La Mafia e il Movimento Indipendentista Siciliano
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Rosario Livatino
Al di fuori della giurisdizione delle grandi «famiglie» avviene l’omicidio di un giovane magistrato tutto casa e lavoro, Rosario Livatino. La sua è una barbara esecuzione in un mattino pieno di sole, il 21 settembre 1990, lungo la superstrada Canicattì – Agrigento. Livatino la percorre ogni giorno per raggiungere la procura. È figlio unico di due anziani e religiosi possidenti. Di lui i giornali non si sono mai occupati, le sue inchieste sono circondate da un riserbo d’altri tempi. Tuttavia, come sempre capita in questi luoghi remoti della Sicilia, chi deve sapere, sa. Livatino è impegnato in una delicata inchiesta sugli « stiddari », che hanno trasformato la provincia di Agrigento in un loro caposaldo. Le bande sono venute a conoscenza dell’inchiesta e di quel giudice inflessibile: il delitto ha sì uno scopo preventivo, ma è anche una prova di forza nei confronti di Cosa Nostra, un modo obliquo di mettersi in pari con la spietata eliminazione, poco tempo prima, del giudice Saetta e del figlio. Anche in questo caso compare l’ombra di Giuseppe Di Caro, il regista di quel duplice omicidio, fedele alleato dei corleonesi, che già nel ’78 era stato provvidenziale nel fornire le basi logistiche e le dritte a Giovanni Brusca, Nino Marchese, Bagarella e Andrea Di Carlo impegnati nell’eliminazione degli accoliti di Di Cristina. Inquisito nell’88 da Falcone e costituitosi da poche settimane perché afflitto da un tumore, Di Caro è agli arresti domiciliari. La sua abitazione sta da quarant’anni al piano sopra quella dei Livatino. Il boss è tra i primi a dolersi con l’anziano genitore: il suo comportamento lascia sbigottiti, ma serve a escludere la matrice mafiosa e a indirizzare le indagini verso la folta colonia di canicattesi emigrati in Germania. A sbrogliare la matassa, a individuare i quattro responsabili, è un coraggioso rappresentante bergamasco di porte blindate, Pietro Nava. Ha assistito all’assalto contro l’utilitaria del magistrato, alla sua inutile fuga nel campi sottostanti. Nava non si tira indietro, compie fino in fondo il proprio dovere di cittadino. Ne avrà l’esistenza sconvolta, dovrà abbandonare il lavoro, l’Italia. Il libro e il film che sono stati tratti dalla sua vicenda rappresentano una parzialissima ricompensa per questo eroe sconosciuto.
La genesi del delitto Livatino si comprende meglio il 14 febbraio 1991 allorché è ucciso Giuseppe Di Caro. Un omicidio che sconvolge gli equilibri della zona. I Di Caro, infatti, sono inseriti dal dopoguerra nel vertice mafioso. Li ha messi lì un capomafia “leggendario”, Calogero Ferro, deceduto nel ’69, dopo mezzo secolo di «guida illuminata» del paese. Prima di morire nel letto di casa, Ferro – proprietario di un feudo che ha la caratteristica di estendersi in quattro province: Agrigento, Ragusa, Siracusa, Caltanissetta – ha imposto ai suoi luogotenenti (Di Caro, Guarneri e Ferraro) di stringere un patto fra loro per evitare la probabilissima guerra di successione. Gli omicidi Livatino e Di Caro rappresentano la rottura del patto, il tentativo degli «stiddari» di sostituirsi alle «famiglie» egemoni. Il 18 febbraio gli «stiddari» tendono un agguato contro il nipote di Di Caro, Lillo, il quale, benché colpito, risponde al fuoco e ferisce uno degli aggressori. Per gli «stiddari» comincia il conto alla rovescia: in pochi mesi verranno annientati.
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