Giovanni Ghiselli: professore di greco e latino
27 Gennaio 2019Giusy
27 Gennaio 2019di Giovanni Ghiselli
Martedì 22 Ottobre 2013 – Ore 15.00 – BOLOGNA, Sala del Risorgimento, Museo Civico Archeologico, Via de’ Musei, 8 – Solone poeta e legislatore, conferenza di Giovanni Ghiselli
Un caso a sé è quello di Solone, il quale, un poco come Pittaco a Mitilene, fu pacificatore tra le fazioni in lotta ad Atene, in uno scontro non solo socio-economico ma anche religioso e culturale, fattori che nella vita greca spesso sono interdipendenti.
Cominceremo dunque da lui intrattenendoci un poco anche sulla vita e sull’opera di legislatore, importanti quanto la produzione poetica e intrecciata con essa.
Nacque ad Atene da famiglia elevata: Plutarco nella Vita di Solone ci dice che discendeva dal re Codro, della stirpe di Poseidone.
Il caso di Cilone.
Durante la sua infanzia (intorno al 630) il nobile Cilone cercò di instaurare la tirannide mettendosi a capo dei contadini e occupando l’acropoli, ma il tentativo fu represso con violenza da Megacle Alcmeonide, che, seguace di Apollo delfico, fece ammazzare i ciloniani rifugiatisi invano nel tempio delle Erinni, le dee venerande della religione orfico-dionisiaca.
Così gli Alcmeonidi si macchiarono di sacrilegio, tanto che nel 596 trecento famiglie nobili riconobbero la loro colpevolezza: tutta la stirpe fu condannata a esilio perpetuo, e i loro cadaveri vennero buttati fuori dal sepolcro.
Aristotele nella Costituzione degli Ateniesi (1) racconta che allora il cretese Epimenide purificò la città (ejkavqhre th;n povlin).
Plutarco ( Vita di Solone, 12) narra che Epimenide aveva fama di essere un uomo santo e sapiente nelle cose divine, della sapienza ispirata e iniziatica. Quando, intorno al 600, venne ad Atene da Creta, strinse amicizia con Solone e lo aiutò a preparare la sua legislazione. Infatti rese gli Ateniesi più semplici nei culti e più moderati nelle cerimonie funebri, eliminando gli eccessi . Ma la cosa più importante è che, avendo santificato e consacrato la città con sacrifici espiatorii, purificazioni e fondazioni sacre, la sottomise alla giustizia e cercò di indurla alla concordia. Epimenide dunque fu profeta delle Erinni e della religione orfico-dionisiaca cara alle plebi; pertanto avversario della consorteria degli Alcmeonidi alleati con i sacerdoti del santuario delfico che sostenevano le oligarchie aristocratiche in tutta la Grecia.
La cultura e le fazioni favorevoli al santuario delfico, chiamavano quel luogo di culto apollineo situato sulle pendici occidentali del Parnaso “l’ombelico del mondo”, mentre uno dei frammenti di Epimenide afferma che non c’è l’ombelico della terra né del mare, proprio per sminuire il dio e la casta sacerdotala cari ai maledetti Alcmeonidi.
Epimenide di Festo ottenne dal dio questo oracolo:
non c’è un ombelico centrale (mevso~ ojmfalov~) della terra né del mare, e se pure ci fosse, sarebbe noto agli dèi, celato ai mortali (Plutarco, De defectu oraculorum, 409 F).
La negazione della centralità di Delfi dunque era stata espressa da Epimenide, il profeta delle Erinni che purificò Atene agli inizi del sesto secolo:”oujk a[r j e[hn gaivh” mevso” ojmfalo;” oujde; qalavssh””(3B11 DK), non c’ era un ombelico centrale della terra né del mare.
E’ la linea antidelfica, procedendo sulla quale il “sacrilego” Euripide presenta i ministri di Apollo come una masnada di assassini sanguinari. Nell’Andromaca, Neottolemo, il ragazzo di Achille, stando sotto gli occhi di tutti, prega il dio, e viene ferito; allora domanda:”tivno” m j e}kati kteivnet j eujsebei'” oJdou;”- h}konta; poiva” o[llumai pro;” aijtiva”; “, perché mi uccidete sulla strada della pietà ? Per quale colpa muoio?”(vv.1125-1126), ma nessuno dei molti presenti gli rispose; anzi lo uccisero colpendolo con pietre. Tutto questo è raccontato da un messo che alla fine della rJh’si” (v.1164) accusa Apollo di essere w}sper a[nqrwpo” kakov”, come un uomo malvagio, e domanda:”pw'” a]n oun ei[h sofov”;”, come potrebbe essere saggio?
Ho insistito su questo contrasto politico-religioso della fine del VII secolo poiché assumerà grande rilievo nella letteratura successiva: la storiografia nascerà da un compromesso tra la rivoluzione orfica e la resistenza delle grandi famiglie nobiliari: Eschilo, celebrando nelle Eumenidi ( del 458) la vittoria del dio delfico Apollo contro la giustizia delle Erinni, esalta in fondo la vittoria degli Alcmeonidi sulle dee di Epimenide. Nel compromesso, prevale la consorteria dei maledetti Alcmeonidi. Lo stesso Pericle, il leone di Greci [1], alcmeonideo per parte materna e discendente da Epimenide per parte di padre, incarna questo compromesso.
Ma tornando a Solone, agli inizi del sesto secolo, dopo l’esilio inflitto agli Alcmeonidi, manca l’equilibrio politico.
La popolazione, scrive Plutarco (Vita di Solone , 13) era divisa in tre partiti a seconda della varietà del territorio: quelli dei monti erano fautori della democrazia, quelli della pianura, più ricchi, dell’oligarchia, quelli della costa sostenevano una forma mista di governo, di centro potremmo dire con termine moderno.
I disordini erano fomentati dalle sperequazioni enormi e dall’indebitamento dei poveri che diventavano perfino schiavi dei ricchi, dopo avere contratto debiti dando come garanzia la propria persona.
A questo punto (anno 594) Solone fu nominato arconte (a[rcwn) con l’incarico di pacificatore e legislatore (diallakthv” kai; nomoqevth”): i possidenti infatti lo accettarono in quanto benestante, i poveri, siccome galantuomo: doveva fare da paciere tra nobili e popolo. In effetti Solone invitò gli uni e gli altri a non essere smodati biasimando e punendo la prepotenza. Si sentì un servitore della comunità, e, per dare un esempio di moderazione, dopo avere portato a termine il suo compito, si ritirò dal potere e dalla città. Non accettò la tirannide che molti gli offrivano dicendo agli amici che
” la tirannide è una bella fortezza ma non ha via d’uscita“( eipen kalo;n me;n einai th;n turannivda cwrivon, oujk e[cein d ajpovbasin” Plutarco, Vita di Solone 14, 35).
Lontano dalla rigidità di Creonte e dallintransigenza di Antigone, Solone cercò un compromesso, ponendosi come scudo tra le fazioni
Per prima cosa operò l’alleviamento dei debiti (seisavcqeia[2]) e vietò
di prendere denaro a prestito impegnando la persona, per evitare che risorgesse la schiavitù degli indebitati.
Tuttavia si oppose ad una radicale riforma agraria con la distribuzione della terra gh`~ ajnadasmov~ ajnadaivomai.
Plutarco sostiene che la seisavcqeia fu in realtà una crew`n ajpokophv, estinzione dei debiti e che il primo termine, sgravio” è un eufemismo cui i Greci sono inclini, infatti chiamano ta;~ povrna~ eJtaivra~ (15, 2).
Solone disse che non aveva scritto tou;~ ajrivstou~ novmou~ , ma
w|n a[n prosedevxanto tou;~ ajrivstou~ , le migliori tra quelle che avrebbero accettato.
Aristotele nella Costituzione degli Ateniesi [3] (VI) scrive che Solone kuvrio~ de; genovmeno~ tw`n pragmavtwn , divenuto arbitro della politica, fece le leggi novmou~ e[qhke e abolì i debiti privati e pubblici kai; crew`n ajpokopa;~ ejpoivhse kai; tw`n ijdivwn kai; tw`n dhmosivwn, un provvedimento chiamato seisavcqeia poiché il popolo si liberò dal suo peso.
Lo accusarono di avere imbrogliato o di essersi fatto imbrogliare. Avrebbe parlato del suo progetto ad alcuni gnwvrimoi notabili e questi avrebbe contratto dei prestiti che poi non pagarono.
Dicono che da questi discesero quelli che più tardi sembravano essere gli antichi ricchi tou;~ u{steron dokou`nta~ einai palaioplouvtou~”
I democratici sostengono che fu manovrato dagli amici oiJ dhmotikoi; legousi parastrathghqh`nai dia; tw`n fivlwn
Aristotele pensa che questa sia una calunnia: infatti non è verosimile che quell’uomo in tutto il resto così equilibrato e imparziale (mevtrion kai; koinovn) che pur essendogli possibile sottomettendo gli altri a sé farsi tiranno, si fece odiare da entrambe le parti e tenne in maggior conto il bene e la salvezza dello stato che il suo interesse, non è verosimile dunque che in cose tanto meschine ed evidenti si sia insudiciato.
Dalle sue poesie si può vedere che egli ebbe potere e lo confermano tutti gli storici. Dunque bisogna ritenere questa accusa falsa Tauvthn me;n oun crh; nomivzein yeudh` th;n aijtivan einai (VI, 4).
Solone dunque organizzò la Costituzione. Gli Ateniesi non si servirono più di quelle di Dracone plh;n tw`n fonikw`n , tranne che per i delitti di sangue. Solone fece scrivere le sue leggi su rulli (eij~ tou;~ kuvrbei~), piramidi triangolari che giravano su perni che posero nel portico del re ejn th`/ stoa`/ th`/ basileivw/ e tutti giurarono di servirsene (VII), Solone fissà a cento anni la validità di queste leggi ((Erodoto dice 10 anni in I 29, 2)
Quindi applicò alla cittadinanza un ordinamento razionalistico-timocratico mutuato dall’Asia ionica: la divise in quattro classi (Pentacosiomedimni, Cavalieri, Zeugiti e Teti ) a seconda del censo.
Aristotele sostiene che anche prima era cera questa divisione (VII).
e stabilì che il potere politico, con relativi onori e oneri, fosse proporzionale alla ricchezza.
Distribuì le magistrature tra le prime tre classi. I teti potevano partecipare all’assemblea e ai tribunalì (VII))
I pentacosiomedimni ricavavano dal loro terreno non meno di 500 medimni di cereali o 500 metreti di olio. Il mevdimno~ (cfr. lat. modius) equivaleva a 51, 84 chili; il metrhthv~ era unanfora da 8, 8 litri.
Gli iJppei`~ avevano una rendita di 300 medimni o metreti. Potevano allevare cavalli, o potevano mantenere un cavallo.
Gli zeugiti, 200 tra entrambi i prodotti; potevano aggiogare una coppia di buoi per arare la terra. I teti (oiJ qh`te~) non possedevano la terra, erano dei salariati, dei servi pagati, mentre dou`lo~ è lo schiavo.
Aristotele nella Costituzione degli Ateniesi dice che le magistrature venivano sorteggiate (ta;~ d ajrca;~ ejpoivhse klhrwtav~, VIII), nella Politica invece che venivano elette.
I nomi dei candidati erano proposti dalle quattro tribù.
Nella Politica (del 336)Aristotele afferma che Solone abolì l’oligarchia che era troppo potente e mise fine alla servitù del popolo. Fece infatti una riforma mescolando bene la costituzione (meivxanta kalw`~ th;n politeivan, 1273b 35); insomma era già una costituzione mista: lAreopago era l’elemento oligarchico, le cariche elettive quello aristocratico, i tribunali quello democratico. Infatti le giurie erano accessibili a tutti. I detrattori dicono che il tribunale era larbitro di tutte le questioni.
Poi un poco alla volta il popolo divenne tiranno: Efialte e Pericle limitarono i poteri dellAreopago, Pericle concesse uno stipendio ai giurati e i demagoghi presereo il sopravvento. Il popolo durante le guerre persiane era stato decisivo, ma poi si lasciò guidare da demagoghi inetti.
Nella Costituzione degli Ateniesi pseudosenefontea il dialogante A biasima la democrazia, sostiene che la canaglia ha preso il potere o{ti oJ dh’mo;~ ejstin oJ ejlauvnwn ta;~ nau’~ (1, 2), in quanto è il popolo che fa andare le navi e ha reso forte la città.
Solone aveva concesso al popolo solo il potere indispensabile dell’elezione dei magistrati e della sorveglianza
Solone poi formò un Consiglio di 400 membri boulh;n d j ejpoivhse tetrakosivou~ (Aristotele, Costituzione degli Ateniesi, VII, 4) cento per tribù e assegnò allAreopago il compito di nomofulakei`n , di vegliare sul rispetto delle leggi. Già da prima lAreopago era ejpivskopo~ th`s politeiva~, guardiano della costituzione, regolava gli affari pubblici, e correggeva i trasgressori tou;~ aJmartavnonta~ hu[qunen , kuriva ousa kai; zhmiou`n kai; kolavzein, essendo questo consiglio padrone di multare e di punire
Isocrate nellAreopagitico (del 356) ricorda con nostalgia in tempo dei larghi poteri dellAreopago malamente esautorato dalla riforma di Efialte nel 461. Dai tempi di Solone questo era una sorta di Tribunale Supremo e di Corte Costituzionale che esercitava la nomofulakiva, la custodia delle leggi, garantendo un indirizzo politico stabile. Questo consesso si prendeva cura anche del decoro dei cittadini. La paideiva infatti non deve limitarsi al pai'”. Nel passato agli adulti si dedicavano cure più attente che ai ragazzi. L’Areopago vigilava sulla eujkosmiva, il buon contegno della cittadinanza. Potevano entrarvi solo persone di ottima nascita e che avessero dato prova di un carattere irreprensibile. Le buone leggi non bastano se nella polis non ci sono buoni costumi. Il progresso della virtù non nasce dalle leggi ma dalle abitudini giornaliere:” ejk tw’n kaq j eJkavsthn th;n hJmevran ejpithdeumavtwn” (40).
A Sparta la condotta dei cittadini era buona e assai modesto il numero delle leggi scritte. Anche Platone pensava che una buona educazione non ha bisogno della costrizione delle leggi (Repubblica, 426e-427a). L’età giovanile è quella della torbidezza spirituale: i ragazzi sono pieni di desideri e devono educarsi prendendo buone abitudini e compiendo fatiche che comportano gioia ( Areopagitico, 43). Attività buone che costino fatica e diano soddisfazione. La paideiva va conformata ai mezzi di cui ciascuno dispone. I più poveri venivano indirizzati all’agricoltura e al commercio:” ejpi; ta;” gewrgiva” kai; ta;” ejmporiva”” (44). Gli abbienti invece si dedicavano alla ginnastica, all ippica, alla caccia, e alla filosofia. La cultura dello spirito equiparata alla ginnastica fa parte di quella concezione della paideia come gioco elevato espressa da Callicle nel Gorgia. Anche Senofonte vuole combinare equitazione ginnastica e caccia con l’amore per la cultura intellettuale. Pure il Protagora eponimo del dialogo platonico (326c) di Platone fa dipendere la durata dell’istruzione dai mezzi dei genitori. Per Platone invece tutta l’educazione superiore deve essere cosa di Stato.
Isocrate non vuole eliminare le differenze economiche. Il difetto dell’educazione moderna è la mancanza di ogni pubblico controllo, sostiene. Una volta l’ajkosmiva, la condotta disordinata, veniva deferita all’Areopago che cominciava con l’ammonizione, poi passava alla minaccia, quindi alla punizione. Prima cera lo qewrei’n, losservare, poi il nouqetei’n, lammonire, quindi l’ajpeilei’n, il minacciare, infine il kolavzein, il punire. L’Areopago insomma katei’ce, teneva a freno i cittadini con sorveglianza e punizioni. Allora la gioventù non sciupava il suo tempo a oziare in locali da gioco o con le flautiste. Ogni giovane si atteneva all’attività dove era stato posto e cercava di imitare gli uomini che vi primeggiavano. Nel comportamento con gli anziani i ragazzi osservavano le regole del rispetto e della cortesia. Isocrate ricorda il dittico a contrasto dell’antica e nuova paideia disegnato da Aristofane nelle Nuvole . I giovani non andavano nelle osterie, non facevano i buffoni: quei comici che ora chiamano ingegnosi allora li consideravano dei disgraziati:” ejkei’noi dustucei'” ejnovmizon tou;” skwvptein dunamevnou” ou}” nu’n eujfuei'” prosagoreuvousin”(49). Il concetto di aijdwv” era un retaggio dell’antica etica e della formazione nobiliare.
Al tribunale tradizionale, l’Areopago che esercitava il controllo sulle leggi (nomofulakiva) , regolava gran parte degli affari di stato, e al quale potevano accedere solo i cittadini censiti nelle prime due classi, aggiunse i 600 giudici popolari dell’Eliea ai quali si poteva presentare appello ed erano eleggibili da tutte e quattro le classi.
In quest’organo, e nell’Assemblea, che eleggeva i magistrati con suffragio universale, sta l’origine della democrazia.
LAreopago giudicava chi cospirava contro il popolo. In caso di guerra civile stasiazouvsh~ th`~ povlew~, chi non si schierava veniva punito, ossia perdeva i diritti politici (VIII, 5).
Il provvedimento che diede al popolo la massima forza fu hJ eij~ to; dikasthvrion e[fesi~, (IX, 1)il diritto dappello al tribunale. Molte leggi non erano chiare e alcuni dicono che Solone le fece apposta affinché il popolo fosse arbitro della sentenza o{pw~ h/ th`~ krivsew~ oJ dh`mo~ kuvrio~. (XI, 2). Ma questo non è verosimile. Comunque egli realizzò th;n tw`n crew`n ajpokophvn, e il cambio della mina da settanta dracme a cento. (X, 1)
Dopo la pubblicazione delle leggi, Solone partì, “per non essere costretto ad abrogarne nessuna, e per curiosità teoretica”, afferma Erodoto (I, 30).
Aristotele dice che vi andò kat j ejmporivan a{ma kai; qewrivan, per affari e per osservare (XI)
Nel frattempo molti gli divennero ostili: il popolo credeva che egli avrebbe ripartito tutto (oJ ga;r dh`mo~ w[/eto pavt j ajnavdasta poihvsein, XI, 2), i maggiorenti invece (oiJ de; gnwvrimoi) pensavano che poco o nulla sarebbe cambiato.
Solone poteva farsi tiranno schierando con un partito, invece preferì rendersi odioso a tutti salvando la patria kai; ta; bevltista nomoqethvsa~ e dandole ottime leggi (XI, 2)
Quindi Aristotele cita dei versi di Solone. Vediamo i più significativi
Andò in Egitto presso il faraone Amasi, e a Sardi, da Creso.
Erodoto dice che Solone in Egitto prese dal faraone Amasi la legge secondo la quale ogni Egiziano doveva mostrare ogni anno al monarca da dove traeva i mezzi di vita. Chi non poteva dimostrare una vita retta veniva messo a morte. Solone impose questa legge agli Ateniesi i quali ne fanno uso perpetuo poiché è una legge irreprensibile: tw`/ ejkei`noi ej~ aijei; crevwntai, ejovnti ajmwvmw/ novmw/” (II, 177). I conti cronologici però non tornano, poiché Solone fu legislatore nel 594, mentre Amasi salì al trono nel 564. Ad Atene cera piuttosto il novmo~ ajrgiva~ che condannava a morte i rei convinti di inattività come chi aveva rubato frutta e gli omicidi.
Ma erano leggi di Dracone che risalgono al 624-620 e Solone abrogò.
Pisistrato conservò gran parte delle leggi di Solone di cui si avvalse anche come consigliere, ma riprese to;n th`~ ajrgiva~ novmon con la quale rese la campagna più produttiva e la città più tranquilla (Plutarco, Vita di Solone, 31)
Diodoro Siculo nella sua Biblioteca storica sostiene che Solone derivò anche la seisavcqeia, lo scarico del peso, dagli Egiziani, precisamente dal faraone Boccori (720-715 a. C.), quarto legislatore dell’Egitto, del tutto spregevole nel fisico (tw/` me;n swvmati pantelw`~ eujkatafrovnhto~, I, 65), ma di molto superiore ajgcinoia/, per perspicacia ai faraoni precedenti.
Boccori dunque non permise che il corpo del debitore fosse soggetto all’arresto (ajgwvgimon), poiché il corpo era dello Stato. Una specie di habeas corpus primitivo.
Partito Solone, gli Ateniesi si divisero di nuovo in fazioni: Megacle Alcmeonide capeggiava i Parali (quelli della costa), Licurgo i Pediei della pianura, e Pisistrato i montanari, quasi tutti teti, i più ostili ai ricchi. Quando Solone tornò ad Atene non poté impedire che Pisistrato il quale “aveva qualcosa di seducente (aiJmuvlon ti) e amabile (kai; prosfile;~ eicen) nel conversare (ejn tw`/ dialevgesqai)” (Plutarco, Vita di Solone , 29), con l’astuzia e con la forza si impadronisse del potere facendosi tiranno (nel 560 la prima volta, fino al 555, poi, dopo un esilio decennale, dal 545 fino alla morte avvenuta nel 527 a.C.).
Solone gli disse che non bene recitava la parte di Ulisse (cfr. Odissea, IV, 244-250: un altro sembrava, poiché aveva nascosto se stesso). Ulisse, travestito e sfigurato nel corpo, riuscì ad entrare come spia a Troia
.”ouj kalw'”..uJpokrivnh/ to;n JOmhriko;n jOdusseva”( Plutarco, Vita di Solone , 30).
Lui si ferì per ingannare i nemici; tu invece per trarre in inganno i tuoi concittadini.
Solone come Odisseo era fuvsei filhvkoo~ kai; filomaqhv~ (29), per natura amava ascoltare e imparare.
Cfr. F. Guicciardini, Ricordi:”e spesso tra ‘l palazzo e la piazza è una nebbia sì folta o un muro sì grosso che, non vi penetrando l’occhio degli uomini, tanto sa el popolo di quello che fa chi governa o della ragione perché lo fa, quanto delle cose che fanno in India. E però si empie facilmente el mondo di opinioni erronee e vane “.
Ma la massa era pronta a combattere per Pisistrato.
L’idea guida della costituzione e della poesia soloniana è quella della giusta misura o moderazione: lo ricaviamo anche dal racconto del suo incontro con Creso che si trova nel primo libro delle Storie di Erodoto (I, 30-33) e nella Vita di Plutarco. Quando il pacchiano re barbaro gli fece vedere i suoi cospicui tesori e gli chiese se conoscesse qualcuno più felice di lui, Solone nominò personaggi non famosi e non ricchi, ma “belli e buoni”. Creso lo giudicò “strambo e zotico”, tuttavia volle domandargli se lo mettesse in qualche modo nel novero degli uomini felici. E Solone rispose:
“Ai Greci, o re dei Lidi, il dio ha dato di essere misurati (metrivw” e[cein) in tutto, e, per questa misuratezza (uJpovmetriovthto” ) ci tocca (hJmi`n mevtestin) una saggezza senza audacia-qavrso~, ma popolare (sofiva~ tino;~ ajqarsou“~ kai; dhmotikh`~ ), non regale né splendida “(Plutarco, Vita , 27). E la sofiva diversa dal sofovn.
Lì per lì Creso non comprese, ma poi, una volta finito sul rogo, gridò tre volte “O Solone”, poiché aveva capito che la propria felicità era stata solo parola e opinione, fama e parvenza.
Adesso però è tempo di leggere i versi.
Partiamo dall’Elegia così detta alle Muse :
“Splendide figlie della Memoria e di Zeus Olimpio,
Muse Pieridi, ascoltate la mia preghiera:
concedetemi il benessere (o[lbon) da parte degli dei beati, e di avere una buona/
reputazione (dovxan e[cein ajgaqhvn) da parte di tutti gli uomini sempre;
in modo che così possa essere dolce per gli amici e amaro per i nemici,
rispettato da gli uni, temibile a vedersi per gli altri. 6
Ricchezze desidero averne, ma possederle ingiustamente non voglio: in ogni caso più tardi è solita arrivare Giustizia (pavntw~ u{steron hlqe divkh). 8
La ricchezza (plou`ton) che danno gli dèi, è solida
per l’uomo dall’ultimo fondo alla cima;10
quella cui vanno dietro gli uomini spinti dalla prepotenza (uJf j u{brio~), non arriva/
con ordine (kata; kovsmon), ma siccome obbedisce alle azioni ingiuste,
segue di malavoglia, e presto vi si mescola l’accecamento (ajnamivsgetai a[th). 13
L’inizio nasce da piccola cosa, come il principio di un incendio,
e dapprima è insignificante, ma l’esito è penoso15;
infatti non durano a lungo (dhvn) le opere della prepotenza (u{brio~ e[rga) per i mortali.
Ma Zeus di tutte le cose vede il termine, e all’improvviso
come tosto disperde le nuvole il vento
primaverile che dopo avere sconvolto gli abissi del mare
molto ondoso, infecondo, e dopo avere devastato le opere belle dei campi/
nella terra che produce frumento, arriva alla sede scoscesa degli dèi,
il cielo, e fa vedere di nuovo il sereno;
risplende la potenza del sole sulla pingue terra
ed è bella, poi non è più possibile vedere nube alcuna.
Tale è il castigo di Zeus (Zhno;~ tivsi~), ma non per ciascuna occasione 25
egli è collerico come un uomo mortale,
eppure mai nell’eternità gli è sfuggito chiunque abbia
un animo malvagio, e in ogni modo alla fine si manifesta (pavntw~ d j ej~ tevlo~ ejxefavnh);
ma uno paga il fio subito, un altro dopo; alcuni possono evitare
personalmente, che li colga, sopraggiungendo, il fato divino, 30
ma esso giunge in ogni modo più tardi, e pagano quelli che non sono responsabili delle azioni/
o i figli di questi o la stirpe in futuro (ajnaivtioi e[rga tivnousin-h} pai`de~ touvtwn h} gevno~ ejxopivsw).
Noi mortali così pensiamo, ugualmente il capace e l’incapace:
che scorra bene l’aspettativa che ciascuno ha personalmente,
prima di patire qualche blocco: allora quindi si geme; ma fino a questo momento/
ci dilettiamo a bocca aperta di vane speranze (cavskonte~ kouvfais j ejlpivsi terpovmeqa).
E chiunque sia schiacciato sotto il peso di malattie dolorose,
questo considera: come tornerà sano; (wJ~ uJgih;~ e[stai)
un altro che è vile crede di essere un uomo valoroso
e bello, pur avendo un aspetto non gradevole; 40
e un altro se è senza denaro e lo costringono i travagli della povertà
crede che in ogni modo acquisterà molte ricchezze.
Ci si affatica: chi in un modo, chi in un altro; uno va errando sul mare
pescoso nelle navi desiderando portare a casa
un profitto, sbattuto da terribili venti,
senza nessun riguardo per la vita;
un altro tagliando la terra ricca d’alberi, serve
per un anno, quelli cui stanno a cuore gli aratri ricurvi;
un altro esperto nelle opere di Atena e di Efesto
industrioso con le mani si guadagna la vita,
un altro dopo avere appreso i doni dalle Muse dell’Olimpo
conoscendo la misura dell’amabile sapienza,
un altro rende profeta il sire Apollo che saetta da lungi
e conosce un male che viene da lontano per l’uomo,
al quale si accompagnano ancora gli dèi, ma in ogni caso il destino/
né un auspicio né sacrifici lo terranno lontano.56 ta; de; movrsima pavntw~ ou[te ti~ oijwno;~ rJuvsetai ou[q j iJerav.
altri con l’arte di Peone dai molti farmaci
sono medici, e anche per loro non c’è nessun compimento (tevlo~):
anzi spesso da un piccolo dolore nasce una grande sofferenza,
e nessuno potrebbe lenirla dando medicine calmanti;
un altro invece gravemente tormentato da malattie terribili
toccandolo con le mani lo rende subito sano.
E’ il destino Moi`ra che porta ai mortali il bene ed il male 63
e i doni degli dèi immortali sono inevitabili. 64
In tutte le azioni certo è insito un rischio (kivnduno~), e nessuno sa, cominciata un’impresa, dove andrà a finire. 66
Ma chi tenta di fare il bene, senza prevedere (ouj pronohvsa~)
piomba in un grande e grave accecamento,
invece a chi agisce male il dio in tutto concede
un buon successo, rimedio della stoltezza.
Per gli uomini non è posto nessun confine manifesto della ricchezza:
infatti quanti di noi ora hanno abbondantissimi mezzi di vita,
si affannano il doppio: chi potrebbe saziare tutti? Tiv~ a}n korevseien a{panta~;
I guadagni certo ai mortali li concedono gli immortali,
ma da loro si sprigiona l’accecamento (a[th d ejx aujtw`n ajnafaivnetai), che quando Zeus
invia a punire, va ora da uno, ora da un altro“(76).
Solone dunque prega le Muse e chiede loro benessere, purché ottenuto con la giustizia, e buona reputazione. La Pieria, da dove provengono queste dèe è una regione della Macedonia.
Vedremo che Euripide nella Medea rivendicherà alla sua terra il luogo di elezione delle Muse che nell’aria luminosissima dell’Attica “generarono la bionda armonia”(v.832).
Per quanto riguarda la giustizia, divkh, il legislatore ateniese è uno dei suoi profeti. Essa in Omero era ancora Il diritto (qevmi~) di una società aristocratica nella quale le norme sono concepite come espressione di una volontà soprannaturale e sono fatte osservare, sono imposte (cfr. tivqhmi) da una classe superiore il cui predominio deriva da un’investitura divina.
Ma già nel VII secolo, cominciano gli elogi di una giustizia nuova ( la divkh appunto), mostrata a tutti (cfr. deivknumi), tale che comprende l’idea dell’uguaglianza.
Esiodo per primo dà voce a questa esigenza. Egli nel poema più recente (Opere e giorni , vv. 202 e sgg.) ne fa l’apologia raccontando la favola dello sparviero e dell’usignolo. La legge del più forte che annienta il più debole vale per gli animali, non per gli uomini. Viene santificata la giustizia che trionfa sulla prepotenza. Dove manca dike imperversano peste, fame e sterilità. C’è un invito a evitare i giudizi contorti poiché procura il male a se stesso chi lo prepara per un altro, e il progetto malvagio è pessimo per chi l’ha progettato (Opere , vv.265-266). Esiodo prega il fratello Perse: w Pevrh, su; d j a[koue divkh~, mhd j u{brin o[felle (v. 213) tu ascolta la giustizia e non far crescere la violenza.
La giustizia esiodea è una forza solo in parte umana e per molti aspetti sovrannaturale, ma essa già contiene una premessa di isonomìa (uguaglianza davanti alla legge) e moralità, anche se la piena scoperta e valorizzazione del cosmo morale avviene con Socrate, assassinato da un tribunale ateniese nel 399.
Con Solone comunque l’idea di giustizia progredisce e si politicizza, ossia entra nella costituzione della polis. Così, pur rimanendo alcunché di trascendente nella Giustizia del legislatore ateniese, essa si storicizza e perde qualche cosa del suo carattere mitico.
Civiltà di vergogna
Altro bene invocato nei primi versi è quello della buona reputazione (dovxa).
Siamo nell’ambito della civiltà di vergogna di Dodds (Culture of shame):” il bene supremo non sta nel godimento di una coscienza tranquilla, ma nel possesso della pubblica stima”( I greci e l’irrazionale, p. 30 ).
La più potente forza morale nota all’uomo omerico è il rispetto dell’opinione pubblica:”mi vergogno davanti ai Troiani e alle Troiane dal lungo peplo”, dice Ettore nei momenti risolutivi del suo destino (Iliade, XXII,105, e VI, 442).
Il cedimento alla pressione del conformismo sociale è caratteristica della cultura della vergogna dove per l’uomo è insopportabile perdere la faccia.
Questa cultura dunque è presente e viva in Solone, mentre dal Critone di Platone (44C e sgg.) vediamo che a Socrate non importa niente dell’opinione dei più. Critone gli dice che bisogna tenerne conto poiché la maggioranza è capace di compiere i più grandi mali, se uno viene calunniato da loro. E Socrate risponde: che ti importa caro mio, dell’opinione dei più? magari fossero capaci di compiere grandi mali, purché sapessero fare grandi beni.
Ma non sanno fare né l’una né l’altra cosa e operano a casaccio (poiou`si de; tou`to o{ti a}n tuvcwsi, 44d).
Una posizione del genere possiamo ritrovarla molti secoli più tardi in Un nemico del popolo (1882) di Henrik Ibsen il quale fa dire al dottor Stockmann: Il più pericoloso nemico della verità e della libertà è la maggioranza, la maledetta maggioranza democratica…Chi forma in un paese la maggioranza, gli intelligenti o gli imbecilli?..Di imbecilli si trova una maggioranza schiacciante…La maggioranza ha la forza, ma non la ragione. Le verità della maggioranza sono rancide e putrefatte. Ecco dove nasce tutto questo scorbuto spirituale che dilaga e si diffonde in tutte le classi sociali! Chi adotta le opinioni dei superiori è un plebeo dell’intelligenza” (IV atto).
NellAlcesti di Euripide, Ferete, il padre di Admeto che diversamente da Alcesti, non vuole sacrificarsi per il figlio, sposta questa noncuranza della reputazione al di là della morte: kakw’~ ajkouvein ouj mevlei qanovnti moi” (v. 726), una volta morto, non mi importa di avere cattiva fama. Admeto replica accusando il padre di essere un vecchio pieno di spudoratezza (ajnadeiva~ plevwn, v. 727).
Un’ altra parola da chiarire è a[th (v. 13 e v.75), acciecamento e rovina. In Omero questa parola indica l’ostinazione cieca di Agamennone e di Achille che infatti Orazio (Odi , I, 6, 6) chiamerà “cedere nescius “, incapace di cedere. Egli, quando rifiuta le preghiere dell’ambasceria formata da Fenice, il suo educatore, Aiace, il più forte dell’esercito e Odisseo, il più intelligente, che gli offrono le scuse e i doni di Agamennone in cambio del suo ritorno in battaglia desiderato da tutti, oltrepassa i limiti umani (IX canto dell’Iliade). Allora il vecchio maestro lo ammonisce ricordandogli che l’Ate è gagliarda, forte di piedi, e va danneggiando gli uomini.
La seguono le preghiere (litaiv), zoppe, rugose e bieche d’occhi, che tuttavia riparano i danni.
Achille deve ascoltarle, se vuole evitare gravi dolori.
Il Pelide non cede e solo dopo la morte di Patroclo capisce di avere sbagliato. Non ne valeva la pena, dice. “Io smetto l’ira” ( ejgw; pauvw covlon, Iliade, XIX, 67).
Agamennone a sua volta ammette di avere ecceduto ma si autoassolve (ejgw; d ‘ oujk ai[tiov~ eijmi, v. 86) e dà la colpa a Zeus, alla Moira e all’Erinni che vaga nell’oscurità ( XIX, 87). Essi hanno gettato l’accecamento feroce dentro di lui. Ate che tutti sconvolge h} pavnta~ aja`tai, , dice Agamennone, è la figlia maggiore di Zeus, e ha i piedi molli, infatti non si muove sul suolo ajll j kat j ajndrw`n kravata baivnei blavptoous j ajnqrwvpou~ ma sulle teste degli uomini danneggiandoli (XIX, 91-92).
In Solone, la responsabilità umana è cresciuta un poco, fatto del resto già riscontrabile nell’Odissea, ma rimangono gli elementi arcaici, con tutte le loro valenze magico-religiose.
L u{bri~
Per quanto riguarda la prepotenza (u{bri”), questa diventerà la parola tragica per eccellenza e sarà spesso collegata alla figura del tiranno.
Sofocle nell’Edipo re (vv. 873-877) scrive:“La prepotenza fa crescere il tiranno, la prepotenza/se è riempita invano di molti orpelli/che non sono opportuni e non convengono/salita su fastigi altissimi/precipita nella necessità scoscesa…”-
Ed Eraclito (fr.108 Diano):”u{brin crh; sbennuvnai ma’llon h] purkaihvn”, bisogna spegnere la prepotenza più che le fiamme di un incendio.
Settembrini, il buffo umanista de La Montagna Incantata di Thomas Mann distingue un’ u{bri” buona da un’altra cattiva e santifica quella di Prometeo in quanto essa è amica dell’umanità:”Ma l'”Hybris” della ragione contro le oscure potenze è altissima umanità, e se chiama su di sé la vendetta di dèi invidiosi…questa è sempre una rovina onorata. Anche l’azione di Prometeo era “Hybris” e il suo tormento sulla roccia scita noi lo consideriamo il martirio più santo. Ma come siamo invece di fronte all’altra “Hybris”, a quella contraria alla ragione, all'”Hybris” della inimicizia contro la schiatta umana?”(p. 18 vol. II).
Interessante questa nota di Pavese in Il mestiere di vivere (18 ottobre 1942):”L’ubris è il conoscere un oracolo e non tenerne conto. Ma è fato (oracolo) anche l’ubris. Ciò che deve essere sia. Il coro constata questo”.
Il destino è ineludibile e imprevedibile
Rivediamo allora i versi 63-64 dei questa Elegia
E’ il destino (Moi`ra) che porta ai mortali il bene ed il male 63
e i doni degli dèi immortali sono inevitabili (dw`ra d a[fukta). 64
Il senso del destino come male o bene ineludibile risalta anche nella storia di Erodoto relativa a Solone. Lo storiografo di Alicarnasso racconta che quando Creso, lo straricco re di Lidia domandò al saggio ateniese chi fosse l’uomo più felice del mondo, Solone rispose che i giorni di una vita umana sono mediamente ventiseimiladuecentocinquanta e l’uno di loro non porta affatto nessuna faccenda uguale all’altro. :” Così dunque l’uomo, o Creso, è del tutto in balìa degli eventi”. (pa’n ejsti a[nqrwpo” sumforhv, I, 32, 4).
E allora, Solone dà a Creso questa non-risposta :”A me tu appari molto ricco e vedo che sei re di molte genti: ma quello che tu mi domandavi, ancora non te lo dico, prima di venire a sapere che tu hai finito bene la vita” (I 32, 5.).
Mazzarino mette in rilievo un quesito ricorrente nell’opera di Erodoto :” l’unità dell’opera erodotea è dominata, appunto, da alcuni motivi centrali; motivi che commuovevano ed esaltavano la pubblica opinione di tutti i Greci. E con questa trama andranno spiegate le corrispondenze di più ampio respiro, che attraversano l’opera: il colloquio tra Creso e Solone nel lovgo~ lidio, al quale fanno eco le parole di Artabano a Serse (VII 46, 3-4)[4]. Dall’attuale primo libro, dunque, al settimo si richiama questa domanda essenziale per il pensiero di Erodoto: Son felici il ricco e il monarca? Perché il vivere può preferirsi al morire?”. A questa domanda rispondono i discorsi tra Creso e Solone, tra Serse e Artabano…anche Anassagora si sforzava di rispondere alla stessa domanda…secondo Anassagora il dotto soprattutto era felice“[5].
Secondo Erodoto per giunta il mortale è soggetto alla divinità, al punto che:”o{ ti dei’ genevsqai ejk tou’ qeou’, ajmhvcanon ajpotrevyai ajnqrwvpw/”(IX, 16, 4), quanto deve accadere da parte del dio è impossibile per l’uomo stornarlo[6]. Lo dice un persiano che prevede la sconfitta di Platea.
L’idea dell’impotenza dell’uomo di fronte alla divinità è una di quelle che accomunano Erodoto a Sofocle[7].
– Infatti Sofocle denuncia questa altalena degli eventi: nei suoi drammi si trova più volte l’immagine dell’ altalena fatale:” nell’Esodo dell’Antigone il messo sentenzia:”tuvch ga;r ojrqoi’ kai; tuvch katarrevpei-to;n eujtucou’nta to;n te dustucou’nt j ajeiv (vv.1157-1158), la sorte infatti raddrizza e la sorte butta giù/ il fortunato e il disgraziato via via. Nell’Edipo re il coro chiede ad Apollo:”intorno a te ho sacro timore: che cosa, o di nuovo/o con il volgere delle stagioni (“peritellomevnai” w{rai””) un’altra volta/effettuerai per me?”(vv. 155-157). In questo scorrere rapido dei giorni, nel girare vorticoso delle stagioni, avvengono mutamenti continui e alcune cose si ripetono, ma altre accadono inopinatamente.
Gli ultimi versi del dramma contengono questa sentenza : sicché, uno che sia nato mortale, non ritenga felice nessuno,/considerando quell’ultimo giorno a vedersi, prima che/abbia passato il termine della vita senza avere sofferto nulla di doloroso (“pri;n aj;n /tevrma tou’ bivou peravsh/ mhde;n ajlgeino;n paqwvn”, Edipo re, vv.1528-1530).
L’imprevedibilità del futuro è denunciata anche da Deianira all’inizio delle Trachinie (vv. 1-3) :” esiste un antico detto (“Lovgo” me;n e[st j ajrcai’o””) diffuso tra gli uomini: che non puoi conoscere la vita di un uomo prima che uno sia defunto, né se per lui sia stata buona o cattiva”.
Il pur critico Euripide non confuta la massima della imprevedibilità della sorte, anzi la ripete
Nell’Ippolito il coro sentenzia:” oujk oid j o{pw” ei[poim j a]n eujtucei’n tina-qnhtw’n: ta; ga;r dh; prw’t j ajnevstraptai pavlin”(vv. 981-982), non so come potrei dire che alcuno dei mortali è fortunato: infatti le posizioni più alte vengono rovesciate.
Nell’Ecuba la vecchia regina, dopo il sacrificio-assassinio della figlia Polissena constata la vanità della ricchezza e del potere, quindi conclude:”kei’no” ojlbiwvtato” ,- o}tw// kat j hmar tugcavnei mhde;n kakovn”(vv. 627-628), il più fortunato è quello cui giorno per giorno non tocca nessun male.
Negli Eraclidi il Messaggero che porta la notizia della sconfitta di Euristeo conclude il suo racconto con questa sentenza derivata dall’insegnamento della sorte del persecutore abbattuto: to;n eujtucei’n dokou’nta mh; zhlou’n pri;n a]n-qanovnt j i[dh/ ti~: w;~ ejfhvmeroi tuvcai” (vv. 865-866), non si deve invidiare quello che sembra avere successo, prima di averlo visto morto; poiché le fortune cambiano ogni giorno.
I versi 67-70 sembrano contraddittori rispetto alla linea di Solone e forse in origine non facevano parte di questa elegia, oppure costituivano un’obiezione attribuita a un interlocutore in disaccordo.
LEujnomivh
Un’altra elegia molto nota, e di contenuto in gran parte politico è quella così detta del Buon Governo (fr. 3 D) nella quale cresce la responsabilità dell’uomo relativamente al proprio destino. La traduciamo tutta e commentiamo i versi più significativi, ossia più accrescitori di conoscenza :
“La nostra città non andrà mai in rovina per destino
di Zeus e volontà dei beati dèi immortali:
infatti tale custode magnanima, figlia di padre potente
Pallade Atena le tiene sopra le mani.
Ma i cittadini stessi con la loro follia vogliono distruggere la grande città sedotti dalle ricchezze,
e ingiusta è la mente dei capi del popolo (dhvmou q j hJgemovnwn a[diko~ novoo~), cui è destinato
soffrire molti dolori in seguito alla gran prepotenza:
infatti non sanno trattenere l’avidità né godere
con ordine le gioie presenti nella serenità del convito.10
Ma si arricchiscono fidando in opere ingiuste
e non risparmiando le proprietà sacre né in alcun modo le ricchezze/
pubbliche, rubano per arraffare chi da una parte chi dall’altra
né osservano i venerandi fondamenti di Giustizia,
che, pur mentre tace, conosce il passato e il presente15,
e con il tempo in ogni caso giunge a fare pagare.
Questa piaga ineludibile oramai arriva su tutta la città,
ed essa subito cade nella squallida servitù (ej~ kakh;n doulosuvnhn),
che risveglia la lotta dentro la stirpe e la guerra dormiente (stavsin e[mfulon povlemovn q j eu{dont j ejpegeivrei) ,
la quale distrugge l’amabile giovinezza di molti:20
infatti per opera dei malevoli tosto la città molto amata
si rovina nei partiti cari agli ingiusti.
Questi mali nel popolo si aggirano: e dei poveri
molti giungono in terra straniera
venduti e legati con ceppi indegni 25.
Così il danno comune entra in casa a ciascuno:
né valgono più le porte del cortile a trattenerlo,
e salta oltre il recinto pur alto, e trova in ogni caso,
anche se uno sia rifugiato nel fondo del talamo.
Questi precetti l’animo mi spinge ad insegnare agli Ateniesi,
che il Malgoverno procura moltissimi mali alla città,
kaka; plei’sta povlei Dusnomivh parevcei
mentre il Buongoverno mostra ogni cosa ordinata e armonizzata 32
Eujnomivh d j eu[kosma kai; a[rtia pavnt j ajpofaivnei
e spesso mette i ceppi addosso agli ingiusti:
leviga le asperità, fa cessare l’insolenza, oscura la prepotenza,
dissecca i fiori nascenti dell’accecamento (a[th~ a[nqea), 35
raddrizza i giudizi tortuosi (eujquvnei de; divka~ skoliav~), mitiga le azioni/
superbe, e fa cessare le opere della discordia,
e fa cessare la rabbia della contesa terribile, e sono sotto di lui
tutte le cose tra gli uomini armonizzate e assennate” (pavnta a[rtia kai; pinutav).
Religione, e superstizione, greca e romana
Si può notare anche qui, a proposito di Pallade Atena, la dea eponima della città di Solone, il rapporto di fiducia e di confidenza che l’uomo greco riesce ad avere con la divinità, mentre il romano avrà una relazione più formalizzata con il dio, costellando la vita privata e quella statale di una serie di riti che garantivano la pax deum: Apud antiquos non solum publice, sed etiam privatim nihil gerebatur nisi auspicio prius sumpto“[8], presso gli antichi non si faceva nulla, non solo di pubblica ma anche di privato, se prima non si erano tratti gli auspici.
Era una specie di alleanza con gli dei che non si stabiliva attraverso la purezza morale, ma con le vittime espiatorie, talora anche umane: Tito Livio (XXII, 57) racconta che dopo il disastro di Canne (216 a. C.) si presero vari provvedimenti, e si compirono riti propiziatori con sacrifici, tra i quali:”ex fatalibus Libris sacrificia aliquot extraordinaria facta; inter quae Gallus et Galla, Graecus et Graeca in Foro bovario sub terram vivi demissi sunt “, secondo i Libri fatali furono compiuti alcuni sacrifici straordinari; tra i quali un uomo e una donna galli, un greco e una greca furono sepolti vivi nel Foro boario. Niente comunque si intraprendeva nella vita pubblica e privata se non si era sicuri dell’approvazione degli dei.
Lo storico greco Polibio che visse a Roma nel circolo degli Scipioni (II sec. a. C.) sostiene che la deisidaimoniva (6, 56, 7), la superstizione, se altrove può essere oggetto di biasimo, a Roma tiene insieme lo Stato:” kaiv moi dokei’ to; para; toi'” a[lloi” ajnqrwvpoi” ojneidizovmenon tou’to sunevcein ta; JRwmaivwn pravgmata”.
Essa venne istituita pensando alla natura del volgo. In una nazione formata da soli sapienti, sarebbe inutile ricorrere a tali mezzi, ma la moltitudine soggiace a sfrenata avidità, a ira violenta e bisogna trattarla con tali apparati e misteriosi timori. Il terrore degli dèi viene esagerato e drammatizzato nella vita pubblica e privata“.
Del resto Si chiama Stato il più gelido di tutti i gelidi mostriIo chiamo Stato il luogo dove si trovano tutti i bevitori di veleno, buoni e cattivi”[9].
Come sappiamo contro questa religio (superstizione) mostruosa si leverà la voce della ragione attraverso Lucrezio nel De rerum natura :”tantum religio potuit suadere malorum” , a delitti così grandi poté indurre la superstizione (I, 101).
Ma torniamo al Buon governo di Solone. Dal capo discende benessere o malessere al suo popolo e alla sua terra
Solone ai vv.5 e sgg. attribuisce ai cittadini, e in particolare ai loro capi la causa della rovina comune.
Questa responsabilizzazione dell’uomo quale artefice del suo destino, comincia con il primo libro dell’Odissea, quando Zeus afferma il libero arbitrio degli uomini dicendo che essi incolpano gli dèi, ma è per la loro follia che soffrono dolori contro il fato (v.34).
Risale allOdissea, e pure alle Opere e i giorni di Esiodo anche la correlazione presente in questa elegia tra la salute, sia fisica sia morale, del capo e quella della sua terra (vv. 32 ss. il Buongoverno mostra ogni cosa ordinata e armonizzata 32
Eujnomivh d j eu[kosma kai; a[rtia pavnt j ajpofaivnei
Del resto, secondo alcuni studi di antropologia tra i quali cito solo Il ramo d’oro di J. G. Frazer, tale credenza risale a miti e a riti più antichi di Omero, e sono confluiti anche in altre culture, non esclusa quella cristiana. Questo significa che Il governante è il demiurgo, quasi l’autore della sua gente: dalla impareggiabile potenza e dalla integrità di lui, dipendono la vita e il benessere della polis.
NellOdissea, il poluvmhti~ Ulisse ancora non riconosciuto, dice a Penelope :”Raggiunge l’ampio cielo la tua fama,/ come quella di un re irreprensibile che pio, regnando su molti uomini forti,/tenga alta la giustizia; allora la nera terra produce/ grano e orzo, gli alberi si appesantiscono di frutti,/figliano continuamente le greggi e il mare offre i pesci,/per il suo buon governo (ejx eujhgesivh”), insomma prosperano le genti sotto di lui” (XIX, 106-114).
L’altro lato della stessa concezione secondo la quale il bene e il male di un solo uomo ridondano in favore e in danno di un popolo intero , per il principio della responsabilità collettiva, lo troviamo in Esiodo (Opere, vv.240-244):”spesso anche un’intera città soffre per un uomo malvagio,/uno che si rende colpevole e architetta scelleratezze./Su di loro dal cielo il Cronide fa piombare grandi malanni,/fame e peste insieme (limo;n oJmou` kai; loimovn),e le genti vanno in rovina,/le donne non fanno figli (oude; gunai`ke~ tivktousin) e le case diminuiscono“.
Se si pone mente al latino rex si deve pensare alla parentela di questa parola con il verbo greco ojrevgw, “tendo, stendo“. “La radice deriva dall’indoeuropeo *reg- che ha dato come esito in greco ojreg- (con protesi di oj- ) in latino reg-“[10] da cui rego, dirigo, regio, regione e rectus, diritto. Quindi “in rex bisogna vedere non tanto il sovrano quanto colui che traccia la linea, la via da seguire, che incarna nello stesso tempo ciò che è retto”[11]. Anche i ragazzi sanno che il rex deve agire recte: infatti, quando giocano, dicono: sarai re se farai bene: “at pueri ludentes ‘Rex eris ‘ aiunt/ ‘si recte facies” [12]. . Insomma il rex deve dirigere sulla retta via. Il re allora non può essere contorto.
Nemmeno la virtù può esserlo: et haec recta est, flexuram non recipit ” (Seneca, Ep. 71, 20), anche questa è diritta, non ammette piegatura.
Nel De clementia[13] Seneca ricorda a Nerone che è il principe a stabilire i buoni costumi per il suo Sato: constituit bonos mores civitati princeps” (III, 20, 3).
La premessa è che la immensa multitudo dei cittadini illius spiritu regitur, illius ratione flectitur, è retta dal suo spirito, viene piegata dalla ragione di lui, mentre si spezzerebbe per i propri sforzi se non venisse sostenuta dalla saggezza del reggitore (III, 1, 5). Nella cooperazione tra il principe e lo Stato, questo costituisce la forza del corpo del quale Cesare è il caput (III, 2, 3).
Ricordo pure l’Oedipus senecano dove il protagonista si accusa dicendo “fecimus coelum nocens ( v.36), abbiamo reso colpevole il cielo.
Nel Macbeth[14], un nobile scozzese, Lennox riferisce quanto si dice sia avvenuto nella notte dell’assassinio del re:”some say the earth was feverous, and did shake” (II, 3), la terra era febbricitante e ha tremato.
Quindi un altro nobile, Ross, fuori dal castello del delitto fa notare a un vecchio che il cielo, quasi sconvolto dal misfatto umano (as troubled with man’s act), minaccia la sua scena sanguinosa, e il giorno è buio come la notte. Infatti, risponde l’old man:” ‘Tis unnatural, Even like the deed that ‘ s done” (II, 4), è innaturale, come l’azione che è stata perpetrata. In questi ultimi due esempi la contaminazione oltrepassa la luna”[15].
Questo topos vale anche per il costume femminile: il cattivo esempio che le donne importanti danno a tutte le altre , viene biasimato da queste parole di Fedra nell’Ippolito di Euripide: ” wJ~ o[loito pagkavkw~-h{ti~ pro;~ a[ndra~ h[rxat j aijscuvnein levch-prwvth quraivou~ (vv. 407-409), fosse morta malamente colei che per prima disonorò i letti di casa con uomini esterni. Infatti, continua, questo male ha cominciato a propagarsi dalle case nobili: “ejk de; gennaivwn dovmwn” (v. 409). Quando le turpitudini (aijscrav) sono reputate belle dalle persone di alta condizione, certo sembreranno belle anche al volgo (vv. 411-412).
Tale idea non manca nella letteratura italiana là dove si conserva il succo della tradizione classica, anche quando questo sia stato assimilato da un organismo cristiano. Faccio l’esempio di Dante, Purgatorio XVI, 103-105:”Ben puoi veder che la mala condotta/è la cagion che il mondo ha fatto reo/e non natura che in voi sia corrotta”.
Erasmo da Rotterdam utilizza questo topos nell’Elogio della follia [16]: ” al’iorum vitia neque perinde sentiri neque tam late manare; principem eo loco esse, ut si quid vel leviter ab honesto deflexerit, gravis prot?nus ad quam plurimos homines vitae pestis serpat” (55), i vizi degli altri né si sentono allo stesso modo né si diffondono così ampiamente; il principe si trova in posizione tale che se in qualche maniera, perfino di poco, egli si scosta dalla rettitudine, subito una grave peste della vita si espande su un numero enorme di persone.
Non vi è, nel destino tutto dell’uomo, sventura più dura di quando i potenti della terra non sono anche i primi uomini. Tutto diventa falso obliquo mostruoso, quando ciò avviene”[17].
Il culto di Divkh.
Non manca nell’ elegia di Solone il culto di Dike che viene realizzata dal Buongoverno e dai buoni governanti i quali conservano l’ordine sociale svuotando le rivendicazioni estreme dei poveri attraverso l’accoglimento delle richieste moderate.
Il cattivo governo invece, e l’egoismo dei nobili, spinge il popolo alla rivoluzione, a quella contesa terribile e distruttiva (e[ri~, v.38) che già Esiodo (Opere e giorni, 14 e sgg.) aveva distinto dalla buona, siccome questa sta alla base del progresso umano e sveglia al lavoro anche l’ozioso: grazie a lei il vasaio gareggia con il vasaio, il mendico con il mendico, e l’aedo con l’aedo (Opere e giorni, v. 26). La e[ri~ cattiva e deleteria fa crescere la guerra, la più crudele è distruttiva delle guerre è la stavsi~ , la guerra civile, risvegliata dalla squallida schiavitù, kakh; doulosuvnh (v, 18) (h{ stavsin e[mfulon povlemovn q j eu{dont j ejpegeivrei, v. 19, la quale risveglia la lotta dentro la stirpe e la guerra )
compie una trasvalutazione nichilistica.
Perfino le parole cambiano il loro significato: le brutte diventano belle.
Ce lo ricordano Tucidide[18] e Sallustio[19]. Sarebbe interessante soffermarsi su questo.
Ma lo spazio a noi concesso e il tempo a disposizione ci fanno fretta. Vediamo un’ultima elegia (fr. 5 D) con la quale Solone difende la sua politica “di centro”, ossia aliena da estremismi che favorissero o deprimessero troppo una delle due parti in lotta:
“al popolo infatti ho dato tanto onore quanto basta,
senza levargli dignità e senza accrescerla troppo;
quelli che avevano potenza e si facevano ammirare per la ricchezza,/
anche per questi deliberai che non avessero nulla di sconveniente;/
ma stetti (e[sthn), avendo coperto gli uni e gli altri con un forte scudo,/ ajmfibalw;n kratero;n savko~
e non permisi che prevalessero né gli uni né gli altri contro giustizia./
Così il popolo nella maniera migliore può seguire i capi,
né troppo libero né troppo costretto:
infatti la sazietà genera prepotenza (tivktei ga;r kovro~ u{brin) , quando grande prosperità si accompagna/
a quanti uomini non hanno la mente sana.
Nelle opere grandi è difficile piacere a tutti
[ Ergmasin ejn megavloi~ pa’sin aJdei’n calepovn (v. 11).
A un certo punto
Mi guardarono tutti di traverso con gli occhi come un nemico
Ma io quello che ho detto, lho portato a compimento con il favore divino
E le altre cose non le ho fatte vanamente (ouJ mavthn ee[rdon), e non mi piace fare nulla con forza tirannica (oiujde; moi turannivdo~ aJndavnei biva/ ti rJevzein) né dare della grassa terra della madre patria uguale parte (ijsomorivan) ai malvagi e ai buoni (fr. 34 West).
Diceva anche don Milani che non è giusto fare parti uguali tra persone diverse.
Le leggi del resto, scrive ancora Solone le ho scritte uguali per il malvagio e per il buono adattando a ciascuno la retta giustizia qesmouv~ q j oJmoivw~ tw`/ kakw`/ te kajgaqw`/- eujqei`an eij~ e[kaston aJrmovsa~ divkhn,-e[graya”.
Non ho compiaciuto troppo nessuno, per questo sono dispiaciuto a molti e usando tutto il mio vigore mi volsi lontano da ogni parte wJ~ ejn kusi;n luvko~, come un lupo tra i cani (fr. 37 West)
Un altro con il mio potere non avrebbe tenuto a freno il popolo e non si sarebbe fermato prima di avere intorbidato il latte e la crema.
Io rimasi fermo come limite (o{ro~ katevsthn) quasi tra due eserciti rivali (fr. 37 West).
Infatti Solone al ritorno dai viaggi vide cadere la sua costruzione politica che a nessuno era piaciuta del tutto; ma i principi informatori della sua opera, la ricerca del giusto mezzo, l’aborrimento dell’ingiustizia e della prepotenza, sono rimaste pietre miliari della cultura e della poesia greca.
Eschilo è un altro profeta della Giustizia (e del compromesso come ricerca della conciliazione)
Il culto della giustizia e il rifiuto di ogni eccesso, a cominciare dal lusso, si trova in Eschilo che nei Sette a Tebe (del 467) biasima la smisurata iattanza degli attaccanti e l’eccessivo, troppo querulo spavento delle donne, mentre il difensore Eteocle che offre il suo destino di morte alla salvezza della patria, costituisce la giusta via di mezzo, piena di coraggio e dignità.
Discepolo di Solone è anche il democratico re Pelasgo delle Supplici ( anno 463?) che fa dipendere le sue decisione dalle deliberazioni del popolo:” né senza il popolo agirei, anche se sono re (vv.398-399), e scoraggia lo straparlare delle Danaidi dicendo:”la città non ama i lunghi discorsi”( makravn ge me;n dh; rJh`sin ouj stevrgei povli~, v.273).
Così l’Agamennone (anno 458), cerca di opporsi al lusso dei tappeti di porpora, offertigli ingannevolmente al re da Clitennestra (v.910), poiché questi significano, non sangue e omicidio come per lo spettatore conscio, bensì mollezza, barbarismo, superbia ed effemminatezza (vv.918 e sgg.). Agamennone crede che il dono più grande di dio sia non pensare in maniera cattiva” to; mh; kakw’~ fronei’n-qeou’ mevgiston dw’ron (v. 927-928). Cattive per Eschilo come per Sofocle sono la dismisura e la prepotenza.
Alla fine dellOrestea, la religione più antica, patriarcale, quella delle Erinni, e la patriarcale di Apollo si concilieranno all’insegna della protezione di Atene.
Nei Persiani (del 472) troviamo un anatema dell’ u{bri” maledetta come la mala pianta che”quando fiorisce dà per frutto una spiga di accecamento, donde si falcia una messe tutta di lacrime“(vv.821-822).
Nell’Agamennone troviamo l’idea che dalla ricchezza rifugge la giustizia la quale”brilla nelle case dal povero fumo e onora la vita onesta”( divka lavmpei me;n ejn-dusksvpnosin dwvmasin,-tovn t j ejnavsimon tivei-bivon (vv.773-776).
Già Solone, si ricorderà, non era stato preso dalla vertigine davanti alle smisurate ricchezze di Creso.
Nelle Eumenidi , la terza tragedia della trilogia del 458 (la seconda è le Coefore ), le stesse Erinni, nemiche dell’ordine statale e patriarcale, divinizzano la Giustizia ammonendo:”Rispetta l’altare di Dike e non prenderlo a calci con piede ateo, poiché dopo incombe la pena“(vv. 539-541).
Concludiamo con i versi forse più famosi di Solone: quelli con i quali il legislatore replica a Mimnermo, il quale aveva auspicato che a sessant’anni lo cogliesse il destino di morte, senza malattie e affanni dolorosi(fr. 6 D.). Ebbene il legislatore insorge “contro la raffinata stanchezza pessimistica che vuol già fare punto a sessant’anni“[20], e risponde
“Ma se ora finalmente vuoi darmi retta, togli questo verso,/
e non essere invidioso, per il fatto che ho pensato meglio di te,/
e cambialo, arguto cantore, e canta così:
ottantenne mi colga il destino di morte”.
Né incompianta mi giunga la morte, ma ai cari
io lasci morendo dolori e gemiti.
Invecchio imparando sempre molte cose ” ( ghravskw d j aijei; polla; didaskovmeno~ fr.22 D.).
Cicerone nelle Tusculanae (I, 49) ha tradotto alcuni di questi versi in “mors mea ne careat lacrimis, linquamus amicis maerorem, ut celebrent funera cum gemitu “, la mia morte non manchi di lacrime, lasciamo agli amici il dolore, perché affollino il funerale piangendo.
In questi distici soloniani troviamo una concezione ottimistica della vita che è riscontrabile anche negli altri poeti che credono nella giustizia e nell’ordine del mondo. Il vivere degli uomini è duro e travagliato (“Nessun uomo è felice. Carichi di fatica sono tutti i mortali sotto il sole”, trovo in Jaeger, p.280, citato come fr.15 ) ma può essere nobile e significativo se è impiegato per il bene della comunità. “Per Solone”, scrive ancora Jaeger, “invecchiare non è un doloroso estinguersi a poco a poco. L’inestinguibile vigor giovanile fa ogni anno metter nuovi fiori all’albero ancor verde della sua felice esperienza”.
Alla vita non mancano le gioie, come leggiamo nel fr. 13 D.:
“Beato chi ha fanciulli che ama (w|/ pai`dev~ te fivloi) e cavalli solidunghi
e cani da caccia e un ospite di terra lontana”,
versi tradotti, pudicamente, da Pascoli in Solon dei Poemi Conviviali (1905):”Solon, dicesti un giorno tu: Beato/chi ama, chi cavalli ha solidunghi,/cani da preda, un ospite lontano”.
Ho citato questa traduzione perché può essere un esempio di come i Greci vengano manipolati, tante volte “evirati” come denuncia Nietzsche da filologi o traduttori castrati.
La sana risposta di Solone a Mimnermo sul valore della vita anche dopo i sessant’anni ci induce a un caloroso e convinto elogio della vecchiaia.
Per rendere omaggio a quella di Solone citiamo intanto alcune parole di Carlotta a Weimar di Thomas Mann :”è la fede della nostra giovinezza, quella che in fondo non perdiamo mai. Constatare che tale fiducia ha resistito, che siamo restati gli stessi, che l’invecchiare è fenomeno fisico esteriore incapace di influire sulla perennità del nostro intimo io, di questo pazzo io che trasciniamo attraverso ai decenni…Era una cosiddetta vecchia signora, si definiva ella stessa così, e viaggiava…ma ecco che lì distesa sentiva il cuore battere come una ragazzina pronta ad una grossa birichinata“[21].
Ma un bell’elogio dell’età provetta si trova già nel terzo canto dell’Iliade, quando Menelao chiede la presenza di Priamo perché stringa i patti in persona (o[fr j o{rkia tavmnh/-aujtov”, 105-106) siccome i figli sono arroganti e infidi (ejpeiv oiJ pai’de” uJperfivaloi kai; a[pistoi, 106) e i cuori dei più giovani svolazzano sempre (“aijei; d j oJplotevrwn ajndrw’n frevne” hjerevqontai”, 108), mentre il vecchio vede il prima e il poi, insomma ha la visione d’insieme (” a{ma provssw kai; ojpivssw-leuvssei”, III 109-110) e capisce quello che è meglio per gli uni e per gli altri.
Giovanni Ghiselli
[1] Alla madre sembrò, dormendo di generare un leone (e[doxe tekei’n levonta) e pochi giorni dopo generò Pericle, un bambino era ben fatto tranne che nella testa, molto lunga e asimmetrica (Plutarco, Vita di Pericle, 3, 3).
[2] Che ora i Greci chiedono all’Europa più ricca.
[3] Scritto negli ultimi anni di vita (384-322).
[4] E un momento di sapienza silenica”: Serse, invadendo la Grecia, vide l’Ellesponto coperto dalle navi e dapprima si disse beato (oJ Xevrxh” eJwuto;n ejmakavrise, VII, 45), ma subito dopo scoppiò a piangere (meta; de; tou’to ejdavkruse) al pensiero di quanto è breve la vita umana. Allora Artabano, lo zio paterno, lo consolò dicendogli che, essendo la vita travagliata, la morte è il rifugio preferibile per l’uomo (“ouJvtw” oJ me;n qavnato” mocqhrh'” ejouvsh” th'” zovh”, katafugh; aiJretwtavth tw’/ ajnqrwvpw/ gevgone”, VII, 46, 4) ndr..
[5] S. Mazzarino, Il pensiero storico classico I, pp. 178 e 179.
[6] Riscontrabile nel virgiliano:”Desine fata deum flecti sperare precando “, smetti di sperare che i decreti dei numi si pieghino con le preghiere. Lo intima la Sibilla a Palinuro nell’Eneide (VI, 376).
Cfr. anche fatis agimur : cedite fatis dellOedipus di Seneca (v. 980), siamo trascinati dal fato, cedete al fato.
16 M. Pohlenz (La tragedia greca, pag.187, I vol.) scrive:”Se lo spirito moderno tendeva a fare dell’individuo la misura e il padrone delle cose, la sensibilità religiosa di Sofocle lo spinse nella direzione contraria, e, come Erodoto, lo rese cosciente proprio dell’impotenza dell’uomo a paragone con la divinità”.
[8] Valerio Massimo, Factorum et dictorum memorabilium, II, 1.
[9] F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra, p. 54 e p. 55.
[10] G. Ugolini, Lexis, p. 346.
[11] E. Benveniste, Il vocabolario delle istituzioni indoeuropee , p. 295.
[12] Orazio, Epistulae I, 1, 59-60.
[13] In tre libri, scritti nel 55 d. C. per Nerone diciottenne, con l’intento, forse, di distoglierlo dallammazzare Britannico.
[14] 1605-1606.
[15] Cfr. Shakespeare, Coriolano, V, 1.
[16] Del 1510.
[17] F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra, p. 298.
[18] Nei conflitti interni molti valori si capovolgono: lo afferma Tucidide a proposito della stavsi” di Corcira (427-425 a. C.), quando ci fu una tranvalutazione generale e le stesse parole cambiarono il loro significato originario:”Kai; th;n eijwqui’an ajxivwsin tw`n ojnomavtwn ej” ta; e[rga ajnthvllaxan th’/ dikaiwvsei. Tovlma me;n ga;r ajlovgisto” ajndreiva filevtairo” ejnomivsqh” (III, 82, 4), e cambiarono arbitrariamente l’usuale valore delle parole in rapporto ai fatti. Infatti l’audacia irrazionale fu considerata coraggio devoto ai compagni di partito.
[19] Nel Bellum Catilinae , Catone , parlando in senato dopo e contro Cesare, il quale aveva chiesto di punire i congiurati “solo” confiscando i loro beni e tenendoli prigionieri in catene nei municipi, denuncia questo cambiamento del valore delle parole:”iam pridem equidem nos vera vocabula rerum amisimus: quia bona aliena largiri liberalitas, malarum rerum audacia fortitudo vocatur, eo res publica in extremo sita est ” (52, 11), già da tempo veramente abbiamo perduto la verità nel nominare le cose: poiché essere prodighi dei beni altrui si chiama liberalità, l’audacia nel male, coraggio, perciò la repubblica è ridotta allo stremo.
[20] Jaeger Paideia , I vol., p.279
[21] Pp. 30-31.