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6 Agosto 2015Appunti di letteratura italiana su di Pietro Bembo di Carlo Zacco
Bembo non vuole dare una norma arcaizzante alla lingua: vuole cerare quello che nelle prose della volgar lingua definisce l’oro della lingua. E cioè vuole trovare un riferimento ad un canone, che imitato, riprodotto, dia il modello assoluto della miglior lingua possibile, per la scrittura del volgare: se noi pensiamo a quelli che sono i modelli per il Bembo nella scrittura in latino, capiamo che la posizione di Bembo non è a livello teorico arcaizzante: perché i suoi modelli latini eccellenti sono in prosa Cicerone, e in poesia Virgilio, il canone aureo per eccellenza.
La composizione delle prose si intreccia con quella del Cortegiano: il Bembo resta a Venezia fino al 1506, poi compie un opera di rottura, lascia Venezia e i suoi compiti di Cortegiano, e si trasferisce ad Urbino, dove cera Castiglione, il Bembo rimane a Urbino tra il 1506 e il 1512, poi passa a Roma e a Roma diventa segretario pontificio di Leone X.
Il Bembo scrive le prose almeno in una prima fase ad Urbino: almeno i primi due libri. Li completa poi successivamente. Ma le prose non vengono pubblicate fino al 1525: il Bembo vuole retrodatare la scrittura della sua opera per avere la palma nella idea di una scrittura anche normativa per quello che riguarda la grammatica del volgare. Per questo vuole retrodatare la composizione dell’opera in un periodo posto tra il 1515 e prima del marzo 1516. Perché nel 1516 erano uscite le regole della grammatica di Fortunio. Per questo Bembo vuole stabilire la propria precedenza e la non dipendenza dal Fortunio.
Comunque la prima edizione è del 1525 e viene dedicata al Papa, colui che era ancora cardinale, come lo era nella dedica: il cardinal Giulio de Medici che nel frattempo era diventato papa col nome di Leone X. Si rivolge al cardinale spiegandolo scopo della sua opera e la struttura, e poi come sempre stabilisce il proprio rapporto col dedicatario attraverso l’invito al dedicatario a leggerlo tra le sue grandi attività, e finisce con una captatio benevolentiae. Tutti i rapporti di carattere personale sono qui ricordati con precisione nelle note. Due dei personaggi che qui dialogano e cioè giuliano de medici, e Federico Fregoso, sono due personaggi del Castiglione. C’è una circolarità di presenze. I temi discussi in questo primo libro sono ripresi dal Castiglione nel primo libro del Cortegiano.
Dedicatoria
La natura. Il Bembo parte da una considerazione generale dal tema della variazione delle lingua: di fatto c’è un espressione di una deprecatoria sul fatto che la natura non abbia dato gli uomini un unica lingua. La variazione d elle lingua è vista in relazione al parlare lingue diverse in un ottica in cui la lingua è considerata in relazione ai rapporti di comunicazione e di relazione tra uomini, e in prima istanza in un ottica di coordinate di carattere spaziale.
Persuadère. D’altra parte se la lingua è considerata per la relazione tra uomini, la forza della lingua, nella sua capacità di persuadere, si connette anche con quello che vi è nella lingua di bello e grazioso: se si parla in modo grazioso, efficace, tanto più si può convincere.
Spazio e tempo. Si introduce un elogio sulla forza delle parole: tra tutte le cose idonee a commuovere è grande la forza delle umane parole. E da qui la dislocazione del discorso fa si che alle coordinate spaziali si connettano le coordinate temporali: la lingua è considerata non solo come strumento di comunicazione ma come lingua che dura nel tempo, se la lingua fosse uguale per tutti, non ci sarebbe difficoltà a metterla per iscritto ed a capirla per tutti.
La lingua scritta. La scrittura è più importante del parlato perché dura di più, perché è un parlare sensatamente: occorre puntare ad un grado maggiore di perfezione possibile. E ciò sarebbe facile se tutti parlassero o scrivessero la stessa lingua, ma non è così.
La variazione diatopica. Si introduce dopo aver messo in evidenza coordinate spaziali e temporali, il rapporto tra nazioni diverse nonché quello che accade all’interno di una stessa provincia, alla latina. Considera la situazione dell Italia e del volgare: «maravigliosa cosa è a sentire, quanta variazione oggi è nella volgar lingua pur solamente con la quale noi e gli altri italiani parliamo e quanto è malagevole lo eleggere e trarne quello esempio col quale più tosto formar si debbano e fuori mandarne le scritture» attenzione: i due aspetti sono collegati: non solo il modo di scrivere, anche per mandare fuori le scritture, che non è solo un farle conoscere, ma c’è in evidenza la consapevolezza del Bembo in relazione alla stampa. Ho già fatto osservare l’importanza della collaborazione con Manuzio: la norma comune per la stampa era una esigenza: Bembo coniuga questa esigenza con un criterio di eleganza, bellezza, dolcezza, convenienza nello scrivere.
La causa di una tale varietà. Allora, perché c’è questa grande varietà nei volgari italiani? Secondo il Bembo perché non c’è stato nessuno che a sufficienza abbia dato norma allo scrivere: attenzione, al Bembo interessa la scrittura, non il parlato. Il Bembo di ciò si stupisce e reputa la cosa necessaria ed importante proprio perché lo scriver non è altro che parlare pensatamente.
Il modo migliore di parlare. E se ciò che ci distingue dagli animali è la parola, dice il Bembo «che cosa c’è di più bello per un uomo che cercare di essere superiore agli altri, specialmente trovando il modo migliore di parlare, il più gentile e il più vago». Questo è lo scopo della sua scrittura, e per questa ragione ha pensato di giovare l’utilità agli studiosi di questa lingua.
Necessità di una norma. Ma che cosa ci dice ancora? Una cosa non scontata all’epoca: vuole ribadire l’importanza e il significato di scrivere in volgare. E proprio perché ormai riconosce che molti scrivono in volgare, allora è importante dare loro, per giovamento, quelle norme della scrittura non dare precedentemente da altri.
La finzione dei dialoghi riportati. E come fare? Si introduce qui la finzione dei dialoghi riportai: vuole riportare i dialoghi svolti parecchi anni prima, ci dice che è stato svolto il 10 Dicembre 1502, a Venezia, nella casa del fratello Carlo, morto prematuramente, nel 1503. I personaggi sono quattro:
1) Giuliano de Medici, ora duca di Nemour: nella finzione data se Giuliano de medici è duca di Nemour, significa che Giuliano nel momento in cui Bembo si rivolge al Cardinale de medici era ancora vivo. E dunque se Giuliano era ancora vivo siamo a prima del marzo 1516; ma doveva essere stato nominato anche duca di Nemour, e lo fu nel gennaio 1515: viene a riportare la scrittura della sua opera, in questo lasso di tempo 1502 – 1515.
2) Federico Fregoso, altro personaggio importante;
3) messer Ercole Strozzi, di Ferrara, personaggio chiave della vicenda, rappresentato come accanito sostenitore del latino, e che rifiuta accanitamente il volgare. Ercole Strozzi effettivamente si sarebbe convertito alla scrittura in volgare, perché abbiamo scritti in volgare suoi.
4) Carlo Bembo, il fratello, in casa del quale si svolgono i dialoghi.
Lo sforzo di fedeltà. Dialoghi che si svolgono in tre giornate e che sarebbero stati riferiti dal fratello Carlo a lui Pietro che si trovava là a Padova pochi giorni dopo i dialoghi, dove li ha sentiti raccontare. Bembo dice che il dialogo «alla sua verità» secondo ciò che è stato detto veridicamente da Carlo «più somigliantemente che io possa» lo aveva recato in scrittura, perché questi dialoghi contenevano allo scopo del suo trattato.
Abbiano l’autore non presente che dice di aver sentito riferire dal fratello, presente, e che gli ha detto in maniera veridica il contenuto delle conversazioni, e che lui di fatto più somigliantemente che può li trascrive. Il Cortegiano è simile. Qui c’è il rapporto col dedicatario. Questo non potrà dispiacere al dedicatario illustre perché, si sa, non solo gli piacciono nel cose in latino, ma anche le cose in volgare. Di fatto si occupa anche delle cose in volgare, e quando gli è possibile dà orecchi a ciò che hanno scritto i fiorentini poeti. Poi la captatio in riferimento allo zio: allora, Giulio de medici era il figlio naturale di Giuliano, fratello di Lorenzo morto nella congiura dei pazzi. Il Lorenzo più famoso, il Magnifico per antonomasia è suo zio: la captatio è esaltare appunto Lorenzo per il suo ruolo nel rilancio del volgare per quello che riguardava la cultura fiorentina, e per il fatto che Firenze sarà lodata per i suoi grandi scrittori in questi dialoghi.
La cornice. Fatta questa premessa siamo già introdotti all’argomento. La cornice, molto breve, e diegetica, ci dà una ambientazione cittadina, a Venezia, con personaggi storicamente individuati coi loro nomi, ci viene indicata la data precisa, relativa ad un anno esatto prima della morte del fratello.
Il Rovaio. Il dialogo è avviato in maniera colloquiale come se si stesse svolgendo un comune discorso e come se casualmente si toccasse un punto che desse origine alle discussioni. Ci troviamo dopo pranzo, e dato che fa freddo, c’è il fuoco acceso e Messer Ercole chiede di potersi avvicinare al fuoco per scaldarsi. Inizia un dialogo apparentemente realistico tra personaggi che si trovano in una stanza, e interviene le voce di giuliano che dice di accostarsi ed aggiunge che «questo rovaio, che tutta mattina ha soffiato, acciò fare ci conforta» allora, il rovaio è la parola che fa da pretesto per introdurre il discorso: Ercole dice a Giuliano che non ha mai sentito questa parola, che ha capito che cosa significhi (il vento di tramontana) ma lo ha capito soltanto perché la situazione consente che si comprenda. Non ha mai sentito quella parola. Noi vediamo che rovaio compare una sola volta nel Decameron, come espressione volgare, però Giuliano De Medici che è rappresentante dei sostenitori della lingua fiorentina contemporanea, non parla come parlava Boccaccio: noi vediamo la parola rovaio è presente in un’opera popolaresca del Pulci, quindi rovaio doveva essere una parola che aveva corso in quel periodo. Giuliano dice che è così, e iniziano a parlare del volgare passando da una cosa all’altra: come se casualmente, in modo non studiato e non preordinato il discorso ci portasse alla nostra questione.
Tre contro uno. Qui troviamo subito una dislocazione particolare dei personaggi: sono tre contro uno, nel senso che tutti e tre Carlo, Giuliano e Federico lodano il volgare, e dicono che è bene scrivere in volgare in questi tempi; Ercole è di avviso opposto, è desideroso solo della lingua latina. Allora, interviene Ercole e dice che non capisce perché si possa lodare la scrittura in volgare e vorrebbe essere persuaso di avere torto, oppure persuadère loro che hanno torto. E soprattutto gli dispiace che Pietro Bembo abbia scritto in volgare, e non in latino come bisognerebbe fare per essere veri scrittori.
Carlo, portavoce di Pietro. Carlo rappresenta il portavoce di Pietro, e d’altra parte difendendo la scrittura in volgare di Pietro evidenzia che diverse persone aveva accusato il Bembo per aver scritto in volgare, dicendo che bisognava usare il latino.
Facendosi portavoce di Pietro, difende il volgare con un argomento: dicendo che scrivere in volgare è lo scrivere adoperando uno strumento più naturale e più vicino a quello che è la lingua propria: chi scrive in latino si pone lontano da essa, e fa il paragone di chi vuole creare un bel palazzo e ornarlo in un paese lontano e nella propria città voglia abitare in vilissime case; esercitandosi col volgare si fa un qualcosa che è in relazione con la propria lingua.
Greco > Latino > volgare. Allora comincia a questo punto inizia un dibattito: Ercole contesta che il latino sia lontano e il volgare non lo sia, e la risposta di Carlo si pone sulla analogia: il rapporto che c’è tra il mondo contemporaneo tra il latino e il volgare, è lo stesso che cera al tempo dei romani tra il Greco che era lingua straniera e il latino che era lingua propria. Così per analogia ala lingua propria è il volgare, e la lingua estranea è il latino. Dunque attraverso questa analogia, viene posta questa differenza: il latino è una lingua che si studia, ma la scrittura nella quale ci si deve porre oggi è soprattutto il volgare.
Maggior dignità. L’obiezione che porta lo Strozzi è il fatto che il latino ha maggiore dignità e che anche nei tempi antichi aveva maggior dignità e stima la lingua greca piuttosto che la latina. E dunque se è da stimare di più nel tempo attuale, perché ha scrittori più grandi la lingua latina rispetto alla lingua volgare, perché mai si deve lasciare ciò che ha più dignità per ciò che ne ha meno?
La dignità di una lingua. A questo punto entra in campo il magnifico, e mette in evidenza la consapevolezza della variazione delle lingua: c’è un tempo in cui una lingua ha una particolare dignità, poi nell’evoluzione del tempo e delle lingua, altre assumono dignità. Se si volesse sceglie una lingua per tutti allora bisognerebbe risalire all’indietro: se noi dobbiamo usare il latino e non in volgare i latini avrebbero dovuto usare il greco, i greci il fenicio e così via.. Qui c’è una posizione di una derivazione di una lingua dall’altra, con la convinzione che il latino derivasse dal greco: c’è un discorso di questo genere: il latino derivato dal greco, il volgare dal latino. Secondo questa trafila il magnifico dice che così come noi usiamo il volgare, i latin a loro volta, dopo che la loro lingua aveva raggiunto una dignità nella scrittura, hanno usato il latino e non il greco. E sceglie una serie di argomenti presenti anche in cicerone, il quale difende la scrittura in materia filosofica in latino e non in greco, si riteneva allora ai tempi di cicerone che la scrittura filosofica fosse da fare in greco e non in latino.
La perfettibilità del volgare. Quindi per analogia presenta il Magnifico il discorso del rapporto tra latino e volgare: il volgare è lingua propria, e il volgare può essere perfezionato così come hanno fatto i latini perfezionando la loro lingua, nelle opere. E qui cita come autori che hanno operato migliorando e perfezionando rispetto alle origini della loro lingua, Cino da Pistoia, Dante, Petrarca e Boccaccio. Cino ha una posizione particolare che si spiega anche con il rilievo che gli era stato dato. D’altra parte se noi proseguiamo per questa linea, il nostro volgare sempre più può migliorare.
Portare alberi alla selva. Se il volgare è la nostra lingua materna allora noi saremmo crudeli ad abbandonarla. Altra ragione: che cosa pensiamo di acquistare in termini di grazia e di fama scrivendo in latino e non in volgare, è come portare alberi alla selva! Come possiamo pensare di ottenere più grandezza e più grazia di quella che hanno già avuto i latini. Quella della selva è metafora oraziana: Orazio se ne serve per giustificare lo scrivere nella propria lingua in latino e non in greco.
La diglossia romana. D’altra parte qui torna da capo il discorso su una ulteriore articolazione: ad un certo punto lo Strozzi aveva avanzato una obiezione in relazione al volgare, nella parte dove dice che la lingua «è meno prezzata» aveva avanzato la stessa obiezione trovata nei libri della famiglia dell’Alberti: aveva ricordato che cera chi riteneva che al tempo dei latini, cera chi scriveva in latino ma parlasse in volgare: quella tesi che era stata attribuita al Bruni, della doppia presenza della lingua latina e della volgare. Questa posizione è ripresa nelle prose, il che vuol dire che non era rimasta circoscritta nel quattrocento, ma che cera ancora chi la sosteneva, e il Bembo riteneva di doverla respingere.
Ma la posizione è diversa da quella dell’Alberti: Alberti si avvale di due modi: il latino e la nostra oggi lingua toscana. Alberti aveva tra l’altro scritto una grammatichetta fatta sul volgare parlato, cercando di rendere normativa la lingua volgare toscana di oggi, sull’esempio delle grammatiche latine. Che cosa significa? L’Alberti si vuole servire del latino per irrobustire il volgare. Il Bembo fa un’altra cosa: vuole distinguere ciò che è proprio del volgare, da ciò che è il latino. Cioè il Bembo riconosce le radici romanze del volgare, e quelle vuole per seguire: il Bembo al contrario di quella operazione di latinizzazione fatta dall’Alberti fa una cosa diversa: le due lingue sono e devono restare diverse. Il volgare è autonomo e come tale deve essere studiato e perfettibile. Il volgare deve essere diverso dal latino e seguire la propria strada di perfettibilità, non essere per forza esemplato sul latino.
Da dove viene il volgare? L’ultima parte del passo riguarda le domande fatte dallo Strozzi: vuole sapere, riconoscendo di essere solo contro tre, da dove è nato il volgare, e dove è nata la poesia in volgare. Il Fregoso si prende il compito di spiegare come sia nato il volgare, e poi in quanto esperto di poesia provenzale allora spiega come è iniziata la poesia italiana, come nella lingua volgare si sia iniziato a scrivere poesia. Il Bembo scavalca però la poesia siciliana, non le dà importanza, ma la fa derivare direttamente dalla poesia provenzale. Teniamo presente che il Bembo conosce Convivio e De vulgari; conosce la grammatichetta dell’Alberti; conosce, anche se sul manoscritto, il Comento sopra alcuni sonetti d’amore di Lorenzo il Magnifico. Perché tracce di queste opere sono presenti nell’opera del Bembo.
Come è strutturato il resto dell’opera? Lo Strozzi ad un certo punto si distrae e quando incomincia a parlare pone il problema di fondo: che cosa può fare chi vuole imparare a scrivere in volgare? Questo è il punto focale su cui si organizza tutto il resto del trattato.
La teoria cortigiana del Calmeta. Viene presentata una prima ipotesi, poi respinta, di lingua cortigiana attribuita al Calmeta. Lingua cortigiana per il Calmeta è la lingua parlata alla corte di Roma: corte frequentata da gente di tutta Italia e di tutta Europa: e che lingua mai si può trarre da li? E poi è una lingua che non ha scrittori. Una lingua perciò per essere tale deve avere scrittori.
Le teorie di Giuliano e Carlo. . Allora quali altre ipotesi si confrontano tra di loro: quella sostenuta in un primo tempo dal magnifico giuliano: cioè la fiorentina a lui contemporanea, e quella sostenuta da Carlo portavoce di Pietro: quella lingua che costituisce loro della lingua, cioè scegliere la forma, il modo di scrivere di quegli autori che al loro tempo hanno avuto l’eccellenza: e chi sono? L’eccellenza del volgare è stata raggiunta nel trecento: per la prosa da Boccaccio; per la poesia da Petrarca. Questi sono i modelli assoluti.
Il toscano contemporaneo: lingua mescidata. Perché non la lingua toscana contemporanea? Perché è una lingua mescidata: troppo segnata da connotazioni di carattere popolaresco ed ha perso l’antico carattere di eccellenza. Quindi si afferma addirittura che essere nati a Firenze non è un vantaggio, perché per scrivere bene in volgare, bisogna imparare la lingua sui libri dai migliori scrittori. Questo viene proposto per essere svolto nei due libri successivi. Quali sono gli argomenti dei due libri successivi?
Il secondo libro riguarda la retorica della lingua volgare, la forma, lo stile in prosa e in verso.
Il terzo libro, dove il dialogo non ha parte ed è svolto dal magnifico, riguarda la grammatica del volgare. Ha una amplissima parte, e dettagliata, sulla morfologia del volgare. Il terzo libro è molto più ampio dei primi due.
Il vero e proprio dialogo si svolge nel primo libro: negli altri due è soprattutto una trattazione continuata con poche interruzioni.
Da un punto di vista letterario la parte più interessante è il terzo libro, per la scrittura letteraria. Nella trattazione svolta nel 2 e 3 conta più per i contenuti. Il Bembo aveva una grande sensibilità per la poesia: aveva a disposizione autografi petrarcheschi. E nel secondo libro fa considerazioni importanti sulla poesia, per il verso, la variazione eccetera, considerazioni significative anche per la storia della critica dello stile.
La posizione del Bembo di fatto si impone non tanto per le prose, ma viene divulgata, soprattutto il terzo libro, in compendi, trattazioni più brevi, è ripreso da altri autori, e soprattutto viene divulgata da opere di stampatori: e di fatto si impone nella prassi degli stampatori per problemi di carattere tipografico.