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Solo oggi è però divenuto evidente che il più significativo e feroce contrassegno della tirannia hitleriana, il «peccato originale» del ventesimo secolo, non è stata la guerra con i suoi orrori palesi, ma il crimine che cercò di tenere nascosto: Auschwitz, sinonimo di genocidio pianificato. La guerra, per terribile che sia stata per i contemporanei, passa sempre di più in secondo piano agli occhi distaccati dello storico: più di cinque decenni dopo, appare ormai soltanto come il mantello al riparo del quale si poté celare e compiere l’Olocausto.
Ovviamente a eseguirlo non furono soltanto gli «aiutanti di Hitler», ma anche gli aiutanti degli aiutanti: non meno di mezzo milione di tedeschi vi presero parte direttamente.
Secondo un sociologo statunitense, questa è una valutazione riduttiva e insufficiente: «aiutanti di Hitler» furono tutti i tedeschi, sostiene Daniel Jonah Goldhagen [i]. La sua tesi provocatoria è questa: non Hitler soltanto, non solo i suoi paladini e men che meno un limitato e famigerato gruppo di sadici «nazisti» furono i «volonterosi carnefici» della «soluzione finale»; gli assassini furono «tedeschi assolutamente normali», centinaia di migliaia di apparentemente bravi padri di famiglia.
Sospinti da un «odio virulento», da un’allucinata percezione dell’ebreo come emblema del male, «i tedeschi» sarebbero giunti alla convinzione che «gli ebrei» meritavano di morire. Non li avrebbero uccisi perché costretti a farlo, non per ubbidienza cieca o per paura di punizioni. Avrebbero ucciso volontariamente, deliberatamente, crudelmente, perfino con piacere. Era da almeno centocinquant’anni che «i tedeschi» – secondo lo studioso statunitense – auspicavano o ritenevano necessaria la liquidazione dell’ebraismo. Il terreno sul quale maturarono i programmi di sterminio sarebbe stato già da tempo fertile e pronto quando Hitler andò al potere. Il regime totalitario si sarebbe limitato a legittimare una nazionale, collettiva sete di sangue. «La concezione che i tedeschi ebbero di sé» – questa, in sintesi, la tesi di Goldhagen – «non fu affatto quella di essere gli esecutori dei folli progetti di un pazzo criminale: condivisero invece la necessità di questa radicale condotta. Per garantire la sopravvivenza del loro popolo, l’annientamento degli ebrei apparve loro un obiettivo nazionale inevitabile.»
Colpa collettiva, dunque?
Anche a prescindere dal fatto che l’antisemitismo virulento non fu, in origine, una «specialità» germanica, perché le sue radici vanno semmai ricercate nell’Austria-Ungheria, nella Russia e nella Romania degli anni anteriori alla prima guerra mondiale; a prescindere dal fatto che la tesi di Goldhagen ignora l’estesa, non contrastata assimilazione dell’ebraismo tedesco prima del 1933; a prescindere dal fatto che in Germania l’antisemitismo era già in fase di ristagno e di riflusso alla fine della Repubblica di Weimar (come risulta anche da un altro studio statunitense); a prescindere dal fatto che nelle campagne elettorali del 1932 Hitler rinunciò quasi completamente alla propaganda antisemita perché non era un’arma con cui si potessero conquistare altri voti; a prescindere infine dal fatto che anche decine di migliaia di non tedeschi – lussemburghesi, polacchi, lettoni, lituani, rumeni – erano inquadrati nelle squadre degli assassini di Himmler: a prescindere da tutto questo e ammesso e non concesso che sia stato l’antisemitismo la molla che scatenò la furia omicida dei tedeschi, perché furono allora uccisi gli zingari sinti e rom, gli handicappati, tanti sacerdoti, comunisti e testimoni di Geova?
Inoltre: furono colpevoli «tutti i tedeschi» o soltanto gli esecutori? Se «tutti i tedeschi» avessero appoggiato con tanto entusiasmo l’Olocausto, avrebbero dovuto esserne tutti informati. Ma lo erano davvero? Quando ci domandiamo se «i tedeschi» sapevano, allora dobbiamo innanzi tutto stabilire con precisione che cosa sapevano e quando lo seppero.
Tutti sapevano che i nazisti erano antisemiti. Era noto a chiunque che, dopo il 1933, gli ebrei furono perseguitati in Germania. La stella gialla imposta come contrassegno agli ebrei nel settembre del 1941 era sotto gli occhi di tutti. Le deportazioni che cominciarono nell’ottobre del ’41 non poterono sfuggire a nessuno.
Però furono definite, già allora, un «segreto del Reich», svelare il quale era punito con la pena di morte. L’imposizione del silenzio riguardò tuttavia soprattutto le fucilazioni di massa eseguite nelle retrovie del fronte orientale e «l’Olocausto vero e proprio» nei campi di annientamento di Auschwitz, Belzec, Chlemno, Majdanek, Sobibor e Treblinka. Questi «stabilimenti per la macellazione di esseri umani» non furono – volutamente – eretti in territorio tedesco. Perché tanta riservatezza se, come Goldhagen suppone, tutti i tedeschi si auguravano lo sterminio degli ebrei?
Martin Bormann inviò nel 1943 una direttiva ai Gauleiter in cui si diceva che, sul tema degli ebrei, andava «omesso ogni accenno a una futura soluzione globale». Soltanto nel ’43 Himmler comunicò ufficialmente ai Gauleiter che il Führer aveva deciso di sterminare gli ebrei, e aggiunse: «Si potrà forse solo in futuro, fra molto tempo, riflettere sull’opportunità di farne sapere qualcosa di più al popolo tedesco». (…)
Daniel Goldhagen ritiene che non vi sarebbero stati o quasi, in quell’epoca, tedeschi afflitti da scrupoli morali. Ma allora come spiegare le tutt’altre testimonianze coeve, come per esempio una nota di diario scritta nel settembre del 1941 da Victor Klemperer – ebreo tedesco, storico della letteratura francese, privato fin dal ’33 della sua cattedra all’università di Dresda – quando fu imposto agli ebrei di portare in pubblico la stella gialla? Klemperer registrò che alcuni giovani esagitati, nel vederlo con la stella, lo insultarono. Più spesso incontrò tuttavia espressioni di solidarietà e anche di vergogna. Alcuni abitanti di Dresda gli dissero di non approvare il modo in cui stavano trattando lui e i suoi correligionari. Gli fecero anche capire di temere di essere a loro volta denunciati perfino per minimi gesti di solidarietà umana. E questa la reazione di un popolo invasato da «antisemitismo eliminazionista»? Lo stesso Goebbels ammise, in un colloquio con il ministro degli armamenti Speer, che l’introduzione dell’obbligo per gli ebrei di portare la stella non aveva sortito l’effetto sperato: «Ovunque c’è gente che testimonia simpatia agli ebrei. La spiegazione è semplice: questa nazione non è ancora matura, è piena di un sentimentalismo idiota». (…)
Quando nel 1943 fu scoperta presso Katyn la grande fossa comune con i cadaveri degli ufficiali polacchi uccisi dai servizi segreti sovietici e i nazisti ne fecero oggetto duna campagna antisovietica, la Gestapo annotò che «vasti settori della popolazione hanno giudicato questa propaganda singolare se non addirittura ipocrita, poiché da parte tedesca sarebbero stati eliminati polacchi ed ebrei in numero ben maggiore». E’ così che reagisce un popolo che consideri la «soluzione finale» un progetto d’interesse nazionale?
Le conclusioni che si traggono dalle fonti non ancora pubblicate e dai sondaggi sono convergenti: molti tedeschi sapevano moltissimo, l’hanno in vasta misura rimosso e anche tollerato, ma sono stati ben lungi dal volerlo. E’ del resto l’opinione condivisa anche dalla stragrande maggioranza delle 1285 persone che componevano il campione di popolazione interpellato nel quadro del nostro sondaggio: 30 tedeschi del 1996 su cento si sono detti convinti che i loro connazionali di allora sapessero del massacro degli ebrei; 62 su cento hanno espresso il parere contrario. Solo l1,5 per cento si è detto convinto che lo sterminio degli ebrei sarebbe stato in linea di massima approvato dalla maggior parte dei tedeschi. Il 22 per cento circa ha risposto che sarebbe stato «prevalentemente tollerato». Soltanto il 6 per cento dei tedeschi del 1996 ha dichiarato che lo sterminio degli ebrei sarebbe stato «prevalentemente condannato». Il popolo si rivela insomma a volte più acuto e intelligente di quanto non credano gli storici. (…)
Per colpevoli che «i tedeschi» siano stati nel loro complesso, fatto sta che il Reich – l’impero – di Hitler è impensabile senza Hitler. Questo non significa voler scaricare la colpa su uno solo. Però fu l’energia criminale di quest’uno ad attivare le energie criminali degli altri. Hitler teneva saldamente in pugno i suoi complici. Ed essi eseguirono ciò che Hitler li incaricò di fare, ovvero ciò che secondo loro corrispondeva alle intenzioni del Fùhrer. Lo sterminio degli ebrei non fu la conseguenza di un caotico accavallarsi e susseguirsi di iniziative e di provvedimenti nel quadro della dittatura, ma un crimine di Stato deliberatamente inscenato da Hitler. Hitler non si limitò ad avviare il massacro, ma lo diresse anche: tramite Himmler, suo delegato. Senza Hitler non ci sarebbe stata l’aggressione dell’Unione Sovietica, senza Hitler non ci sarebbe stato l’Olocausto.
Questa non è un’assoluzione dei complici e dei complici dei complici. Perché l’Olocausto voluto da Hitler fu attuato dai molti piccoli e volonterosi esecutori che più tardi si giustificarono appellandosi allo stato di necessità, agli ordini che erano stati loro impartiti: e non erano individui psicopatici, ma tedeschi assolutamente normali, espressi dal popolo dei seguaci del regime.
Gli assassini che commisero non furono tuttavia il «logico», predeterminato prodotto della moderna storia tedesca, esattamente come non lo fu Hitler. Non c’è una strada diretta che conduca da Leuthen fino ad Auschwitz passando per Langemarck. Né c’è una strada diretta che porti da Lutero fino a Hitler passando per Bismarck. Perché non c’è nulla nella storia che accada inevitabilmente. Lo stesso discorso vale anche per la cosiddetta presa del potere da parte di Hitler, che in realtà fu un obiettivo conseguito con l’inganno. Benché le cose potessero effettivamente andare nel modo in cui sono andate. non è affatto detto che dovessero ineluttabilmente andare cosi.
Rimane la vergogna: milioni di tedeschi videro e distolsero gli occhi. Milioni di tedeschi ne sapevano abbastanza per convincersi che era meglio non saperne di più. Centinaia di migliaia di tedeschi si rivelarono volonterosi esecutori della volontà di Hitler.
Tuttavia ciò che li mosse non fu soltanto e non soprattutto un sanguinano antisemitismo. Un regime satanico offrì loro l’occasione di sfogare gli istinti più bassi e volgari: e non solo contro gli ebrei.
Questo fu possibile in Germania: ma se fu possibile in Germania, lo sarebbe stato ovunque. La storia ha dimostrato che il genocidio non è stato, nel ventesimo secolo, un’esclusività tedesca: anche nei gulag di Stalin, in Turchia, in Cina e in Cambogia sono state massacrate milioni di persone. Ciò che rende l’Olocausto dell’ebraismo unico ed eccezionale è il carattere pianificato, industriale dell’esecuzione del crimine.
A noi, nati dopo la guerra, non può essere addossata la responsabilità di Auschwitz. Però noi siamo responsabili della memoria, contro chi vorrebbe che si dimenticasse e si rimuovesse l’accaduto. Non colpa collettiva dunque, ma responsabilità collettiva si.
Occorre perciò riflettere sul perché e sul come «persone assolutamente normali», in condizioni molto particolari, possano diventare dei delinquenti quando uno Stato criminale le incoraggi a esserlo. Che cosa rende l’uomo disumano? Pensarci su, e pensarci su bene, significa anche poter impedire che l’homo rimanga, sempre e in ogni luogo, homini lupus. Ciò che è avvenuto in Bosnia e in Ruanda è accaduto appena l’altro ieri.
Tutti gli insegnamenti che si potevano trarre dall’Olocausto compiuto dai tedeschi, tutte le immagini e le descrizioni che ne sono state fatte non sono valse a modificare la natura dell’uomo. Però possono quanto meno impedire che tutto questo si verifichi un’altra volta in Germania. Ritengo che questo sia uno scopo sufficiente.
Guido Knopp, Tutti gli uomini di Hitler, Milano, Corbaccio 1999, pp. 17-26, passim
L’esistenza di questa distanza pratica e mentale dall’esito finale del processo burocratico fa sì che la maggior parte dei funzionari della gerarchia burocratica possa impartire ordini senza avere piena conoscenza dei loro effetti. In genere essi ne hanno una consapevolezza astratta e distaccata, il tipo di conoscenza che si esprime al meglio nelle statistiche, che soppesa i risultati senza esprimere nessun giudizio, e certamente non un giudizio morale. Nei loro documenti e nelle loro teste la migliore rappresentazione di tali risultati è data da grafici, curve e diagrammi, la loro forma ideale è quella delle colonne di numeri. Graficamente o numericamente rappresentati, i risultati finali degli ordini impartiti sono privi di qualsiasi contenuto sostanziale. I grafici misurano l’andamento del lavoro, non dicono nulla circa la natura o gli scopi dell’operazione. I grafici rendono intercambiabili compiti di carattere largamente diverso: ciò che importa è soltanto la quantificazione del successo o dell’insuccesso, e da tale punto di vista i vari compiti non differiscono tra loro. (…)
La disumanizzazione comincia nel momento in cui, grazie alla dissociazione che abbiamo visto, gli oggetti dell’attività burocratica possono essere, e sono, ridotti a una serie di misurazioni quantitative. Per gli amministratori delle ferrovie l’unica espressione significativa dell’oggetto del proprio lavoro è data in termini di tonnellate per chilometro. Essi non hanno a che fare con esseri umani, pecore o filo spinato, bensì semplicemente con un «carico», cioè con un’entità costituita esclusivamente da quantità misurabili e priva di qualità. Per la maggior parte dei burocrati persino una categoria come il «carico» rappresenterebbe una restrizione qualitativa troppo vincolante. Essi prendono in considerazione solo gli effetti finanziari delle proprie azioni. Il loro oggetto è il denaro. Il denaro è l’unico oggetto che appare nelle loro operazioni sia come input sia come output e, secondo l’acuta osservazione degli antichi, pecunia non olet. Via via che crescono, le organizzazioni burocratiche si lasciano raramente confinare a una sola area di attività qualitativamente distinta. Esse si espandono lateralmente, guidate nel proprio movimento da una sorta di lucrotropismo, una specie di forza gravitazionale tendente alla massimizzazione del profitto sul capitale investito. Come si ricorderà, l’intera operazione dell’Olocausto fu gestita dall’ufficio economico-amministrativo del Reichsicherheithauptamt. E sappiamo anche che l’affidamento ad esso di questo compito non era, una volta tanto, da intendersi come uno stratagemma o un camuffamento.
Ridotti, come tutti gli altri oggetti della gestione burocratica, a semplici quantità misurabili prive di qualità, gli esseri umani perdono la propria specificità. A questo punto essi sono già disumanizzati, nel senso che il linguaggio in cui viene espresso ciò che accade loro (o che viene fatto loro) esclude i suoi referenti dal giudizio etico. Di fatto, questo linguaggio è inadeguato alla formulazione di valutazioni normativo-morali. Soltanto gli esseri umani possono essere oggetto di giudizi a carattere etico. Gli esseri umani perdono questa prerogativa una volta che siano stati ridotti a cifre.
La disumanizzazione è inestricabilmente collegata alle fondamentali tendenze razionalizzanti della burocrazia moderna. Poiché tutte le burocrazie colpiscono in qualche misura degli esseri umani, l’impatto funesto della disumanizzazione risulta molto più comune di quanto suggerisca l’abitudine di identificarlo quasi interamente con i suoi effetti in termini di genocidio. Ai soldati viene detto di sparare a dei bersagli, i quali cadono quando sono colpiti. Gli impiegati delle grandi imprese sono incoraggiati a distruggere la concorrenza. I funzionari delle istituzioni assistenziali amministrano, a seconda dei casi, assegnazioni discrezionali o benefici personali; – i loro interlocutori sono beneficiari di prestazioni integrative. E’ difficile percepire e ricordare che dietro tutti questi termini tecnici vi sono degli esseri umani. E infatti, dal punto di vista delle finalità burocratiche è meglio che ciò non venga percepito e ricordato.
Una volta efficacemente disumanizzati, e perciò cancellati come potenziali soggetti di rivendicazioni morali, gli esseri umani oggetto delle prestazioni burocratiche vengono visti con indifferenza etica, la quale si trasforma rapidamente in disapprovazione e in censura quando la loro resistenza o mancanza di cooperazione rallenta il corso della routine burocratica. Gli oggetti disumanizzati non possono essere difensori di una «causa», e tanto meno di una causa «giusta»; essi non hanno «interessi» che possano essere presi in considerazione, di fatto non hanno nessun diritto alla soggettività. Gli oggetti umani diventano pertanto un «fattore di disturbo». La loro indisciplina rafforza ulteriormente l’amor proprio e i legami di solidarietà che uniscono tra loro i funzionari. Costoro vedono ora se stessi come compagni di una difficile lotta, che richiede coraggio, sacrificio e altruistica dedizione alla causa. Non sono gli oggetti dell’azione burocratica, bensì i suoi soggetti, a soffrire e a meritare compassione e apprezzamento morale. Essi possono a buon diritto provare orgoglio e certezza della propria dignità per il fatto di reprimere la resistenza delle vittime, così come sono orgogliosi di superare ogni altro ostacolo. La disumanizzazione degli oggetti dell’azione burocratica e l’autovalutazione morale positiva dei suoi soggetti si rafforzano a vicenda. I funzionari possono servire fedelmente qualsiasi scopo mentre la loro coscienza morale rimane intatta.
Da tutto ciò consegue che il modello burocratico di azione, così come si è sviluppato nel corso del processo di modernizzazione, contiene tutti gli elementi tecnici necessari all’esecuzione del genocidio. Tale modello può essere posto al servizio del genocidio stesso senza che la sua struttura, i suoi meccanismi e le sue norme di comportamento abbiano bisogno di significative revisioni.
Inoltre, contrariamente a quanto sostiene un’opinione assai diffusa, la burocrazia non è meramente uno strumento che può essere usato con uguale facilità una volta per scopi crudeli e moralmente riprovevoli, un’altra per scopi profondamente umanitari. Anche se in effetti si muove in qualsiasi direzione venga spinta, la burocrazia assomiglia maggiormente a un dado truccato. Essa ha una logica e un impulso propri; rende alcune soluzioni più probabili ed altre meno. Una volta ricevuta una spinta iniziale (messa di fronte ad uno scopo), essa si spingerà, come le scope dell’apprendista stregone, al di là di molti dei limiti che le avrebbero imposto coloro che l’hanno messa in movimento, se avessero ancora il controllo del processo che hanno innescato. La burocrazia è programmata per cercare la soluzione ottimale. Ed è programmata in modo da misurare l’optimum senza distinguere tra un oggetto umano e l’altro, o tra oggetti umani e non umani. Ciò che importa è l’efficienza e la riduzione dei costi. (…)
Hilberg [ii] sostiene che nel momento in cui un funzionario tedesco scrisse la prima norma sulla segregazione degli ebrei, il destino della popolazione ebraica europea era ormai segnato. C’è una profonda e terrificante verità in questa osservazione. Ciò di cui la burocrazia aveva bisogno era la definizione del proprio compito. Dopodiché si poteva essere certi che essa, razionale ed efficiente com’era, lo avrebbe portato a compimento.
La burocrazia contribuì alla realizzazione dell’Olocausto non soltanto con le proprie capacità e attitudini intrinseche, ma anche con la propria immanente patologia. La tendenza di tutte le burocrazie a perdere di vista lo scopo originario per concentrarsi invece sui mezzi – mezzi che si trasformano in fini – è stata ampiamente osservata, analizzata e descritta. La burocrazia nazista non sfuggì a questa tendenza. Una volta messa in movimento, la macchina omicida sviluppò una propria forza d’inerzia: quanto più si dimostrava efficiente nel ripulire dagli ebrei i territori sottoposti al suo controllo, tanto più attivamente cercava nuovi territori su cui esercitare le capacità recentemente acquisite. Con l’approssimarsi della sconfitta militare tedesca, lo scopo originale della «soluzione finale» diveniva sempre più irrealistico. A tenere in funzione la macchina omicida furono, dunque, semplicemente la sua routine e la sua inerzia. La capacità di eseguire l’omicidio di massa doveva essere applicata soltanto perché esisteva. Gli esperti creavano gli oggetti su cui esercitare la propria competenza. Si rammenti anche che gli specialisti della questione ebraica, nei loro uffici di Berlino, continuarono a introdurre restrizioni sempre più minuziose riguardanti gli ebrei tedeschi quando questi erano ormai da tempo pressoché scomparsi dal territorio della Germania; si rammenti anche che i comandanti delle SS proibirono ai generali della Wehrmacht di tenere in vita gli operai specializzati ebrei, di cui avevano disperatamente bisogno per le proprie operazioni di guerra. Ma in nessun altro caso la tendenza patologica alla sostituzione dei fini con i mezzi risulta più evidente che nell’incredibile e macabro episodio dell’assassinio degli ebrei rumeni e ungheresi, compiuto quando il fronte orientale era già a pochi chilometri di distanza e ad un costo enorme per lo sforzo bellico: preziosissimi vagoni ferroviari e locomotori, truppe e risorse amministrative furono sottratti agli usi militari per poter «ripulire» lontane regioni dell’Europa mai più destinate a diventare «spazio vitale» per i tedeschi.
La burocrazia è intrinsecamente capace di compiere un’azione di genocidio. Per impegnarsi in questa azione, essa ha bisogno di combinarsi con un’altra invenzione della modernità: l’audace progetto di un ordine sociale migliore e più razionale – una società omogenea dal punto di vista razziale, ad esempio, o senza classi – e soprattutto la capacità di tracciare un simile progetto e la determinazione a realizzarlo. Il genocidio scaturisce dalla combinazione di due comuni e diffuse invenzioni dell’epoca moderna. E’ soltanto tale combinazione ad essere stata, finora, insolita e rara.
Zygmunt Bauman, Modernità e olocausto, Bologna, Il Mulino, 1999, pp. 144-153, passim
Eichmann ebbe dunque molte occasioni di sentirsi come Ponzio Pilato, e col passare dei mesi e degli anni non ebbe più bisogno di pensare. Così stavano le cose, questa era la nuova regola, e qualunque cosa facesse, a suo avviso la faceva come cittadino ligio alla legge. Alla polizia e alla Corte disse e ripeté di aver fatto il suo dovere, di avere obbedito non soltanto a ordini, ma anche alla legge. Eichmann aveva la vaga sensazione che questa fosse una distinzione importante, ma né la difesa né i giudici cercarono di sviscerare tale punto. I logori temi degli ordini superiori” oppure delle azioni di Stato” furono discussi in lungo e in largo: essi già avevano dominato tutti i dibattiti al processo di Norimberga, per la semplice ragione che davano l’illusione che fatti senza precedenti potessero essere giudicati in base a precedenti e a criteri già noti. Eichmann, con le sue doti mentali piuttosto modeste, era certamente l’ultimo, nell’aula del tribunale, da cui ci si potesse attendere che contestasse queste idee e impostasse in altro modo la propria difesa. Oltre ad aver fatto quello che a suo giudizio era il dovere di un cittadino ligio alla legge, egli aveva anche agito in base a ordini – preoccupandosi sempre di essere coperto” -, e perciò ora si smarrì completamente e finì con l’insistere alternativamente sui pregi e sui difetti dell’obbedienza cieca, ossia dell obbedienza cadaverica,” Kadavergehorsam, come la chiamava lui. (…)
Qualunque ruolo abbia avuto Kant nella formazione della mentalità della povera gente” in Germania, non c’è il minimo dubbio che in una cosa Eichmann seguì realmente i precetti kantiani: una legge e una legge e non ci possono essere eccezioni. A Gerusalemme egli ammise di aver fatto un’eccezione in due casi, nel periodo in cui ottanta milioni di tedeschi” avevano ciascuno il suo bravo ebreo”: aveva aiutato una cugina mezza ebrea e una coppia di ebrei viennesi, cedendo alle raccomandazioni di suo zio”. Questa incoerenza era ancora un ricordo spiacevole, per lui, e così durante l’interrogatorio dichiarò, quasi per scusarsi, di aver confessato le sue colpe” ai suoi superiori. Agli occhi dei giudici questa ostinazione lo condannò più di tante altre cose meno incomprensibili, ma ai suoi occhi era proprio questa durezza che lo giustificava, così come un tempo era valsa a tacitare quel poco di coscienza che ancora poteva avere. Niente eccezioni: questa era la prova che lui aveva sempre agito contro le proprie inclinazioni,” fossero esse ispirate dal sentimento o dall’interesse; questa era la prova che lui aveva sempre fatto il suo dovere.”
Hannah Arendt, La banalità del male, Milano, Feltrinelli 1996 (8), pp. 142.144
Ho incontrato il mio amico J. a Belgrado. E’ passato a salutarmi prima di lasciare la Jugoslavia. J. è un magistrato ancora giovane, uno di quelli che in Kosovo sono stati trasferiti per punizione. Me ne vado – mi ha detto – perché non posso far finta di non aver visto. Ero testimone mentre la polizia si insediava. Abbiamo visto gli albanesi portati nelle stazioni di polizia. Li abbiamo visti uscire rotti. Io, i portinai, impiegati, amministratori. Tra non non ne abbiamo mai parlato, mentre loro entravano non una singola parola. Impiegati pigri autorizzavano poliziotti a prendere possesso degli all’oggi; mettevano timbri sulle carte che significavano condanne a morte con la stessa indolenza con la quale prima le mettevano sulle bollette della luce da pagare: era solo ordinario lavoro d’ufficio. Rileggiti Hannah Arendt, perché ha capito tutto. E’ la terribile banalità del male”.
N.K. di Belgrado, Corriere della Sera, 24 giugno 1999
Note:
[i] Nel libro I volonterosi carnefici di Hitler, Milano, Mondadori 19
[ii] E’ l’autore di uno dei principali studi sull’Olocausto, La distruzione degli ebrei d’Europa, Torino, Einaudi 19