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Søren Kierkegaard Un individuo nell’esistenza
La vita di Kierkegaard è documentata principalmente dalle migliaia di pagine del suo Diario, che non offrono una spiegazione del suo pensiero, ma piuttosto un’autobiografia intrecciata con la sua filosofia. Il padre di Kierkegaard, Michael, era un commerciante che aveva raggiunto il benessere dopo un’infanzia solitaria nei pascoli dello Jutland. Era un uomo severo e profondamente religioso. Dopo la morte della prima moglie, sposò la cameriera con cui aveva avuto sette figli.
Søren Kierkegaard, l’ultimo nato nel 1813, descrive la sua infanzia come infelice, sentendosi diverso dagli altri: fragile fisicamente ma acuto mentalmente, quindi sproporzionato. Nascondeva questa infelicità al mondo e a suo padre, l’uomo che amava di più ma che lo comprendeva meno, impartendogli un’educazione cristiana quasi folle e trattandolo come un anziano. Nonostante ciò, Kierkegaard non odiò mai il cristianesimo, ma si propose di difenderlo e di presentarlo nella sua vera essenza.
Nel 1830, Kierkegaard si iscrive alla facoltà di teologia di Copenaghen, completando gli studi in dieci anni. Anche questo periodo è segnato dalla malinconia: intorno al 1832 muoiono sua madre e tre fratelli, mentre il padre si addossa la colpa, considerandola una punizione divina per una bestemmia o per la relazione con la cameriera prima della morte della prima moglie.
Dopo queste rivelazioni del padre, Kierkegaard attraversa un “grande terremoto” interiore nel 1835, allontanandosi dal padre e cadendo in una profonda crisi di fede. Da allora, Kierkegaard esplora il mondo della sensualità, del dubbio e della disperazione. Dopo un rapporto con una probabile prostituta, Kierkegaard sente crescere dentro di sé un senso di colpa inconfessabile, al punto da ritenersi inadatto a una vita normale: famiglia e carriera ecclesiastica.
Il Diario di Kierkegaard inizia nel 1833. Oltre alla sua biografia, il Diario rivela le letture del filosofo: una vasta mole di testi religiosi, letteratura romantica (con una particolare predilezione per Goethe), idealismo tedesco e, soprattutto, Socrate con il suo “conosci te stesso”. Nel frattempo, i suoi maestri gli insegnano la necessità di conciliare religione e filosofia, citando esempi illustri, ma Kierkegaard è convinto che ciò non sia possibile. Nel 1838, Michael, suo padre, muore. Kierkegaard decide allora di completare gli studi, laurearsi ed entrare nel Seminario pastorale. Ottiene un titolo nella facoltà di Filosofia e si fidanza con l’amata Regine Olsen, una borghese.
Sembra che la prospettiva di una buona carriera e del matrimonio abbiano aperto a Kierkegaard la via della riconciliazione con l’universale, ma è lo stesso filosofo a impedirlo. Rifiuta di sposarsi con Regine, nonostante il suo grande amore per lei. Kierkegaard è ancora convinto di non essere degno di adempiere ai doveri matrimoniali e sente ancora il peso della colpa paterna.
Riceve l’eredità paterna, grazie alla quale può dedicarsi esclusivamente alla scrittura delle sue opere principali. I suoi scritti sono una testimonianza del cristianesimo. Ma Kierkegaard non si limita a testimoniare la sua fede attraverso le opere scritte e inizia una serie di battaglie pubbliche, che lo amareggiano molto, in cui viene spesso deriso per le sue idee e per il suo aspetto fisico. Kierkegaard sostiene la monarchia, attacca l’esaltazione del suffragio universale (è molto pessimista riguardo alla politica) e il concetto di folla, pericolosissima in quanto tende ad eliminare il concetto di individuo.
La battaglia più violenta è contro la Chiesa luterana danese. Alla morte di un vescovo, il suo successore lo chiama “testimone della verità” durante l’encomio. In un articolo, Kierkegaard attacca violentemente questa affermazione e la polemica diventa molto aspra. Il filosofo decide persino di fondare una rivista che redige interamente da solo, in cui polemizza contro la burocratizzazione e la mondanizzazione della Chiesa, che tradisce l’autentico spirito cristiano.
È l’ultima battaglia della sua vita: nell’ottobre 1855 è colpito da paralisi e muore l’11 novembre.
LA COMUNICAZIONE ESISTENZIALE TRA SCRITTURA E NOIA
Il rapporto con la scrittura è fondamentale per Kierkegaard. Non è un fatto immediato, ma meditato e ricercato fin nei minimi dettagli. È come se cercasse di ridare vita alla filosofia morta con le parole, come se volesse mostrare il nesso incredibile fra la vita e i dialoghi socratici.
La comunicazione è fondamentale. Kierkegaard stesso divide le sue opere in base ai metodi di comunicazione:
- comunicazione diretta, a cui appartengono gli scritti religiosi (opere firmate).
- comunicazione indiretta, a cui appartengono le opere pseudonime (firmate con pseudonimi).
- il Diario.
La pseudonimia, tipica del romanticismo, è la maschera di Kierkegaard, rappresentata da nomi bizzarri o allusivi che spesso dialogano tra loro, in un gioco di scatole cinesi. Lo scopo della maschera è realizzare la comunicazione indiretta. Attraverso di essa si attua la comunicazione esistenziale, che dovrebbe attivare nell’interlocutore l’idea di poter agire.
Il cristianesimo è comunicazione esistenziale, che trasforma. Dunque, la pseudonimia e anche l’ironia sono i mezzi per raggiungere questa comunicazione. Con queste maschere, Søren non vuole proteggersi dal giudizio dei suoi oppositori, ma vuole distanziare il suo punto di vista da quello espresso dalle maschere. Così, ogni maschera rappresenta una possibilità di esistenza, ma in nessuna di queste il filosofo si identifica.
Naturalmente, non manca la critica verso la comunicazione del tempo, giudicata radicalmente falsa. La falsità non deriva dal contenuto della comunicazione, ma dal rapporto tra gli interlocutori. I pensatori, coloro che comunicano il loro pensiero, sono distaccati da esso; propongono modelli di vita che non seguirebbero mai. Gli esempi da seguire sono Cristo e Socrate, pensatori cosiddetti “esistenti”. Esiste un rapporto di anonimità tra gli interlocutori, per cui il ricevente non si chiama più “io”, ma “pubblico”.
Quindi, per attuare una comunicazione esistenziale, non si può usare la forma diretta, propria del sapere oggettivo che genera la dimenticanza, ma la forma indiretta. L’estensione deve essere ridotta a favore dell’intensità della comunicazione, perché si parla a un Singolo, non a un Pubblico.
La funzione della comunicazione è costringere gli uomini a diventare attenti alla realtà. La funzione della comunicazione religiosa è rompere l’illusione che tutti hanno di essere cristiani mentre in realtà non lo sono affatto.
LE POSSIBILITÀ DELLA SCELTA: VITA ESTETICA E VITA ETICA
Esistono tre stadi nella vita: estetico, etico e religioso. L’opera “Aut-Aut” esprime il bisogno di scelta tra le prime due possibilità: l’esteta vive immediatamente il suo rapporto con la vita e la sua sfera è il gioco.
Il libro è basato sul dialogo di quattro figure: il giudice Wilhelm; Don Giovanni, Faust e il seduttore Johannes (tutti e tre rappresentano la vita estetica): il primo è il potere e il piacere della seduzione immediata; Faust incarna il gioco della conoscenza e seduce una sola donna; Johannes è la seduzione estetica, che conquista e abbandona. Johannes evita il possesso, perché la riuscita della seduzione mette fine al piacere. Egli vive nella categoria dell’interessante, in cui non ci si appaga della cosa in sé, ma del modo in cui si raggiunge. Da esteta, Johannes vive nell’orizzonte della possibilità infinita. La sua personalità è dispersa nella molteplicità, ha sempre una maschera. La sua vita non ha durata perché si riduce a vivere attimi fissi. Questo è ciò che pensa il giudice Wilhelm, che esprime l’ottica della vita etica.
Appare ora un’altra categoria che caratterizza l’esteta: la disperazione, nata dal fatto che l’esteta è sempre al vertice delle infinite possibilità, può essere tutto ma non è niente.
La disperazione può essere eliminata dalla distrazione, ma può anche essere assunta, cioè scelta, e allora si rientra nel campo dell’etica: ciò che caratterizza l’etica è infatti la scelta. Nell’atto della scelta l’Io passa dal piano della possibilità a quello della realtà. Chi sceglie diventa trasparente a se stesso, si conosce.
Non è possibile dunque parlare di scelta estetica, perché l’estetico consiste proprio nel non scegliere. L’esteta non ha libertà, perché mentre rimanda la sua scelta altri hanno scelto per lui.
Oltre a questo, è diverso anche il rapporto con il tempo: la vita etica ha sviluppo, ha storia, perché la scelta è un punto fissato nel passato; l’esteta non ha memoria perché non ha storia.
La differenza tra vita etica ed estetica si vede nel matrimonio: questo è sintesi dell’immediatezza sensuale del primo amore e della riflessione.
Kierkegaard condanna apertamente l’autoesclusione dalla comunità (ascesi compresa) perché è nella comunità che si manifesta la scelta etica.
Lo stadio della vita estetica in “Aut-Aut”: Edonismo. Dimensione del presente.
Questo stadio è caratterizzato dalla dimensione del presente, dal lasciarsi vivere attimo per attimo, senza farsi condizionare né dal passato né dal futuro, sfuggendo ogni scelta, disperdendo la propria esperienza nel molteplice, senza uno scopo, un programma, senza legarsi a nulla. Vita tipica dell’esteta, del seduttore, impersonato dalle figure di Don Giovanni, Faust e Johannes.
A Don Giovanni non interessa la donna come individuo specifico, ma ama romanticamente un essere unico al mondo; Don Giovanni ama la femminilità in generale. La vita dell’esteta non ha storia: “Tutto per lui è solo questione del momento… ” ma è inevitabile che il momento sia vissuto in modo sempre più sbiadito. Perciò, per Don Giovanni è indispensabile mutare continuamente le occasioni di godimento, senza rimorsi o rimpianti. La soddisfazione dell’esteta dipende dal fatto che non aspira a nulla di diverso da ciò che gli offre il presente: “goditi la vita e vivi il tuo desiderio”. Ma occorre una straordinaria potenza fantastica per saper ballare il valzer dell’istante. Immediatezza, esteriorità, istante, esperienza sempre nuova, irripetibile, eccezionale, disdegno per l’esperienza banale e il volgare calcolo.
Ma l’eccezionalità del godimento diventa sempre più difficile da conseguire, la qualità dell’appagamento scade in ripetizione. Egli non sceglie automaticamente, poiché lascia che le circostanze scelgano per lui; non sceglie liberamente perché lascia al caso la scelta della sua vita. E alla fine sopravviene l’indifferenza di tutto. La noia accompagna ogni piacere. La disperazione è il punto di arrivo di chi vive nella dimensione estetica. Disperazione per la vanità del tutto, per la mancanza di senso, per il bisogno di vita autentica, bisogno di scegliere se stessi e non l’apparenza molteplice. È la disperazione di Don Giovanni che, pur avendo posseduto infinite donne, sente di non averne avuta realmente nessuna. La dimensione estetica consiste appunto nel rifiutare o rimandare la scelta, nella non scelta, nell’abbandonarsi alla corrente, nel lasciare agli altri tale incombenza.
Gli altri hanno scelto per lui, perché lui ha perduto se stesso”. Ne deriva che “ogni concezione estetica della vita è [infine consciamente o inconsciamente] disperazione”.
Faust seduce una sola donna, Margherita, che lo attrae per la sua purezza e innocenza, e sulla quale vuole esercitare un dominio assoluto grazie alla sua superiorità intellettuale.
Johannes, infine, il protagonista del “Diario di un seduttore”, è la vera e propria figura dell’esteta, non interessato al possesso effettivo della donna, quanto al gioco di vederla soccombere alle sue trame. Mentre a Don Giovanni interessa solo il possesso, a Johannes interessa solo far sì che Cordelia si innamori di lui. Ma il piacere dell’esteta è precario: subentra la noia, cui fa seguito la disperazione. Il saggio assessore Wilhelm gli pone davanti il suo destino: “la stessa cosa si ripeterà all’infinito… la tua vita si disfa in una serie incoerente di episodi senza che tu possa spiegarla… non sai che giungerà l’ora della mezzanotte in cui ognuno dovrà smascherarsi? Credi che si possa sempre scherzare con la vita? Credi che si possa di nascosto sgattaiolare via un po’ prima della mezzanotte per sfuggirla?”
Stadio della vita etica. Dovere (“Aut-Aut”). Il passato, l’abitudine.
Con il salto nella dimensione etica (la figura dell’assessore Wilhelm) l’uomo sceglie non la varietà delle cose intorno a lui, ma se stesso, la trasparenza, la continuità, dominata dalla fedeltà al passato (ripetitività). Sceglie il suo ruolo, si impegna nella e per la società col lavoro, formandosi una famiglia, stabilendo delle relazioni stabili di amicizia e mantenendo fede a questo impegno, in cui l’individuo ha in se stesso il suo fine”, “sceglie se stesso”.
Figura tipica di questo stadio è quella del marito. Kierkegaard in “Aut-Aut” ritiene ancora possibile e valida questa prospettiva. Ma nelle opere successive analizza lo smacco cui il singolo va incontro anche nella dimensione etica, lo smacco del pentimento che accompagna anche l’esistenza fondata sui valori etici: chi non intende sfuggire alle proprie responsabilità matura una duplice insoddisfazione derivante dalla costante subordinazione a una norma generale, che mette a repentaglio l’autonomia del singolo; dal senso di inadeguatezza nei confronti del proprio compito.
Ma pentirsi vuol dire sentire il proprio limite, negare valore alla propria personalità, denunciarne l’insufficienza. Neppure la dimensione etica della vita sfugge all’angoscia. La ripetizione (amare la stessa donna, svolgere la stessa professione, riconfermare il passato), il dovere di conformarsi alla legge morale, minacciano costantemente l’autonomia dell’individuo, la sua singolarità, che rischia di dissolversi nell’universalità e nell’anonimato.
LO SCACCO DELL’ETICA: IL PECCATO E L’ANGOSCIA
È necessaria una riflessione: ciò che è scelto esiste già, altrimenti non potrebbe essere scelto. Quindi io non creo me stesso, ma mi scelgo. Questo è lo scacco dell’etica: presuppone che l’uomo sia in grado di raggiungere l’idealità.
Ma l’uomo sarà sempre gravato dal peccato e perciò non potrà mai raggiungere l’idealità.
La vera scelta etica è quella che passa attraverso il pentimento, cioè la consapevolezza di aver peccato. Il peccato si presenta come scelta e a volte come assurdo: è il caso di Abramo che, spinto da Dio a sacrificare Isacco, peccherebbe sia se lo uccidesse (contro le leggi morali del suo popolo) sia se non lo facesse (contro un ordine di Dio). Questa situazione genera angoscia: peccato e angoscia sono costitutivi dell’essenza dell’uomo.
Il peccato è una rottura da una situazione d’innocenza. L’innocenza è ignoranza, perché nell’innocenza l’uomo non è consapevole né del bene né del male. Kierkegaard non sa allora come si passa dall’innocenza al peccato, ma sa che il suo presupposto è l’angoscia. L’angoscia è il sentimento che prova l’uomo quando ha la libertà di potere, è al vertice della libertà.
Da quando inizia la storia, l’angoscia è presente ovunque, visibile o meno. Comunque, l’angoscia riesce ad aprirci alla libertà perché ci libera dalle illusioni: più profonda è l’angoscia e più grande è l’uomo.
IL PENSATORE SOGGETTIVO E LA DIALETTICA DELL’ESISTENZA
Nelle sue opere, Kierkegaard traccia una nuova filosofia, ponendo la religione come la più alta sfera dell’esistenza. Di queste ultime quattro opere, le prime due sono firmate da Johannes Climacus, le ultime due da Anticlimacus.
Climacus era il soprannome del monaco bizantino Johannes: lo pseudonimo indica dunque un’aspirazione all’ascesa. Climacus non è cristiano ma si pone il problema della verità e del cristianesimo. Anticlimacus è il cristiano straordinario, che ha compiuto già l’ascesa.
Kierkegaard si pone a metà fra le due figure (si firma come editore): egli ha compreso che la verità è nel rapporto con il trascendente, ma ancora non ha compiuto il passaggio.
In questi ultimi scritti, Kierkegaard polemizza contro il sistema hegeliano, che vuole comprendere razionalmente tutta la realtà: un sistema logico è possibile, ma non è possibile estenderlo a tutta la realtà. La logica è infatti priva di movimento, mentre l’esistenza è continuo divenire.
L’essere, dice Kierkegaard, non può venire dedotto dal pensiero, perché all’interno del pensiero astratto l’esistenza non esiste: l’esistenza è una realtà singola, mentre l’astratto è universale. Il Sistema di Hegel è unità di pensiero ed essere, mentre questi devono essere necessariamente separati. Questo non vuol dire che l’esistenza includa il pensiero: anche Kierkegaard sente il bisogno di superare l’immediatezza dell’essere ma si accorge che per conoscere la verità è necessario un essere concreto che la pensi. La verità è dunque soggettività, appropriazione dell’interiorità.
Come avviene questo movimento verso la verità? Intanto, il fatto che l’esistenza ponga la questione della verità indica che egli è la non-verità. Al contrario di quello che pensa Socrate, per Kierkegaard il Singolo è fuori dalla verità. L’appropriazione richiede dunque un salto dall’immanenza.
Vi è una differenza assoluta fra uomo e Dio, perché l’uomo pensa, mentre Dio crea, l’uomo esiste e Dio è eterno. L’esistenza separa pensiero ed essere. Se si trattasse di un altro tipo di differenza si potrebbe mediare, ma si tratta di una differenza assoluta. L’errore di Hegel sta nel voler assorbire il finito nell’infinito, l’uomo relativo in Dio Assoluto, secondo una dialettica quantitativa. La dialettica di Kierkegaard è invece qualitativa: il Singolo è in una posizione di rottura rispetto a tutto il resto, perché l’Assoluto è necessariamente altro.
Categorie fondamentali di questa dialettica sono la decisione e la ripresa. Nella decisione il singolo compie il salto, la scelta verso l’infinito che è in lui; nella ripresa egli ricorda il passato procedendo nell’avvenire.
Per l’esteta, che non conosce la decisione, la ripresa è impossibile. Nella vita etica invece vi sono sia scelta che ripresa.
Esistenza come peccato, sentimento del possibile, angoscia.
Esistere (ex-sistere = venir fuori) vuol dire emergere da un oscuro infinito, infinito, dal nulla. Vuol dire affermare la propria individualità distinta; far scaturire l’individualità finita dall’essere infinito; staccarsi da Dio = peccato. Essendo creatura di Dio non appartengo a me stesso. Da tale punto di vista l’individuo non è che impotenza e nullità. Derivo dal nulla, sono nulla, eppure mi riconosco come qualcosa. Ma non posso esistere se non come peccatore, se non come paradosso e contraddizione vivente. Esistere è peccato, perdita dell’originaria innocenza. Il divieto divino pone innanzi ad Adamo la possibilità della scelta, la possibilità di affermare se stesso come volontà individuale staccandosi da Dio.
Pertanto, scegliere, qualunque sia la scelta, è peccato. Vivere la propria vita vuol dire peccare. Il peccato originale consiste nella traduzione in atto di tale possibilità di scelta, nella volontà di conoscere il bene e il male. Ha inizio l’angoscia del possibile. Il possibile induce l’angoscia. “La possibilità è la più pesante delle categorie… nella possibilità tutto è egualmente possibile… chi esce dalle scuole della possibilità” apprende che “dalla vita non può pretendere assolutamente nulla e che il lato terribile, la perdizione, l’annientamento abita con ogni uomo a porta a porta”.
L’angoscia non è generata da un timore specifico, come il sentimento della paura, ma da un pericolo indefinito, e tuttavia minacciosamente incombente nell’orizzonte delle possibilità. Sentimento del possibile: nel possibile tutto è possibile. E tuttavia l’angoscia “è un’avventura che deve essere attraversata da ogni uomo, affinché non vada a perdizione, o per non averla mai conosciuta o per essersi definitivamente fissato in essa; chi invece ha appreso a sentire l’angoscia giustamente ha raggiunto il grado più alto”.
LA DIALETTICA DELLA DISPERAZIONE, IL PARADOSSO, LA FEDE
Nella dialettica qualitativa ogni passaggio è dovuto a una scelta, non è necessario. La scelta fa sì che l’io prenda coscienza del rapporto che ha con sé stesso.
La disperazione è la condizione esistenziale dell’uomo, non più solo una parte della vita estetica. Essa vive all’interno dell’uomo sempre. Anche se ci può sembrare di disperarci per un fatto determinato, in realtà la disperazione si rivolge sempre al proprio io, che non riesce ad essere l’io che vogliamo che fosse.
Per uscire dalla disperazione (e dal peccato), bisogna prendere una decisione eterna: credere. In questo modo l’io riesce a trovare la sua infinità in Dio. Per questo tanto più la disperazione cresce, quanto più l’uomo si avvicina all’infinità.
La soglia della decisione infinita avviene con l’accettazione del paradosso: Cristo, che è l’eterno venuto nel tempo. Se non si accetta il paradosso si cade nello scandalo: Cristo è allora possibilità di salvezza e insieme scandalo, è un segno di contraddizione. Scandalizzarsi vuol dire non accettare l’assurdo che il peccato dell’uomo interessi a Dio. La cristianità, elevandosi a dottrina, cerca di eliminare la possibilità dello scandalo.
La fede come paradosso e scandalo.
Solo la fede, cioè la convinzione che a Dio tutto è possibile, fornisce la possibilità di uscire dalla disperazione e dall’angoscia tramite la preghiera. Ma si richiede un salto decisivo: il Cristianesimo consiste appunto in TIMORE e TREMORE, le categorie del salto e del paradosso.
Cristo è il segno di questo paradosso. È colui che soffre e muore come uomo, mentre parla e agisce come Dio; è colui che è e si deve riconoscere come Dio, mentre soffre e muore come un misero uomo. L’uomo è posto di fronte al bivio: credere o non credere. Da un lato è lui che deve scegliere, dall’altro ogni sua iniziativa è esclusa perché Dio è tutto e da lui deriva anche la fede. La vita religiosa è nelle maglie di questa contraddizione inesplicabile; ma questa contraddizione è quella stessa dell’esistenza umana” (N. Abbagnano).
Stadio della vita religiosa (Timore e Tremore). Disperazione, fede e speranza.
Il Cristianesimo non è religione consolante: è paradosso e scandalo. Il paradosso del Dio che si fa uomo può essere solo testimoniato, non compreso dalla filosofia. È un atto di fede incommensurabile alla ragione. Lo scandalo della fede è nella sua irriducibilità alla legge morale. La fede è al di là di ogni ragione; non chiede né dà spiegazioni: crede nonostante tutto. Se l’esistenza è precarietà, contraddizione, angoscia e disperazione, la fede è rovesciamento dell’esistenza nell’immutabile; speranza, per quanto assurda, di colmare la distanza tra uomo e Dio, tra finito e infinito. La fede di Kierkegaard è ben diversa dalla “scommessa pascaliana” in cui, scegliendo Dio, c’è tutto da guadagnare e ben poco da perdere. Il prezzo della fede è il mondo, la famiglia, forse la vita.
In un mondo dove tutto è possibile, Dio potrebbe anche non sceglierlo, Dio potrebbe non esistere. Dunque, la scelta più rischiosa dell’esistenza è il “salto morale” oltre la ragione, decisivo nell’esperienza religiosa, dove l’individuo si trova a tu per tu con Dio nel proprio isolamento, e col senso del proprio peccato. “Vi sono molti, qualità di amore… ma appena amo liberamente, e amo Dio, non posso far altro che pentirmi”. Il rapporto con Dio non può essere che pentimento (disgusto di sé), poiché l’uomo non può esistere se non peccando: “amar Dio odiando se stesso, e quindi odiando gli altri uomini, anche il padre, la madre, la moglie e il figlio”. L’uomo esiste solo con un atto di ribellione a Dio: la trasgressione al divieto di non mangiare all’albero della scienza del bene e del male col peccato originale, gli hanno fatto perdere l’innocenza, in cui pure Adamo era stretto dall’angoscia non del peccato, ma del nulla. Nello stadio religioso l’uomo sperimenta l’angoscia nella forma più lacerante. Fede contro legge morale.
La forma più radicale di Aut-Aut. Dio comanda ad Abramo, vissuto nel rispetto della legge morale, di sacrificare Isacco e di contravvenire scandalosamente alla legge, senza garanzia alcuna di non ingannarsi scegliendo la fede e non la morale. (Il comando divino poteva anche voler mettere alla prova il buon senso di Abramo, poteva provenire dal Maligno sotto mentite spoglie, ecc). Abramo è solo, nel silenzio, a differenza dell’eroe tragico Agamennone, che pure sacrifica Ifigenia, ma col consenso e il cordoglio di tutti i greci. La fede gli impone un atteggiamento di rottura nei confronti del mondo umano e dei suoi valori.
Aut-Aut, possibilità di scelta, libertà come infinita indeterminazione, apertura a tutte le possibilità, anche alla possibilità della salvezza. Il salto nella fede non fornisce alcuna certezza duratura: nulla garantisce che l’abbandono della legge sia premiato. Nessun saldo criterio distingue la fede dalla follia.
L’uomo afferma se stesso contro il conformismo della legge, ponendosi solo di fronte a Dio, e nello stesso tempo annullandosi in Dio. La fede è scandalo e paradosso. Timore e tremore. Mentre nella vita etica l’uomo sceglie se stesso, l’oggetto della fede è la realtà di un Altro”, l’uomo sceglie la trascendenza, l’infinito.
Materiale didattico e appunti su atuttascuola
- Søren Kierkegaard, il Padre dell’Esistenzialismo
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La fase estetica nella filosofia di Kierkegaard di Roberto Garavaglia
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Sintesi della fase estetica nella filosofia di Kierkegaard di Roberto Garavaglia
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Verifica di Filosofia su Heidegger, Marx e Kierkegaard di Alissa Peron
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Soeren Kiekegaard di Marco Zoia
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Il concetto di noia (Pascal, Kierkgaard, Schopenhauer, Sartre, Leopardi) di Lorenzo Vergnasco
Materiale didattico e appunti su altri siti
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S.A. Kierkegaard di Claudio Fiorillo
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Kierkegaard del prof. Donato Romano
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Kierkegaard di Luigi De Bellis
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Kierkegaard di Diego Fusaro
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Schelling e Kierkeegard di Hans Georg Gadamer
Audio Lezioni, ascolta il podcast di Filosofia del prof. Gaudio
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