Canto trentatreesimo del Purgatorio
27 Gennaio 2019Accordi tra le parti sociali che finalizzino quote di riduzione di orario alla fo…
27 Gennaio 2019Ugo Foscolo
Conclusione
Mercoledì, ore 5
Rasségnati a’ decreti del Cielo e troverai qualche felicità nella pace domestica, e nella concordia con quello sposo che la sorte ti ha destinato. Tu hai un padre generoso e infelice: tu devi riunirlo a tua madre la quale solitaria e piangente forse chiama te sola: tu devi la tua vita alla tua fama. Io solo – io solo morendo troverò pace, e la lascierò alla tua casa: ma tu povera sfortunata!
Sono pur assai giorni ch’io prendo a scriverti e non posso continuare! O sommo Iddio, vedo che tu non mi abbandoni nella ora suprema; e questa costanza è maggiore de’ tuoi beneficj. Morirò quando avrò ricevuto la benedizione da mia madre, e gli ultimi abbracciamenti dall’amico mio. Da lui tuo padre avrà le tue lettere, e tu pure gli darai le mie: saranno testimonio della santità del nostro amore. No, cara giovine; non sei tu cagione della mia morte. Tutte le mie passioni disperate; le disavventure delle persone più necessarie alla vita mia; gli umani delitti; la sicurezza della mia perpetua schiavitù e dell’obbrobrio perpetuo della mia patria venduta – tutto insomma da più tempo era scritto; e tu, donna angelica, potevi soltanto disacerbare il mio destino; ma non placarlo, oh! non mai. Ho veduto in te sola il ristoro di tutti i miei mali; ed osai lusingarmi: e poiché per una irresistibile forza tu mi hai amato, il mio cuore ti ha creduta tutta sua; tu mi hai amato, e tu m’ami – ed ora che ti perdo, ora chiamo in ajuto la morte. Prega tuo padre di non dimenticarsi di me; non per affliggersi, bensì per mitigare con la sua compassione il tuo dolore, e per ricordarsi sempre che ha un’altra figlia.
Ma tu no, vera amica di questo sfortunato, tu non avrai cuore mai di obbliarmi. Rileggi sempre queste mie ultime parole ch’io posso dire di scriverti col sangue del mio cuore. La mia memoria ti preserverà forse dalle sciagure del vizio. La tua bellezza, la tua gioventù, lo splendore della tua fortuna saranno sprone per gli altri, per te, a contaminare quella innocenza alla quale hai sacrificato la tua prima e cara passione; e che pure ne’ tuoi martirj ti fu sempre solo conforto. Quanto mai v’è di lusinghiero nel mondo congiurerà alla tua rovina; a rapirti la stima di te; ed a confonderti fra la schiera di tante altre donne le quali dopo d’avere rinnegato il pudore, fanno traffico dell’amore e dell’amicizia, ed ostentano come trionfi le vittime della loro perfidia. Tu no, mia Teresa; la tua virtù risplende nel tuo viso celeste, ed io la ho rispettata; e tu sai ch’io t’ho amato adorandoti come cosa sacra. – O divina immagine dell’amica mia! o ultimo dono prezioso ch’io contemplo, e che m’infonde più vigore, e mi narra tutta la storia de’ nostri amori! Tu stavi facendo questo ritratto il primo dì ch’io ti vidi: ripassano ad uno ad uno dinanzi a me tutti que’ giorni che furono i più affannosi e i più cari della mia vita. E tu l’hai consecrato questo ritratto attaccandolo bagnato del tuo pianto al mio petto – e così attaccato al mio petto verrà con me nel sepolcro. Ti ricordi, o Teresa, le lagrime con cui lo accolsi? Oh! io torno a versarle, e sollevano la trista anima mia. Che se alcuna vita resta dopo l’ultimo sospiro, io la serberò sempre a te sola, e l’amor mio vivrà immortale con me. – Ascolta intanto una estrema, unica, sacrosanta raccomandazione; e te ne scongiuro per l’amor nostro infelice, per le lagrime che abbiamo sparse, per la religione che tu senti verso i tuoi genitori, a’ quali ti sei pur immolata vittima volontaria – non lasciare senza consolazione la povera madre mia, che forse verrà a piangermi teco in questa solitudine dove cercherà riparo dalle tempeste della vita. Tu sola sei degna di compiangerla e di consolarla. Chi le resta più se tu l’abbandoni? Nel suo dolore, in tutte le sue sventure, nelle infermità della sua vecchiaja ricordati sempre ch’essa è mia madre.
A mezzanotte suonata si partì per le poste da’ colli Euganei: e arrivato su la marina alle 8 del giorno, si fe’ traghettare da una gondola a Venezia sino alla sua casa. Quand’io vi giunsi lo trovai addormentato sopra un sofà e di un sonno tranquillo. Come fu desto, mi pregò perché io spicciassi alcune sue faccende, e saldassi un suo debito a certo librajo. Non posso, mi diss’egli, trattenermi qui che tutt’oggi.
Benché fossero quasi due anni ch’io nol vedeva, la sua fisionomia non mi parve tanto alterata quant’io m’aspettava; ma poi m’accorsi che andava lento e come strascinandosi; la sua voce, un tempo pronta e maschia, usciva a fatica e dal petto profondo. Sforzavasi nondimeno di discorrere; e rispondendo a sua madre intorno al suo viaggio, sorridea spesso di un mesto sorriso tutto suo: ma avea un’aria circospetta, insolita in lui. Avendogli io detto che certi suoi amici sarebbero venuti quel dì a salutarlo, rispose, che non vorrebbe rivedere anima nata; anzi scese egli stesso ad avvertire alla porta perché si dicesse ch’ei non accoglierebbe visite. E risalendo mi disse; Spesso ho pensato di non dare né a te né a mia madre tanto dolore; ma io avevo pur obbligo e anche bisogno di rivedervi – e questo, credimi, è l’esperimento più forte del mio coraggio.
Poche ore prima di sera, si alzò, come per partire; ma non gli sofferiva il cuore di dirlo. Sua madre gli si approssimò, e mentr’ei rizzandosi dalla seggiola andavale incontro con le braccia aperte, essa con volto rassegnato gli disse: Hai dunque risoluto, mio caro figliuolo?
Sì, sì; le rispose abbracciandola e frenando a stento le lagrime.
Chi sa se potrò più rivederti? io sono oramai vecchia e stanca. –
Ci rivedremo, forse – mia cara madre, consolatevi, ci rivedremo – per non lasciarci mai più; ma adesso: – ne può far fede Lorenzo.
Ella si volse impaurita verso di me, ed io, Pur troppo! le dissi. E le narrai come le persecuzioni tornavano a incrudelire per la guerra imminente; e che il pericolo sovrastava a me pure, massime dopo quelle lettere che ci furono intercette: (e non erano falsi sospetti; perché dopo pochi mesi fui costretto ad abbandonare la patria mia). Ed essa allora esclamò: Vivi mio figliuolo, benché lontano da me. Dopo la morte di tuo padre non ho più avuto un’ora di bene; sperava di consolare teco la mia vecchiezza! – ma sia fatta la volontà del Signore. Vivi! io scelgo di piangere senza di te, piuttosto che vederti – imprigionato – morto. I singhiozzi le soffocavano la parola.
Jacopo strinse la mano e la guardava come se volesse affidarle un secreto; ma ben tosto si ricompose, e le chiese la sua benedizione.
Ed ella alzando le palme: Ti benedico – Ti benedico; e piaccia anche a Dio Onnipotente di benedirti.
Avvicinatisi alla scala s’abbracciarono. Quella donna sconsolata appoggiò la testa sul petto del suo figliuolo.
Scesero, ed io con loro; la madre come giunsero all’uscio di casa, e vide l’aria aperta, sollevò gli occhi, e li tenne fissi al cielo per due o tre minuti, e parea che pregasse mentalmente con tutto il fervore dell’anima sua; e che quell’atto le avesse ridato la prima rassegnazione. E senza versare più lagrima, benedisse di nuovo con voce sicura il figliuolo; ed ei le ribaciò la mano, e la baciò in volto.
Io stava piangente: dopo avermi abbracciato, mi promise di scrivermi, e mosse il passo, dicendomi: Presso alla madre mia ti sovverrai santamente della nostra amicizia. E rivoltosi alla madre, la guardò un pezzo senza far motto; e partì. Giunto in fondo alla strada, si rivolse, e ci salutò con la mano e ci mirò mestamente, come se volesse dirci che quello era l’ultimo sguardo.
La povera madre ristette su la porta quasi sperando ch’ei tornasse a risalutarla. Ma togliendo gli occhi lagrimosi dal luogo dond’ei se l’era dileguato, s’appoggiò al mio braccio e risaliva dicendomi: Caro Lorenzo, mi dice il cuore che non lo rivedremo mai più.
Un vecchio sacerdote di assidua famigliarità nella casa dell’Ortis, e che gli era stato maestro di greco, venne quella sera e ci narrò, come Jacopo era andato alla chiesa dove Lauretta fu sotterrata. Trovatola chiusa, voleva farsi aprire a ogni patto dal campanaro; e regalò un fanciullo del vicinato perché andasse a cercare del sagrestano che aveva le chiavi. S’assise, aspettando, sopra un sasso nel cortile. Poi si levò e s’appoggiò con la testa su la porta della chiesa. Era quasi sera; quando accorgendosi di gente nel cortile, senza più aspettare, si dileguò. Il vecchio sacerdote aveva risaputo queste cose dal campanaro. Seppi alcuni giorni dopo, che Jacopo sul fare della notte era andato a visitare la madre di Lauretta. Era, mi diss’ella, assai tristo; non mi parlò mai della mia povera figliuola, né io l’ho nominata mai per non accorarlo di più: scendendo le scale, mi disse: Andate, quando potrete, a consolare mia madre.
E intanto la madre di lui fu in quella sera atterrita di più fiero presentimento. Io nell’autunno scorso, trovandomi a’ colli Euganei, aveva letto in casa del signore T*** parte d’una lettera nella quale Jacopo tornava con tutti i pensieri alla sua solitudine paterna. E allora Teresa rappresentò a chiaroscuro la prospettiva del laghetto de’ cinque fonti, e accennò sul pendio d’un poggetto l’amico suo che sdrajato su l’erba contempla il tramontare del Sole. Richiese d’alcun verso per iscrizione il padre suo, e le fu da lui suggerito questo di Dante:
Libertà va cercando ch’è sì cara
Mandò poscia in dono il quadretto alla madre di Jacopo, raccomandandosi che non gli dicesse mai donde veniva; infatti egli non l’avea mai risaputo: ma quel giorno ch’ei fu in Venezia s’accorse del quadretto appeso, e di chi lo aveva fatto; non ne fe’ motto: bensì rimastosi nella camera tutto solo, smosse il cristallo, e sotto al verso:
Libertà va cercando ch’è sì cara
scrisse l’altro che gli vien dietro:
Come sa chi per lei vita rifiuta.
E fra il cristallo e la scannellatura di dentro della cornice trovò una lunga treccia di capelli che Teresa, alcuni giorni prima delle sue nozze, s’era tagliati senza che veruno il sapesse, e ripostili nella cornice in guisa che non trasparissero ad occhio vivente. L’Ortis a que’ capelli congiunse, quando li vide, una ciocca de’ suoi e gli annodò insieme col nastro nero che portava attaccato all’oriuolo; e rimise il quadretto a suo posto. Poche ore dopo, la madre sua vide il verso aggiunto, s’avvide anche della treccia, e della ciocca e del nodo nero ch’ei forse disavvedutamente o per fretta non aveva potuto rimpiattare che non paresse. Il dì seguente me ne parlò; ed io vidi come questo accidente le aveva prostrato il coraggio con che dianzi essa avea sostenuta la partenza del suo figliuolo.
Onde per acquetarla mi deliberai di accompagnarlo sino ad Ancona; e promisi che le scriverei giornalmente. Esso frattanto tornavasi a Padova, e smontò in casa del professore C***, dove riposò il resto della notte. La mattina accomiatandosi, gli furono dal professore esibite lettere per alcuni gentiluomini delle isole già Venete i quali nel tempo addietro gli erano stati discepoli. Jacopo né le accettò, né le rifiutò. Tornò a piedi a’ colli Euganei, e ricominciò a scrivere.
Venerdì, ore 1
E tu, Lorenzo mio – leale e unico amico – perdona. Non ti raccomando mia madre; ben so che avrà in te un altro figliuolo. O madre mia! ma tu non avrai più il figlio sul petto del quale speravi di riposare il tuo capo canuto – né potrai riscaldare queste labbra morenti co’ tuoi baci? e forse tu mi seguirai! – Io vacillava o Lorenzo. Or è questa la ricompensa dopo ventiquattro anni di speranze e di cure? Ma sia cosi! Iddio che ha tutto destinato non l’abbandonerà – né tu! Ah finché io non bramava che un amico fedele, io vissi felice. Il cielo te ne rimeriti! Ma e tu pure non ti aspettavi ch’io ti pagassi di lagrime. Pur troppo ti pagherei a ogni modo di lagrime! or tu non proferire sulle mie ceneri la crudele bestemmia: Chi vuol morire non ama nessuno – Che non tentai sopra di me? che non feci? che non dissi a Dio? ah la mia vita pur troppo sta tutta nelle mie passioni; e se non potessi distruggerle meco – oh a che angosce, a che spasimi, a quanti pericoli, a quali furori, a che deplorabile cecità, a che delitti non mi strascinerebbero a forza! Un giorno, o Lorenzo, prima ch’io decretassi la morte mia, io stava genuflesso implorando dal Cielo pietà , e le mie lagrime pioveano abbondanti – e in quel punto mi si sono improvvisamente inaridite le lagrime, e il cuore mi s’è inferocito, e avresti detto che mi venisse mandato appunto dal Cielo un delirio ad assalirmi; – e mi rizzai; e scrissi alla giovine misera che io me ne andava ad aspettarla in un altro mondo, e che non tardasse a raggiungermi, e l’ammaestrava del come e del quando e dell’ora. – Ma poi non forse la compassione, non la vergogna, né il rimorso, né Iddio – bensì l’idea che non è più la vergine di due mesi fa, e che è donna contaminata dalle braccia d’un altro, ha incominciato a farmi pentire di sì atroce disegno. Vedi come la vita mia, sarebbe a voi tutti più dolorosa che la mia morte; e infame forse a voi tutti. Invece se mi divido per sempre da Teresa degno di lei, la memoria mia serberà certamente il suo cuore degno di me, e benché serva di un altro potrà almeno sperare – speranza forse vanissima – che un dì l’anima sua verrà libera a unirsi per sempre alla mia. – Ma addio. Queste carte le darai tutte al suo padre. Raduna i miei libri e serbali a memoria del tuo Jacopo. Raccogli Michele a cui lascio il mio oriuolo, questi miei pochi arredi e i danari che tu troverai nel cassettino del mio scrittojo. Vieni ad aprirlo tu solo: c’è una lettera per Teresa; e ti prego di riporla fra le sue mani tu stesso. Addio, addio.
Continuò la lettera per Teresa.
Torno a te mia Teresa. Se mentre io viveva era colpa per te l’ascoltarmi; ascoltami almeno in queste poche ore che mi disgiungono dalla morte; e le ho riserbate tutte a te sola. Avrai questa lettera quando io sarò sotterrato; e da quella ora tutti forse incomincieranno ad obbliarmi, finché niuno più si ricorderà del mio nome – ascoltami come una voce che vien dal sepolcro. Tu piangerai i miei giorni svaniti al pari di una visione notturna; piangerai il nostro amore che fu inutile e mesto come le lampade che rischiarano le bare de’ morti. – Oh sì, mia Teresa; dovevano pure una volta finir le mie pene; e la mia mano non trema nell’armarsi del ferro liberatore, poiché abbandono la vita mentre tu m’ami, mentre sono ancora degno di te, e degno del tuo pianto, ed io posso sacrificarmi a me solo, ed alla tua virtù. No; allora non ti sarà colpa l’amarmi; e lo pretendo il tuo amore; lo chiedo in vigore delle mie sventure, dell’amor mio, e del tremendo mio sacrificio. Ah se tu un giorno passassi senza gettare un’occhiata su la terra che coprirà questo giovine sconsolato – me misero! io avrei lasciata dietro di me l’eterna dimenticanza anche nel tuo cuore!
Tu credi ch’io parta. Io? – ti lascierò in nuovi contrasti con te medesima, e in continua disperazione? E mentre tu m’ami, ed io t’amo, e sento che t’amerò eternamente, ti lascierò per la speranza che la nostra passione s’estingua prima de’ nostri giorni? No; la morte sola, la morte. Io mi scavo da gran tempo la fossa, e mi sono assuefatto a guardarla giorno e notte, e a misurarla freddamente – e appena in questi estremi la Natura rifugge e grida – ma io ti perdo, ed io morrò. Tu stessa, tu mi fuggivi; ci si contendeano le lagrime. – E non t’avvedevi tu nella mia tremenda tranquillità ch’io voleva prendere da te gli ultimi congedi, e ch’io ti domandava l’eterno addio?
Che se il Padre degli uomini mi chiamasse a rendimento di conti, io gli mostrerò le mie mani pure di sangue, e puro di delitti il mio cuore. Io dirò: Non ho rapito il pane agli orfani ed alle vedove; non ho perseguitato l’infelice; non ho tradito; non ho abbandonato l’amico; non ho turbata la felicità degli amanti, né contaminata l’innocenza, né inimicati i fratelli, né prostrata la mia anima alle ricchezze. Ho spartito il mio pane con l’indigente; ho confuse le mie lagrime alle lagrime dell’afflitto; ho pianto sempre su le miserie dell’umanità. Se tu mi concedevi una patria, io avrei speso il mio ingegno e il mio sangue tutto per lei; e nondimeno la mia debole voce ha gridato coraggiosamente la verità. Corrotto quasi dal mondo, dopo avere sperimentati tutti i suoi vizj – ma no! i suoi vizj mi hanno per brevi istanti forse contaminato, ma non mi hanno mai vinto – ho cercato virtù nella solitudine. Ho amato! tu stessa, tu mi hai presentata la felicità; tu l’hai abbellita de’ raggi della infinita tua luce; tu mi hai creato un cuore capace di sentirla e di amarla; ma dopo mille speranze ho perduto tutto ed inutile agli altri, e dannoso a me, mi sono liberato dalla certezza di una perpetua miseria. Godi tu, Padre, de’ gemiti della umanità? pretendi tu che sopporti miserie più potenti delle sue forze? o forse hai conceduto al mortale il potere di troncare i suoi mali perché poi trascurasse il tuo dono strascinandosi scioperato tra il pianto e le colpe? Ed io sento in me stesso che agli estremi mali non resta che la colpa o la morte. – Consolati, Teresa; quel Dio a cui tu ricorri con tanta pietà , se degna d’alcuna cura la vita e la morte di una umile creatura, non ritirerà il suo sguardo neppure da me. Sa ch’io non posso resistere più; e ha veduto i combattimenti che ho sostenuto prima di giungere alla risoluzione fatale; ed ha udito con quante preghiere l’ho supplicato perché mi allontanasse questo calice amaro. Addio dunque – addio all’universo! O amica mia! la sorgente delle lagrime è in me dunque inesausta? io torno a piangere e a tremare ma per poco; tutto in breve sarà annichilito. Ahi! le mie passioni vivono, ed ardono, e mi possedono ancora: e quando la notte eterna rapirà il mondo a questi occhi, allora solo seppellirò meco i miei desiderj e il mio pianto. Ma gli occhi miei lagrimosi ti cercano ancora prima di chiudersi per sempre. Ti vedrò, ti vedrò per l’ultima volta, ti lascierò gli ultimi addio, e prenderò da te le tue lagrime, unico frutto di tanto amore!
Io giungeva alle ore 5 da Venezia, e lo incontrai pochi passi fuori della sua porta, mentr’ei s’avviava appunto per dire addio a Teresa. La mia venuta improvvisa lo costernò; e molto più il mio divisamento di accompagnarlo sino ad Ancona. Me ne ringraziava affettuosamente e tentò ogni via di distormene; ma veggendo ch’io persisteva si tacque; e mi chiese di andare seco lui fino a casa T***. Lungo il cammino non parlò; andava lento, ed aveva in volto una mestissima sicurezza: ah doveva io pure avvedermi che in quel momento egli rivolgeva nell’animo i supremi pensieri! Entrammo pel rastrello del giardino; ed ei soffermandosi, alzò gli occhi al cielo, e dopo alcun tempo proruppe guardandomi: Pare anche a te che oggi la luce sia più bella che mai?
Avvicinandosi alle stanze di Teresa, io intesi la voce di lei: – ma il suo cuore non si può cangiare: – né so se Jacopo che m’era dietro uno o due passi, abbia udito queste parole; non ne riparlò. Noi vi trovammo il marito che passeggiava, e il padre di Teresa seduto nel fondo della stanza presso ad un tavolino con la fronte su la palma della mano. Restammo assai tempo tutti muti. Jacopo finalmente. Domattina, disse, non sarò più qui – e rizzandosi, si accostò a Teresa e le baciò la mano, ed io vidi le lagrime su gli occhi di lei; e Jacopo tenendola ancora per mano la pregava perché facesse chiamare la Isabellina. Le strida e il pianto di questa fanciulla furono così improvvise ed inconsolabili che niuno di noi poté frenare le lagrime. Appena ella udì ch’ei partiva, gli si attaccò al collo e singhiozzando gli ripeteva: o mio Jacopo perché mi lasci? o mio Jacopo torna presto: né potendo egli resistere a tanto pietà , posò l’Isabellina fra le braccia di Teresa che non proferì mai parola – Addio, egli dissele, addio – e uscì. Il signore di T** lo accompagnò sino al limitare della casa e lo abbracciò più volte e lo baciò gemendo. Odoardo che gli era a lato ne strinse la mano, augurandoci il buon viaggio.
Era già notte; e non sì tosto fummo a casa egli comandò a Michele di allestire il forziere, e mi pregò istantemente perché tornassi a Padova a pigliare le lettere esibitegli dal professore C***. E partii sul fatto.
Allora sotto la lettera che la mattina avea apparecchiata per me, aggiunse questo proscritto:
Poiché non ho potuto risparmiarti il cordoglio di prestarmi gli ufficj supremi – e già m’era, prima che tu venissi, risolto di scriverne al parroco – aggiungi anche questa ultima pietà ai tanti tuoi beneficj. Fa ch’io sia sepolto, così come sarò trovato, in un sito abbandonato, di notte senza esequie, senza lapide, sotto i pini del colle che guarda la chiesa. Il ritratto di Teresa sia sotterrato col mio cadavere.
25 Marzo, 1799
L’amico tuo JACOPO ORTIS
Uscì nuovamente: e trovandosi alle ore 11 appiè di un monte due miglia discosto dalla sua casa, bussò alla porta di un contadino, e lo destò domandandogli dell’acqua, e ne bevve molta.
Ritornato a casa dopo la mezzanotte, uscì tosto di stanza, e porse al ragazzo una lettera sigillata per me, raccomandandogli di consegnarla a me solo. E stringendogli la mano: Addio Michele! amami; e lo mirava affettuosamente – poi lasciatolo a un tratto, rientrò, serrandosi dietro la porta. Continuò la lettera per Teresa.
Ore 1
Ho visitato le mie montagne, ho visitato il lago de’ cinque fonti, ho salutato per sempre le selve, i campi, il cielo. O mie solitudini! o rivo, che mi hai la prima volta insegnato la casa di quella fanciulla celeste! quante volte ho sparpagliato i fiori su le tue acque che passavano sotto le sue finestre! quante volte ho passeggiato con Teresa per le tue sponde, mentr’io inebbriandomi della voluttà di adorarla, vuotava a gran sorsi il calice della morte.
Sacro gelso! ti ho pure adorato; ti ho pure lasciati gli ultimi gemiti, e gli ultimi ringraziamenti. Mi sono prostrato, o mia Teresa, presso a quel tronco; e quell’erba ha dianzi bevute le più dolci lagrime ch’io abbia versato mai; mi pareva ancora calda dell’orma del tuo corpo divino; mi pareva ancora odorosa. Beata sera! come tu sei stampata nel mio petto! – io stava seduto al tuo fianco, o Teresa, e il raggio della luna penetrando fra i rami illuminava il tuo angelico viso! io vidi scorrere su le tue guance una lagrima; e la ho succhiata, e le nostre labbra, e i nostri respiri, si sono confusi, e l’anima mia si trasfondea nel tuo petto. Era la sera de’ 13 Maggio era giorno di giovedì. Da indi in qua non è passato momento ch’io non mi sia confortato con la ricordanza di quella sera: mi sono reputato persona sacra, e non ho degnata più alcuna donna di un guardo credendola immeritevole di me – di me che ho sentita tutta la beatitudine di un tuo bacio.
T’amai dunque t’amai, e t’amo ancor di un amore che non si può concepire che da me solo. E’ poco prezzo, o mio angelo, la morte per chi ha potuto udir che tu l’ami, e sentirsi scorrere in tutta l’anima la voluttà del tuo bacio, e piangere teco – io sto col piè nella fossa; eppure tu anche in questo frangente ritorni, come solevi, davanti a questi occhi che morendo si fissano in te, in te che sacra risplendi di tutta la tua bellezza. E fra poco! Tutto è apparecchiato; la notte è già troppo avvanzata – addio – fra poco saremo disgiunti dal nulla, o dalla incomprensibile eternità. Nel nulla? Sì. – Sì, sì; poiché sarò senza di te, io prego il sommo Iddio, se non ci riserba alcun luogo ov’io possa riunirmi teco per sempre, le prego dalle viscere dell’anima mia, e in questa tremenda ora della morte, perché egli m’abbandoni soltanto nel nulla. Ma io moro incontaminato, e padrone di me stesso, e pieno di te, e certo del tuo pianto! Perdonami, Teresa, se mai – ah consolati, e vivi per la felicità de’ nostri miseri genitori; la tua morte farebbe maledire le mie ceneri.
Che se tal’uno ardisse incolparti del mio infelice destino, confondilo con questo mio giuramento solenne ch’io pronunzio gittandomi nella notte della morte: Teresa è innocente. – Ora tu accogli l’anima mia.
Il ragazzo, che dormiva nella camera contigua all’appartamento di Jacopo, fu scosso come da un lungo gemito: tese l’orecchio per sincerarsi s’ei lo chiamava; aprì la finestra sospettando ch’io avessi gridato all’uscio, da che stava avvertito ch’io sarei tornato sul far del dì; ma chiaritosi che tutto era quiete e la notte ancor fitta, tornò a coricarsi e si addormentò. Mi disse poi che quel gemito gli aveva fatto paura: ma che non vi badò più che tanto perché il suo padrone soleva alle volte smaniare fra il sonno.
La mattina, Michele dopo aver bussato e chiamato un pezzo alla porta, sconficcò il chiavistello; e non udendosi rispondere nella prima camera, s’innoltrò perplesso; e al chiarore della lucerna che ardeva tuttavia, gli si affacciò Jacopo agonizzante nel proprio sangue. Spalancò le finestre chiamando gente, e perché nessuno accorreva, s’affrettò a casa del chirurgo, ma non lo trovò perché assisteva a un moribondo; corse al parroco, ed anch’esso era fuori per lo stesso motivo. Entrò ansante nel giardino di casa T*** mentre Teresa scendeva per uscire di casa con suo marito, il quale appunto dicevale come dianzi avea risaputo che in quella notte Jacopo non era altrimenti partito; ed ella sperò di potergli dire addio un’altra volta: e scorgendo il servo da lontano voltò il viso verso il cancello donde Jacopo soleva sempre venire, e con una mano si sgombrò il velo che cadevale sulla fronte, e rimirava intentamente, costretta da dolorosa impazienza di accertarsi s’ei pur veniva: e le si accostò a un tratto Michele domandando aiuto, perché il suo padrone s’era ferito, e che non gli parea ancora morto: ed essa ascoltavalo immobile con le pupille fitte sempre verso il cancello: poi senza mandare lagrima né parola, cascò tramortita fra le braccia di Odoardo.
Il signore T*** accorse sperando di salvare la vita del suo misero amico. Lo trovò steso sopra un sofà con tutta quasi la faccia nascosta fra’ cuscini: immobile, se non che ad ora ad ora anelava. S’era piantato un puguale sotto la mammella sinistra ma se l’era cavato dalla ferita, e gli era caduto a terra. Il suo abito nero e il fazzoletto da collo stavano gittati sopra una sedia vicina. Era vestito del gilè, de’ calzoni lunghi e degli stivali; e cinto d’una fascia larghissima di seta di cui un capo pendeva insanguinato, perché forse morendo tentò di svolgersela dal corpo. Il signore T*** gli sollevava lievemente dal petto la camicia, che tutta inzuppata di sangue gli si era rappressa su la ferita. Jacopo si risentì; e sollevò il viso verso di lui; e riguardandolo con gli occhi nuotanti nella morte, stese un braccio, come per impedirlo, e tentava con l’altro di stringergli la mano – ma ricascando con la testa su i guanciali, alzò gli occhi al cielo, e spirò.
La ferita era assai larga, e profonda; e sebbene non avesse colpito il cuore, egli si affrettò la morte lasciando perdere il sangue che andava a rivi per la stanza. Gli pendeva dal collo il ritratto di Teresa tutto nero di sangue, se non che era alquanto polito nel mezzo; e le labbra insanguinate di Jacopo fanno congetturare ch’ei nell’agonia baciasse la immagine della sua amica. Stava su lo scrittojo la Bibbia chiusa, e sovr’essa l’oriuolo; e presso, varj fogli bianchi; in uno de’ quali era scritto: Mia cara madre: e da poche linee cassate, appena si potea rilevare, espiazione; e più sotto; di pianto eterno. In un altro foglio si leggeva soltanto l’indirizzo a sua madre, come se pentitosi della prima lettera ne avesse incominciata un’altra che non gli bastò il cuore di continuare.
Appena io giunsi da Padova ove m’era convenuto indugiare più ch’io non voleva, fui sopraffatto dalla calca de’ contadini che s’affollavano muti sotto i portici del cortile; ed altri mi guardavano attoniti, e tal’uno mi pregava che non salissi. Balzai tremando nella stanza, e mi s’appresentò il padre di Teresa gettato disperatamente sopra il cadavere; e Michele ginocchione con la faccia per terra. Non so come ebbi tanta forza d’avvicinarmi e di porgli una mano sul cuore presso la ferita; era morto, freddo. Mi mancava il pianto e la voce; ed io stava guardando stupidamente quel sangue: finché venne il parroco e subito dopo il chirurgo, i quali con alcuni famigliari ci strapparono a forza dal fiero spettacolo. Teresa visse in tutti que’ giorni fra il lutto de’ suoi in un mortale silenzio. – La notte mi strascinai dietro al cadavere che da tre lavoratori fu sotterrato sul monte de’ pini.