilanti a un altro;
lo frena e sella e monta su fischiando.
Il vento in mare gl’insegnò il suo canto.
I mustang, le giumente e le puledre,
liberi seguono il Filibustiere.
Sul feltro suo beccheggiano due penne,
lunga la chioma al vento si distende.
Ma queta il passo ove la steppa è verde,
perché i cavalli pascano le alte erbe,
perché bevano chiaro le giumente
a qualche stagno ombrato di ninfee.
Sembra un pastore. E indugia perché vede
i puledrini ancora alle mammelle.
L’armento nell’oscurità s’aduna,
fa un grande cerchio in mezzo alla pianura.
Le teste l’una all’altra hanno congiunte:
sognano insieme orecchio a orecchio, il puma,
l’uomo, il jaguar: l’un dopo l’altro, sotto
l’ombra stellata, rigna e scalcia al sogno.
E l’uomo giace sulla terra nuda
e guarda in cielo e naviga lassù.
Passa tra grigie nebulose ed erra
tra gruppi ignoti. Avvista Altair e Vega
che riconosce. E sempre più s’inciela.
Da stelle a stelle, è sopra la sua terra.
Dal cielo azzurro grida Italia! Italia!
E sbalza in piedi ad un nitrito. E’ l’alba.
Per boschi e campi passa il cavaliere
tra uno svolar di code e di criniere,
e groppe mosse su e giù come onde,
e ringhi acuti ed ansie fremebonde,
ed urli e calci al vento e salti a sghembo,
e il subito ampio rotolar d’un nembo.
II
A PIRATINIM – IL CAPO
E in nove giorni giungono al silvestre
Piratinim. Il popolo ribelle
avea sui muli e in carri la sua legge
portata là coi fasci delle verghe.
Là, Bento, un vecchio alto e salcigno siede
in terra, in mezzo alle araucarie nere.
– Ospite, siedi. Hai molto pel Rio Grande
fatto e patito, in terra e in mare. Grazie.
Or verrai meco, ch’io mi vuo’ condurre
in armi al passo delle due Lagune. –
Cavalli a un tronco avvinti per la briglia,
pascono intanto melega e gramigna.
Ed arde un fuoco lì da parte e brilla;
un uomo, un Combo, lento su vi gira
l’arrosto pingue: cola, sfrigge il sangue
e un grasso odore nell’aria si spande.
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
GARIBALDI VECCHIO A CAPRERA
AL FOCOLARE
Garibaldi siede al focolare,
siede avanti fuoco di lentischio.
A Caprera cupo batte il mare,
il libeccio l’empie del suo fischio.
Egli vecchio dalla barba bianca
cova il fuoco, cova il suo pensiero;
e si trova sur una barranca,
la gran chioma scossa dal pampero.
Vede un mare verde là che sogna
d’esser terra né flottare più.
L’aria porta beli di vigogna
alti e bassi fischi di gnandù…
Oh! le pampe dell’immenso Plata
verdi sotto il cielo senza nubi,
una solitudine ondulata
sparsa d’isolette di carrubi,
sola terra degna che vi scenda
il marino che patì fortuna;
egli d’una vela fa la tenda,
e vi sogna sotto l’alta l’una.
Ecco un tuono, un calpestìo di zampe
che s’appressa sempre sempre più…
Va sul mare verde delle pampe
lo stallone e la sua gioventù.
Come è bello il libero stallone
con la coda e la criniera ai venti!
Mai ne’ fianchi non ebbe lo sprone
né il ribrezzo del ferro tra i denti.
Pura è lunghia di fimo di stalle,
brilla al sole la lucida groppa.
E’ raccoglie le sparse cavalle,
annitrisce al pampero, e galoppa.
Va, galoppa! Va libero e fiero
della tua solitudine tu!
più veloce sei tu del pampero,
più del tempo… del tempo che fu…
INNO A ROMA
Gl’Itali non mutato dal tempo di Romolo il nome,
Roma, ti serbano: Roma era ne’ secoli, ed è.
IL NOME MISTERIOSO
O – ma qual nome ora, de’ tuoi tre nomi,
dirà l’Italia? Il nome arcano è tempo
che si riveli, poi ch’è il tempo sacro.
Risuoni il nome che nessun profano
sapea qual fosse, e solo nei misteri
segretamente s’inalzò tra gl’inni:
mentre sull’ombra attonita una strana
alba appariva, un miro sole, e i cavi
cembali intorno si scotean bombendo –
Amor! oh! l’invincibile in battaglia!
oh! tu che alberghi nei tuguri agresti!
oh! tu che corri l’infinito mare!
Vennero in prima schiere a te, per l’onde,
d’esuli armati, ed una stella d’oro
reggea le navi incerte del cammino;
a te noi genti italiche la stella
d’allora, tra le fiamme e tra le morti,
col raggio addusse che giammai non muta.
IL PRIMO EROE
Chi per te primo, immensamente amata,
cercò la morte? Fu nella penombra
dei tempi, grande, lungo il Tebro, un pianto.
L’eroe Pallante era caduto. Offerse
l’àlbatro il bianco de’ suoi fiori, il rosso
delle sue bacche e le immortali fronde.
Gli fu tessuto il letto di quei rami
de’ tre colori, e furono compagni
mille al fanciullo nel ritorno a casa.
E fisi in quella bara tricolore
i mille eroi con le possenti mani
premean le spade; ed era in esse il fato.
Oh! ma che pianto fu così tornando
al vecchio padre! Era suo padre un vecchio
povero re, dalla silvestra reggia.
Fauno, il suo nome; ed abitava i sassi
del Palatino, tra le antiche selve
misteriose. E tu non eri, o Roma.
Anzi per il rupestre Campidoglio
eran macerie già muscose, e bianchi
ruderi sparsi si vedean tra i folti
cespugli del Gianicolo: rovine
di due città vinte dal tempo; ed ora
quelle rovine trite e sonnolente
empiva a volte del suo rauco augurio
lo stuol de’ corvi. E Fauno avea per reggia
una capanna piccola, coperta
di felci e stoppia. E guardie sulla soglia
avea due cani, che correndo innanzi
bandìan, lieti abbaiando, il suo ritorno.
Al re non tromba dividea la notte
buia in vigilie: gli diceva – E’ l’alba –
di sul colmigno il passero, e la rondine,
anche più presso, gliel garrìa dal trave.
E quindi il tempo portò via quel Fauno
e il suo dolore, e la caduca reggia;
e sul Palazio ignare le giovenche
pascevano, e la valle posta al piede
si mescolava d’un belar d’agnelli.
E se il pastore aveva udito un qualche
urlo di lupi, egli, racchiuso il gregge
in uno speco, s’addormìa tranquillo.
Veniva allora, per le tenebre, una
lupa, e fiutava il chiuso lupercale.
E Fauno, il buono, nelle selve ombrose
cantava il canto delle foglie ai venti,
invisibile. E sulle antiche quercie
picchierellando senza fine il picchio
sacro contava gli anni tanti, gli anni
tardi a venne.
LUPI E AQUILE
Aprile, che s’apriva
il fiore, venne, e il Tevere più gonfio
portava l’onde con un grande rombo:
e d’ogni parte sulle piane e i colli
arsero fuochi nella notte sacra.
Tutto splendé. Fiamme correva il fiume.
Però che, intorno, alle selvaggie stanze
fuoco i pastori davano, mutando
già le capanne, d’erbe e frasche, in case.
E poi saltando sulle fiamme, un canto
diceano, sacro: «Fuoco puro, Fuoco
grande, buon Fuoco, che ammollisci e domi,
portati via queste capanne, portati
via questi nidi! Noi non siamo uccelli,
lupi noi siamo. Addio, cose d’un’ora!
Siamo per fare una città ch’eterna
duri, ed un proprio focolare, in mezzo,
sarà per te, che mai non dormi, o Fuoco!»
Ed una torma giovanil più fiera
diceva: «Oh! bello andare al vento! E’ bella
l’ora che fugge, e sempre un altro il sole!
La terra sempre nuova sotto quelle
antiche stelle! Voi da voi ponete
tra il mondo e voi pur quella fossa ignava:
sia senza fine a noi la via, la terra
senza confine! Lupi, sì; ma ora…
dateci l’ale, o aquile!»
L’ARATORE
Uno arava.
Egli segnava, sull’aurora, un solco
quadrato intorno al colle Palatino.
Sentian le zolle il primo aratro allora.
E sotto il giogo era una vacca bianca
e un rosso toro, che di quando in quando
il rauco fiato si gemean sui collo,
molto anelando. E la città futura
stava e mirava, coi vincastri in mano
e con indosso pelli irte di capre.
Ma gli altri fieri, a chi piacea l’andare
col gregge errante, e l’erba che più bella
rinasce sempre sotto il dente al gregge,
ridean dei semi che dovean sotterra
marcire al buio. E gli uni e gli altri torvi
aveano gli occhi, e l’ansito ondeggiante.
Stava il fratello, qua, del Capo, anch’esso,
con lui, l’attonzo della lupa; ed ora
schifiva, lui villano, egli pastore.
Taciti i buoi tiravano nel cupo
tacer di tutti; ché fuggiano il grande
bifolco orrendo ch’era loro a tergo.
E qui, con l’ale largamente aperte
al sole, apparve un’aquila, che ferma
mirava a lungo qual lavoro in terra.
Poi, fisa sempre, s’affondò nel cielo.
LE VOCI DEL FIUME E DEL MARE
Il pazïente aratro col suo coltro,
allora, più splendente della spada,
prendeva a forza, con ferite a fondo,
la terra; e il Tebro che lambiva il colle
con l’acque torbe, vie più alto un suono
mettea chiamando l’anima dei forti:
«Oh! voi, che aprite con un rostro adunco
la terra, omai la prora che toglieste
alla mia nave, a lei rendete, o figli;
ed ora in me, con quella ch’è il mio coltro,
segnate un lungo solco sino al mare,
sino al gran mare, azzurro e piano; e oltre!
Bene avverrà!» Così diceva il Tebro
con l’incessante murmure; ma il vento
di primavera dal lontano lido,
sempre più forte, le narici aperte
a lor bagnando de’ suoi salsi spruzzi,
«Oh! voi che fate una città pastori,»
diceva. «eccovi l’atrio, ecco le porte
color di cielo, e il limitar che tuona
sparso di schiuma dalle larghe ondate.
O cittadini, ecco la via già fatta,
labile, piana, e ne son pietre i flutti.
Dall’urbe uscite: avanti voi c’è l’orbe!»
Allor li prese un vago amor dell’onde
che sempre vanno a modo de’ pastori;
di sempre andare e pascolare il mondo.
LA RISSA
Pales, o grande e buona Iddia, di latte,
munto d’allora, ti facean l’offerta.
Nella città non nata la giovenca
cimava steli e fiori; a lunghi sorsi
beveva il toro; ed il tuo colle a un tratto
suona di grida. Rissano i pastori
proprio nel solco, un passo dall’aratro,
che riposava. Gli uni avean lo spiedo
da caccia, gli altri aveano l’ascia in mano.
Questi già pietre, qua e là, da terra
traean tagliando e scalpellando; e quelli
piangean la terra duramente offesa.
«Non era assai picchiarla con la zappa,
fenderla poi col vomere! Ecco, rossa
vogliono ancora frangere alla madre!»
Vennero all’armi, e l’ascia del lavoro
sentì la morte, e tu nell’aria rosa
tremavi, o stella d’oro della sera,
vedendo in cielo nuvole suffuse
del sangue ch’era sparso in terra.
L’ASCIA
Roma
purificata balzò su dal solco
rosso di sangue, ché alla Terra Madre
consacrò l’ascia onde l’avea ferita,
onde l’avrebbe per le genti tutte
ferita ancora. O ascia, in ogni plaga
ti dedicò, per questa grande Italia,
ti seminò, ti sotterrò nel mondo.
Tu sotto i templi e sotto l’are e sotto
gli anfiteatri semiruinati
ti trovi e sotto l’ardue terme, infrante
presso le nubi. Te nel cor le sponde
sentirono del Reno e del Danubio,
t’ebbero le foreste invïolate
e le sabbie arse che il leon sue rugge.
Tu sei presso le moli, ove sepolti
sono i giganti; sotto gli occhi fissi
eternamente della muta Sfinge;
tu sotto accampamenti che nessuno
più moverà. Tu scalpellasti i massi
per le infinite pompe del trionfo.
E per te l’Arco trionfal si prese
l’arco del cielo, e sulle vie la Gloria
aprì tra due colonne le sue porte
senza battenti.
LE STRADE
Era vicino al tempio
del dio Saturno, dio seminatore
e falciatore, un grande cippo, d’oro.
Di lì per l’orbe tutto lanciò Roma
le strade sue di duro sasso e duro
suono. Di lì, dal cippo d’oro, sette
vie quattro volte si lanciarono oltre,
ai quattro venti, e prima tra sepolcri
moveano, a piè di tumuli e cipressi,
sotto la tacita ombra funerale;
poi via per verdi campi e per deserti,
diritte come solchi, e via tra rupi
tagliate da scalpelli, e via per selve
profonde, mute, solo allor ferite
dal ferro ignoto, e via sopra veloci
fiumi aggiogati con eterni ponti,
e via per l’Alpi, che vincean con giri
blandi, le irate. Da quel sasso, a forza
ruppero un tempo tante vie sul mondo.
Parea che un luminoso Sagittario
via via volgesse a tutti i venti il grande
arco fatale, e saettasse intorno
intorno, stante nel bel mezzo, il cielo.
LA LEGIONE
Le dure suole e i cerchi delle ruote
fecero i solchi in queste vie, battute
dalle coorti che movean le insegne
contro i terrestri. Andavano, e la schiera
villesca alzava per insegna un fascio
d’erba. Prima la falce e poi la spada.
Mai non mancava fra le spighe il rosso
di qualche fiore. Fissa, poi, sull’asta
era una mano, ch’è una pianta sola
con più rampolli. Della via fu guida
poscia la lupa; e si vedean passare
cignali e smisurati l’iofanti.
E fausta, infine, di tra un baglior d’oro
l’aquila uscì: le ignare terre e l’onde
remote corse un brivido ed un fremito
al ventilare delle sue grandi ale.
E le legioni col lor pilo grave
per quelle vie senza la meta e il fine,
mossero intorno. Ed assembrava allora
tutte le genti e i popoli l’antica
bùccina, che al pastore fuor di mano
sul far di notte avea mandato un segno.
E dominava sotto giusto impero,
tutti, il sottile tralcio d’una vite.
I MESSAGGERI
Alle battaglie, in mezzo ad una nube,
eran presenti i due gemelli Dei.
E niuno mai li vide; ma soltanto
tra squilli gravi delle trombe, acuti
de’ litui, e grida ed ansimar feroce,
s’udiano al vento alti selvaggi ringhi.
L’uno era chiaro come l’aureo sole;
l’altro parea la notte opaca, ed era
avviluppato in ombra di dolore.
Ivano a paro avanti le coorti
di bronzo, i forti giovinetti in fiore,
erti su gl’immortali lor cavalli.
Ma in mezzo al mare, quando sulle lievi
liburne erano le aquile, ondeggianti
per la fortuna, e l’armi contro l’armi
cozzanti, allora divenian due stelle,
che rifulgeano fisse tra il brandire
degli alberi e l’oscillar delle antenne.
Erano questi i tuoi corrieri, al cenno
pronti, o Vittoria. All’apparir del vespro,
volgean del pari il corso de’ cavalli,
e per le strade andava il colpo e il tonfo
dei risonanti zoccoli; e i cavalli,
ecco, anelanti, essi adduceano all’acqua:
o dea Iuturna, all’acqua tua perenne:
né già cadean le stelle, né le nubi
dalla prima alba erano ancora orlate.
Vegliava un solo focolare in Roma,
v’era una sola casa, che mandasse
baglior di luce dalle sue transenne.
Vesta attendeva i reduci seduta
al fuoco inestinguibile.
AI DUE GEMELLI
Fratelli!
O in pace alfine (come voi chiamasse
il tempo antico) ora; non già, fratelli,
allora, anche pugnaci sotto il ventre
della nutrice vostra lupa fosca:
tante pendean le poppe, e tra voi d’una
sorgea contesa, per averla entrambi:
voi che la lupa con la scabra lingua
non ammansava, ed ammansò la morte:
che stretti poi con infrangibil patto,
come la notte è giunta al dì, celesti
cavalcatori, componete il tempo,
non interrotto, con la luce e l’ombra;
su! le criniere v’attorcete in mano,
saltate su, lanciateli: da tanto
hanno i cavalli l’émpito nel cuore!
Al lor ritorno avvinti per le briglie
alle colonne vostre, dagli augusti
ruderi il loglio antico pasceranno.
Ma ora andate a rivedere i campi
delle legioni, a riveder le terre
onde v’avvenne riportare il nunzio
della vittoria. Si combatte ancora
con ferro e fuoco. Sono le coorti
d’allora; al ciclo va la polvere, alto
suona il fragore. Colmano bassure,
piantano i valli, sfanno i colli, occulte
forano vie per entro le montagne.
Sono picconi l’armi nostre. Andate
propiziando! il Popolo pilumno
pensi i trionfi che menò, le leggi
che fece, il dritto che impartì, la pace
che diede, e allievi il suo lungo lavoro
d’oggi con la sua gloria veterana.
LA VERGINE MASSIMA
Ora, ascoltando le sorsate al fonte
sacro, e il bussar dellunghie alterne in terra,
nel tempio augusto pallida taceva,
fisa con gli occhi, la sacerdotessa;
poi, nell’alto silenzio risonando
una voce mirabile: Vittoria!
ella premea nel cuore quella voce
e quel portento e s’avviava all’arce
del Campidoglio. E il popolo mirava
tacitamente ascendere il pontefice
e la vergine massima.
IL PASSO DI ROMA
Divina,
così, con passo, sempre ugual, di gloria
andava Roma verso il grande imperio.
E monti e valli e fiumi e selve al passo
fremean sonanti sotto il piè di Roma,
della Immortale sempre più lontana.
E mille passi delle sue legioni
fulgureggianti di metallo al sole,
ella chiudeva in uno dei suoi passi.
Ed una pietra ne segnava l’orma
tutte le volte, e i popoli, a quell’orme
così distanti, abbrividian nel cuore.
I DUE IMPERATORI
Oh! ben temeano i popoli le scuri.
Ché per il mondo si vedea passare
un uomo grande più che l’uomo, un grande
che dava a tutto, il freno o l’urto, ei solo,
della sua mano. Egli partìa la terra
con la sua spada e il cielo col suo lituo,
augure circondato dalle rote
degli avvoltoi. Lanciava egli all’assalto
con un suo cenno l’aquile, e le lievi
turme al galoppo, e l’ululo di morte
ravvolto nella polvere veloce.
Eppur mostrava placido alle genti
placate il volto, e calmo i cavalloni,
ancora irati dopo la tempesta,
con quella mano che impugnò la spada,
calmava, e dal belligero cavallo
dicea le leggi e l’arti della pace.
Salve, o possente Roma! Tu le terre
hai dissodate col tuo duro coltro;
la macchia hai franta perché desse il grano
placido. Il grande imperio era il tuo fato.
Quando a te fu dagli ampi omeri tolta
la porpora, ecco il re de’ sacrifizi
uscì da templi novi e da miti are.
E poi levò di terra la corona
e ne cinse la lunga chioma bionda
d’un re che aveva la fràmea per lancia;
e poi, volgendo i secoli, battaglia
mosse, egli re dei riti, al re dell’armi.
E tempo venne che dall’alto soglio,
con la corona sulla fronte eretta,
con nella mano la stellante spada
(stettero i messi attoniti nell’aula,
e reprimeano i secoli la corsa
infrenabile, come visto un cenno
rapido di far sosta e di dar volta),
«Che domandate?» addimandò. «Ciò ch’egli,
il vostro re, domanda, è mio. Son io
il Cesare, son io l’Imperatore!
Andate!» E il re sacrìfico si prese
i fasci albani; e l’ara vide al lume
dei sacri ceri scintillar le scuri.
GLI DEI
Fu la tua parte. Era il tuo fato, o Roma.
Tu sulla poppa assisa, non volesti
per nessun vento abbandonar la barra.
Profughe genti vennero dal mare
a darti inizio; e i profughi tu sempre
prendesti a bordo della ma gran nave.
Tu sei, d’antico, un santo limitare
d’asilo ai popoli esuli, tu sacra
fossa cavata, in cui le genti i semi
posero, e zolle della patria, e cose
sacre, e le lor memorie ed i lor Mani.
Fosti l’altare per gl’iddii fuggiaschi;
pur solo ad uno implacida, ad un solo,
povero, un dio sì umilmente dio!
Altri alla luce aperta gli stranieri
numi adorando, i lor pingui altari
facean vermigli di taurino sangue;
altri in cortei, per la città, solenni,
batteano i cupi timpani e le strade
tutte accendean di queruli ululati.
Ma quelli per le volte e per le ambagi
d’un nero sotterraneo laberinto
seguivano una fiaccola, e con voce
segreta, là, benedicean cantando,
ignoti a tutti, il loro ignoto Dio.
Per tempio avean, per i lucenti altari
di Roma, alcun muffito sepolcreto,
e la lor vita era coi lor sepolti.
Avanti l’arche, fiale rugginose
di sangue, e lumi dall’esigua fiamma.
Dicea quel lume che la vita scorsa
era col sangue, sì, ma invano. Il morto
dormiva. E il sonno era leggero e breve.
Una colomba col suo roseo becco
svellea da un canto un ramicel d’ulivo,
e si levava, con la frasca, a volo.
Ed un pastore s’era messo in collo
l’agnello stanco, e andava con la verga
sua pastorale e col secchiello in mano.
C’era la croce, e dubbio era, se croce
fosse od àncora. Sbalzata dal vento,
percossa dalla folgore, la nave
era al sicuro, alfine in pace: aveva
gettata l’àncora nel cielo.
ch’ella da molti secoli nell’ombra
era discesa, tutta rughe e muffa:
«… non cadrà più, poi ch’è il dolore umano!
Gli uomini eretto i templi hanno al dolore!
E’ il dio sol esso, il solo dio fra tutti,
che non può mai morire!»
L’ESACRAZIONE
Cadean gli dei; restava il Campidoglio,
invïolato; e immobile la rupe
pendea sull’urbe. E il Barbaro selvaggio
invase l’urbe, e la guastò col ferro
e con la fiamma, e lunghia de’ cavalli,
grave, pestò le sue ceneri: invano.
Fin ch’un di loro decretò che lento
mortal languore la struggesse. Vinta,
egli poteva anche spianarla al suolo.
«Ma no» diss’egli: «la sommuova il verno,
la inondino le pioggie, e disdegnando
da sé la scuota e gitti via la terra:
la frangano le folgori tonanti:
sia sacra a Dio, precipitino i cieli
sulla lor cosa.» Tanto ei volle, e tutti
al suo comando, partono, e le madri
sono strappate all’are, ed i fanciulli
vanno e le indarno verginette in fiore.
Poi, per le vie del duro suono, i plaustri
Goti e i cavalli e le Àmale coorti,
piene di preda, andarono sull’orme
degli antichi manipoli, e lontano
il vincitore in sua lorica d’oro
LE FAVISSE
Intanto, quali in una torba sera
fuggon le nubi d’ogni parte e vanno,
gemendo, spinte qua e là dai venti,
tali gli dei cacciati dai lor templi
empìan notturni il cielo di querele.
E di quei templi l’umide cisterne,
sin le favisse sotto il Campidoglio,
fervean d’un cupo murmure. Ché i molti
idoli sacri, l’uno dopo l’altro,
vi discendeano. E Venere, la vita,
vedea la prima volta ora i vetusti
lupi e cignali, e là pur mo’ gettata
schifìa Minerva i rozzi cippi e il vano
dio, ch’era un legno putrido, ed ansante
non ravvisava, nel Mamurio irsuto,
Marte sé stesso. E scese alfin dal sommo
dell’arce, dietro gli altri dei consenti,
Giove pieno di nubi il sopracciglio.
«O già potenti in cielo, sulla terra,
nel mondo oscuro: fummo. Noi cacciammo
altri dal soglio, ed altri noi discaccia.
Ma non è vano l’aspettar vicenda.
Quel dio rifatto, a cui cedemmo contro
cuore, fuggiasco, povero, deforme,
il cui soglio è la croce, ed il cui serto
sono le spine dei roveti…» Ed altro
egli diceva, ma seguì con voce
piena d’orrore la Carmenta antica
vaticinante, a nessun dio più nota,
svanì lasciando gli edifici soli,
già balenanti, già meditabondi
tra sé e sé, del crollo ultimo, e Roma,
Roma, sotto il suo sole almo, deserta.
IL GRANDE SEPOLCRO
E fu silenzio dentro le muraglie
sacre, e il pomerio grande ora cingeva
grande un sepolcro. E il sole che la vide
tacita, a poco a poco calò, lento
sfiorando con un alito di luce
le cupole e i lunghissimi obelischi;
e poi nel trarre fuori il dì, tentando
invano di svegliarla dal gran sonno,
stupiva di vederla altra e la stessa.
Suono non v’era se non d’improvviso
crollo di muro o il tonfo di finestre,
cui si provava di serrare il vento.
Talvolta andando e riandando i corvi,
gracchianti, a stormo, quel letargo strano
scotean, nell’ira, d’uomini e di cose.
E molti discendean dall’Aventino
foschi avvoltoi, che ripetean l’augurio
natale, in alto, sulla città morta.
E poi notturna i cuccioli la volpe
guidava, e le basiliche del Foro
cauta girava e le colonne antiche.
E dopo i lunghi secoli le lupe
del tempo primo vennero, cercando
gli antri per l’alte sedi imperïali.
Parean, destati dal lor sonno i templi,
aperti stare, stare ed aspettare
i sacerdoti immemori. Giaceva,
abbandonata per i sette monti,
Roma. E le acquate assidue la battono
e le raffiche rapide del vento,
e la fiammante folgore del cielo
ormai fa divampare il rogo.
IL NOME CELESTE
Aprile
era vicino, era, con lui, vicino
il dì natale della città morta.
E di narcissi dalla chioma d’oro,
di crochi dagli stami d’oro rise
la solitudine, e dalle rovine
dei templi il rosso smìlace comparve;
e le vïole al fonte di Iuturna,
caste, s’abbeveravano, e gli sparsi
ruderi si gremìano di giacinti;
e tutti i bronchi e pruni aspri, nel Foro
Romano, in cima avevano una rosa,
e sopra i marmi antichi era l’antica
porpora. Per nessuno, dal sepolcro,
dal suo sepolcro, ch’era anch’esso infranto,
spargea, versava senza fine al cielo,
nel tempo dolce ch’è il suo tempo, i fiori
che sono suoi, quella che in cielo è Flora.
A FLORA
Flora! madre dei fiori, o tu cui sempre
è primavera, o tu che per le genti
immense hai sparso il nuvolo dei semi,
la Terra aiuta! Questa pia saturnia
terra produca in maggior copia i frutti
che già versava dal fecondo grembo.
Nutra di sé quelli che già nutriva,
armenti e greggi, e tornino gli uccelli,
ormai spariti, a liberare i campi,
e per i campi floridi echeggiare
facciano la dolcezza del lor canto.
Alle mammelle opime della Terra
sugga una prole più gagliarda il latte
e insiem col latte la virtù romana;
ed ogni mare solchi ed ogni terra
calchi, anche il cielo navighi, sembrando
candidi stormi di canori cigni.
La tua città non lasciar più che cinta
sia di deserti e verdi acque muggenti
del torvo bue selvaggio che vi guazza.
Riguarda quei villaggi di capanne,
quelle capanne squallide di stoppia,
o Flora! Dunque non distrusse il fuoco
de’ primi dì tutti i tuguri? Dunque
non toccò tutti gli uomini il Diritto
con la sua verga? Guarda: sono schiavi,
sotto le bestie! Rendi a quei meschini,
o Flora, il suo; liberatrice abbraccia
quelli spogliati; e per sé solo, o Flora,
raccolga chi le seminò, le messi,
come allorquando si lasciava a mezzo
solco l’aratro e s’assumeano i fasci.
Rinnova l’arte antica, cingi al capo
l’antico serto e fa che mai non cada
l’inno di gloria che beò l’Italia.
Sian, per i colli, glauchi olivi e verdi
viti, e di spighe rigogliose ondeggi
la valle immensa. E fiacchino la forza
del vento e il nembo struggitor le selve
veglianti a guardia sul cigliar dei monti.
Il Rubicone, ecco, già bianchi ammira
enormi tori. Egli che vede andare
per la campagna tante paia e vede
da dieci bovi tratto un solo aratro,
egli che già non obliò nel sonno
le bronzee file della forte Alauda,
pensa all’imperio, a Cesare, ai trionfi.
Noi non l’imperio, non i cortei lunghi
di quei trionfi a te chiediamo. Un’Ara
abbiamo, e noi, di Pace, eretta, o Flora.
I fiori dà color di sangue ogni anno
(solo nei fiori tu il color di sangue
lodi e nel casto viso di fanciulle:
miele, olio, vino, o Flora, ami; non sangue),
dà le memori foglie dell’acanto
per adornar quest’ara. Alto nel mezzo
noi collocammo in una vampa d’oro
chi la portò; questa concordia augusta.
E quanti ancora col lor sangue, eccelsi
spiriti, questa pace e questa patria
fecero a noi, là stanno. E sono, o Flora,
la messe tua che cade sì, ma sempre
nuova nei lunghi secoli germoglia.
IL PRIMO COLLE E I PRIMI PASTORI
Certo è che vive in questa terra occulto
qualche portento, e sì, nel monte, dove
Roma quadrata germinò dal solco.
Pastori un tempo (luce ed ombra incerte
vi si spargean sotto la falce d’oro)
erano là coi rastri. Era la gloria
vanita già di Roma, era d’Apollo
sparito il tempio. Tutto il sacro colle
tenean le infrante vecchie pietre ingombro.
Cespi d’acanto, nuove polle uscenti
da qualche ceppa d’albero che appena
sapea sé stesso, s’opponeano al piede.
Giacean rottami candidi di marmo
tra i rovi e i pruni, e sorrideano al suolo
i capitelli ai cardi ispidi e duri.
Muri con archi, cui copriva il musco,
pendean crollanti, si scoteano al vento
ad ogni crepa le parïetarie
come ciarpame pendulo a finestre
d’un abituro. Qua le acquate al tutto
finìan gli dei dipinti nella calce,
qua le ventate stridule uno straccio
sempre rapìan da tende non più fisse.
Scabbia di pietre, lue di sassi verdi
per tutto, ed archi che teneano ancora
sol per l’abbraccio d’edere contorte.
Credean gl’ignari di veder spelonche
di giganti che dopo un’ardua rissa
con massi enormi, ora, cocendo l’ira,
lontani e soli errassero sui monti.
IL SEPOLCRO DEL PRIMO EROE
Ed i pastori, come un tempo, in cerca
di preda, una spelonca aprono, un sasso
movendo, immenso, e vedono nel fondo
della spelonca balenare un lume.
E quindi – era un sepolcro – gigantesche
membra d’un uomo vedono, che il petto
aveva aperto da una lunga piaga.
Stupor li prese di quel corpo cinto
d’armi cangianti, di quel capo ignoto
dentro l’irsuta gàlea. Ché tutte
l’arme egli avea, fuor della spada, e il petto
non gli cingeva il balteo d’oro, vario
di spesse borchie. Sull’ignoto capo,
alto, vegliava un fuoco e gli sfiorava
l’antica piaga con l’assidua fiamma.
Un dei pastori, simile ad un Fauno,
vide fra tanto impallidire il cielo,
languire insiem le tenebre e le stelle.
LA LAMPADA INESTINGUIBILE
Ogni maceria gorgheggiava. I nidi
s’erano desti, delle rondinelle,
in fila sotto i capitelli neri.
E si vedean le macchie, e tremolando
splendean le cime delle selve, e i pini
alti sopra la vetta Pallantea.
Ed il pastore trasse fuori all’alba
la lampada e l’oppose al mattutino
vento. E il suo lume si sbatté, ma visse.
E vi soffiò con le selvaggie labbra,
e la tuffò nell’acqua d’una pozza;
ma il lume visse. Ed e’ la rese ardente
al suo sepolcro e l’appendé dov’era,
e col suo masso chiuse la spelonca.
Dove ancor pende e raggia ancor la luce
su te, giovine eroe primo, che fosti
di tanta gloria e tanta lotta e tanto
dolore e amore la primizia santa.
Son tre millenni ch’ella dal sepolcro
veglia su Roma con l’eterna luce.
A ROMA ETERNA
Spirito eterno, eterna forza, o Roma!
Dopo il gran sangue, dopo l’oblìo lungo,
e il fragor fiero e il pallido silenzio,
e tanti crolli e tante fiamme accese
da tutti i venti, tu col piè calcando
le tue ceneri, tu le me macerie,
sempre più alta, celebri il più grande
dei tuoi trionfi; ché la morte hai vinta.
Tu in faccia a tutti i popoli che a parte
chiamasti del tuo dritto, ora apparisci
nel primo fior di giovinezza ancora,
meravigliosa, simile a Pallante,
difesa intorno dal fulgor dell’armi,
e con la spada; e pende sopra il mondo
quella al cui lume accesero le genti
tutte il lor lume, quella che noi rompe
l’ombra: o Roma possente, la possente
tua più che il tempo lampada di vita.
INNO A TORINO
I
Toro divino ch’oltra due fiumane
giaci e, fiso nel gran murmure, guardi
l’Eridano, che passa e che rimane:
macro pascesti sotto i baluardi
donde i Titani si sporgean, le spine
dei rovi, un tempo, ed il salistio e i cardi!
Ti distendevi immenso sul confine
delle montagne, nella notte, attento
tra il fioccar bianco e le tormente alpine;
facesti il nerbo di cento anni in cento,
solo e rubesto, caute le pupille,
sbalzando al piano, corneggiando al vento,
Amavi l’ombra; amavi le tranquille
acque e verzure; eppure avesti in sorte
la guerra eterna, dai mille anni ai mille.
Passavi i fiumi baldo allora e forte,
cedevi passo passo, e insanguinato
col dosso all’Alpi combattevi a morte.
Da due nemici preso a volte in guato,
di qua di là, volgevi tu d’un salto
a questo e quello il fiero capo armato.
Alfine come statua di basalto
tu ti piantasti quadro sulle sponde
Ticine, or pronto a rintuzzar l’assalto,
or volto verso il piano, oltre quell’onde,
verde, ove il tuo nemico, il tuo rivale,
erbe non sue pasceva e non sue fronde:
il collo in arco, a fronte bassa, male
pensando, e il sì nel fiero cuore e il no…
finché mugliasti, rauco, trionfale,
lungo; e l’Italia tutta ne sonò.
II
Quale eri tu? Non l’ITALO tu forse
che per la grande terra della sera
trasse un fatale popolo, e la corse
tutta col nome che tuttor non era?
Fuggìano, andando, le paludi oscure
tinte d’un lividore di tramonti;
fuggìan le macchie vergini di scure
e il fuoco acceso notte e dì sui monti.
Sospesi, se temere, se sperare,
tendean l’orecchio ad altri gridi umani;
ma non s’udiva che scrosciare il mare
e rintronare lava di vulcani.
Emergeano cavalli-d’-acqua a torme,
spruzzando pioggia dalle froge grosse.
Volgeano i piccoli occhi e il muso enorme,
chiedendo a sé, quella tribù, che fosse.
Fendeva i boschi un calpestìo selvaggio
ed un fragor di grandi alberi infranti.
Pareva un cieco nembo; era il passaggio,
là, di rinoceronti e d’elefanti.
E quando a notte era sparita, avvolta
d’aride foglie la raminga gente,
a prender sonno, tutta notte in volta
andava l’ombra del leon ruggente.
Ma sempre tu, senza guardarti attorno,
guidavi, o Toro, i tuoi Taurini erranti,
allor che i piè, sempre più lenti, un giorno
fermasti. T’era una palude avanti:
una palude gialla che tra l’ulva
lasciava sette cime già scoperte
di colli. La rapace aquila fulva
gridava all’acqua che stagnava inerte.
Ma nubi nere e sfavillìo di lava
uscian di notte dalle verte nude
dei monti, intorno, e sempre sussultava
la terra e balenava la palude.
Era lontana l’augurale aurora,
che s’aspettava. E tu, col tuo profondo
muglio, colei ch’era nascosta ancora
dall’acqua ed alga, la chiamavi al mondo.
Dopo gran tempo era per balzar fuori
Roma, nei dì che da te spunta il sole,
Toro che spargi sulla terra i fiori
e in ciel t’impenni tra le stelle sole.
Roma era allora cinta dalla dia
vigile Terra. Tardo, a poco a poco,
continuasti, o Toro, la tua via,
volgendo al tuono il capo, spesso, e al fuoco.
Tutta così la terra senza nome
varcasti lungo il risonante mare
passando fiumi e valli oscure; e come
fosti alla fine del fatale andare;
la Primavera Sacra che dai solchi
natii fu data ai venti e alle venture,
il tuo ramingo popolo, i bifolchi,
ITALO, tuoi, levando l’aste pure,
dissero: Italia! Vollero che il breve
lido del mare fosse Italia, fosse
di te. L’Etna alitava, tra la neve,
nuvole, ver’ la verde Italia, rosse.
Poi dove il Sole ha i pascoli, tu insieme
ai tuoi Taurisci a nuoto un dì passavi.
Ma sopravenne dalle prode estreme
l’Eroe più dio che gl’Immortali ignavi.
«Indietro!» disse, e tese l’arco. Indietro
volgesti allor, parando le tue torme,
girando spesso attorno gli occhi tetro,
ponendo i piedi sulle tue grandi orme.
Passando, quella ch’era un dì palude,
vedesti arare e seminar già doma.
Era un pastore dalle membra nude
che seminava l’avvenir di Roma.
Aveva atteso te, la primavera
tua, la ma stella. Anche di lì cacciato,
spingevi innanzi la tribù tua fiera,
volgendo il capo, ed obbedendo al fato.
T’era alle spalle, simigliante a notte
oscura, te seguendo sempre al varco,
una grande ombra in mezzo a nubi rotte,
l’ombra di lui, con nudo e teso l’arco.
Ma tu posasti, dove due fiumane
angolo fanno, certo del destino.
Si sparse intorno per capanne e tane
il tuo tenace popolo Taurino.
Appiè dell’Alpi t’accostasti come
sopra una soglia. Il tuo viaggio vano
pensavi e il lido cui tu desti il nome,
e l’avvenire, grande, alto, lontano.
III
Itale vergini, Alpi dal bel velo
bianco, tendenti all’alto, che la veste
lasciate lungi dagli sguardi impuri,
la veste, sì, di prati e di foreste
cader lasciate, ma soltanto in cielo:
di quali voci allora e qual concento
empian le Madri i neri boschi cupi!
quali lontani portentosi auguri
gemean negli antri, o dritte sulle rupi
gridavan alto tra la neve e il vento!
– Un re verrà (fermo è nel fato e fisso)
dalla sventura. Caccerà camosci
per l’Alpi sue. Sempre nel cuore il fischio
avrà dei venti, sempre avrà gli scrosci
delle valanghe e l’anelante abisso.
Il re vedrà, tra nubi grigie e meste,
un segno bianco e snuderà la spada.
Il re porrà tutto sé stesso al rischio
per liberare tutta la contrada,
alzando al cielo il suo segno celeste.
Il re trarrà dalle grandi Alpi al piano
di nuovo il Toro; dal suo doppio fiume,
lungo la terra della stella, al mare;
a riveder la prima Italia al lume
del pino acceso dal suo gran vulcano.
Questi, quel Donno, il Regolo fatale.
Gl’Itali udrà gridare di dolore.
Gl’Itali lo vedranno cavalcare
con l’asta lunga. O Roma, egli, vittore,
dell’elmo ferreo t’armerà, che ha l’ale. –
Così le madri predicean nel santo
orror dei boschi, ed ora al sacro fonte
sotterra dell’Eridano. E, pur bassa
fosse la voce, trascorrea dal monte
Vesulo sino al mare Adriaco il canto.
Via via le ripe faceano eco; e in doppi
lunghi filari le sorelle fise
a rimirar l’acqua ch’eterna passa,
tutte, in udir, crollavano improvvise
le loro chiome tremule di pioppi.
Abbrividiano come per un blando
soffio di venti. Un dolce suono usciva
dalle lor foglie ov’era un usignolo.
Così lunghesso la lunata riva
parcano andare in compagnia, cantando.
Faceano un solo inno d’amore i puri
virginei canti. E tu, come una nave
bianca dall’acqua fluttuando a volo,
cantavi ancor più forte e più soave
le morti, o cigno, degli eroi futuri.
Gli eroi nel bosco del perenne alloro
erano insieme assisi al sacro fonte
dell’Eridano, e tutti, redimita
già delle vitte candide la fronte,
diceano l’inno della gloria in coro.
Anime pure, anime senza sangue
erano ancora, ancor sul limitare;
che alfin trovato il lume della vita,
alla lor Patria dar la vita, dare
tutto voleano alla lor Patria il sangue.
IV
Taurina gente, sacra sin dagli anni
primi all’Italia, o fuochi accesi in vetta
delle bianche Alpi, o saldi cuori e forti,
o guardie eterne poste a vigilare
l’estrema, immensa, ardua trinc’èa di Roma!
L’avea, la forza del maggior nemico,
varcata già la cerchia di granito,
le avea forzate l’ultime muraglie
sacre d’Italia e della sacra Roma.
Veniva già col vento e la tempesta,
invisibile in mezzo alla tormenta.
Sul capo suo cadeva franto il cielo
che nascondea nel polverìo le turbe.
Per cime e valli andava, e il suo cammino
dalle macerie era, del cielo, ingombro.
Ma egli andava, come in un gran sogno,
sempre, non mai volgendo gli occhi, avanti.
Intorno a lui sonava il faticoso
nitrito de’ cavalli, a cui le sabbie,
auree nel caldo anelito del sole,
rideano al cuore; avvezze a pascolare
sotto le paime, le turrite mandre
barcollanti incedean degli elefanti.
Alle sue spalle, un fragor grande, crolli,
fuga, tumulto, e scrosci di foreste
schiantate e grosso crepitar di fiamme.
Era un serpente enorme che con torve
spire seguiva, e i culti campi larga-
mente prostrava e sradicava i boschi
e con la coda distruggea le intere
città; che tutto con la bocca ardente
dava alle fiamme, insieme, ed alla morte.
Era la vïolenta idra straniera,
la sventura d’Italia, che d’allora
avrebbe osato rompere i confini
sacri, in eterno, e sulla devastata
terra l’immane corpo arrotolare
e covar sopra ceneri di messi
e sopra roghi di città distrutte.
Allora in prima il mal serpente infranse,
per farsi via, le rupi ond’è costrutto,
insino al cielo, il Termine d’Italia;
Termine immenso che da mare a mare,
col fondamento nel lor fondo, incurva
sé stesso e sembra, a Dio caduto, un arco.
Allora in prima con le spade in mano
guizzanti, voi sbalzaste su, Taurini,
e sulla soglia della patria terra
gettaste il sangue, sin d’allor col sangue
segnando il patto con il vostro fato.
Ma voi vedeste chi, le italiche Alpi,
da questa Italia le ascendea Romano;
ma voi vedeste poi le italiche armi
oltre i confini propagar la pace
del giusto Lazio. In mezzo a voi, Taurini,
come nel marmo in cui la vita scorra,
Cesare apparve. Nel paludamento
imperïale ei conducea l’Alauda
fulva le chiome: intorno a lui le scuri
nei fasci, e i pili della sua coorte.
Oppur liete parole egli intrecciava
coi fidi amici, o nella molle cera
solchi imprimea col vomere, gittando
in quella il seme del suo gran pensiero.
Ora i fasti romani, ora le guerre
per terra e mare, e il mondo vinto, e, in mezzo
ai suoi trionfi e alla sua pace, Roma;
or meditava arguti versi e dolci
esili carmi, e si beava il cuore.
Qui mentre un dì cadea la neve a fiocchi,
dicono, entrò nella capanna trista
d’un re selvaggio. Largo il re, di latte
giovò gl’ignoti, e loro appose i frusti
d’uno stambecco. E la coorte in tanto
motti avventava contro il re dei monti,
gran cacciatore, e l’un mostrava all’altro
quel re seduto sulla panca al fuoco,
rugoso in fronte ed accigliato. Ed uno
disse: «E’ mi pare il dio Cernunno, il dio
della ricchezza, con le corna in capo.»
Cesare, grave, disse allora: «Io primo
sia qui piuttosto che secondo in Roma!»
Regolo alpino, tu balzasti allora,
a un tratto, su, dalla massiccia panca.
Di nera luce ardevano al Romano
gli occhi mortali; dalle tue pupille,
splendeano ignude due cerulee spade.
Nel focolare arse più chiaro il fuoco,
vampeggiò, crepitò, fece faville.
E per le forre, con un’eco arcana
dell’infinito, a lungo mugliò una
raffica, come se parlasse il Tempo.
Allora avanti Cesare quel Gallo,
irto di peli il labbro, stette, e parve
grande del pari, ed esclamò: «L’augurio
accetto. Viva io qui tranquillo e pago
di questo regno povero, cacciando
i cervi, errando pei selvaggi monti,
fin ch’io non possa essere il primo in Roma!»
Risero tutti, sì, ma la lontana
posterità ventò sulla coorte,
quasi alitando i secoli futuri.
Cesare quindi una città di guerra
fece ai Taurini, e la munì di vallo,
e di due torri ornò le porte, e, cauto
dell’avvenire, i veterani astati
pose in questo romano accampamento,
forti coi forti. E la quadrangolare
città nel suolo si piantò, sicura
per le sue pietre e più per i suoi cuori.
A destra poi, per una grande porta,
badava ad ogni voce, ad ogni suono,
se udisse mai venire le coorti,
se un clangor, lungi, si levasse al vento,
frangesse il vento uno squillar di trombe,
la via strepesse al duro cuoio e ai chiodi
della legione, e Roma ritornasse:
o se, di tra gli stipiti rimasti
l’eterna fuga a contemplar degli anni,
s’avesse alfine a ritornare a Roma.
Fuggiva il tempo, e l’acqua dei due fiumi
fuggiva anch’ella, in grande oblìo di tutto.
Dalle sue porte la città spiava
i quattro venti, rivolgendo a un tratto
l’attento orecchio ognor dall’Alpi a Roma.
Ecco luccicar d’armi ampio e di schiere.
Ferro era tutto, che copria cavalli
e cavalieri, e tutto il piano era aspro
come di fulva ruggine di ferro.
– Romani voi? Partiti sì da Roma,
ma non Romani. Dove i pili e i valli?
Che v’appiattate sotto il fosco ferro? –
Ed altre schiere ecco venir dall’Alpi
traboccando dall’alto arco dell’ampia
porta d’Italia. Per il ciel sereno
in faccia ad essi era una bianca croce.
Stupore ebbe le genti, e il condottiere
– Prendi l’insegna della tua vittoria! –
udì. Vinsero in vero, e le lor brevi
spade la via trovarono del sangue
sotto le squamme, in mezzo al vostro cielo
restò, Taurini, quella bianca croce,
ora lucente nell’azzurro, ed ora
scialba, e da un triste nimbo incoronata;
finché quel segno fu dalla vittoria
ripreso in mano, quando, o Italia, forte
martire, Italia, delle genti, orlavi,
recando in alto la tua verde palma,
la veste bianca di purpureo sangue.
E Roma intanto dalle sette cime
era crollata, e dell’Esperia guasta
da ferro e fuoco, nulla più che l’ombra
era, del nome. E tempo corse, e il nome
anche svanì, come in un rogo immenso
ultima brilla e muore una favilla.
Duca era allora dei Taurini un uomo
di quei barbari, che nemici a Roma
avea la biondeggiante Elba mandati.
Il duca era partito per le liete
nozze del re, per le fiorenti mense.
Appena giunto era nell’aula: un tuono
rimbombò, subito, ed un lampo insieme
illuminò per l’aula le criniere
fulve e le barbe e le dense aste e l’azze
razzanti, e il re. Li scosse e impietrò tutti,
ed il palagio con un lungo rombo
scrollò. – Del re breve la vita e il regno!
Duca Agilulf, diremo noi tra breve
te re. – Queste parole e’ le nascose
nel cuore, il duca, e ne ronzava il cuore
profondo. Ma non volsero molti anni:
furono vere. Né, concordi, a grida
sonore i duchi porsero a lui l’asta,
a lui dicendo di regnar su loro;
ma la regina fu che il regno e un colmo
calice, prima a fior di labbro attinto,
offerse a lui di rosso italo puro
vino, e gli disse: «Generose genti
come codesto vino vendemmiato,
Re Agilulf, su colli che il sole ama,
tu reggerai; ma l’arte dell’impero
è presso loro, e tu da lor l’apprendi.»
Fecero quindi un tempio. Era, sull’alba
dei secoli, uno errante nel deserto.
«Fate le vie» gridava, «e le spargete
di palme: l’Aspettato è per venire!»
Fecero a lui di marmo un tempio, e dono
posero, in esso una corona d’oro
fulgida, cui cingesse l’aspettato,
il re d’Italia ch’era omai per via.
Ma l’oro puro intorno inanellato
era di ferro, che già ferreo chiodo
fu della croce. – Oh! come tutto è vero!
Ma lo vedranno i secoli lontani.
Vero! Alla croce sarà reso il chiodo!
Vero! Al sovrano de’ Taurini resa
sarà l’aurea corona. Egli su tutta
l’Italia re dominerà. L’Italia
renderà questi agli Itali e al destino.
Ma dopo lunghi secoli con molto
purpureo sangue, ma con fuoco e ferro! –
Allor col ferro impresero i Taurini
a perigliar la cara vita, e sempre
alla futura patria addimostrarsi,
in disventura ed in povertà, forti.
E sì pareano immemori del fato
e pur del nome e dei costumi antichi
e del linguaggio che fu già di Roma.
Né più le genti capo avean: l’augusta
città fatta straniera: e valli e monti
dell’armi ostili eran per tutto ingombri.
E tramontata era la sacra insegna,
né v’era alcuno che levarla al cielo
potesse ancora: Donno era lontano;
esilïato Donno era dalle Alpi.
Presso i due fiumi, come corpo morto,
come travolto da una gran valanga,
Toro progenitore, eri prostrato:
quando, Testa di ferro, tutto ferro,
alto levando, come alfier, la spada,
puntando ai fianchi del destrier gli sproni,
egli tornò. Tornava dall’esilio:
dalla vittoria. E il popolo Taurino
gridò: «Già viene! Ecco il signor con noi!
Vero il tuo nome dice Emanuele!»
Egli ristette e il suo cavallo immane
fermò, trasse le redini, e nascose
nella guaina la sua grande spada.
Non fosti tu, tu stesso, che, tre volte
volti cent’anni, la levasti al sole?
Grida di morte, grida di dolore,
in ogni tempo, d’ogni parte, al cuore
giungeano ardenti. Quel rapace drago
strisciava per la terra della sera,
tutto abbattendo, e il popolo le ingiuste
verghe provava e le superbe scuri
dei re tiranni. Sì, ma tu le udisti
quelle infinite grida di dolore,
la grande spada tu, d’un dì, snudasti,
la croce bianca tu, d’un dì, levasti.
Oltra Ticino, sommovesti all’armi
tutte le genti e le guidasti a guerra
ch’è santa e pia, se libera e redime.
Poi col tuo nome mille eroi due navi
salgono, e vanno all’isola che porta
chiare di dei, di semidei, le traccie.
Rossa la veste dei remigatori
divini; capo era il divino Ulisse.
E tu combatti ancora e sempre. Alfine
re dell’Italia tutta imponi al capo
il ferro e l’oro della sua corona.
La croce alfine segno di vittoria,
splendé dal cielo sulla terra verde
ch’ha neve al sommo e che nel fondo ha fuoco.
Ed a nessuno e in nulla mai secondo,
piccolo alpino re selvaggio, a Roma
stai grande, e resti eternamente a Roma.
V
Accampamento fatto a piè del monte
già dal grifagno Cesare ai futuri
figli d’Italia, o tempio dei vessilli,
o ara donde il Console gli augùri
prendeva, augusti, col nemico a fronte!
Per guerre, qui di secoli lontani,
erano poste le aquile dell’oro;
qui ripetea la bùccina i suoi squilli
brevi, che un coro ricevea canoro
di trombe e il busso dei timpani vani.
Qui sempre il suolo trito di stridenti
plaustri, qui di concordi ferree péste.
Erano le coorti e le legioni.
Qui si guardava la purpurea veste
da dar, sull’alba della pugna, ai venti.
Qui sempre avvenne di mirar le squadre
dei fluttuanti veliti e il tumulto
delle torme dai quadruplici tuoni;
qui sempre alcun triario, come sculto,
star tra’ novelli: – Narra dunque, o padre! –
Perché accampato in questo accampamento
era un ultimo esercito romano.
La sua milizia era infinita e dura.
Esso tra il monte s’attendava e il piano,
fedele ad un antico giuramento.
Scórsero gli anni e i secoli. Ed armato
esso aspettava di ritornar, quando
fosse chiamato, sotto quelle mura.
Aspettò qui per secoli, il comando;
ma Roma ve l’avea dimenticato.
Bianchi frattanto, sotto il muschio e i pruni,
marmi e colonne e lapidi, grandi orme
della gran madre, archi e sepolcri infranti,
vedeano intorno, e dure austere forme,
stele di primipili e di tribuni.
Vedean già rotti ancor salire al monte
archi che l’acque conduceano al basso.
Parean lontane file di giganti,
d’ardui giganti, i quali passo passo
salìan con l’urne, un dopo l’altro, al fonte.
E custodìano, nel domar la rude
terra, l’antica arte e l’antico onore
dei forti aratri e delle industri falci.
Ondeggia il campo di frumento in fiore,
di verdi steli ondeggia la palude!
Verdi, i bei campi, verdi, le canore
acque, ma più sorridono i giocondi
clivi con l’ampio serpeggiar dei tralci,
donde i purpurei calici ed i biondi,
che dànno gioia o dànno forza al cuore.
L’un vino, austero per gli austeri, ed abbia
lode dai forti. L’altro poi s’effonde
aureo nell’ampio calice iridato
col tremolante mormorio dell’onde
cui, vasta, succhia, nel tornar, la sabbia.
Ma l’uno e l’altro, è bello, tra i nepoti
e i dolci amici, nella patria terra,
bere in convito parco, ove l’armato
deposte l’armi narri della guerra
e sciolga, salvo e di sé pago, i voti.
VI
Salve, o città forte di vallo e fosso!
salve, o bivacco italico di scelte
anime! o campo che non fu mai mosso!
o insegne mai dal loro suolo svelte!
Te la dea Roma disegnò quadrata,
qual essa fu, premendo il solco a fondo,
col grande aratro dalla prua ferrata,
con cui fendé fecondatrice il mondo.
Come legione ferrea che si schiera,
con pari file, dritte e quadre, invade
il vasto campo; così tu, guerriera,
con le tue case e con le tue contrade.
In te milizia è tutto; anche l’austere
voci e parole e l’anime dei tuoi;
che, se squilli la tromba del dovere,
corrono a morte, umili ed alti eroi.
Né, pur sempre crescendo in ogni parte,
oblìo ti prese del mensor di Roma,
o fida al primo cardine, ed all’arte,
ubbidïente, dell’antica groma.
Ma le diritte nuove strade intorno
son or tenute da coorti nuove,
e un fragor d’armi nuovo, e notte e giorno,
l’immenso accampamento empie e sommuove.
Sono telai dalle infinite spole,
dagli infiniti pettini sonanti;
sono gran magli che sulla gran mole
del rosso ferro piombano incessanti.
Esce il vapor con fischi di tempesta.
Ogni metallo intenerisce e strugge.
Morsa da mille denti ogni foresta
si fende e scinde, e intanto freme e fugge.
Fiumi lontani che, da un alto balzo,
a valle giù precipitano bianchi
di schiuma, un uom divino, nel rimbalzo
loro, li prese e li serrò nei fianchi.
Così cavalli come prima, a schiere
ubbidïenti, li guidò dall’erte
al piano, dando ai vento le criniere,
spruzzando l’acqua dalle froge aperte.
Mentre là stanno tra ghiacciai, tra foci
crine, lontani dal rumor del volgo;
li chiama un cenno, un lieve urto, e veloci
scendono più del solco della folgore…
ove con morsi e redini li frena
l’artiere, o caccia con la sferza al segno;
l’artier che intento a un canto di sirena
doma, con loro, il ferro, il marmo, il legno.
Non solo. I chicchi ai bimbi e’ foggia, e, come
pegni d’amor, già prima li accarezza;
ciò che ti fa non nota sol per nome,
ma dolce ancora d’intima dolcezza,
ad ogni madre, o città buona, o pia
madre su tutte, che con dolce affetto
la prole tua, per tanta ch’ella sia,
tutta la stringi e te la scaldi al petto.
A lei prepari i bei giardini in fiore,
le scuole ornate, l’agile palestra:
così ti muti, non mutando amore,
da dolce madre, in dolce e pia maestra.
O Iulia Augusta armipotente! In pace,
non sembri un campo cinto d’armi attorno;
un nido sembri, un gran nido loquace
di mille cuori salutanti il giorno;
schiere bensì, ma parvole, vestite
di bianco e rosa, altre e le stesse ogni anno:
né paga tu di tante proprie vite,
altre ne cerchi che pur me saranno.
O Grande Madre, hai del tuo grande cuore
dato ai fanciulli, dato alle fanciulle,
o sotto volte splendide e sonore,
o sotto travi di capanne brulle.
A tutti, a tutte! Sia dolore o gioia
la vita loro, spremi a lor quel pianto
che fa non che l’un cresca e l’altra muoia:
fa pia la gioia ed il dolor fa santo.
Simili quindi, ormai stretti ad un patto,
ad una mensa siedono imbandita
del pane stesso. O festa del riscatto
sul limitar del tempio e della vita!
O sacrifizio onde ogni dì t’elevi,
Amor, Pietà, Pace albeggiante, a volo!
O fiori umani, tremoli di lievi
petali, o fiori che ne fate un solo!
Viene scorrendo sulle penne, appena
battute, viene, lievemente anelo,
lo stormo e un inno per la via serena
canta, che pare un astro nuovo in cielo…
VII
E voi cantate – ché la madre Italia
non altre voci ode al cuor suo più care –
cantate dunque: Italia! Italia! Italia!
Gracili voci: ma da queste pare
balzar l’eco di quelle dei grandi avi:
marcie, comandi, cariche, fanfare.
Dite, o fanciulli e vergini soavi,
l’Italia ch’ora è su lontane sponde:
la Patria: itale tende, itale navi.
Forse il gabbier ch’esplora ciò che asconde
la notte e il flutto, in mezzo al ciel sospeso,
sopra l’oscuro murmure dell’onde;
forse il vegliante bersaglier, che, teso
l’Occhio nel buio, tra’ palmizi esplora
un guizzo spento prima ancor che acceso;
alzano il capo a quel trillar d’aurora,
levano gli occhi all’improvvisa romba,
all’improvvisa nuvola canora.
– Era sepolta; e il nome sulla tomba
era la lode simile ad oltraggio:
ma balzò su, come ad un suon di tromba.
Balzò, sbocciò, come un fiorir di maggio.
Ecco, sublime con la spada in mano,
al mondo chiede il suo grande retaggio.
Ogni straniero ella cacciò lontano,
ogni barbarie, gli altrui mali e i suoi,
e il suo destino strinse a sé, romano. –
Per onde e sabbie i giovinetti eroi
in sentinella, dànno il «Chi va là?».
– Quella ch’è dietro voi, ch’è innanzi voi,
ch’è sopra voi: l’Italia, eroi, che va! –
1 Comment
[…] Poemi del risorgimento testi on-line […]