Daniela Notarbartolo
27 Gennaio 2019This is the page
27 Gennaio 2019da “I ricordi del Capitano d’Arce” (1891)
Novelle di Giovanni Verga
«Vorrei morir…».
Donna Vittoria cantava divinamente. Però gli amici che frequentavano la sua casa (casa Delfini era una specie di succursale del Circolo) l’udivano raramente.
Essa pretendeva che il canto l’affaticasse; soleva dire ridendo che sarebbe morta di una malattia di petto. – Per questo motivo, allorché compariva ai balli o al teatro, nel turbinìo infaticabile della vita elegante, splendente di bellezza e scollacciata sino al dorso, su quel petto delicato ch’era rimasto una meraviglia dopo dieci anni di matrimonio, fioccavano i complimenti e i madrigali dei suoi adoratori. – Ne aveva tanti!… – essa diceva con quel sorriso che faceva palpitare il bel nasino arcuato – per far la guardia alla sua virtù, guardandosi in cagnesco fra di loro!… – Amici del marito (il solo del fior fiore del Circolo che non fosse obbligato a farsi vedere un momento nel salotto di lei) o delle sue amiche, le quali venivano a prendere il thè, a farsi ammirare, a darsi degli appuntamenti, a discorrere di tutto, fuorché di musica, ch’era la passione segreta di donna Vittoria – il solo vizio che nascondesse agli amici – diceva lei – il suo egoismo e la sua civetteria – dicevano gli altri. Talché quella sera che si era lasciata piegare dalle calorose insistenze della cugina Roccaglia, era stato proprio un avvenimento, udire la sua voce un po’ velata che accennava squisitamente quella musica, con un certo riserbo signorile, con una tinta di malinconia anche.
– Ah, sì! – esclamò galantemente il vecchio duca d’Orezzo. – Morire a quella maniera e una bella cosa! –
Ella scherzava adesso gaiamente coi suoi intimi, che si affollavano intorno al pianoforte rimproverandole la sua ingratitudine. – Ah, valeva proprio la pena di esserle fedeli, tutte le sere, perch’ella fosse così avara della sua voce, soltanto con loro! – Anche lei, Ginoli, ha il coraggio di lagnarsene? – Io no. La musica mi fa male… quando le sento dire a quel modo «Vorrei morire!…» – Gli occhi di lei ridevano negli occhi del bel giovane biondo, che si accesero anch’essi un istante di una luce più viva, malgrado il loro riserbo mondano, com’era passata una carezza nel tono della voce che voleva sembrare disinvolta e scherzevole.
– Davvero… – soggiunse lei. – Alle volte, sapete… in certi momenti deliziosamente tristi… –
Essa parlava gaiamente della morte nel fervore della festa, al ritmo del valzer di Chopin che l’eccitava vagamente, splendente di gemme e di bellezza, sotto gli occhi innamorati di Ginoli. All’uscire di casa Roccaglia, in mezzo alla scorta di galanti che si affrettavano a metterle la pelliccia sulle spalle, a darle il braccio, ad aprir lo sportello del legnetto tiepido e profumato come un nido, aveva sentito un brivido scenderle per le belle spalle nude, ancora ansanti pel valzer, sotto la lontra del mantello. Il suo medico, il medico delle signore eleganti, era venuto il giorno dopo a fare quattro chiacchiere, sprofondato nella gran poltrona ai piedi del letto, buttando giù svogliatamente prima d’andarsene, senza togliersi i guanti due o tre lineette della sua bella scrittura da signora su d’un foglietto medioevo con la corona a cinque foglie.
Alla porta era una vera processione di carrozze, di amici, di servitori in livrea; tutti che lasciavano una parola, un nome, una carta di visita, di cui il portiere ogni sera recava in anticamera un vassoio pieno zeppo, colla lista fitta di condoglianze e di auguri, insieme al bollettino della giornata, redatto in guisa da poter passare sotto gli occhi dell’inferma, la quale voleva leggere ogni giorno i nomi di coloro che si erano ricordati di lei. Se ne parlava al Circolo, al teatro, come s’incontravano fra di loro, amici e conoscenti di lei, in visita, dal confettiere, allo sportello delle carrozze, a Villa Borghese. – La povera donna Vittoria!… – Le visite si succedevano a Casa Delfini: delle signore eleganti, degli uomini che venivano un momento a stringere la mano al marito di lei, delle coppie che vi si davano ritrovo, delle ondate di profumi leggieri e delicati che passavano nell’atmosfera greve, delle osservazioni brevi che si scambiavano i visitatori a bassa voce, nell’uscire, con un gesto del capo, o della mazzettina, stringendo il manicotto al seno, o stringendosi nelle spalle. La sera miss Florence lasciava il romanzo che stava leggendo, e scendeva colla bimba nella camera della signora, la quale accoglieva entrambi con un sorriso pallido. La figliuola, una ragazzina bianca e delicata, con lunghe trecce d’oro pendenti giù per le spalle, e la compostezza di una donnina, andava a baciare la mamma in punta di piedi, col passo di signorina ben educata. Le chiedeva della salute in inglese o in tedesco, secondo la giornata; poi le augurava la buona notte, e se ne andava dietro all’istitutrice, diritta e impettita. Però una mattina il dottore s’era fatto serio all’udire donna Vittoria lagnarsi di un altro guaio serio, sopravvenutole nella notte: un dolore pungente che le attraversava il petto, dalle spalle al seno: – Come dicono che sia il mal d’amore!… – Donna Vittoria ne parlava in tono scherzoso, con una specie di febbre d’amore realmente negli occhi, sulle guance, e nella voce rotta. Il dottore la pregò di lasciarsi osservare, così, sollevandosi un poco, una cosa da nulla. Una cosa che le faceva un effetto curioso, a lei, al sentire contro la batista quel viso di uomo che pareva l’abbracciasse, e le facesse battere il cuore davvero, e la faceva scomporre in volto, senza saper perché, mentre si forzava ancora di ridere, fra due colpetti di tosse: – Proprio il mal d’amore, eh, dottore? – Egli non rispose subito, intento, coll’orecchio sulle sue spalle delicate che trasalivano e s’imporporavano. Poi aveva espresso il desiderio «di consultarsi con qualche collega sul metodo di cura», e s’era fermato un momento in anticamera a discorrere sottovoce col marito dell’inferma. Calava la sera, una sera tiepida di primavera. Per la via udivasi il rumore non interrotto delle carrozze che tornavano dal passeggio. Soltanto nella camera dell’inferma, che dava sul giardino, regnava un gran silenzio.
Quando la figliuola era andata ad augurarle la buona notte, secondo il solito, donna Vittoria aveva trattenuta la ragazzina per mano, e le aveva detto, nella sua lingua nativa, poche parole che accusavano la febbre, col sorriso già triste nel viso color di cera. La bimba ascoltava seria e zitta, coi grand’occhi azzurri spalancati. Sino a tarda ora, come s’era sparsa la notizia del consulto tenutosi in casa Delfini, erano venuti degli amici di donna Vittoria, che il marito di lei riceveva nel suo salottino da fumare – un salottino da scapolo, con delle figure scollacciate alle pareti, e dove scoppiettava una fiammata allegra – distribuendo dei sigari e delle strette di mano, discorrendo di ciò che avevano detto i medici, e di quel che dicevasi al Circolo e nei crocchi mondani. Qualche signora, venendo a chiedere notizie dell’amica, dopo il teatro, s’avventurò a cacciare un momento la testolina incappucciata in quel recesso profano, scandolezzandosi «degli orrori» che v’erano in mostra, sgridando Delfini e lasciandogli un saluto per «la cara Vittoria», empiendo le sale del fruscìo dei loro strascichi, e il gaio cinguettìo che fugava le idee nere. I domestici sbadigliarono un po’ più del solito in anticamera, e sino a tarda ora lo stesso coupé che aveva ricondotta la padrona dal ballo in casa Roccaglia stette attaccato a piè dello scalone, coi due fanali accesi che si riverberavano nell’acqua della fontana. Null’altro.
Ma la stessa notte l’inferma aveva peggiorato rapidamente. Il medico, chiamato in fretta e in furia sin dall’alba, si turbò in viso al primo vederla. Stette appena cinque minuti e promise di tornare fra qualche ora. Intanto fece prevenire il suo collega del consulto, suggerì alla cameriera di svegliare Delfini, che dormiva ancora, prescrisse un sacco d’ordinazioni che fecero perdere la testa ai servitori e alle cameriere. Per un momento la casa fu tutta sottosopra. Nel cortile c’era un va e vieni frettoloso di carrozze, coi cavalli fumanti e coi cocchieri ancora in giacchetta. Dei parenti giungevano a ogni momento, col viso lungo, parlando sottovoce. Il medico era tornato due volte. Verso le quattro, prima d’andarsene, aveva scritto un’ultima ordinazione sul tavolino dell’anticamera, volgendo le spalle all’uscio, dinanzi al servitore serio e grave, di già in cravatta bianca sino dalle dieci di mattina. Poi, il coupé di donna Vittoria era andato a prendere di corsa una lontana parente, mezza beghina, dinanzi al cui vestito dimesso, quasi umile, gli usci dorati si spalancarono premurosamente. Costei s’era assisa al capezzale dell’inferma, con un’aria d’intimità quasi materna, chiedendole come si sentisse, chiacchierando di cose diverse con la voce pacata delle donne che vivono nella pace della chiesa. Parlò di sé, dei suoi piccoli guai di tutti i giorni, del solo conforto che si trova nella religione. – Giusto incominciava allora la quaresima, l’epoca della penitenza, dopo i peccati del carnevale. A volte le malattie sono avvertimenti che dà il Signore perché ci si rammenti di Lui. Appunto perciò i buoni cristiani antichi usavano chiedere il Viatico appena s’ammalavano. Non è giusto aspettare l’ultimo momento per riconciliarsi con Dio. Già il miglior rimedio è una buona confessione, si era visto tante volte, con dei malati gravi…
Donna Vittoria, bianca come il merletto del guanciale su cui posava la testa, ascoltava senza dire una parola, spalancando gli occhi, quasi affascinata da un’orribile visione interiore, col viso già stravolto da un’angoscia suprema, agitando le mani, agitando il capo che non poteva trovar requie sul guanciale. Tutt’a un tratto si fece proprio cadaverica in volto, cercando di rizzarsi sulla vita, balbettando:
– No… più tardi… più tardi… Non mi fate questi discorsi… Non mi fate morir di spavento… Andatevene, zia!… andatevene!… Più tardi poi… –
La beghina se ne andò finalmente, stringendosi nelle spalle, brontolando delle parole oscure, accennando col capo al marito di donna Vittoria che aspettava all’uscio, sbigottito anche lui. L’inferma gli fece cenno d’accostarsi, interrogandolo cogli occhi ansiosi, con un’espressione di rancore pure, in fondo a quegli occhi atterriti, chiedendogli perché avessero lasciata entrare quella donna… perché?… perché?… La voce le si era mutata a un tratto, come il viso, come gli occhi che fissava in volto a tutti quanti e domandavano ansiosi: – Sto proprio così male?… Cosa ha detto il medico?… Perché non mandate a chiamare il medico? – Ad un tratto si abbandonò sul letto supina, con un terrore immenso nel viso. – Ah… Dio mio!… così presto!… –
Il triste annuncio giunse di buon’ora al Circolo. Ginoli teneva banco, aspettando che fosse l’ora d’andare a far visita in casa Delfini, come al solito, quando il duca d’Orezzo, che aveva preso posto fra i giuocatori un momento prima, ripeté la frase che correva da una settimana sulla bocca degli amici: – La povera donna Vittoria!… – stavolta in tal tono che tutti quanti levarono il capo. Ginoli aveva voltato un nove. Allora gli stessi tornarono a chinarsi sulle carte, rannuvolati.
– Pur troppo! – rispose il duca alla domanda di Ginoli, che aveva dimenticato di ritirar le poste. – S’è già confessata… –
Ginoli vinceva sempre con una vena implacabile che l’inchiodava al suo posto, e non teneva allegri neppure i suoi compagni di giuoco. Accusasse un cinque o chiamasse un sette, tutte le follìe di un giuocatore inesperto che voglia fare lo spaccone, o che abbia perduta la testa, gli giovavano invece a sventare le astuzie dei suoi avversari, i quali non sapevano più a che santo votarsi, e maledicevano in cuor loro gli uccelli di malaugurio che vanno in giro a portare la disdetta e le cattive nuove. Santa-Sira, il quale aveva già le orecchie infocate, saettò di nascosto un’occhiata sul duca. Ma Lionelli, il quale aspettava la rivincita, e temeva che Ginoli lasciasse le carte, osservò garbatamente che in tal caso non conveniva andare in casa Delfini quella sera… per non disturbare… Altri approvarono, guardando alla sfuggita Ginoli a cui tremavano le mani nel dare le carte, e luccicavano delle goccioline di sudore sulla fronte, quasi perdesse tutto sulla parola; e Domitilla discretamente cambiò discorso, per riguardo a Ginoli che teneva il banco, e di cui conoscevasi la relazione con donna Vittoria. – Peraltro si facevano pochi discorsi, ciascuno avendo da pensare ad altro, con quella maledetta partita che s’era fatta più seria che non si credesse, e che sarebbe stata un disastro per qualcheduno, se Ginoli non fosse stato quel gentiluomo che era, e non avesse capito che gli conveniva continuare a giuocare, come facevano tutti gli altri amici di donna Vittoria, per la riputazione di lei. Con una partita così grossa, nessuno avrebbe voluto tenere il banco per lui. – Tanto da lasciarmi tirare il fiato, – aveva egli detto sorridendo, quasi l’emozione della vincita fosse stata realmente tale da togliergli il respiro.
Finalmente, quando poté correre in casa Delfini, dopo una serie fortunata di zeri che gli riconciliò i suoi amici del Circolo, era circa mezzanotte. Domitilla aveva voluto accompagnarlo per salvare le apparenze. Salendo la scala gli disse: – Bada… sei ancora tutto sottosopra… –
Nel salotto c’erano dei parenti, una signora attempata, amica di casa, che si era offerta di vegliare la notte, e due altri, marito e moglie, zii, per parte di madre, di donna Vittoria. La zia parlava di cure portentose, di guarigioni insperate. Gli altri tacevano, senza ascoltare. La contessa Roccaglia parve molto sorpresa di veder comparir Ginoli, e rivolse la parola a Domitilla, per salvare le apparenze: – Non sapevate… povera Vittoria!… –
Allora Ginoli dovette ascoltare le osservazioni della zia, ch’era stata nella camera dell’inferma, e balbettare delle condoglianze comuni, dinanzi a tutti quegli occhi fissi su di lui. Di tanto in tanto passava un domestico frettoloso; una cameriera socchiudeva discretamente l’uscio delle stanze della signora. Un momento si vide far capolino anche il marito di lei, pallidissimo, che scomparve subito. Nel salotto discorrevasi a voce bassa, con parole tronche, con un vago senso di malessere e di fastidio reciproco. Lo zio guardava l’orologio tratto tratto. Poi succedevano dei lunghi intervalli di silenzio che pesavano su tutti, quasi d’attesa funebre. A un certo punto l’uscio si spalancò e comparve prima l’istitutrice, col fazzoletto agli occhi, reggendo la fanciullina che sembrava svenuta; e il padrone di casa attraversò il salotto barcollando, senza salutare nessuno, fissando soltanto uno sguardo singolare su Ginoli che aveva chinato il capo. Dall’uscio rimasto aperto udivasi il rumore di un affaccendarsi frettoloso, nelle stanze dell’inferma. La cameriera era venuta correndo a prendere un candelabro dal caminetto. Allora gli zii e la vecchia signora le erano andati dietro. Come Ginoli si era alzato anche lui, vacillante, pallido come un cadavere, quasi non sapesse più quel che si faceva, la contessa Roccaglia lo fermò sull’uscio, dicendogli piano:
– No… S’è confessata or ora… s’aspetta il Viatico… –
Si udì il suono funebre di un campanello, e uno scalpiccìo di gente che saliva. Ginoli, dileguandosi come un’ombra, quasi inseguito dallo squillare di quel campanello, vide un’altra ombra in fondo all’anticamera, dinanzi a cui dovette chinare il capo, irresistibilmente.