La società complessa
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27 Gennaio 2019Se questo è un uomo di Primo Levi
Se questo è un uomo, con un confronto fra Primo Levi e Dante,
di Luca Lanticina
Biografia
Primo Levi nasce il 31 luglio del 1919 a Torino, da genitori di religione ebraica. Nel 1937 si diploma al liceo classico Massimo D’Azeglio e si iscrive al corso di laurea in chimica presso la facoltà di Scienze dell’Università di Torino. Nel ’38, con le leggi razziali, si istituzionalizza la discriminazione contro gli ebrei, cui è vietato l’accesso alla scuola pubblica e l’autore dichiara la sua contrarietà al regime fascista. Levi, in regola con gli esami, ha notevoli difficoltà nella ricerca di un relatore per la sua tesi: si laurea nel 1941, a pieni voti e con lode, ma con una tesi in Fisica. Sul diploma di laurea figura la precisazione: «di razza ebraica». Comincia così la sua carriera di chimico, che lo porta a vivere a Milano, fino all’occupazione tedesca: il 13 dicembre del ’43 viene catturato a Brusson e successivamente trasferito al campo di raccolta di Fossoli, dove comincia la sua odissea. Nel giro di poco tempo, infatti, il campo viene preso in gestione dai tedeschi, che convogliano tutti i prigionieri ad Auschwitz. L’autore è deportato a Monowitz, vicino Auschwitz, in un campo di lavoro i cui prigionieri sono al servizio di una fabbrica di gomma. Al lager, persi nei loro pensieri, presi da mille domande, da ipotesi continue che per quanto catastrofiche, non si avvicinano neanche lontanamente alla verità, si ritrovano in pochissimo tempo rasati, tosati, disinfettati e vestiti con pantaloni e giacche a righe. Su ogni casacca c’è un numero cucito sul petto. I prigionieri vengono marchiati come bestie. Il loro compito: lavorare, mangiare, dormire, obbedire. Il loro intento: sopravvivere. Dietro quel numero non c’è più un uomo, ma solo un oggetto: häftling, cioè pezzo”, se funziona, va avanti, se si rompe, è gettato via. Levi è l’häftling 174517. Funzionante. Primo Levi è tra i pochissimi a far ritorno dai campi di concentramento ci riesce fortunosamente, grazie a una serie di circostanze e solo dopo un lungo girovagare nei Paesi dell’est.Quale testimone di tante assurdità, sente il dovere di raccontare, descrivere l’indescrivibile, affinché tutti sappiano, tutti si domandino un perché, tutti interroghino la propria coscienza: comincia a scrivere, elaborando così il suo dolore, il suo annientamento, il suo avventuroso ritorno a casa. Nel ’47, rifiutato dalla Einaudi, il manoscritto Se questo è un uomo è pubblicato dalla De Silva editrice. Il libro ottiene un discreto successo di critica ma non di vendita. È un’opera che si colloca nel filone documentario che fu ricco in quegli anni di “scoperta” della realtà, ma si stacca con eccezionale rilievo dallo sfondo del clima neorealistico assurgendo alla statura di vero e proprio classico. Il libro è una testimonianza sulle barbarie estrema dell’universo concentrazionario, sulla sua crudeltà non soltanto fisica , ma anche morale, che mirava prima di tutto a distruggere la sostanza umana stessa del deportato. Ciò che conferisce forza alla rappresentazione di Levi è l’assenza di emotività e retorica , unita alla sobrietà e alla lucidità della scrittura, che riescono a fissare un quadro di orrore indicibile in linee ferme ed essenziali. Se questo è un uomo non è solo un libro di memorie, un documento, ma è anche uno studio acutissimo, si potrebbe dire scientifico e antropologico sulle leggi che regolano quella società fuori dal comune che è il lager. La rievocazione sorretta da un estremo rigore conoscitivo, che giunge in certo qual modo a fornire un riscatto intellettuale di ciò che sarebbe mostruoso e intollerabile, la chiarezza scientifica dello sguardo, che porta ordine nel caos atroce della realtà, sarà poi una prerogativa costante dell’autore. Solo nel ’56 la Einaudi comincia a pubblicare tutti i suoi lavori: Se questo è un uomo è tradotto in diverse lingue, La Tregua vince la prima edizione del Premio Campiello. Nel ’67 raccoglie i suoi racconti in un volume intitolato Storie naturali adottando lo pseudonimo di Damiano Malabaila. Nel ’71 esce Vizio di forma, nuova serie di racconti e nel ’78 La chiave a stella che vince il Premio Strega. Nel ’81 viene edita un’antologia personale dal titolo La ricerca delle radici nella quale sono raccolti tutti gli autori che hanno contato nella formazione culturale dell’autore. Nel novembre dello stesso anno esce Lilìt e altri racconti e l’anno successivo Se non ora quando? che vince il Premio Viareggio e il Premio Campiello. Nel frattempo Levi lavora anche come traduttore. Nell’ottobre del ’84 pubblica Ad ora incerta e a dicembre Dialogo in cui riporta una conversazione avuta con il fisico Tullio Regge. Nel novembre dello stesso anno esce l’edizione americana del Sistema periodico e nel gennaio del ’85 una cinquantina di scritti pubblicati precedentemente su diverse testate, raccolti in un volume unico intitolato L’altrui mestiere. Nel 1986 pubblica I sommersi e i salvati. L11 aprile del 1987 Primo Levi si suicida.
Se questo è un uomo
Primo Levi è stato catturato dai nazisti nel 1944 e successivamente è stato deportato nel campo di concentramento di Auschwitz. Dopo un lungo viaggio Primo arriva nel campo, viene spogliato di tutti i suoi averi, gli vengono rasati i capelli e per essere riconosciuto i nazisti tatuano sul suo braccio il numero 174 517. Da quel momento Primo ha perso ogni suo diritto e inizia a lavorare come se fosse uno schiavo. Mentre trasportava delle traversine si ferisce ad un piede e viene ricoverato in Ka-Be, l’infermeria del campo. Lì conosce per la prima volta le selezioni. Quando viene dimesso viene assegnato ad un’ altra baracca nella quale incontra il suo migliore amico, Alberto, ma non riesce a dividere con lui la cuccetta. Durante la giornata lavorativa fa amicizia con Reisnyk, che diventa il suo nuovo compagno di cuccetta. Reisnyk, uomo molto generoso, aiuta spesso primo nel lavoro. Dopo un breve periodo primo viene scelto, insieme ad altri prigionieri, per andare a far parte del kommando chimico, ma prima deve sostenere un esame. A Primo viene affidato l’incarico di aiuto trasportatore: il suo compito è quello di aiutare Jean a trasportare la zuppa fino alla sua baracca. Durante il tragitto egli ricorda alcuni versi della Divina Commedia e ne spiega il significato a Jean. Nell’Ottobre del 1944, a causa dell’arrivo di altri prigionieri, iniziano le selezioni. Primo, fortunatamente riesce a salvarsi. Ha infatti superato l’esame di chimica e viene scelto per andare a lavorare nel laboratorio insieme anche ad alcune donne civili. Intanto i russi si stanno avvicinando e molti prigionieri sperano nell’ormai prossima liberazione. Una notte, un prigioniero accusato di sabotaggio in quanto aveva fatto saltare in aria un crematorio di Birkenau, vene impiccato. I russi stanno bombardando il campo. Primo è malato ed è ricoverato in Ka-Be insieme ad altri prigionieri. Il campo viene evacuato, Alberto fugge via, gli ufficiali e le guardie delle SS fuggono. Primo riesce a sopravvivere con i suoi compagni fino a quando i russi provvedono alla liberazione dei prigionieri rimasti.
Spazio, tempo, stile, narratore
Se si esclude il primo capitolo che si svolge sul treno, in viaggio verso la Polonia, tutta la vicenda è ambientata nel campo di lavoro di Auschwitz, un luogo aperto se si considera ciò che principalmente facevano gli uomini (il lavoro), chiuso se si dovessero prendere in considerazione i vari reparti descritti. Tutti i luoghi, anche quelli apparentemente meno importanti, ossia che non hanno un ruolo fondamentale nel racconto, quali il treno o le cuccette, sono menzionati e descritti affinché diano una maggior enfasi al dramma di chi visse quel campo. Il periodo della descrizione è quello della seconda guerra mondiale. Il protagonista viene deportato ad Auschwitz nel 1944; i russi non arriveranno molti mesi dopo. Sono presenti flashback che ricordano la vita del protagonista prima dell’arrivo nel lager in modo da poter confrontare la vita dentro e fuori il lager. Sono inoltre presenti, però, però assenti eventuali anticipazioni che servono a sottolineare la rassegnazione degli animi dei deportati. Il narratore è il protagonista del romanzo e il suo stile è molto diretto semplice e minuzioso nei particolari. L importante innovazione è quella di riportare i termini in tedesco e poi in italiano in modo da far riecheggiare i suoni del momento vissuti da Primo Levi durante la prigionia.
Analisi del testo
Il libro racconta, sulla base della testimonianza dell’autore, la drammatica deportazione degli ebrei italiani ad Auschwitz nel 1944, dopo la cattura da parte della milizia fascista in Valle d’Aosta. Lo scopo dell’opera è quello di “fornire documenti per uno studio pacato di alcuni aspetti dell’animo umano”. “In Se questo è un uomo- afferma Levi- ho cercato di scrivere le cose più grosse, più pesanti, e importanti. Mi sembrava che il tema dell’ indignazione dovesse prevalere: era una testimonianza di taglio quasi giuridico”. Il libro nasce dunque come testimonianza e documento, e di questa sua natura ha i caratteri stilistici: una scrittura chiara, comunicativa, oggettiva, referenziale, rigorosamente aderente ai fatti e attenta alle sfumature. Il primo capitolo narra l’antefatto dell’arresto e il periodo trascorso tra il gennaio e il febbraio nel campo di Fossoli, da cui parte il convoglio dei seicentocinquanta ebrei italiani diretti ad Auschwitz. All’arrivo avviene la selezione dei deportati destinati al lavoro, fra cui Levi. Un “Caronte” chiede loro se hanno denaro o orologi. Già in questo capitolo, “Il viaggio”, Levi propone un’ attenta analisi psicologica dei personaggi, che rivela la condizione di estremo disagio del Lager. In essa il motivo dominante è quello dell’infelicità, unita allo spirito di rassegnazione: “… Tutti scoprono, più o meno tardi nella loro vita, che la felicità perfetta non è realizzabile, ma pochi si soffermano invece sulla considerazione opposta: che tale è anche un’infelicità perfetta. I momenti che si oppongono alla realizzazione di entrambi i due stati-limite sono della stessa natura: conseguono dalla nostra condizione umana, che è nemica di ogni infinito. Vi si oppone la nostra sempre insufficiente conoscenza del futuro; e questo si chiama, in un caso, speranza, e nell’altro, incertezza del domani. Vi si oppone la sicurezza della morte, che impone un limite a ogni gioia, ma anche a ogni dolore. Vi si oppongono le inevitabili cure materiali, che, come inquinano ogni felicità duratura, così distolgono assiduamente la nostra attenzione dalla sventura che ci sovrasta, e ne rendono frammentaria, e perciò sostenibile, la consapevolezza. Sono stati proprio i disagi, le percosse, il freddo, la sete, che ci hanno tenuti a galla sul vuoto di una disperazione senza fondo, durante il viaggio e dopo. Non già la volontà di vivere, né una cosciente rassegnazione: ché pochi sono gli uomini capaci di questo, e noi non eravamo che un comune campione di umanità.” Nel secondo capitolo, “Sul fondo”, viene descritto l’arrivo al campo vero e proprio; qui un deportato, Flesch, fa da interprete tra le SS e i deportati italiani, che vengono, poi, denudati e indirizzati verso le docce. In questo clima di ordine apparente, giunge un medico ungherese, un criminale, che parla un italiano stentato e spiega loro il meccanismo incomprensibile di funzionamento del campo. Poi segue la doccia calda e con essa anche l’identità personale scompare: “… Si immagini ora un uomo a cui, insieme con le persone amate, vengano tolti la sua casa, le sue abitudini, i suoi abiti, tutto infine, letteralmente tutto quanto possiede: sarà un uomo vuoto, ridotto a sofferenza e bisogno, dimentico di dignità e discernimento, poiché accade facilmente, a chi ha perso tutto, di perdere se stesso; tale quindi, che si potrà a cuor leggero decidere della sua vita o morte al di fuori di ogni senso di affinità umana; nel caso più fortunato, in base ad un puro giudizio di utilità. Si comprenderà allora il duplice significato del termine “Campo di annientamento”, e sarà chiaro che cosa intendiamo esprimere con questa frase: giacere sul fondo”. Adesso i deportati sono degli “Haftlinge”, prigionieri; a Levi è stato assegnato il numero 174 517, tatuato sul braccio. Ai deportati viene spiegata la topografia del Lager, la disposizione, la numerazione dei “block” e la distribuzione della popolazione dei deportati. La narrazione si sofferma con straordinaria puntualità, quasi con occhio scientifico, sull’abbigliamento e sui riti del campo, tra cui quello delle scarpe, indumento decisivo, per la sopravvivenza, in quell’ambiente malsano del campo. E con altrettanta precisione Levi spiega anche la gerarchia, indica i nomi e le funzioni dei “kommandos”. Il capitolo si conclude con due brevi brani: uno sull’impossibilità di pensare altra realtà al di là del campo, e l’altro rappresenta la chiusa, dedicata al sonno e al sogno, all’assottigliarsi progressivo del numero degli italiani ancora vivi:”… Avevamo deciso di trovarci, noi italiani, ogni domenica sera in un angolo del Lager; ma abbiamo subito smesso, perché era troppo triste contarci, e trovarci ogni volta più pochi, e più deformi, e più squallidi.
Ed era così faticoso fare quei pochi passi: e poi, a ritrovarsi, accadeva di ricordare e di pensare, ed era meglio non farlo.” Il terzo capitolo, “Iniziazione”, contiene una riflessione sulla babele linguistica e presenta la figura di Steinlauf, il cinquantenne sergente della Prima guerra mondiale, e la sua tecnica di sopravvivenza attraverso l’igiene costante: “… Ho scordato ormai, e me ne duole, le sue parole diritte e chiare, le parole del già sergente Steinlauf dell’esercito austro-ungarico, croce di ferro della guerra 15-18. Me ne duole, perché dovrò tradurre il suo italiano incerto e il suo discorso piano di buon soldato nel mio linguaggio di uomo incredulo. Ma questo ne era il senso, non dimenticato allora né poi: che appunto perché il Lager è una gran macchina per ridurci a bestie, noi bestie non dobbiamo diventare; che anche in questo luogo si può sopravvivere, e perciò si deve voler sopravvivere, per raccontare, per portare testimonianza; e che per vivere è importante sforzarci di salvare almeno lo scheletro, l’impalcatura, la forma della civiltà. Che siamo schiavi, privi di ogni diritto, esposti a ogni offesa, votati a morte quasi certa, ma che una facoltà ci è rimasta, e dobbiamo difenderla con ogni vigore perché è l’ultima: la facoltà di negare il nostro consenso. Dobbiamo quindi, certamente, lavarci la faccia senza sapone, nell’acqua sporca, non perché così prescrive il regolamento, ma per dignità e per proprietà. Dobbiamo camminare diritti, senza strascicare gli zoccoli, non già in omaggio alla disciplina prussiana, ma per restare vivi, per non cominciare a morire.” “Ka-be” è un capitolo dedicato alla descrizione dell’infermeria del Lager dove Levi si reca dopo un incidente sul lavoro. Il ferimento del piede dà a Levi l’occasione per raccontare come funziona il “Krankenbau”, l’infermeria, narrando nel contempo la propria iniziazione al luogo. Il Ka-be è un limbo nell’Inferno di Monowitz: “… Ka-be è abbreviazione di Krankebau, l’infermeria. Sono otto baracche, simili in tutto alle altre del campo, ma separate da un reticolato. Contengono permanentemente un decimo della popolazione del campo, ma pochi vi soggiornano più di due settimane e nessuno più di due mesi: entro questi termini siamo tenuti a morire o a guarire. Chi ha la tendenza alla guarigione, in ka-be viene curato; chi ha la tendenza ad aggravarsi, dal ka-be viene mandato alle camere a gas”. In questo ambiente desolato il “dolore della casa”, che la condizione di iniziazione del Ka-be suscita e acuisce nell’animo dei deportati, consente all’autore di meditare e di riflettere sulla sua esperienza nel Lager: “… Il ka-be è il Lager a meno del disagio fisico. Perciò, chi ancora ha seme di coscienza, vi riprende coscienza; perciò, nelle lunghissime giornate vuote, vi si parla di altro che di fame e di lavoro, e ci accade di considerare che cosa ci hanno fatto diventare, quanto ci è stato tolto, che cosa è questa vita. In questo ka-be, parentesi di relativa pace, abbiamo imparato che la nostra personalità è fragile, è molto più in pericolo che non la nostra vita; e i savi antichi, invece di ammonirci “ricordati che devi morire”, meglio avrebbero fatto a ricordarci questo maggior pericolo che ci minaccia. Se dall’interno del Lager un messaggio avrebbe potuto trapelare agli uomini liberi, sarebbe stato questo: fate di non subire nelle vostre case ciò che a noi viene inflitto qui.” “Le nostre notti” è dedicato alle notti invernali; tutto il capitolo è come il racconto di una sola lunga notte, la “notte esemplare” trascorsa nel campo, cui succede il “Wstawàc” del risveglio. Levi sottolinea, inoltre, l’importanza di condividere con un amico, in una situazione di analogo disagio, anche l’angusto spazio di una cuccetta: “… Non sono riuscito a ottenere di dormire in cuccetta con lui, e neppure Alberto ci è riuscito, quantunque nel Block 45 egli goda ormai di una certa popolarità. E’ peccato, perché avere un compagno di letto di cui fidarsi, o con cui almeno ci si possa intendere, è un inestimabile vantaggio; e inoltre, adesso è inverno, e le notti sono lunghe, e dal momento che siamo costretti a scambiare sudore, odore e calore con qualcuno, sotto la stessa coperta e in settanta centimetri di larghezza, è assai desiderabile che si tratti di un amico.”
“Una buona giornata” è insieme una riflessione sulla natura umana e la narrazione del “successo” di Templer, un uomo del kommando, che riesce a procurare per sé e per i compagni una marmitta di cinquanta litri di zuppa. Le giornate nel campo si susseguivano non tanto con un obiettivo “ideale”, ma piuttosto con l’esigenza, tutta contingente, di sopravvivere e di giungere a primavera: ” La persuasione che la vita ha uno scopo è radicata in ogni fibra di uomo, è una proprietà della sostanza umana. Gli uomini liberi danno a questo scopo molti nomi e sulla sua natura molto pensano e discutono: ma per noi la questione è più semplice. Oggi e qui, il nostro scopo è di arrivare a primavera. Di altro ora non ci curiamo. Fra due mesi, fra un mese, il freddo ci darà tregua, e avremo un nemico di meno.” “Al di qua del bene e del male” illustra le diverse attività illegali del campo, il furto e le altre strategie per accaparrarsi cibo e posate.
I prigionieri del campo di sterminio, spesso, giungono a vendere indumenti personali e indispensabili pur di sedare il proprio violento e contingente impulso alla fame. Le SS, inoltre, inducono gli Haftlinge a compiere furti e altri atti illegali, con il preciso intento di annientarli nella loro dimensione di uomini, di ridurli a un primitivo stato di “bestializzazione”, in cui valga la “legge del più forte”: “Il furto in Buna, punito dalla Direzione civile, è autorizzato e incoraggiato dalle SS; il furto in campo, represso severamente dalle SS, è considerato dai civili una normale operazione di scambio; il furto fra Haftlinge viene generalmente punito, ma la punizione colpisce con uguale gravità il ladro e il derubato. Vorremmo ora invitare il lettore a riflettere che cosa potessero significare in Lager le nostre parole “bene” e “male”, “giusto” e “ingiusto”; giudichi ognuno, in base al quadro che abbiamo delineato e agli esempi sopra esposti, quanto del nostro comune mondo morale potesse sussistere al di qua del filo spinato.” “I sommersi e i salvati” è il capitolo centrale, nel quale il Lager è presentato come “una gigantesca esperienza biologica e sociale”. Due sono le categorie di uomini: i salvati e i sommersi. Altre coppie di contrari, come, ad esempio, i buoni e i cattivi, i savi e gli stolti, i vili e i coraggiosi, i disgraziati e i fortunati, sono assai meno nette, sembrano meno congenite, e soprattutto ammettono gradazioni intermedie più numerose e complesse: “… Nella storia e nella vita pare talvolta di discernere una legge feroce, che suona “a chi ha, sarà dato; a chi non ha, a quello sarà tolto”. Nel Lager, dove l’uomo è solo e la lotta per la vita si riduce al suo meccanismo primordiale, la legge iniqua è apertamente in vigore, è riconosciuta da tutti. “Esame di chimica” ci riporta invece alla storia di Levi e alla vicenda che avrà un ruolo decisivo nella sua salvezza, quella dell’esame per entrare a far parte del kommando chimico. Proprio in questo momento, di estrema precarietà, Levi deve far ricorso alla sua specializzazione: “…Mi sono laureato a Torino nel 1941, summa cum laude,e, mentre lo dico, ho la precisa sensazione di non esser creduto, a dire il vero non ci credo io stesso, basta guardare le mie mani sporche e piagate, i pantaloni da forzato incrostati di fango. Eppure sono proprio io, il laureato di Torino, anzi, particolarmente in questo momento è impossibile dubitare della mia identità con lui, infatti il serbatoio dei ricordi di chimica organica, pur dopo la lunga inerzia, risponde alla richiesta con inaspettata docilità…”. Compare Alberto, l’amico del cuore del narratore, suo “alter ego” nel campo, e Alex il kapo, ma anche il dottor Panwits, l’esaminatore della Buna, lo stabilimento chimico alla cui edificazione lavorano i deportati di Monowitz. “I fatti dell’estate” introducono nel racconto una nuova scansione temporale legata all’arrivo degli ebrei ungheresi e al progressivo disfarsi della macchina del Lager. Infatti, nell’agosto del 1944 incominciarono i bombardamenti sull’Alta Slesia, e si prolungarono, con pause e riprese irregolari, per tutta l’estate e l’autunno fino alla crisi definitiva: “… Nella Buna imperversavano i civili tedeschi, nel furore dell’uomo sicuro che si desta da un lungo sogno di dominio, e vede la sua rovina e non la sa comprendere. Anche i Reichsdeutsche del Lager, politici compresi, nell’ora del pericolo risentirono il legame del sangue e del suolo. Il fatto nuovo riportò l’intrico degli odii e delle incomprensioni ai suoi termini elementari, e ridivise i due campi: i politici, insieme con i triangoli verdi e le SS vedevano, o credevano di vedere, in ognuno dei nostri visi, lo scherno della rivincita e la trista gioia della vendetta. Essi trovarono concordia in questo, e la loro ferocia raddoppiò”. “Ottobre 1944” è legato a un preciso momento dell’intera vicenda dell’internamento, la selezione a cui sono sottoposti i deportati, che Levi vive con inconcepibile tranquillità: “… Ero tranquillo perché ero riuscito a mentirmi quanto era bastato. Il fatto che io non sia stato scelto è dipeso soprattutto dal caso e non dimostra che la mia fiducia fosse ben fondata. L’esame è molto rapido e sommario, e d’altronde, per l’amministrazione del Lager, l’importante non è tanto che vengano eliminati proprio i più inutili, quanto che si rendano speditamente liberi posti in una certa percentuale prestabilita.” “Die drei Leute vom Labor” è un capitolo dedicato al commando chimico e all’ingresso di Levi in laboratorio, in cui egli illustra anche la genesi del suo libro. Anche in questo luogo Levi ritrova “la compagna di tutti i momenti di tregua, del Ka-be e delle domeniche di riposo: la pena del ricordarsi, il vecchio feroce struggimento di sentirsi uomo, che mi assalta come un cane all’istante in cui la coscienza esce dal buio. Allora prendo la matita e il quaderno e scrivo quello che non s’aprei dire a nessuno”. In questo capitolo, inoltre, l’autore descrive l’avvento del Natale nel Lager, festività che lo induce a considerare la propria esperienza di deportato, contrapponendola alla sua precedente condizione di uomo libero.
Egli rivaluta, allora, alla luce di una più profonda maturazione, raggiunta nel Lager, la vita trascorsa da uomo libero: “… Due settimane soltanto, e poi sarà ancora Natale: non sembra vero, quest’anno è passato così presto! Quest’anno è passato presto. L’anno scorso a quest’ora io ero un uomo libero: fuori legge ma libero, avevo un nome e una famiglia, possedevo una mente avida e inquieta e un corpo agile e sano. Pensavo a molte lontanissime cose: al mio lavoro, alla fine della guerra, al bene e al male, alla natura delle cose e alle leggi che governano l’agire umano; e inoltre alle montagne, a cantare, all’amore, alla musica, alla poesia. Avevo un enorme, radicata, sciocca fiducia nella benevolenza del destino, e uccidere e morire mi parevano cose estranee e letterarie. I miei giorni erano lieti e tristi, ma tutti li rimpiangevo, tutti erano densi e positivi; l’avvenire mi stava davanti come una grande ricchezza. Della mia vita di allora non mi resta oggi che quanto basta per soffrire la fame e il freddo; non sono più abbastanza vivo per sapermi sopprimere…” “L’ultimo” rappresenta, poi, il capitolo in cui maggiormente si manifesta lo stato di “animalizzazione” prodotta dal Lager sui deportati: “… Distruggere l’uomo è difficile, quasi quanto crearlo: non è stato agevole, non è stato breve, ma ci siete riusciti, tedeschi. Eccoci docili sotto i vostri sguardi: da parte nostra nulla avete più da temere: non atti di rivolta, non parole di sfida, neppure uno sguardo giudice.” “Storia di dieci giorni” costituisce l’epilogo drammatico dell’intera vicenda, scritto sotto forma di diario. In esso Levi descrive, attraverso un’accurata analisi psicologica, la disperata fuga di alcuni deportati: “… il terrore è eminentemente contagioso, e l’individuo atterrito cerca in primo luogo la fuga.” L’opera di Primo Levi si conclude con una riflessione particolarmente penetrante, volta a indagare in profondità gli effetti devastanti operati dall’internazione nel campo di Auschwitz: “… Noi giacevamo in un mondo di morti e di larve. L’ultima traccia di civiltà era sparita intorno a noi e dentro di noi. L’opera di bestializzazione, intrapresa dai tedeschi trionfanti, era stata portata a compimento dai tedeschi disfatti. Parte del nostro esistere ha sede nelle anime di chi ci accosta: ecco perché è non-umana l’esperienza di chi è stato una cosa agli occhi dell’uomo.”
Se questo è un uomo, confronto Dante – Levi
Come sulla porta dell’inferno di Dante, anche sul cancello di Auschwitz c’è una scritta: ARBEIT MACHT FREI (il lavoro rende liberi).
Il racconto di Primo Levi tiene costantemente presente l Inferno dantesco basandosi sulla trasparente metafora lager-inferno. Il viaggio verso Auschwitz è un viaggio verso l’inferno. L’autocarro che trasporta i prigionieri è assimilato alla barca che traghetta le anime dannate al di là del fiume Acheronte. Il soldato tedesco che li sorveglia è chiamato il Caronte, ma invece di gridare “guai a voi, anime prave”, chiede loro danaro ed orologi. Nel secondo capitolo del libro ” Sul fondo più volte ricorre l’espressione: giacere sul fondo, eccomi sul fondo, viaggio verso il fondo, premuti sul fondo. Nella geografia dantesca, l’inferno è una voragine a forma d’imbuto che si apre nell’emisfero boreale, sotto Gerusalemme, e termina al centro della Terra, dove si trova Lucifero. Nel libro, il fondo è metafora del campo di annientamento, dove viene annullata la dignità umana: l’uomo è ridotto a sofferenza e bisogno, dimentico di dignità e di discernimento. La prima giornata nel lager è definita antinferno. La diversità tra la vita nel Lager e la vita precedente all’internamento è spiegata dallo scrittore con una citazione dantesca:
” Qui non ha luogo il Santo Volto
qui si nuota altrimenti che nel Serchio!”
Sono queste le parole usate dai diavoli i diavoli di Malebolge all’anima dannata di un lucchese, appena giunta all’inferno, a sottolineare con ironica perfidia la differenza tra la vita terrena e la vita nell’inferno. Anche nel Lager tutto è stravolto, non hanno più alcun valore le regole del vivere civile.
Il Lager è definito casa dei morti ed è quindi anche per questo un inferno. Morti sono i prigionieri, in primo luogo perché destinati nella stragrande maggioranza a morte sicura, in secondo luogo perché in loro è uccisa l’umanità.
Anche l’umiliante nudità assimila i prigionieri ai dannati, così come la loro paura di fronte alle crudeli parole dei loro aguzzini.
“Ma quellanime, cheran lasse e nude
cangiar colore e dibattero i denti,
ratto che ‘nteser le parole crude.”
Le pene dei prigionieri ricordano quelle dei dannati. Dice Primo Levi:
spingo vagoni, lavoro di pala, mi fiacco alla pioggia, tremo al vento
Nell’Inferno dantesco gli avari spingono massi; i golosi sono oppressi da una “piova etterna, maledetta, fredda e greve” e Ciacco dice: A la pioggia mi fiacco”; i lussuriosi sono tormentati dalla “bufera infernale” che “voltando e percotendo li molesta” .
Anche nel Lager come nell’Inferno c’è la confusione babelica delle lingue.
Il pane, pensiero dominante della popolazione del Lager è ripetuto in italiano, tedesco, yiddish, russo, francese, ebraico, ungherese: pane, brot, broit, chleb, pain, lecchem, kenyér .
I mattoni della torre del Carburo, nella fabbrica della Buna, sono chiamati in sette modi diversi e cementati dell’odio dei prigionieri contro il sogno demente di grandezza dei tedeschi che hanno edificato questa torre di Babele.
Riecheggia il verso dantesco “Diverse lingue, orribili favelle” , che contribuiscono a rendere l’atmosfera infernale così terribile per il poeta.
Anche il “tumulto”, cioè il rumore che Dante percepisce appena varcata la porta dell’inferno, ha un preciso corrispettivo nel buio del Block 30 (la baracca alla quale è assegnato Primo Levi), dove tutti urlano ordini e minacce in lingue mai prima udite.
La vita nell’infermeria, o Ka-Be, è definita vita di limbo e il limbo è il cerchio dell’inferno dove si trovano i non battezzati, dove minore è la sofferenza dei dannati. Il Ka-Be è il Lager senza il disagio fisico, una parentesi di relativa pace.
La musica che accompagna la marcia dei prigionieri verso il lavoro appare a Primo Levi ricoverato in infermeria infernale e la ricorderà sempre come la voce del Lager.
I dannati del Lager, come i dannati dell’Inferno dantesco, sono paragonati a foglie secche:
“Come d’autunno si levan le foglie
l’una appresso de l’altra, fin che l ramo
vede a la terra tutte le sue spoglie,
similemente il mal seme d’Adamo
gittansi di quel lito ad una ad una,
per cenni come augel peri suo richiamo.
Si parla di contrappasso a proposito degli operai civili internati per punizione perché hanno commerciato con degli Haftlinge. E contrappasso è la relazione di analogia o di contrasto, che nell’Inferno dantesco lega la colpa alla pena.
Il dottor Pannwitz, che fa l’esame di chimica a Primo Levi, è assimilato ad un giudice infernale. Come il Minosse dantesco (“Stavvi Minòs orribilmente e ringhia”), il dottor Pannwitz siede “formidabilmente”, cioè in modo da incutere paura, dietro la sua scrivania ed esprime il suo giudizio non a parole ma in segni incomprensibili.
Alex, il kapo del kommando Chimico , è paragonato ai diavoli di Malebolge, perché corre leggero sulle sue scarpe di cuoio.
Primo Levi cerca di ricordare il canto di Ulisse e lo recita a Pikolo . Cercare di ricordare la Divina Commedia ha il senso di continuare ad essere uomini, come sottolinea il canto XXVI dell’Inferno dantesco ed in particolare la terzina in cui Ulisse rivolge la sua “orazion picciola” ai suoi compagni:
“Considerate la vostra semenza
fatti non foste a viver come bruti,
ma per seguir virtute e conoscenza”.
Questa terzina assume un valore terribilmente attuale per Primo Levi e per Pikolo, perché in Lager si vive come “bruti”, la “semenza” umana è calpestata, la virtù e la conoscenza sono allontanate dall’urgenza della sopravvivenza.
Anche la punizione di Ulisse (il naufragio), voluta da un Dio che lui non conosceva ma di cui aveva sfidato la volontà andando con la sua nave oltre le colonne d’Ercole, ricorda il destino dei prigionieri per essersi opposti all’ordine nazifascista in Europa, e in particolare il destino degli ebrei: fra le ragioni dell’antisemitismo tedesco cerano, infatti, l’odio e il timore per l’acutezza intellettuale degli ebrei, un’acutezza che li avvicina all’Ulisse dantesco e che è sentita dai tedeschi come pericolosa. Ulisse rende “acuti” anche i suoi compagni con la sua “orazion picciola”. Il “folle volo” di Ulisse, infine, ricorda anche un altro folle volo, cioè il tentativo di sollevarsi per un momento al di sopra della condizione disumana del Lager con lo sforzo di ricordare la Divina Commedia.
Durante i bombardamenti, cominciati nell’estate del 1944, il Block privo di luce sembra una bolgia buia ed urlante.
Nella turba dei nudi spaventati, che affrontano la selezione facendo di corsa i pochi passi tra la porta del Tagesarum e quella del dormitorio, c’è una reminiscenza dei versi danteschi:
“correan genti nude e spaventata
sanza sperar pertugio o elitropia”.
di Luca Lanticina
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