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28 Dicembre 2019Nel sesto capitolo de “Il grande Gatsby” di Francis Scott Fitzgerald, Nick Carraway, il narratore, si addentra ulteriormente nella vita e nei segreti di Jay Gatsby.
Inizio del Capitolo Sesto de Il grande Gatsby di Francis Scott Fitzgerald
Più o meno in quel periodo, un ambizioso giovane reporter di New York si presentò alla porta di Gatsby, una mattina, chiedendogli se avesse qualcosa da dichiarare.
«Riguardo cosa?» rispose Gatsby con garbo.
«Beh… qualsiasi dichiarazione.»
Venne fuori, dopo cinque minuti di confusione, che l’uomo aveva sentito il nome di Gatsby in redazione riguardo qualcosa che non voleva rivelare o che non aveva capito del tutto. Quello era il suo giorno libero e così, con lodevole iniziativa, si era precipitato a “vedere”.
Fu un colpo sparato a caso, ma l’intuizione del reporter era giusta. La notorietà di Gatsby, diffusa dalle centinaia di persone che ne avevano accettato l’ospitalità sentendosi così autorizzate a discettare del suo passato, era cresciuta tutta l’estate fino quasi a diventare essa stessa notizia. Gli venivano associate leggende contemporanee come “l’oleodotto sotterraneo per il Canada” e girava una diceria insistente secondo la quale non abitava in una casa, ma in una nave che sembrava una casa e si muoveva, in gran segreto, su e giù per la costa di Long Island. Perché, poi, queste invenzioni fossero fonte di soddisfazione per James Gatz del North Dakota, non è affatto semplice a spiegarsi.
James Gatz – questo era in realtà o almeno legalmente il suo nome. L’aveva cambiato all’età di diciassette anni, nel preciso istante in cui ebbe inizio la sua carriera: quando vide lo yacht di Dan Cody gettare l’ancora nelle secche più insidiose del Lago Superiore. Era James Gatz che bighellonava lungo la spiaggia, quel pomeriggio, con un maglione verde tutto strappato e un paio di calzoni di tela, ma era già Jay Gatsby che prese in prestito una barca a remi, vogò fino al Tuolomee per avvisare Cody che il vento avrebbe potuto sorprenderlo e farlo a pezzi in mezz’ora.
Suppongo che avesse pronto quel nome già da tempo, anche allora. I suoi genitori erano dei contadini falliti, incapaci – la sua immaginazione non li aveva mai completamente accettati come tali.
La verità era che Jay Gatsby, di West Egg – Long Island, scaturiva dalla sua platonica concezione di sé. Era un figlio di Dio – un modo di dire che, se mai ha un senso, può significare soltanto questo – e doveva occuparsi degli affari del Padre suo al servizio di una bellezza vistosa, volgare e meretricia. Così inventò proprio quel tipo di Jay Gatsby che un diciassettenne potrebbe inventare e a quella concezione di sé rimase fedele fino alla fine.
Per più di un anno aveva battuto la sponda meridionale del Lago Superiore facendo il pescatore di molluschi o di salmone e qualsiasi altra attività gli procurasse da mangiare e un letto. Il suo corpo abbronzato, sempre più resistente, reggeva agilmente i lavori, per metà brutali e per metà lenti, di quei giorni tonificanti. Conobbe
presto le donne e siccome presero a viziarlo, divenne sprezzante nei loro confronti: con le giovani vergini perché erano ignoranti, con le altre perché isteriche in questioni che, nel suo esasperato egocentrismo, dava per scontate.
Ma il suo cuore era agitato da una costante e turbolenta rivolta.
Le ambizioni più grottesche e fantasiose gli davano il tormento, di notte, nel letto. Un universo d’ineffabile volgarità dilagava nel suo cervello mentre l’orologio ticchettava sul lavabo e la luna infracidava con luce umida il groviglio dei suoi abiti gettati alla rinfusa sul pavimento. Ogni notte aggiungeva un tratto al disegno della sua fantasia finché la sonnolenza, con l’abbraccio dell’oblio, piombava nel mezzo di qualche scena vivida. Per un po’ questi sogni ad occhi aperti fornirono uno sfogo alla sua immaginazione; erano una soddisfacente allusione all’irrealtà della realtà, la promessa che la roccia del mondo poggiasse saldamente sulle ali di una fata.
L’istinto della gloria futura lo aveva spinto, alcuni mesi prima, al piccolo Lutheran College di Sant’Olaf, nel Minnesota meridionale.
Ci rimase per due settimane, sbigottito per la feroce indifferenza dell’istituto verso le trombe del suo destino, verso il destino stesso e pieno di disprezzo per il lavoro da portiere con il quale doveva mantenersi. Poi s’era trascinato di nuovo al Lago Superiore ed era ancora alla ricerca di qualcosa da fare quando lo yacht di Dan Cody
gettò l’ancora nelle secche lungo la costa.
Cody aveva all’incirca cinquanta anni allora ed era il tipico prodotto delle miniere d’argento del Nevada, dello Yukon e di ogni corsa ai metalli dal ’75 in poi. La compravendita del rame in Montana, che lo rese multimilionario, lo trovò fisicamente robusto ma sull’orlo di una leggera demenza, nel sospetto della quale un’infinità di donne si diede da fare per separarlo dai suoi quattrini. L’irretimento di pessimo gusto col quale Ella Kaye, la giornalista, gli fece da Madame de Mantenon, approfittando della sua debolezza e mandandolo per mare con lo yacht, divenne di dominio pubblico nell’ampolloso giornalismo del 1902. Costeggiava, da ormai cinque anni, rive troppo ospitali quando si presentò come il destino di James Gatz nella Little Girl Bay.
Per il giovane Gatz, appoggiato sui remi e con lo sguardo rivolto alla balaustra del ponte, lo yacht rappresentava tutta la bellezza e il fascino del mondo. Suppongo che sorrise a Cody – aveva già scoperto, probabilmente, che piaceva alla gente quando sorrideva. A ogni modo Cody gli pose qualche domanda (una delle quali diede
origine al nuovo nome) e constatò che era sveglio ed estremamente ambizioso. Dopo qualche giorno se lo portò a Duluth e gli comprò una giacca blu, sei paia di pantaloni di tela grezza bianca e un berretto da yacht. E quando il Toulomee partì per le Indie Occidentali e la costa della Barberia, anche Gatsby partì.
Era stato assunto con un incarico piuttosto vago: finché rimase con Cody fu a turno steward, compagno, skipper, segretario e anche carceriere poiché Dan Cody sobrio sapeva cos’era in grado di combinare Dan Cody ubriaco e si era premunito contro ogni evenienza riponendo sempre più fiducia in Gatsby. L’accordo durò
cinque anni, durante i quali la barca fece per ben tre volte il giro del continente. Sarebbe potuto durare all’infinito se, una notte a Boston, non fosse venuta a bordo Ella Kaye e la settimana dopo Dan Cody, in maniera ben poco ospitale, non fosse morto.
Ricordo il suo ritratto in camera di Gatsby: un uomo brizzolato, rubicondo con una faccia dura e senza espressione – il pioniere debosciato che, in una fase della vita americana, aveva riportato sulla costa orientale la barbara violenza dei bordelli e dei saloon di frontiera. In un certo senso era per via di Cody che Gatsby beveva
così poco. Capitava, alle volte durante i suoi allegri party, che le donne gli stropicciassero i capelli con lo champagne; quanto a lui, aveva preso l’abitudine di lasciar perdere i liquori.
E fu da Cody che ereditò i soldi – un lascito di circa venticinque mila dollari. Non li ebbe. Non capì mai lo stratagemma legale usato contro di lui, ma ciò che restava dei milioni passò interamente a Ella Kaye. Il suo lascito fu una singolare educazione; la vaga sagoma di Jay Gatsby s’era riempita dell’essenzialità di un uomo.
Mi raccontò tutto questo molto più tardi, ma ho pensato di riportarlo ora con l’intento di smentire i primi pettegolezzi sulle sue origini che non furono mai neanche un timido ricordo della realtà.
Per di più mi parlò in un momento di confusione, quando avevo ormai deciso di credere tutto e nulla riguardo lui. Così approfitto di questa breve pausa, mentre Gatsby, per così dire, riprendeva fiato, per chiarire questa serie di equivoci una volta per tutte.