Dalla parte dei poveri: la “pace” tra la teologia della liberazione e …
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4 Settembre 2013Alessandro Manzoni dal 30 capitolo del suo romanzo “I promessi sposi” rivolge l’attenzione sulla peste che ha colpito la Lombardia nel 1630.
La peste uccideva persone di ogni età, senza aver pietà per nessuno.
L’epidemia decimò la popolazione in modo atroce, distruggendo intere famiglie e portando scompiglio in tutto il territorio.
All’inizio, come lo scrittore ci racconta, la gente distorceva la realtà, tentando di convincersi che la malattia che incombeva non fosse la peste. Presto, però le persone dovettero riconoscere quale fosse la verità, e ammettere l’errore.
Essendo una malattia altamente contagiosa, la popolazione iniziò a prendere le distanze da qualunque individuo ne presentasse i sintomi.
Quest’ultimi erano essenzialmente: mancanza di forza, bubboni su tutta la superficie del corpo e febbre elevata.
I malati venivano portati in carri guidati dai monatti, persone che avevano superato la peste e quindi ne erano vaccinati, e venivano lasciati in ospedali.
Poiché i morti furono milioni, i cadaveri non potevano permettersi una tomba propria e quindi venivano seppelliti in fosse comuni.
Manzoni racconta di persone straziate a causa dei dolori della malattia, ma soprattutto per la perdita di amici e parenti.
Il poeta si sofferma descrivendo una delle tante situazioni critiche di quegli anni, vista attraverso gli occhi di Renzo.
Le protagoniste della scena sono una madre e una bambina di nome Cecilia.
La donna tiene tra le braccia sua figlia, ormai morta.
All’apparenza si poteva credere che la bimba stesse dormendo, cullata dal movimento ritmico delle mani della madre; ma solo un unico particolare la tradiva: la sua piccola e delicata mano. Quest’ultima era bianca cadaverica e penzolando, giaceva con una certa gravezza.
Pur essendo ormai senza vita, la donna aveva vestito Cecilia con un grazioso abitino candido, e il tessuto, cadendo lievemente sulla figura minuta, abbracciava perfettamente il suo corpicino.
I capelli della piccola, sistemati attentamente, lunghi e curati, ricoprivano il suo viso, evidenziandone i lineamenti morbidi.
La madre ricompensa il monatto e lo prega di non toccare ne di svestire Cecilia, ma di porla nella fossa così com’è. La donna allontana la sua piccola dal suo grembo e la ripone sul carro. Non saprà mai se l’uomo ha rispettato il patto, poiché non accompagna sua figlia al “cimitero”.
La signora, rientrata in casa con dolore straziante, guarda il carro partire, portando con sé il suo angelo.
Manzoni descrive la madre come una donna avanti con gli anni, ma non affatto trascurata.
E’ di una bellezza sciupata, ma allo stesso tempo maestosa. Non piangeva, eppure si intravedeva la disperazione nei suoi occhi.
La morte di un figlio è il patimento più profondo e tormentato che colpisce non solo l’anima e il cuore, ma il genitore è afflitto da una sensazione di sofferenza anche fisica.
Non si può spiegare il dolore che ha subito la madre di Cecilia nel vedere la figlia morta tra le sue braccia, talmente è stato lancinante. Qui, intervengono domande come: “Perché doveva morire proprio lei?”, “Perché Dio non è intervenuto?”, ma queste domande non avranno mai una risposta…