Daniela Notarbartolo
27 Gennaio 2019This is the page
27 Gennaio 2019da “I ricordi del Capitano d’Arce” (1891)
Novelle di Giovanni Verga
– No – m’avete detto. – Non sciupiamo il bel sogno d’oro, Riccardo! –
Ah, voi non sapete cos’è quel sogno d’oro nei vostri occhi che cercano i miei, e il fascino che metteva allora nel vostro pallido sorriso la triste scienza del poi!
Tutto, tutto l’ho assaporato quel terribile fascino – nel dolce lividore che i baci altrui v’hanno lasciato sulle palpebre, nella rugiada di cui sono ancora umide le vostre labbra, nel molle abbandono con cui vi appoggiavate al parapetto del battello, nel gesto carezzevole della vostra mano che additava Capri, laggiù in fondo, a Casalengo – lui che non trema, né impallidisce più nel parlarvi.
No, non voglio pensare a lui. Mi sembra d’impazzire. Avete indovinato quanto ho sofferto in quell’eterna gita di piacere? E anche voi! Ho sentito tremare la vostra mano mentre vi aiutavo a scendere nella barca. Oh, Ginevra, quando vi siete abbandonata trasalendo contro il mio petto nel buio della Grotta Azzurra!… Che m’importa di Casalengo, che m’importa del poi, che ve ne importa anche a voi, poiché le vostre pupille s’intorbidano e si smarriscono figgendosi nelle mie?…
Sentite, ieri sera son tornato da voi, sapendo che vi avrei trovato quell’altro e che non mi avreste ricevuto. Gioconda m’ha detto infatti: – La signora non c’è -. E s’è fatta rossa, vedendomi così pallido.
Avevo visto del lume nel vostro salotto. Mi son fermato nella via sino alle undici per vederlo ancora e sentirmene ardere gli occhi ed il sangue – sino all’ora in cui l’altro se n’è andato. Ho cercato di indovinare se l’amate ancora, dal suo passo e dalla sua andatura. Se avessi visto quel lume nella vostra camera da letto mi sarei ucciso.
Oggi avete risposto alla domanda insidiosa della vostra amica Gemma con uno scherzo amaro: – Né mai, né sempre! – Ah, com’era dolorosa la vostra gaiezza in quella gita di piacere! e quanto avete dovuto amare quell’uomo, per non voler più amare!
Ho sentito parlarne sin laggiù, in capo al mondo, dove l’avventura di Alvise Casalengo metteva in rivoluzione il quadrato degli ufficiali, e il vostro bel nome correva come un bacio sulla bocca dei giovani allievi.
Voi mi avete preso sin d’allora, colla curiosità o la vaga gelosia che m’ispiravate, quando pensavo a voi che non conoscevo, nelle lunghe vigilie di quarto, sotto le stelle di un altro emisfero. M’avete preso colle vostre bianche mani, dandomi il ventaglio da tenere, la prima volta che c’incontrammo, vi rammentate? Voi, mondana, non immaginaste neppure ciò che poteva essere una vostra parola o un semplice gesto pel giovane selvaggio che vi arrivava da Zanzibar già innamorato e pauroso di voi, quanta avida e gelosa penetrazione fosse negli occhi che divoravano la vostra bellezza offerta alteramente, il sorriso noncurante col quale ne accoglievate l’omaggio, l’abbandono ch’era nel concedervi ai vostri ballerini, il suono della voce con cui parlavate ad Alvise – e in cui sentivo le dolci parole che gli avrete dette – l’ebbrezza che provai io stesso la prima volta che mi deste del voi, quasi m’aveste già dato qualcosa della vostra persona. Vi rammentate? quel giorno che sorprendeste il primo lampo di follìa e d’adorazione nei miei occhi, e vi faceste di porpora, odorando il mazzo di fiori che vi aveva mandato Casalengo, per coprirvene il seno?… Così m’avete preso, per sempre! Non ci credete voi a questa parola? Perché avete chinato il capo quando vi ho confidato tremando il mio segreto? e avete lasciato la vostra mano nella mia? Quante cose mi avete dette senza parlare, in quell’angolo del salotto che sono rimasto a guardare dalla strada, stanotte! Quante cose vi ho detto chinando la fronte sul vostro ritratto che sorride dalla cornicetta di strass posata sul tavolino! Così mi pareva di veder brillare e sorridere a quell’altro i vostri occhi in quelle tre ore orribili che ho passato sotto le vostre finestre. – Quando m’è sembrato di vedere Alvise dietro i vetri, quando vi siete avvicinata a lui, forse per porgergli una tazza di thè, forse per guardare nella via, e le vostre due ombre si sono confuse insieme… Mi avete visto voi, Ginevra, laggiù, sotto la pioggia, coi piedi nel rigagnolo? Vi siete rammentata allora del dubbio atroce che doveva torturarmi, e che cercate di scacciare, ogni volta, quando posate la mano sul mio capo, pallida anche voi della mia angoscia, e balbettate: – No!… no, Riccardo, vi giuro?… –
Vi credo, voglio credervi, ho bisogno di credervi. Perché dunque? perché mi fate soffrire a questo modo? Perché temete di sciupare il bel sogno d’oro? Oh, se sapeste come l’ho visto dietro le cortine color di rosa, che sembravano agitarsi e palpitare allorché siete passata nella vostra camera da letto, e animarsi di un incarnato più vivo quando vi siete avvicinata allo specchio, e velarsi di un’ombra pudica, dove passava la carezza dei vostri movimenti! Poi quella stessa ombra ha trasalito quasi, e s’è dileguata a un tratto dalla finestra del vostro spogliatoio, ed è solo rimasto il chiarore diffuso del globo roseo che veglia sui vostri sogni dolci e sulle vostre palpebre chiuse. Oh, struggersi e morire su quelle palpebre chiuse – perché non abbiate a temere il poi – perché duri sempre il bel sogno d’oro! Sempre! Sempre! Il poi non esiste, quando si ama. Non esiste il domani, non esiste quel ch’è stato ieri, non penso più a Casalengo. Penso a voi, e vi amo, e vi voglio, come se tutta la mia vita e l’universo intero fossero in questo momento e in questo desiderio.
Ahimè, Riccardo, il bel sogno d’oro è finito, da che vi siete svegliato nelle mie braccia.
Non ve ne voglio, e vi prego di non volermene. Soltanto non ostiniamoci a chiudere gli occhi, con questo bel sole che deve accompagnarvi nella vostra traversata.
Buon viaggio, amico mio. Vi scrivo seduta a quel medesimo tavol’inetto della veranda su cui posavate la vostra tazza, quando venivate a prendere il thè nel mio salotto. La signorina del N. 17 continua a strimpellare quel valzer che vi metteva di cattivo umore – Dolores, mi sembra – e anche a me, quando vi vedevo così uggito. Ma adesso, non so il perché – forse il bel sole, dopo questa eterna notte in cui m’è parso d’impazzire, forse il vostro ricordo, come che sia – mi mette in cuore delle ondate di dolcezza malinconica, specialmente alla ripresa delle prime battute che piacevano anche a voi, alle volte, nei momenti buoni. Ho ancora dinanzi agli occhi il movimento del vostro capo che segnava il tempo – il bel tempo e le buone risate che si facevano, allora…
Dove vi raggiungerà questa lettera, a Lima, al Messico? Vorrei che vi portasse il sorriso che vi piaceva tanto, una volta, e che non aveste a temere di trovarvi né lagrime né piagnistei, prima d’aprirla. Le arie di salice piangente non mi vanno. Anzi! M’avete sempre detto che son venuta al mondo ridendo… e civettando. E’ vero, sì. Com’ero felice di vedervi fare il muso lungo! M’avete amata pazzamente e lealmente. Che Dio ve lo renda coll’amore delle altre, di tutte quelle a cui sorriderete e a cui piacerà il vostro sorriso. M’avete dato il bel fiore azzurro del vostro cuore e della vostra giovinezza. Quante volte ci siamo inebriati insieme del suo profumo, tenendoci per mano, fra gente nuova e paesi sconosciuti, sotto le altre stelle a cui davamo dei nomi dolci, appoggiando al vostro braccio la mia persona stanca e addolorata d’aver tanto amato – e non voi soltanto. – Vedete che vi dico tutto, e non mi faccio migliore di quel che sono. Voi mi avete amata forse per questo; e non mi amaste più di quando sentiste ch’ero tutta vostra, tutta, tutta, Riccardo! senza pensare al poi che doveva venire tosto o tardi – e ch’è venuto.
Ora ho civettato e riso coi vostri amici, con tutti quelli che mi conducevate in casa per aiutarvi a passare le sere insieme a me. – Hadow specialmente, che ha i più bei denti di cristianità e mi faceva perdere la testa colla sua gaiezza. Voi non ve ne siete neppure accorto, ahimè!
Poi che siete partito ho paura di Hadow, e partirò anch’io, appena mi sarò rimessa del tutto, per tornare in Europa. Questo cielo implacabilmente azzurro m’acceca e mi fa male. Gioconda, che sta preparando i bauli, ha trovato degli oggetti che avete dimenticato qui: una scatola di sigarette, un fazzoletto colla vostra cifra. Vi porterò ogni cosa a Napoli, dove vi ho conosciuto, e dove ho lasciato degli altri amici come voi. Ve lo restituirò poi laggiù, il fazzoletto, «terso di lagrime» quando vi rivedrò, se vi rivedrò, e tornerete da me, come gli altri amici. Adesso mi sento abbastanza forte per affrontare il viaggio di ritorno. M’avete perdonato le pene e le noie che vi ho date da Genova sin qua? Come siete stato buono e affettuoso con questa povera ammalata! – malata di corpo e d’anima. –
Quanto m’avete resa felice, e come m’avete guastata! Ieri sera, quando ci lasciammo, «ho fatto i capricci» proprio come una bimba viziata. Non me ne do pace, no, Riccardo! Gioconda pretendeva che avessi la febbre, che dovessi prendere del laudano, del cloral’io, che so io, alle quattro del mattino, figuratevi! Ah, che misera cosa non poter cambiar d’umore come si cambia di vestito, e avere dei nervi che fanno la festa mentre si ha voglia di dormire! La buona dormita che vorrei fare sino a Napoli, tutta d’un fiato, senza sogni e senza sentirmi vivere, e svegliarmi laggiù, nel paese che ride e canta, senza pensare a quel ch’è stato ieri o a quel che sarà domani! Quando ci rivedremo, laggiù, se ci rivedremo, voglio che mi troviate savia, grassa e prosperosa come quella bionda vergine ch’è venuta a far la tisica, qui all’albergo, e la vocina sottile per cantare le arie del Tosti, svenendosi sul piano. Voglio che torniamo a ridere, senza musi lunghi, e senza «dolci languori negli occhi desiosi». Oh, no! A che pro adesso? Noi ci siamo detto tutto. E le parole amare che rimangono all’ultimo… No, Riccardo! quelle no! Ieri sera eravate nervoso anche voi. La mano che vi ho stesa nel dirvi addio, la mano che vi parlava altre volte, e vi diceva tante cose, non ha saputo trattenervi.
Ho persa anche la fede in quel povero neo che vi faceva perdere la testa a voi, una volta, e che non ha saputo dirvi nulla neppure esso, ahimè!
Ecco ora che fo la sfacciata per non sembrarvi noiosa, perché l’ultima immagine mia, l’ultimo ricordo che vi lascio sia buono, dolce, affettuoso e piacevole. Sarà forse l’ultima civetteria che rimane, dopo la fine. Vorrei che mi vedeste ancora come vi son piaciuta, quando vi son piaciuta, senza menzogne, senza reticenze, senza veli, tutta per voi, anima e corpo, tutta una cosa con voi, come quando si ama bene e molto – fin sopra ai capelli – direte voi. E la prova è che abbiamo vuotato il sacco della felicità, voi forse più in fretta, io certo con maggior spensieratezza, poiché dovevo sapere come vanno a finire queste cose, io che son più vecchia di voi. – Ho cent’anni da ieri in qua, amico mio. – Ma non mi pento di avervi lasciato sfogliare pazzamente «le rose del cammino» perché ce n’erano tante, e così belle, che sembrava non dovessero terminare giammai; e vi ho aiutato anch’io a sfogliarle, sorridendo e chiudendo gli occhi, come fo adesso, per non sentirne le spine. Se mentre vi scrivo per l’ultima volta non ho saputo nascondervi tutte quelle che mi son rimaste nelle mani, perdonatemi. Non è come cavarsi un guanto, capirete! Ma «è pena così dolce» che tornerei a chiudere gli occhi, e a buttarmi a capofitto nelle spine. – Non con voi, Riccardo. Con voi il bel sogno d’oro è finito, e bisogna metterci sopra la croce delle orazioni funebri.
Il salice piangente stavolta son proprio io, la Ginevra vostra di un tempo.