Canto trentatreesimo del Purgatorio
27 Gennaio 2019Accordi tra le parti sociali che finalizzino quote di riduzione di orario alla fo…
27 Gennaio 2019Ugo Foscolo
Rimino, 5 Marzo
Tutto mi si dilegua. Io veniva a rivedere ansiosamente il Bertola; da gran tempo io non aveva sue lettere – E’ morto.
Ore 11 della sera
Lo seppi: Teresa è maritata. Tu taci per non darmi la vera ferita – ma l’inferno geme quando la morte il combatte, non quando lo ha vinto. Meglio così, da che tutto è deciso: ed ora anch’io sono tranquillo, incredibilmente tranquillo. – Addio. Roma mi sta sempre sul cuore.
Dal frammento seguente che ha la data della sera stessa, apparisce che Jacopo decretò in quel dì di morire. Parecchi altri frammenti, raccolti come questo dalle sue carte, paiono gli ultimi pensieri che lo raffermarono nel suo proponimento; e però li andrò frammentendo secondo le loro date.
«Veggo la meta: ho già tutto fermo da gran tempo nel cuore – il modo, il luogo – né il giorno è lontano.
Cos’è la vita per me? il tempo mi divorò i momenti felici: io non la conosco se non nel sentimento del dolore: ed or anche l’illusione mi abbandona – medito sul passato; m’affiso su i dì che verranno; e non veggo che nulla. Questi anni che appena giungono a segnare la mia giovinezza, come passarono lenti fra i timori, le speranze, i desideri, gl’inganni, la noja! e s’io cerco la eredità che mi hanno lasciato, non mi trovo che la rimembranza di pochi piaceri che non sono più, e un mare di sciagure che atterrano il mio coraggio, perché me ne fanno paventar di peggiori. Che se nella vita è il dolore, in che più sperare? nel nulla; o in un’altra vita diversa sempre da questa. – Ho dunque deliberato; non odio disperatamente me stesso; non odio i viventi. Cerco da molto tempo la pace; e la ragione mi addita sempre la tomba. Quante volte sommerso nella meditazione delle mie sventure io cominciava a disperare di me! L’idea della morte dileguava la mia tristezza, ed io sorrideva per la speranza di non vivere più. – Sono tranquillo, tranquillo imperturbabilmente. Le illusioni sono svanite; i desiderj son morti: le speranze e i timori mi hanno lasciato libero l’intelletto. Non più mille fantasmi ora giocondi ora tristi confondono e traviano la mia immaginazione: non più vani argomenti adulano la mia ragione; tutto è calma. – Pentimenti sul passato, noja del presente, e timor del futuro; ecco la vita. La sola morte, a cui è commesso il sacro cangiamento delle cose, promette pace.»
Da Ravenna non mi scrisse; ma da quest’altro squarcio si vede ch’ei vi andò in quella settimana.
«Non temerariamente, ma con animo consigliato e sicuro. Quante tempeste pria che la Morte potesse parlare così pacatamente con me – ed io così pacato con lei!
Sull’urna tua, Padre Dante! Abbracciandola, mi sono prefisso ancor più nel mio consiglio. M’hai tu veduto? m’hai tu forse, Padre, ispirato tanta fortezza di senno e di cuore, mentr’io genuflusso, con la fronte appoggiata a’ tuoi marmi, meditava e l’alto animo tuo, e il tuo amore, e l’ingrata tua patria, e l’esilio, e la povertà, e la tua mente divina? e mi sono scompagnato dall’ombra tua più deliberato e più lieto.»
Su l’albeggiar de’ 13 Marzo smontò a’ colli Euganei, e spedì a Venezia Michele, gittandosi, stivalato com’era, subitamente a dormire. Io mi stava appunto con la madre di Jacopo, quando essa, che prima di me si vide innanzi il ragazzo, chiese spaventata: E mio figlio? – La lettera di Alessandria non era per anco arrivata, e Jacopo prevenne anche quella di Rimino: noi ci pensavamo ch’ei si fosse già in Francia; perciò l’inaspettato ritorno del servo ci fu presentimento di fiere novelle. Ei narrava: Il padrone è in campagna; non può scrivere, perché abbiamo viaggiato tutta notte, dormiva quand’io montava a cavallo. Vengo per avvertire che noi ripartiremo; e credo, da quel che gli ho udito dire, per Roma; se ben mi ricordo, per Roma, e poi per Ancona, dove ci imbarcheremo: per altro il padrone sta bene; ed è quasi una settimana ch’io lo vedo più sollevato. Mi disse che prima di partire verrà a salutar la signora; e però ha mandato qui me ad avvisare; anzi verrà qui domani l’altro, e forse domani. Il servo pareva lieto, ma il suo dire confuso accrebbe le nostre sollecitudini; né si acquetaron se non il dì appresso, quando Jacopo scrisse, come ripartirebbe per l’Isole già Venete, e che temendo di non ritornare forse più, verrebbe a rivederci e a ricevere la benedizione di sua madre. – Questo biglietto andò smarrito.
Frattanto nel dì del suo arrivo a’ colli Euganei, svegliatosi quattr’ore prima di sera, scese a passeggiare sino presso alla chiesa, tornò, si rivestì, e s’avviò a casa T***. Seppe da un famigliare come da sei giorni erano tutti venuti da Padova, e che a momenti sarebbero tornati dal passeggio. Era quasi sera, e tornavasi a casa. Dopo non molti passi s’accorse di Teresa che veniva con l’Isabellina per mano; e dietro alle figliuole, il signore T*** con Odoardo. Jacopo fu preso da un tremito, e s’accostava perplesso. Teresa appena il conobbe, gridò: Eterno Iddio! e dando indietro mezzo tramortita si sostenne sul braccio del padre suo. Com’ei fu presso, e che venne ravvisato da tutti, ella non gli disse parola: appena il signore T*** gli stese la mano; e Odoardo lo salutò asciuttamente. Solo l’Isabellina gli corse addosso, e mentre ei se la prendea su le braccia, essa baciavalo, e lo chiamava il suo Jacopa, e si voltava a Teresa additandolo; ed esso accompagnandosi a loro, parlava sottovoce con la ragazzina. Niuno aprì bocca: Odoardo soltanto gli chiese se andasse a Venezia. – Fra pochi giorni, rispose. Giunti alla porta, si accomiatò.
Michele che a nessun patto accettò di riposarsi in Venezia per non lasciare solo il padrone, si tornò a’ colli un’ora incirca dopo mezzanotte, e lo trovò seduto allo scrittojo rivedendo le sue carte. Moltissime ne bruciò; parecchie di minor conto le lasciava cadere stracciate sotto al tavolino. Il ragazzo si coricò, lasciando l’ortolano perché ci badasse; tanto più che Jacopo non aveva in tutto quel dì desinato. Infatti poco di poi gli fu recata parte del suo desinare, ed ei ne mangiò attendendo sempre alle carte. Non le esaminò tutte; ma passeggiò per la stanza, poi prese a leggere. L’ortolano che lo vedeva mi disse, che sul finir della notte aprì le finestre, e vi si fermò un pezzo: pare che subito dopo abbia scritto i due frammenti che sieguono: sono in diverse facciate, ma in un medesimo foglio.
«Or via: costanza. – Eccoti una bragera, scintillante d’infiammati carboni. Ponvi dentro la mano; brucia le vive tue carni: bada; non t’avvilire d’un gemito. – A che pro? – E a che pro deggio affettare un eroismo che non mi giova?»
«E’ notte; alta, perfetta notte. A che veglio immoto su questo libro? – Io non imparai se non la scienza di ostentare saviezza quando le passioni non tiranneggiano l’anima. I precetti sono come le medicine, inutili quando la infermità vince tutte le resistenze della Natura.
Alcuni sapienti si vantano d’avere domate le passioni che non hanno mai combattuto: l’origine è questa della loro baldanza. – Amabile stella dell’alba! tu fiammeggi dall’oriente, e mandi a questi occhi il tuo raggio – ultimo! Chi l’avria detto sei mesi addietro quando tu comparivi prima degli altri pianeti a rallegrare la notte, e ad accogliere i nostri saluti?
Spuntasse almeno l’aurora! – Forse Teresa si ricorda in questo momento di me – pensiero consolatore! Oh come la beatitudine d’essere amato raddolcisce qualunque dolore!
Ah notturno delirio! va – tu ricominci a sedurmi: passò stagione: ho dis’ingannato me stesso; un partito solo mi resta.»
La mattina mandò per una Bibbia ad Odoardo il quale non l’aveva: mandò al parroco, e quando gli fu recata, si chiuse. A mezzodì suonato uscì a spedire la seguente lettera, e tornò a chiudersi.
14 Marzo
Lorenzo, ho un secreto che da più mesi mi sta confitto nel cuore: ma l’ora della partenza sta per suonare; ed è tempo ch’io lo deponga dentro il tuo petto.
Questo amico tuo ha sempre davanti un cadavere. – Ho fatto quanto io doveva; quella famiglia è da quel giorno men povera – ma il padre loro rivive più?
In uno di que’ giorni del mio forsennato dolore, son oggimai dieci mesi, io cavalcando mi dilungai molte miglia. Era la sera; io vedeva sorgere un tempo nero, e tornando affrettavami: il cavallo divorava la via, e nondimeno i miei sproni lo insanguinavano; e gli abbandonai tutte le briglie sul collo, invocando quasi ch’ei rovinasse e si seppellisse con me. Entrando in un viale tutto alberi, stretto, lunghissimo, vidi una persona – ripresi le briglie; ma il cavallo più s’irritava e più impetuosamente lanciavasi. – Tienti a sinistra, gridai, a sinistra! Quello sfortunato m’intese; corse a sinistra; ma sentendo più imminente lo scalpito, e in quello stretto sentiero credendosi addosso il cavallo, ritornava sgomentato a diritta, e fu investito, rovesciato, e le zampe gli frantumarono le cervella. In quel violento urto il cavallo stramazzò, balzandomi di sella più passi. Perché rimasi vivo ed illeso? – Corsi ove intendeva un lamento di moribondo: l’uomo agonizzava boccone in una palude di sangue: lo scossi: non aveva né voce né sentimento; dopo minuti spirò. Tornai a casa. Quella notte fu anche burrascosa per tutta la Natura; la grandine desolò le campagne; le folgori arsero molti alberi, e il turbine fracassò la cappella di un crocefisso: ed io uscii a perdermi tutta la notte per le montagne con le vesti e l’anima insanguinata, cercando in quello sterminio la pena della mia colpa. Che notte! Credi tu che quel terribile spettro mi abbia perdonato mai? – La mattina dopo, assai se ne parlò: si trovò il morto in quel viale, mezzo miglio più lontano, sotto un mucchio di sassi fra due castagni schiantati che attraversavano il cammino; la pioggia che sino all’alba cascò dalle alture a torrenti ve lo strascinò con que’ sassi; aveva le membra e la faccia a brani: e fu conosciuto per le strida della moglie che lo cercava. Nessuno fu imputato. Ben mi accusavano nel mio secreto le benedizioni di quella vedova perché ho subitamente collocata la sua figlia al nipote del castaldo; e assegnato un patrimonio al figliuolo che si volle far prete. E jer sera vennero a ringraziarmi di nuovo dicendomi, ch’io gli ho liberati dalla miseria in cui da tanti anni languiva la famiglia di quel povero lavoratore. – Ah! vi sono pure tanti altri miseri come voi; ma hanno un marito ed un padre che li consola con l’amor suo, e che essi non cangierebbero per tutte le ricchezze della terra – e voi!
Così gli uomini nascono a struggersi scambievolmente!
Fuggono da quel viale tutti i villani, e tornandosi da’ lavori, per iscansarlo, passano per le praterie. Si dice che le notti vi si sentano spiriti; che l’uccello del mal-augurio siede fra quelle arbori e dopo la mezzanotte urla tre volte; che qualche sera si è veduto passare una persona morta – né io ardisco dis’ingannarli, né ridere di tali prestigj. Ma svelerai tutto dopo la mia morte. Il viaggio è rischioso, la mia salute è incerta; non posso allontanarmi con questo rimorso sepolto. Que’ due figliuoli in ogni loro disgrazia e quella vedova sieno sacri nella mia casa. Addio.
Per entro la Bibbia si trovarono, assai giorni dopo, le traduzioni zeppe di cassature e quasi non leggibili di alcuni versi del libro di Job, del secondo capo dell’Ecclesiaste, e di tutto il cantico di Ezechia. –
Alle quattro dopo mezzodì si trovò a casa T***. Teresa era discesa tutta sola in giardino. Il padre di lei lo accolse affabilmente. Odoardo si fe’ a leggere presso un balcone; e dopo non molto posò il libro: ne aprì un altro, e leggendo s’incamminò alle sue stanze. Allora Jacopo prese il primo libro così come fu lasciato aperto da Odoardo; era il volume IV delle tragedie dell’Alfieri: ne scorse una o due pagine; poi lesse forte:
Chi siete voi?… Chi d’aura aperta e pura
Qui favellò?… Questa? è caligin densa;
Tenebre sono; ombra di morte… Oh mira;
Più mi t’accosta; il vedi? Il Sol d’intorno
Cinto ha di sangue ghirlanda funesta…
Odi tu canto di sinistri augelli?
Lugubre un pianto sull’aere si spande
Che me percote, e a lagrimar mi sforza…
Ma che? Voi pur, voi pur piangete?…
Il padre di Teresa guardandolo gli diceva: O mio figlio! – Jacopo seguitò a leggere sommessamente: aprì a caso quello stesso volume, e tosto posandolo, esclamò:
…Non diedi a voi per anco
Del mio coraggio prova: ei pur fia pari
Al dolor mio.
A questi versi Odoardo tornava, e gli udì proferire così efficacemente che si ristette su la porta pensoso. Mi narrava poi il signore T*** che a lui parve in quel momento di leggere la morte sul volto del nostro misero amico; e che in que’ giorni tutte le parole di lui ispiravano riverenza e pietà . Favellarono poi del suo viaggio; e quando Odoardo gli chiese se starebbe di molto a tornare: Si, rispose, potrei quasi giurare che non ci rivedremo più. Non ci rivedremo noi più? dissegli il signore T*** con voce afflittissima. Allora Jacopo, come per rassicurarlo, lo guardò in viso con aria lieta insieme e tranquilla; e dopo breve silenzio, gli citò sorridendo quel passo del Petrarca:
Non so; ma forse
Tu starai in terra senza me gran tempo.
Ridottosi a casa su l’imbrunire, si chiuse; né comparì fuori di stanza che la mattina seguente assai tardi. Porrò qui alcuni frammenti ch’io credo di quella notte, quantunque io non sappia assegnare veramente l’ora in cui furono scritti.
«Viltà? – Or tu che gridi viltà non se’ uno di quegl’infiniti mortali che infingardi guardano le loro catene, e non osano piangere, e baciano la mano che li flagella? Che è mai l’uomo? il coraggio fu sempre dominatore dell’universo perché tutto è debolezza e paura.
Tu m’imputi di viltà, e ti vendi intanto l’anima e l’onore.
Vieni; mirami agonizzare boccheggiando nel mio sangue: non tremi tu? or chi è il vile? ma trammi questo coltello dal petto – impugnalo; e di’ a te stesso: Dovrò vivere eterno? Dolore sommo forte, ma breve e generoso. Chi sa! la fortuna ti prepara una morte più dolorosa e più infame. Confessa. Or che tu tieni quell’arma appuntata deliberatamente sovra il tuo cuore, non ti senti forse capace di ogni alta impresa, e non ti vedi libero padrone de’ tuoi tiranni?»
Mezzanotte
«Contemplo la campagna: guarda che notte serena e pacifica! Ecco la Luna che sorge dietro la montagna. – O Luna! amica Luna. Mandi ora tu forse su la faccia di Teresa un patetico raggio simile a questo che tu diffondi nell’anima mia? Ti ho sempre salutata mentre apparivi a consolare la muta solitudine della Terra: più volte uscendo dalla casa di Teresa ho parlato con te, e tu eri testimonio de’ miei delirj: questi occhi molli di lagrime più volte accompagnata in grembo alle nubi che ti ascondevano: ti hanno cercata nelle notti cieche della tua luce. Tu risorgerai, tu risorgerai sempre più bella; ma l’amico tuo cadrà deforme e abbandonato cadavere senza risorgere più. Or ti prego di un ultimo beneficio: quando Teresa mi cercherà fra i cipressi e i pini del monte, illumina co’ tuoi raggi la mia sepoltura.»
«Bell’alba! ed è pure gran tempo ch’io non m’alzo da un sonno così riposato, e ch’io non ti vedo, o mattino, così rilucente! – ma gli occhi miei erano sempre nel pianto; e tutti i miei pensieri nella oscurità; e l’anima mia nuotava nel dolore.
Splendi, su splendi, o Natura, e riconforta le cure de’ mortali. Tu non risplenderai più per me. Ho già sentito tutta la tua bellezza, e t’ho adorata, e mi sono alimentato della tua gioja; e finché io ti vedeva bella e benefica tu mi dicevi con una voce divina: Vivi. – Ma nella mia disperazione ti ho poi veduta con le mani grondanti di sangue; la fragranza de’ tuoi fiori mi fu pregna di veleno, amari i tuoi frutti; e mi apparivi divoratrice de’ tuoi figliuoli adescandoli con la tua bellezza e co’ tuoi doni al dolore.
Sarò io dunque ingrato con te? protrarrò la vita per vederti sì terribile, e bestemmiarti? No, no. – Trasformandoti, e acciecandomi alla tua luce non mi abbandoni forse tu stessa, e non mi comandi ad un tempo di abbandonarti? – Ah! ora ti guardo e sospiro; ma io ti vagheggio ancora per la reminiscenza delle passate dolcezze, per la certezza ch’io non dovrò più temerti, e perché sto per perderti. – Né io credo di ribellarmi da te fuggendo la vita. La vita e la morte sono del pari tue leggi: anzi una strada concedi al nascere, mille al morire. Se non ci imputi la infermità che ne uccide, vorrai forse imputarne le passioni che hanno gli stessi effetti e la stessa sorgente perché derivano da te, né potrebbero opprimerci se da te non avessero ricevuto la forza? Né tu hai prefisso una età certa per tutti. Gli uomini denno nascere, vivere, morire: ecco le tue leggi: che rileva il tempo e il modo?
Nulla io ti sottraggo di ciò che mi hai dato. Il mio corpo, questa infinitesima parte, ti starà sempre congiunta sotto altre forme. Il mio spirito – se morrà con me, si modificherà con me nella massa immensa delle cose – e s’egli è immortale! – la sua essenza rimarrà illesa.
Oh! a che più lusingo la mia ragione? Non odo la solenne voce della Natura? Io ti feci nascere perché tu anelando alla tua felicità cospirassi alla felicità universale; e quindi per istinto ti diedi l’amor della vita, e l’orror della morte. Ma se la piena del dolore vince l’istinto, che altro puoi tu fare se non correre verso le vie che io ti spiano per fuggir da’ tuoi mali? Quale riconoscenza più t’obbliga meco, se la vita ch’io ti diedi per beneficio, ti si è convertita in dolore?
Che arroganza! credermi necessario! – gli anni miei sono nello incircoscritto spazio del tempo un attimo impercettibile. Ecco fiumi di sangue che portano tra i fumanti lor flutti recenti mucchj d’umani cadaveri: e sono questi milioni d’uomini sacrificati a mille pertiche di terreno, e a mezzo secolo di fama che due conquistatori si contendono con la vita de’ popoli. E temerò io di immolare a me stesso que’ dì pochi e dolenti che mi saranno forse rapiti dalle persecuzioni degli uomini, o contaminati dalle colpe?»
Cercai quasi con religione tutti i vestigi dell’amico mio nelle sue ore supreme, e con pari religione io scrivo quelle cose che ho potuto sapere: però non ti dico, o Lettore, se non ciò ch’io vidi, o ciò che mi fu, da chi il vide, narrato. – Per quanto io m’abbia indagato, non seppi che abbia egli fatto ne’ dì 16, 17, 18 Marzo. Fu più volte a casa T***; ma non vi si fernò mai. Usciva tutti que’ dì quasi innanzi giorno, e si ritirava assai tardi: cenava senza dire parola: e Michele mi accerta, che avea notti assai riposate.
La lettera che siegue non ha data, ma fu scritta addì 19.
Parmi? o Teresa mi sfugge? – essa essa mi sfugge! Tutti – e le sta sempre al fianco Odoardo. Vorrei vederla solo una volta; e sappi ch’io mi sarei già partito – tu pure m’affretti ognor più! – ma sarei partito, se avessi potuto bagnarle una volta la mano di lagrime. Gran silenzio in tutta quella famiglia! Salendo le scale temo d’incontrare Odoardo – parlandomi, non mi nomina mai Teresa. Ed è pur poco discreto! sempre, anche dianzi, m’interroga quando e come partirò. Mi sono arretrato improvvisamente da lui – perché davvero mi parea ch’ei sogghignasse; e l’ho fuggito fremendo.
Torna a spaventarmi quella terribile verità ch’io già svelava con raccapriccio – e che mi sono poscia assuefatto a meditare con rassegnazione: Tutti siamo nemici. Se tu potessi fare il processo de’ pensieri di chiunque ti si para davanti, vedresti ch’ei ruota a cerchio una spada per allontanare tutti dal proprio bene, e per rapire l’altrui. – Lorenzo; comincio a vacillar nuovamente. Ma conviene disporsi – e lasciarli in pace.
P.S. Torno da quella donna decrepita di cui parmi d’averti narrato una volta. La sconsolata vive ancora! sola, abbandonata spesso gl’interi giorni da tutti che si stancano di ajutarla, vive ancora; ma tutti i suoi sensi sono da più mesi nell’orrore e nella battaglia della morte.
Seguono due frammenti scritti forse in quella notte; e pajono gli ultimi.
«Strappiamo la maschera a questa larva che vuole atterrirci. – Ho veduto fanciulli raccapricciare e nascondersi all’aspetto travisato della loro nutrice. O Morte! io ti guardo e t’interrogo – non le cose ma le loro apparenze ci turbano: infiniti uomini che non s’arrischiano di chiamarti, ti affrontano nondimeno intrepidamente! Tu pure sei necessario elemento della Natura – per me oggimai tutto l’orror tuo si dilegua, e mi rassembri simile al sonno della sera, quiete dell’opre.
Ecco le spalle di quella sterile rupe che frodano le sottoposte valli del raggio fecondatore dell’anno. – A che mi sto? Se devo cooperare all’altrui felicità, io invece la turbo: s’io devo consumare la parte di calamità assegnata ad ogni uomo, io già in ventiquattro anni ho vuotato il calice che avria potuto bastarmi per una lunghissima vita. E la speranza? – Che monta? conosco io forse l’avvenire per fidargli i miei giorni? Ahi che appunto questa fatale ignoranza accarezza le nostre passioni, ed alimenta l’umana infelicità.
Il tempo vola; e col tempo ho perduto nel dolore quella parte di vita che due mesi addietro lusingavasi di conforto. Questa piaga invecchiata è ormai divenuta natura: io la sento nel mio cuore, nel mio cervello, in tutto me stesso; gronda sangue, e sospira come se fosse aperta di fresco. – Or basta, Teresa, basta: non ti par di vedere in me un infermo strascinato a lenti passi alla tomba fra la disperazione e i tormenti, e non sa prevenire con un sol colpo gli strazj del suo destino inevitabile?»
«Tento la punta di questo pugnale: io lo stringo, e sorrido: qui; in mezzo a questo cuor palpitante – e sarà tutto compiuto. Ma questo ferro mi sta sempre davanti! – chi chi osa amarti, o Teresa? Chi osò rapirti? – Fuggimi dunque; non mi ti accostare, Odoardo! –
O! mi vado strofinando le mani per lavare la macchia del tuo sangue – le fiuto come se fumassero di delitto. Frattanto eccole immacolate, e in tempo di togliermi in un tratto dal pericolo di vivere un giorno di più – un giorno solo; un momento – sciagurato! sarei vissuto troppo.»
20 Marzo, a sera
Io era forte: ma questo fu l’ultimo colpo che ha quasi prostrata la mia fermezza! nondimeno quello ch’è decretato è decretato. Ma tu, mio Dio, che miri nel profondo, tu vedi che questo è sacrificio più che di sangue.
Ella era, o Lorenzo, con la sua sorellina; e parea che volesse scansarmi; ma poi s’assise, e l’Isabellina tutta compunta se le posò su le ginocchia. Teresa – le dissi accostandomi e prendendole la mano: – mi riguardò: e quella bambina gettando il suo braccio sul collo di Teresa, e alzando il viso le parlava sottovoce: Jacopo non mi ama più. E la intesi – S’io t’amo? e abbassandomi e abbracciandola – t’amo, io le diceva, t’amo teneramente; ma tu non mi vedrai più. O mio fratello! Teresa mi contemplava atterrita, e stringeva l’Isabellina, e teneva pur gli occhi verso di me: – Tu ci lascierai, mi disse, e questa fanciulletta sarà compagna de’ miei giorni, e sollievo de’ miei dolori: le parlerò sempre dell’amico suo – dell’amico mio; e le insegnerò a piangere e a benedirti – e a queste ultime parole, l’anima sua parevami ristorata di qualche speranza; e le lagrime le pioveano dagli occhi; ed io ti scrivo con le mani calde ancor del suo pianto. – Addio, soggiunse, addio, ma non eternamente; di’? non eternamente – eccoti adempiuta la mia promessa e si trasse dal seno il suo ritratto – eccoti adempiuta la mia promessa; addio, va, fuggi, e porta con te la memoria di questa sfortunata – è bagnato delle mie lagrime e delle lagrime di mia madre. – E con le sue mani lo appendeva al mio collo, e lo nascondeva dentro al mio petto. Io stesi le braccia, e me la strinsi sul cuore, e i suoi sospiri confortavano le arse mie labbra, e già la mia bocca – ma un pallore di morte si sparse su la sua faccia; e, mentre mi respingeva, io toccandole la mano la sentii fredda, tremante, e con voce soffocata e languente mi disse: – Abbi pietà addio – e si abbandonò sul sofà, stringendosi presso quanto poteva la Isabellina, che piangeva con noi. – Entrava suo padre, e il nostro misero stato avvelenò forse i suoi rimorsi.
Ritornò quella sera tanto costernato che Michele sospettò di qualche fiero accidente. Ripigliò l’esame delle sue carte; e molte ne faceva ardere senza leggerle. Innanzi alla Rivoluzione avea scritto un commentario intorno al governo Veneto in uno stile antiquato, assoluto, con quel motto di Lucano per epigrafe; Jusque datum sceleri. Una sera dell’anno addietro aveva letto a Teresa la Storia di Lauretta; e Teresa mi disse poi, che quei pensieri scuciti, ch’ei m’inviò con la lettera de’ 29 Aprile, non n’erano il cominciamento, ma bensì sparsi dentro quell’operetta ch’esso aveva finita, narrando per filo i casi di Lauretta e gli aveva scritti con istile men passionato. Non perdonò né a questi né a verun altro scritto. Leggeva pochissimi libri, pensava molto, dal bollente tumulto del mondo fuggiva a un tratto nella solitudine, e quindi scriveva per necessità di sfogarsi. Ma a me non resta se non un suo Plutarco zeppo di postille con varj quinterni frammessi ove sono alcuni discorsi, ed uno assai lungo su la morte di Nicia; ed un Tacito Bodoniano, con molti squarci, fra gli altri l’intero libro secondo degli annali e gran parte del secondo delle storie, da lui con sommo studio tradotti, e con carattere minutissimo pazientemente ricopiati ne’ margini. I frammenti sovra scritti gli ho trascelti da’ fogli stracciati ch’esso aveva, come di nessun conto, gittati sotto al suo tavolino; e a’ quali ho probabilmente assegnato le date. – Ma il passo seguente, non so se suo o d’altri quanto alle idee, bensì di stile tutto suo, era stato da lui scritto in calce al libro delle Massime di Marco Aurelio, sotto la data 3 Marzo 1794 – e poi lo trovai ricopiato in calce all’esemplare del Tacito Bodoniano sotto la data 1 Gennaro 1797 – e presso a questa, la data 20 Marzo 1799, cinque dì innanzi ch’egli morisse – eccolo:
«Io non so né perché venni al mondo; né come; né cosa sia il mondo; né cosa io stesso mi sia. E s’io corro ad investigarlo, mi ritorno confuso d’una ignoranza sempre più spaventosa. Non so cosa sia il mio corpo, i miei sensi, l’anima mia; e questa stessa parte di me che pensa ciò ch’io scrivo, e che medita sopra di tutto e sopra se stessa, non può conoscersi mai. Invano io tento di misurare con la mente questi immensi spazj dell’universo che mi circondano. Mi trovo come attaccato a un piccolo angolo di uno spazio incomprensibile, senza sapere perché sono collocato piuttosto qui che altrove; o perché questo breve tempo della mia esistenza sia assegnato piuttosto a questo momento dell’eternità che a tutti quelli che precedevano, e che seguiranno. Io non vedo da tutte le parti altro che infinità le quali mi assorbono come un atomo.»
Poiché in quella notte de’ 20 Marzo ebbe ripassato al tutto i suoi fogli, chiamò l’ortolano e Michele perché glieli sgombrassero da’ piedi. Poi li mandò a dormire. Pare ch’esso abbia vegliato l’intera notte; perché allora scrisse la lettera precedente, e sul far del giorno andò a destare il ragazzo commettendogli che procacciasse un messo per Venezia. Poi si sdrajò tutto vestito sul letto; ma per poca ora; da che un villano mi disse d’averlo alle 8 di quella mattina incontrato su la strada d’Arquà. Prima di mezzodì era tornato nelle sue stanze. V’entrò Michele a dire che il messo era lì pronto: e lo trovò seduto immobilmente, e come sepolto in tristissime cure: s’alzò; si fe’ presso alla soglia di una finestra; e standosi ritto scrisse sotto la stessa lettera, a caratteri quasi illeggibili.
Verrò ad ogni modo – se potessi scriverle – e voleva scrivere: pur se le scrivessi non avrei più cuore di venire – tu le dirai che verrò, che essa vedrà il suo figliuolo; – non altro – non altro: non le straziare di più le viscere; avrei molto da raccomandarti intorno al modo di contenerti per l’avvenire con essa e di consolarla. – Ma le mie labbra sono arse; il petto soffocato; un’amarezza, uno stringimento – potessi almen sospirare! – Davvero; un gruppo dentro le fauci, e una mano che mi preme e mi affanna il cuore. – Lorenzo, ma che posso più dirti? sono uomo – Dio mio, Dio mio, concedimi anche per oggi il refrigerio del pianto.
Sigillò il foglio e lo consegnò senza verun soprascritto. Guardò il cielo per gran pezzo; poi s’assise, e incrociate le braccia su lo scrittojo, vi posò la fronte: più volte il servo gli chiese se voleva altro; ei senza rivoltarsi, gli fe’ cenno con la testa, che no. Quel giorno incominciò la seguente lettera per Teresa.